sabato 7 dicembre 2013

IL BUON AZZARDO DI 'MADIBA' L'UOMO DEL PLURALE



Ricordare Nelson Mandela è un do­vere per chiunque creda nel sa­crosanto valore della libertà e del­l’uguaglianza dei popoli. E la chia­ve di lettura del suo carisma, quel­lo che ha scosso le coscienze del Pianeta inte­ro, è racchiusa in una citazione di Marianne Williamson che egli lesse durante il suo di­scorso inaugurale da presidente del nuovo Su­dafrica, nel 1994. «La nostra paura più profon­da – disse – non è di essere inadeguati. La no­stra paura più profonda è di essere potenti ol­tre ogni limite. È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più...». E Mandela, con­gedandosi da questo mondo, in cui ha vissu­to intensamente, ha dimostrato d’essere sta­to sempre se stesso, andando al di là di ogni compromesso, con grande senso di respon­sabilità. Proprio perché, citando sempre Wil­liamson, «quando permettiamo alla nostra lu­ce di risplendere, inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso».
  D’altronde, Mandela non è stato solo un cele­bre premio Nobel, un presidente autorevole, il padre della Patria che tutti sognavano in Su­dafrica, ma, soprattutto, l’eroe nella lotta con­tro l’apartheid , uno dei peggiori abomini per­petrati dalla colonizzazione occidentale in A­frica. Si era ritirato ufficialmente dalla vita pub­blica nel 1999, ma non ha mai interrotto la sua indefessa azione in difesa degli ultimi, por­tando un’instancabile battaglia per la pace e la giustizia oltre i confini del Sudafrica. Reso fra­gile dall’età e dai 27 anni trascorsi nelle galere del regime segregazionista bianco, già nel 1994, all’epoca delle prime elezioni libere, Mandela riteneva che non fosse opportuno fare il pre­sidente a vita. Per lui, forgiato dalla passione impostagli dal regime di Pretoria, l’esercizio del potere doveva essere inteso unicamente come servizio alla nazione. Unanimemente ri­conosciuto come il leader africano che ha mag­giormente contribuito a segnare l’epoca del riscatto dopo l’onta coloniale e le pessime
 
 performance
 di molti regimi, Mandela ha a­vuto il merito di scongiurare una guerra civile che avrebbe sconvolto il Sudafrica, con con­seguenze forse irreparabili. Era un giorno lim­pido di fine estate nell’emisfero australe, quell’11 febbraio del 1990, quando dal can­cello del penitenziario di Victor Vester, vicino a Città del Capo, usciva dopo 27 anni il dete­nuto politico numero '46664'. All’anagrafe ri­sultava 'Rolihlahla Dalibhunga', nato nel vil­laggio di Mzevo il 18 luglio 1918, ma per tutti era Mandela, detto anche 'Madiba', come ve­niva chiamato dalla gente, con riferimento al suo clan.
  A dare l’ordine di liberarlo era stato Frederik Willem de Klerk, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica e premio Nobel per la pace con lo stesso ex prigioniero nel 1993.
 
Va affidato alla storia il giudizio sugli esi­ti della 'Commissione per la Verità e la Riconciliazione', voluta proprio da Mandela e presieduta dal vescovo anglicano e a sua volta Nobel per la Pace Desmond Tutu. I cin­que volumi di rapporto, costati due anni e mezzo d’indagini, oltre a ventimila testimo­nianze e centinaia e centinaia di audizioni, sono quantomeno serviti, sul piano umano, ad avviare un processo di cicatrizzazione del­le ferite causate dall’odio razziale, perché al­la lunga possano rimarginarsi del tutto.

  Lontano da ogni retorica di circostanza, Mandela ha colmato un vuoto nella lea­dership del continente africano, che si era aperto con l’uscita di scena dei 'padri del­la patria', i Senghor, Nyerere... Dopo aver colpevolmente tollerato per troppi anni il
 razzismo, il mondo forse ancora oggi non ha compreso l’enorme valore del miracolo che si è compiuto vent’anni fa in Sudafri­ca. «Forse non si vuole ammettere – ha sag­giamente scritto l’africanista Giampaolo Calchi Novati riguardo al contributo poli­tico e antropologico di Mandela – che ac­cettare e praticare il 'plurale' voluto dalla storia, alla sola condizione di ripudiare il razzismo e la discriminazione, è meglio che pretendere di 'territorializzare' i diritti dei popoli o le aspettative delle minoranze». Il Sudafrica, insomma, ha incarnato il buon azzardo dell’utopia, proprio grazie al sacri­ficio di Mandela. Ancora oggi, questa na­zione, nel bene e nel male, può costituire un termine di riferimento, con tutte le sue con­traddizioni, per ogni politica intesa ad al­leviare i problemi della transizione in Afri­ca. Grazie, dunque, 'Madiba', per aver trac­ciato nei cuori il solco della speranza. 
 Giulio Albanese

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