venerdì 28 gennaio 2011

A scuola di vita da Giussani : Carrón: «Il senso religioso», una bussola per capire come Cristo cambia l’esistenza


In una società sempre più smar­rita e confusa, dove il desiderio di felicità innato in ogni uomo si appiattisce mentre crescono l’in­differenza e il cinismo, si gioca la sfida sulla credibilità del cristiane­simo. La sfida di ridestare l’umano, di testimoniare la pertinenza della fede con tutte le dimensioni della vita, la sua capacità di rispondere alla domanda di senso che abita nel cuore di ogni persona.



Con questa sfida don Giussani si ci­mentò a partire da­gli anni Cinquanta del secolo scorso, e 'Il senso religioso' è il libro (tradotto in 19 lingue) che documenta questo percorso. Dopo più di mezzo seco­lo Julián Carrón, che gli è succedu­to alla guida di Comunione e Libe­razione, lo ripropone come stru­mento di educazione alla fede: per tutto il 2011 sarà il testo della 'scuo­la di comunità', la catechesi popo­lare proposta a tutti gli aderenti al movimento e realizzata nelle scuo­le, nelle università, nei luoghi di la­voro e persino in carcere (vedere qui sotto). L’altra sera ne ha presentato i contenuti parlando davanti a 8mi­la persone che gremivano il Pala­sharp di Milano, mentre altre 50mi­la lo seguivano in diretta via satel­lite collegate con sale dislocate in oltre 180 città italiane: è la prima volta in Italia che un libro viene pre­sentato con questa modalità.



A fianco del tavolo da cui Carrón parla, campeggia un’enorme scrit­ta: «Vivere intensamente il reale». È uno dei leit-motiv di Giussani, che ha sempre scommesso sulla capa­cità del cristianesimo di permeare ogni aspetto dell’esistenza e di ren­dere pienamente umana la vita. La fede è capace di ride­stare l’io e di mante­nerlo nella posizione giusta per affrontare tutta l’esistenza, con le sue prove e la sua problematicità. Il senso religioso – l’a­spirazione che muo­ve ciascuno a cono­scere il senso delle cose e ad aprirsi a un 'oltre' che la ragione riesce solo a intuire – trova compimento nell’in­contro con Cristo e ne viene conti­nuamente alimentato: non ne è sol­tanto la premessa, ma lo strumen­to per verificarlo. Soltanto una rivi­sitazione del senso religioso con gli occhi della fede permette all’uomo di tenere desto il desiderio, di non ridurlo o di non dimenticarlo.



«Il motivo per cui tanti abbando­nano il cristianesimo – argomenta – è che non lo trovano umanamen­te conveniente, e così la mentalità dominante può allargare sempre più la sua influenza, trovando l’uo­mo sempre più disarmato». La vita può cambiare solo davanti a testi­moni credibili, che fanno riscopri­re la 'convenienza' dell’esperienza cristiana: è decisiva la categoria del­l’incontro, proprio come accadde all’inizio, quando Andrea e Giovan­ni si imbatterono nell’umanità di Gesù e da quella umanità rimasero indelebilmente segnati. Ma se que­sta dinamica non si rigenera conti­nuamente, si rischia di cadere nel formalismo, nella ripetitività di ge­sti e riti, nel sonno di una fede di­venuta stanca, nella scontatezza di un’appartenenza religiosa che alla lunga non regge il confronto con il mondo. «Possiamo continuare ad affer­mare le verità della fede ma non essere protagonisti della storia, poiché in noi non vi è nessuna di­versità rilevabile, come ha detto Be­nedetto XVI: ’Il con­tributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa in­telligenza della realtà».



L’emergenza educativa è uno degli aspetti più evidenti della crisi di senso che stiamo attraversando, co­me testimonia la Chiesa italiana che l’ha messa a tema in questo decen­nio di attività pastorale. Riguarda i giovani ma anche gli adulti, e ri­manda alla necessità di maestri a cui guardare, da cui imparare, a cui alimentarsi. Solo acquisendo una capacità di conoscere la realtà e di giudicarla, le giovani generazioni possono superare lo smarrimento e la confusione e sce­gliere la strada per il compimento della loro umanità. Nel­l’incontro col Mistero diventato un fatto u­mano, carnale, può i­niziare il cambia­mento. In questa pro­spettiva, Carrón cita il retore romano Ma­rio Vittorino («Quan­do ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo») e sant’Agostino («Chi conosce Te, conosce sé»). La sfida per i cristiani è testimoniare Gesù come qualcosa di contempo­raneo, non riducibile a una teoria o a una serie di norme etiche da ri­spettare, ma come affascinante compagno della vita quotidiana. Per tenere desta questa consape­volezza è necessario un lavoro per­manente: è quello proposto per l’appunto dalla scuola di comunità, lo strumento di educazione alla fe­de proposto da Comunione e libe­razione in tutto il mondo. Perché o­gni uomo possa «vivere intensa­mente il reale».

giovedì 27 gennaio 2011

L'incontro di presentazione del libro di L. Giussani "Il senso religioso"



26 gennaio 2011. Palasharp di Milano e in collegamento video con 180 città
italiane di Julián Carrón

1. IL SENSO RELIGIOSO, VERIFICA DELLA FEDE
«Quando miro in cielo arder le stelle; / Dico fra me pensando: / A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 79-89). Questa poesia di Giacomo Leopardi esprime in modo mirabile l’esperienza in cui si svela il senso religioso dell’uomo. L’impatto dell’io con la realtà scatena la domanda umana. Vi è cioè in noi una struttura nativa che, nell’impatto col reale, viene inesorabilmente messa in moto, così da mobilitare tutto il dinamismo della nostra persona.
Nella misura in cui vive, nessun uomo può evitare certe domande, a prescindere dalla propria appartenenza etnica o culturale: «“Qual è il significato ultimo dell’esistenza?”, “Perché c’è il dolore, la morte, perché in fondo vale la pena vivere?”. O, da un altro punto di vista: “Di che cosa e per che cosa è fatta la realtà?”». Il senso religioso - ci ha insegnato sempre don Giussani - si identifica con la natura del nostro io in quanto si esprime in queste domande, «coincide con quel radicale impegno del nostro io con la vita, che si documenta in queste domande» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 59) *.
Ma perché riprendere ora, rendendolo oggetto del nostro lavoro comune, il testo de Il senso religioso? È una domanda che mi sono sentito rivolgere in diverse occasioni da quando abbiamo preso tale decisione. L’idea è emersa dall’esperienza degli ultimi Esercizi della Fraternità, in cui ho riletto due capitoli de Il senso religioso “dal di dentro della fede”, come ho avuto modo di osservare.
Tutto è nato dalla constatazione, anche in noi, che pure abbiamo la grazia di essere immersi in una certa storia, di una fragilità della fede come conoscenza (che abbiamo chiamato «frattura tra sapere e credere»). Anche noi, cioè, partecipiamo della riduzione della fede a sentimento o a etica. Don Giussani ha osservato che ciò accade non solo là dove il cristianesimo non è più proposto secondo la sua natura di avvenimento, ma anche per una mancanza dell’umano in noi. Il cristianesimo, infatti, ha un grande “inconveniente”: esso richiede degli uomini per essere riconosciuto e vissuto. Negli Esercizi della Fraternità dello scorso anno ho cercato, attraverso la rilettura di alcuni capitoli de Il senso religioso, di mostrare la natura e la dinamica di quell’“umano” che in noi manca, viene meno, si blocca. Tanti sono stati colpiti dalla pertinenza di quei capitoli al percorso che stiamo compiendo e mi hanno chiesto di riprendere insieme, da questa prospettiva, l’intero testo.

Ma che cosa significa affrontare Il senso religioso dall’interno della fede? Noi siamo abituati a intendere il «senso religioso» come una semplice premessa alla fede; perciò, esso ci sembra quasi inutile, una volta che la fede sia raggiunta. Come fosse una scala che ci serve per salire al piano superiore: una volta saliti, possiamo fare a meno della scala. No! Non solo occorre un senso religioso sempre vivo affinché il cristianesimo venga riconosciuto e sperimentato per quello che è - come ci ha ricordato sempre don Giussani citando Niebuhr: «Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone» (Cfr. R. Niebuhr, Il destino e la storia. Antologia degli scritti, BUR, Milano 1999, p. 66), o non si pone più -; ma - in secondo luogo - è proprio nell’incontro con l’avvenimento cristiano che il senso religioso si rivela in tutta la sua originale portata, raggiunge una definitiva chiarezza, viene educato e salvato. Cristo è venuto per educarci al senso religioso, come ci ha sempre detto don Giussani (lo riprenderò dopo). Un senso religioso vivo rappresenta perciò una verifica della fede.
È molto significativa in questo senso la risposta di don Giussani a una domanda di Angelo Scola, nel corso di una nota intervista: «La sua proposta pedagogica - chiede Scola - fa leva sul senso religioso dell’uomo; è così?». «Il cuore della nostra proposta - risponde Giussani - è piuttosto l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso. È la percezione di questo avvenimento che resuscita o potenzia il senso elementare di dipendenza e il nucleo di evidenze originarie cui diamo il nome di “senso religioso”» (L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit-Il Sabato, Roma/Milano 1993, p. 38). L’avvenimento cristiano resuscita o potenzia, perciò, il senso religioso, cioè il senso dell’originale dipendenza e le evidenze originarie.

Se il lavoro di questi anni sul libro di don Giussani Si può vivere così? ci ha permesso di vedere la novità umana che nasce dalla fede, così da poter verificare la pertinenza della fede alle esigenze della vita, quello che stiamo per intraprendere su Il senso religioso potrà permetterci di approfondire lo sguardo su questa pertinenza: essa si documenta, infatti, nella capacità della fede di ridestare l’io, di farlo diventare se stesso, di mantenerlo nella posizione giusta per affrontare tutta l’esistenza, con le sue prove e la sua problematicità.
Ecco, allora, la prospettiva da cui leggeremo il testo: ripercorrendo Il senso religioso, e confrontandoci con esso, potremo verificare fino a che punto l’esperienza che abbiamo fatto in questi anni è riuscita a incidere sulla nostra vita o, in altri termini, «in che cosa Cristo è utile per il cammino che l’uomo fa nel rapporto con le cose, camminando verso il suo destino. Altrimenti, se non ha questa incidenza come presenza reale, Cristo è una cosa che non c’entra con la vita, che non c’entrerebbe con la vita. C’entrerebbe con la vita futura, ma non c’entrerebbe con questa vita; che è la posizione propria del protestantesimo» (L. Giussani, L’attrattiva Gesù, BUR, Milano 1999, p. 287). Se Cristo è presente, infatti, non è in forza del nostro dire, ma attraverso dei segni che Lo possiamo riconoscere. «È, se opera» (L. Giussani, Lettera alla Fraternità, 7 ottobre 1997), questa è la regola che ci siamo sentiti dire sempre. Posso scoprire che Cristo è presente per i segni del risveglio umano che vedo accadere in me o negli altri. Tanto è oggettiva la Sua presenza quanto sono oggettivi i segni che la documentano.
Impegnandoci con il testo de Il senso religioso, potremo allora verificare se l’incontro con Cristo ha «resuscitato o potenziato» il senso originale di dipendenza, il nucleo di evidenze ed esigenze originali (di verità, giustizia, felicità, amore) che don Giussani chiama «senso religioso» e che si destano nell’impatto dell’io con la realtà. Ora, se è vero che l’emergenza di tali evidenze ed esigenze originali è in un certo senso inevitabile, è altrettanto vero che la coscienza di esse è normalmente ridotta, offuscata o messa a tacere. È ciò che si può cogliere nella debolezza o nella assenza, anche fra noi, magari dopo anni di permanenza nel movimento, del senso del mistero nella percezione del nostro io, che viene così tragicamente ridotto - molto più spesso di quanto ci rendiamo conto - a somma di prestazioni e di reazioni, a conseguenza di antecedenti storici e biologici, a prodotto delle circostanze. Ecco perché un senso religioso desto, senza rimozioni o censure, costituisce un segno e una verifica dell’incontro con qualcosa d’altro più grande di sé.
Lo stesso si può dire a proposito della ragione, che l’esperienza rivela come «esigenza operativa a spiegare la realtà in tutti i suoi fattori, così che l’uomo sia introdotto alla verità delle cose» (L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 133). Sfidata dall’impatto con la realtà a essere veramente se stessa («inesausta apertura») e a mettersi in moto alla ricerca della sua spiegazione esauriente, la ragione raggiunge il suo autentico culmine intuendo l’esistenza di un oltre da cui tutto scaturisce e a cui tutto rimanda. «Il vertice della conquista della ragione è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato, perché anche ne dipende. È l’idea di mistero» (Ibidem, p. 162). Una persona che non bloccasse il dinamismo razionale messo in moto dall’impatto con la realtà arriverebbe a vivere la coscienza del mistero. E quanto più vivesse intensamente il reale, tanto più la dimensione del mistero le diventerebbe familiare.
Ma, anche qui, grande, quasi irresistibile è la tentazione di ridurre, di utilizzare la ragione come misura, invece che come finestra spalancata «di fronte all’inesausto richiamo del reale» (Ibidem, p. 134). La conseguenza inevitabile è la riduzione della percezione della realtà, priva di mistero. Ed è ciò che si può constatare nella «destituzione del visibile», nell’appiattimento o nello svuotamento delle circostanze, di ciò che ci capita, che normalmente operiamo: la realtà, che si presenta originariamente alla nostra ragione come segno, viene ridotta al suo aspetto percettivamente immediato, privata del suo significato, della sua profondità. Per questo tante volte - ciascuno lo può verificare nella propria esperienza - soffochiamo nelle circostanze: quando è ridotta ad apparenza, la realtà diventa una gabbia.
Come osservava anni fa l’allora cardinal Ratzinger, «una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla nuovamente a se stessa» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, p. 142). L’esaltazione della ragione, la liberazione dalle sue riduzioni, è di nuovo la verifica di una fede reale.

Ora, perché è così decisivo oggi il ridestarsi del senso religioso? Perché abbiamo questa urgenza? È decisivo perché il senso religioso è il criterio ultimo di ogni giudizio, di un giudizio vero e autenticamente «mio»: se non vogliamo «essere ingannati, alienati, schiavi di altri, strumentalizzati» (L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 13), dobbiamo abituarci a paragonare tutto con quel criterio immanente e oggettivo che è il senso religioso. Dopo l’incontro cristiano, noi continuiamo infatti a vivere nel mondo e siamo chiamati ad affrontare, come tutti, le sfide della vita. Dobbiamo affrontarle in questo momento particolare, storico, dominato dalla confusione e dal «calo del desiderio», da un razionalismo soffocante, da una parte, e da un sentimentalismo dilagante, dall’altra, dalla riduzione della realtà ad apparenza e del cuore a sentimento. Se Cristo non incide su di noi ridestando la nostra umanità, allargando la nostra ragione e non riducendo la realtà, ci troviamo a pensare come tutti, con la stessa mentalità di tutti, perché il criterio di giudizio che pure originalmente possediamo, il «cuore», che è ragione e affezione insieme, è avvolto in quella confusione. Ciò significa che noi possiamo continuare ad affermare le “verità” della fede, ma non essere protagonisti della storia, poiché in noi non vi è nessuna diversità rilevabile, come ha detto Benedetto XVI: «Il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà» (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla XXIV Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i laici, Città del Vaticano, 21 maggio 2010).
Questo, oltre a farci diventare inutili per la storia (sempre più dominata da un “potere” che mira a gettare l’uomo nella confusione, a ridurre il suo desiderio e a favorire un uso ridotto della ragione), fa sorgere la domanda sulla ragionevolezza della fede. Perché è ragionevole essere cristiani? Qual è la convenienza umana della fede? Il motivo per cui tanti abbandonano la fede è che non sorprendono alcun riscontro della sua convenienza. Così il potere può allargare sempre più la sua influenza, trovando l’uomo sempre più disarmato. «È come se il potere, vale a dire la mentalità dominante, avesse costretto i nostri educatori, compresi i genitori, ad alterare la semplicità della nostra natura [“le evidenze originarie”, dicevamo prima] fin da piccoli. Perciò bisogna recuperare la semplicità della natura nostra. Questa Scuola di comunità su Il senso religioso non è nient’altro che un invito e uno stimolo a recuperare la semplicità, l’autenticità della nostra natura (non per nulla, nella terza premessa, la moralità necessaria per conoscere si chiama “povertà dello spirito”)» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), BUR, Milano 2010, p. 162).

Dell’incidenza del potere noi possiamo essere complici, se presuntuosamente pensiamo di potercela cavare da noi, senza una sequela intelligente e affettiva all’unico punto che ci è stato donato dal Mistero per strapparci dal nulla. La confusione, anche fra noi, può essere così profonda che, quando cerchiamo di indicare una soluzione alla situazione in cui viviamo, ci troviamo a ripetere le risposte di tutti: alcuni pensano che la soluzione sia mettersi d’accordo («stare insieme»), altri che essa si trovi nella politica, in una maggiore partecipazione alla distribuzione del potere, oppure nella carriera, o in una nuova avventura affettiva, e così via. Dopo duemila anni di storia cristiana, dopo anni di grazia del carisma, potremmo trovarci nella situazione dell’uomo prima di Cristo: una sconfinata varietà di tentativi ultimamente impotenti, in cui ciascuno enfatizza i suoi pregiudizi o gli aspetti più consoni alla sua indole.
«Chi ci libererà da questa condizione mortale?», diremmo con san Paolo. Che cosa ci è necessario? Quale esperienza? È da questa varietà di tentativi ultimamente impotenti che ci libera Cristo. Proviamo a ritornare all’origine.

2. CRISTO CHIARISCE IL SENSO RELIGIOSO
Invitandoci a immedesimarci col Vangelo di Giovanni, Giussani descrive in modo mirabile come è accaduto questo fatto.
«Finalmente questo Giovanni, detto il battezzatore, venne, vivendo in modo tale che tutta la gente ne era percossa e, dai farisei all’ultimo contadino, lasciava le case per andare a sentirlo parlare, almeno una volta. Saranno stati tanti o pochi, non sappiamo; in quell’occasione però ve n’erano due che vi andavano per la prima volta, ed erano tutti tesi, con la bocca aperta, nell’atteggiamento di chi viene da lontano e vede quello che è venuto a vedere con una curiosità senza barriere, con una povertà di spirito, con infantilità e semplicità di cuore [...]. Ad un certo punto una persona si stacca dal gruppo e se ne va lungo il sentiero che risale il fiume. Quando questi si muove, il profeta Giovanni Battista, improvvisamente ispirato, si mette a gridare: “Ecco l’Agnello di Dio. Ecco Colui che toglie i peccati del mondo”. La gente non vi fa caso [...]. Ma quei due, con la bocca aperta e con gli occhi sbarrati come due bambini, vedono dove si indirizza l’occhio di Giovanni Battista: su quell’individuo che se ne sta andando. Allora, istintivamente, gli si mettono alle calcagna, lo seguono, timidi, impacciati. S’accorge, lui, che qualcuno lo segue. Si volta: “Che cosa volete?”. “Maestro - rispondono - dove stai di casa?”. “Venite a vedere”, dice loro gentilmente. Vanno, “e videro dove abitava, e stettero con Lui tutto quel giorno”. Noi ci immedesimiamo facilmente con quei due seduti, che guardano parlare quell’uomo che dice cose mai sentite, eppure così vicine, così aderenti, così riecheggianti. [...] Loro non capivano, erano semplicemente afferrati, trascinati, travolti da quel parlare: Lo guardavano parlare. Perché è attraverso un “guardare” [...] che taluni uomini si sono accorti che c’era tra di loro qualcosa di inenarrabile: una Presenza non solo inconfondibile, ma incomprensibile, eppure così invadente. Invadente perché corrispondeva a quello che il loro cuore aspettava, in un modo senza paragone con nulla: padre e madre non avevano detto loro, quando erano piccoli, con altrettanta evidenza ed efficacia, ciò per cui il tempo della loro vita valeva la pena d’essere vissuto. Non avevano potuto e saputo dirlo; dicevano tante altre cose giuste, buone, ma come frammenti di qualcosa che si doveva cercare di afferrare nell’aria per vedere se uno si qualificava adatto all’altro. Una corrispondenza profonda. [...] Man mano che le parole arrivavano a loro, e che il loro sguardo, intontito e ammirato, penetrava quell’uomo, essi si sentivano cambiare, sentivano che le cose cambiavano: il significato delle cose cambiava, l’eco delle cose cambiava, il cammino delle cose cambiava». Il racconto non finisce qui, perché Giussani immagina il ritorno a casa di Giovanni e Andrea dopo l’incontro con Cristo: «E quando son tornati, la sera, sul finir della giornata - ripercorrendo molto probabilmente la strada in silenzio, perché mai si erano parlati tra loro come in quel grande silenzio in cui un Altro parlava, in cui Lui continuava a parlare e riecheggiava dentro di loro -, e sono arrivati a casa, la moglie di Andrea, guardandolo, gli ha detto: “Ma che hai, Andrea, che hai?”. E i figlioletti, stupiti, guardavano il padre: era lui, sì, era lui, ma era “più” lui, era diverso. Era lui, ma era diverso. E quando - come abbiamo detto una volta, commossi, con una immagine facile a pensarsi perché così realistica - lei gli ha chiesto: “Che cosa è successo?”, lui l’ha abbracciata, Andrea ha abbracciato la sua donna e ha baciato i suoi bambini: era lui, ma mai l’aveva abbracciata così! Era come l’aurora o l’alba o il crepuscolo di una umanità diversa, di una umanità nuova, di una umanità più vera. Quasi dicesse: “Finalmente!”, senza credere ai propri occhi. Ma era troppo evidente perché non credesse ai propri occhi!» (L. Giussani, Il tempo si fa breve, Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione. Appunti dalle meditazioni, Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 1994, pp. 23-25).

Questa scena descrive meglio di mille parole come storicamente si è chiarito il senso religioso dell’uomo, perché ha trovato il suo vero oggetto. Incontrando Gesù, Andrea era lui, ma era “più” lui, era diverso. Infatti, «l’oggetto del senso religioso ultimamente è il Mistero insondabile; perciò, che l’uomo ci pensi in modo tale da avere mille pensieri su questo è comprensibile. Ma la verità è una, soltanto che è inarrivabile dall’uomo. Allora il Mistero è diventato un fatto umano, è diventato un uomo, un uomo che si muoveva con le gambe, che mangiava con la bocca, che piangeva con gli occhi, che è morto: questo è il vero oggetto del senso religioso. Allora, scoprendo questo fatto di Cristo mi si rivela, mi si chiarisce in modo grandioso anche il senso religioso» (L. Giussani, L’autocoscienza del cosmo, BUR, Milano 2000, p. 17). E così mi libera da tutti i miei tentativi.
Questa non è se non l’applicazione di una legge universale, da quando l’uomo è uomo -«La persona ritrova se stessa in un incontro vivo» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), op. cit., p. 182) -; ma qui, nell’incontro con la presenza del Mistero diventato un fatto umano, tale legge si compie, si invera in modo definitivo: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo» (Cfr. In epistola ad Ephesios, II, 4, 14), disse il retore romano Mario Vittorino annunciando pubblicamente la sua conversione. Perché «è in un incontro che io m’accorgo di me stesso. [...] L’io si desta dalla sua prigionia nella sua vulva originale, si desta dalla sua tomba, dal suo sepolcro, dalla sua situazione chiusa dell’origine e - come dire - “risorge”, prende coscienza di sé, proprio in un incontro. L’esito di un incontro è la suscitazione del senso della persona. È come se la persona nascesse: non nasce lì, ma nell’incontro prende coscienza di sé, perciò nasce come personalità» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), op. cit., pp. 206-207).

Questo incontro ci abilita a scoprire il mistero del nostro “io”. «Era lui, ma era “più” lui», mai era stato così se stesso. Perciò, durante una conversazione, riferendosi al testo de Il senso religioso, don Giussani si domanda: «Perché il libro sul senso religioso lo abbiamo fatto noi […]? Perché noi abbiamo incontrato Gesù e, guardando Lui e sentendo Lui, abbiamo capito che cosa stava dentro di noi: “Chi conosce Te, conosce sé”, diceva sant’Agostino. [...] Perché per conoscere il senso religioso e per sviluppare il senso religioso abbiamo dovuto incontrare qualcheduno: senza questo maestro non ci saremmo capiti. Perciò posso dire a Cristo: “Tu sei proprio me”. “Tu sei me” glielo posso dire proprio perché, sentendo Lui, ho capito me stesso. Mentre chi cerca di capire se stesso riflettendo su di sé si disperde in miriadi di sentieri, in miriadi di idee, in miriadi di immagini» (L. Giussani, L’autocoscienza del cosmo, op. cit., pp. 17-18).

3. CRISTO EDUCA IL SENSO RELIGIOSO
Proprio perché Cristo svela e chiarisce il senso religioso dell’uomo, lo può anche educare. Qualcuno può pensare - anche chi ha già incontrato Cristo o vive in un contesto cristiano - che, essendo il senso religioso una dotazione originale, non vi sia alcun bisogno che esso venga educato o che, una volta ridestato, esso proceda da sé, diventi spontaneamente la dimensione di ogni istante. Il seguente brano di don Giussani ci aiuta a comprendere quanto ciò sia astratto: «Durante una conversazione in cui ebbi occasione di essere coinvolto, un importante professore universitario si lasciò sfuggire questa frase: “Se non avessi la chimica mi ammazzerei!”. Un gioco del genere, nella nostra dinamica interiore, anche quando non dichiarata, esiste sempre. Qualcosa c’è sempre che rende la vita degna ai nostri occhi di essere vissuta e senza la quale, anche se non si arrivasse ad augurarsi la morte, tutto sarebbe incolore e deludente. A quella “cosa” [il “dio”], [...] l’uomo offre tutta la sua devozione. Nessuno può evitare una finale implicazione: qualunque essa sia, nel momento in cui la coscienza umana vi corrisponde vivendo, è una religiosità che si esprime, è un livello di religiosità che si realizza. Il senso religioso ha come caratteristica sua propria di essere la dimensione ultima inevitabile di ogni gesto, di ogni azione, di ogni tipo di rapporto. [...] L’ineducazione del senso religioso [...] si documenta esattamente in questo: esiste in noi una ripugnanza divenuta istintiva a che il senso religioso domini, determini ogni azione coscientemente. È precisamente questo il sintomo dell’atrofia e della parzialità dello sviluppo del senso religioso in noi: quella difficoltà estesa e greve, quella estraneità che avvertiamo quando ci sentiamo dire che il “dio” è il determinante di tutto, è il fattore al quale non si può sfuggire, è il criterio in base al quale si sceglie, si studia, si completa il prodotto del proprio lavoro, si aderisce a un partito, si indaga scientificamente, si cerca una moglie o un marito, si governa una nazione» (L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2003, pp. 7-8).
Ciascuno può valutare l’ampiezza che assume in se stesso questa ripugnanza a lasciare che tutto nella propria vita sia determinato da Dio. Capirà così fino a che punto ha bisogno di lasciarsi educare al senso religioso. Infatti: «L’educazione del senso religioso dovrebbe, da un lato, favorire la presa di coscienza di quel dato di inevitabile e totale dipendenza che esiste tra l’uomo e ciò che dà senso alla sua vita e, dall’altro, aiutarlo a espugnare col tempo quella estraneità irrealistica che egli prova nei confronti della sua situazione originale» (Ibidem, p. 8).
Si capisce, allora, il motivo dell’Incarnazione: «Lo scopo per cui Dio è diventato uomo è quello di educare l’uomo al senso religioso, perché il senso religioso è la posizione esatta di partenza che l’uomo ha verso tutta la realtà e il Mistero stesso che fa la realtà. Perciò, seguire Cristo è essere nelle condizioni per affrontare la realtà e per camminare verso il destino nel migliore dei modi: si chiama salvezza, così come l’abbiamo chiamata qui, non nel senso definitivo del termine, ma nel senso dispositivo del termine. Se uno segue Cristo, è nelle condizioni migliori per affrontare la realtà e per affrontare il problema del destino» (L. Giussani, L’attrattiva Gesù, op. cit., pp. 286-287).

Ma oggi noi come veniamo educati al senso religioso? Partecipando alla vita di quella realtà dove Cristo rimane contemporaneo: la Chiesa. «La funzionalità della Chiesa sulla scena del mondo è già implicita nella sua consapevolezza di essere prolungamento di Cristo: è cioè la funzionalità stessa di Gesù. La funzione di Gesù nella storia è l’educazione al senso religioso dell’uomo e dell’umanità (proprio per poter “salvare” l’uomo!), dove per religiosità, o senso religioso, intendiamo - come già si è detto - la posizione esatta come coscienza e tentativamente come atteggiamento pratico dell’uomo di fronte al suo destino» (L. Giussani, Perché la Chiesa, op. cit., p. 195).
Questo dimostra la necessità della permanenza del Mistero nella storia. Infatti, se Cristo non rimane contemporaneo e non continua a sfidare l’uomo, questi ritorna a essere irrimediabilmente da solo. E da solo ciascuno sa fin dove può precipitare.
Come possiamo liberarci da questo inesorabile decadere?

4. CRISTO SALVA IL SENSO RELIGIOSO
Nessuno riesce a mantenersi da sé nell’atteggiamento giusto a cui pure l’incontro con Cristo lo ha spalancato. Perciò l’unica risposta alla nostra fragilità è la permanenza reale della Sua presenza.
La situazione storica in cui ci troviamo oggi in Occidente costituisce, in questo senso, una vera sfida anche per il cristianesimo, che è costretto a mostrare la verità della sua pretesa di rispondere alle esigenze dell’uomo. Non servirà, infatti, qualsiasi versione del cristianesimo a risvegliare l’umanità dell’uomo (lo sappiamo bene). Né un cristianesimo ridotto a discorso (“nozionale”, nel senso newmaniano del termine) né un cristianesimo ridotto a etica saranno in grado di tirar fuori l’uomo dal suo torpore (nel discorso alla Curia Romana il 20 dicembre scorso, Benedetto XVI ha parlato di «sonno di una fede divenuta stanca»), dall’appiattimento sempre più clamoroso del suo desiderio, del suo slancio originario, del suo gusto di vivere. È nella capacità di ridestare continuamente l’umano che si documenterà la autenticità del cristianesimo.

Solo un cristianesimo che conserva la sua natura originale, i suoi tratti inconfondibili di presenza storica contemporanea - la contemporaneità di Cristo -, può essere all’altezza del reale bisogno dell’uomo, ed è perciò in grado di salvare il senso religioso. Non si tratta di un postulato da accettare, ma di una novità umana da sorprendere in atto: l’annuncio cristiano si sottopone a questa verifica, al tribunale dell’umana esperienza. Se nell’uomo che accetta di appartenere a Cristo attraverso la realtà della Chiesa, concretamente e persuasivamente emergente nella sua esperienza (carisma), accade quello che egli stesso con le sue forze non è in grado di raggiungere - un impensabile risveglio e compimento dell’umano in tutte le sue dimensioni fondamentali -, allora il cristianesimo si rivelerà credibile e si renderà verificabile nella sua pretesa. «Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto» (Lc 6,44): ecco il formidabile criterio epistemologico che Gesù stesso ci offre. Il cambiamento generato dal rapporto con Cristo presente è tale che san Paolo non esita a esclamare: «Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17). La creatura nuova è l’uomo in cui il senso religioso si realizza nella sua - altrimenti impossibile - pienezza: ragione, libertà, affezione, desiderio.
«Cristo me trae tutto, tanto è bello!» (Jacopone da Todi, «Lauda XC», in Le Laude, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1989, p. 313), esclamava Jacopone da Todi. È questa bellezza, come splendore del vero, l’unica cosa in grado di ridestare il desiderio dell’uomo e di muovere così potentemente l’affezione da rendere possibile in continuazione l’apertura della sua ragione alla realtà che ha davanti - «La condizione perché la ragione sia ragione è che l’affettività la investa e così muova tutto l’uomo» (L. Giussani, L’uomo e il suo destino, Marietti, Genova 1999, p. 117) -. L’attrattiva di Cristo facilita (non realizza automaticamente) quell’apertura che sarebbe impossibile senza di Lui. La contemporaneità di Cristo consente così alla ragione tutta la sua apertura, permettendole di raggiungere un’intelligenza della realtà prima sconosciuta: ogni cosa, ogni circostanza, anche la più banale, è esaltata, diventa segno, «parla», è interessante da vivere. L’uomo così ridestato e sostenuto dalla presenza di Cristo può vivere finalmente da uomo religioso, sostenere la vertigine della vita, circostanza dopo circostanza, potendo «entrare in qualsiasi situazione dell’esistenza [in qualsiasi circostanza] con una tranquillità profonda, con una possibilità [o capacità] di letizia» (L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 148). La contemporaneità di Cristo si rivela così indispensabile per vivere appieno il senso religioso, cioè per avere l’atteggiamento giusto davanti al reale.
Se, al contrario, Cristo non viene vissuto come contemporaneo, le conseguenze non si fanno aspettare. La mancanza d’esperienza della contemporaneità di Cristo ci fa ritornare alla situazione precedente l’incontro cristiano, e anche se continuiamo a parlare di Cristo (come capita spesso), lo riduciamo di fatto a una delle tante varianti del senso religioso. «Per l’uomo moderno [questa è un’osservazione veramente acutissima di don Giussani, che ci rende consapevoli della situazione in cui viviamo], la “fede” non sarebbe genericamente altro che un aspetto della “religiosità”, un tipo di sentimento con cui vivere l’irrequieta ricerca della propria origine e del proprio destino, che è appunto l’elemento più suggestivo di ogni “religione”. Tutta la coscienza moderna si agita per strappare dall’uomo l’ipotesi della fede cristiana e per ricondurla alla dinamica del senso religioso e al concetto di religiosità, e questa confusione penetra purtroppo anche la mentalità del popolo cristiano» (L. Giussani - S. Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. 22).
Vi è una essenziale e irriducibile differenza tra le dinamiche della fede e del senso religioso: «Mentre la religiosità nasce dall’esigenza di significato destata nell’impatto con il reale, la fede è riconoscere una presenza eccezionale, corrispondente in modo totale al proprio destino, ed è aderire a questa Presenza. La fede è riconoscere come vero quello che una Presenza storica dice di sé» (Ivi). Tale differenza si vede soprattutto nel modo di muoversi della ragione. Nella fede cristiana non vi è più una ragione che spiega, ma una ragione che si apre - percependosi così finalmente compiuta nella sua dinamica - allo svelarsi stesso di Dio. Si capisce, allora, perché don Giussani dice che «il problema dell’intelligenza [non del sentimento o dello stato d’animo] è tutto dentro» l’episodio di Giovanni e Andrea (L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 273). La fede è un atto della ragione mossa dall’eccezionalità di una Presenza: «La fede cristiana è la memoria di un fatto storico in cui un Uomo ha detto di sé una cosa che altri hanno accettato come vera e che ora, per il modo eccezionale in cui quel Fatto ancora mi raggiunge, accetto anch’io. Gesù è un uomo che ha detto: “Io sono la via, la verità, la vita”. È un Fatto accaduto nella storia: un bambino, nato da donna, iscritto all’anagrafe di Betlemme, che, diventato grande, annunciava di essere Dio: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Essere attenti a ciò che faceva e diceva quell’uomo, così da arrivare a dire: “Io credo a Costui”, aderire alla Sua presenza affermando come verità ciò che egli diceva, questa è la fede» (L. Giussani - S. Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, op. cit., pp. 22-23).
Perciò: «Immaginiamo quale sfida rappresenti per la mentalità moderna la pretesa della fede: che esista un uomo - a cui io posso dire “tu” - che dica: “Senza di Me non potete fare nulla”, che esista, cioè, un Uomo-Dio. Non ci si misura mai fino in fondo con tale pretesa; oggi né il popolo né i più grandi filosofi affrontano più il problema, e se lo affrontano è per consolidare il preconcetto negativo derivato dalla mentalità dominante. Si deduce cioè la risposta al problema cristiano - “Chi è Gesù?” - da concezioni precostituite sull’uomo e sul mondo. Eppure Gesù dice, come risposta: “Guardate le mie opere”, vale a dire “Guardatemi”, che è lo stesso. Invece non lo si guarda in faccia, lo si elimina prima di prenderlo in considerazione. La non-credenza è perciò un corollario che deriva da un preconcetto, è un preconcetto applicato, non la conclusione di una indagine razionale» (Ibidem, p. 23).

Ma ciò che ora ci interessa è soprattutto mettere a fuoco la conseguenza del rifiuto del metodo scelto da Dio per rispondere alla esigenza di significato totale dell’uomo propria del senso religioso: «Senza il riconoscimento del Mistero presente la notte avanza, la confusione avanza e - come tale, a livello di libertà - la ribellione avanza, o la delusione colma talmente la misura che è come se non si attendesse più niente e si vive senza desiderare più niente, eccetto che la soddisfazione furtiva o la risposta furtiva a una breve richiesta» (L. Giussani, Tutta la terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000, p. 124). Senza il riconoscimento della contemporaneità di Cristo quello che viene meno è l’umano vero, lo slancio del senso religioso. Chi invece la riconosce, vede la sua umanità portata al di là di ogni immaginazione: «Che sia convertita a Cristo la nostra coscienza, il nostro modo di pensare, e la nostra affezione, il nostro modo di amare, vuole dire che continuamente tale coscienza e tale affezione sono portate, trasportate dove non avrebbero pensato, sono continuamente sollecitate a uscire da sé, vanno fuori di sé, sono continuamente portate dentro un terreno, dentro un territorio al di là di quello che si concepiva o che si sentiva prima. È sempre nell’ignoto che vengono introdotte, è una misura che si allarga: sono introdotte continuamente, la coscienza e l’affettività, in un orizzonte imprevisto, al di là della propria misura», e la vita acquista un respiro, una portata, una intensità mai conosciute prima (L. Giussani, La familiarità con Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2008, p. 135).
Ciascuno ha con ciò anche il criterio di una verifica del suo cammino nella fede, della sua educazione al senso religioso: l’esaltazione della sua umanità originale. «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3); questa potrebbe essere la formula riassuntiva di una vera educazione del senso religioso. E per questo Cristo chiama beati coloro che l’hanno: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Questi testi ci mostrano il vero scopo di questa educazione: spalancarci così tanto da poterci riempire con una cosa che non possiamo produrre noi, ma che dobbiamo accettare, accogliere, abbracciare come un regalo. Solo chi ha questa semplicità di bambino, questa povertà di spirito, ha la disposizione per accoglierla.

Il lavoro che ci attende quest’anno sul testo Il senso religioso ha questo livello di decisività. Dalla serietà con cui lo affronteremo dipenderanno la nostra realizzazione come persone e il contributo che possiamo dare ai nostri fratelli uomini.


* Il senso religioso è «l’inclinazione dell’uomo verso il suo principio e verso il suo ultimo destino; l’avvertenza indistinta, balenata intuitivamente alla sua coscienza, del proprio essere dipendente e responsabile; il pronunciamento informe e naturale dell’anima circa il proprio arcano rapporto verso l’Essere supremo; il nativo gesto della natura umana in atteggiamento di adorazione e di supplica; l’esigenza dello spirito verso un Infinito personale, come dell’occhio verso la luce, del fiore verso il sole». Era il 1957 quando nella sua lettera pastorale per la Quaresima ambrosiana l’allora cardinale Giovanni Battista Montini adoperava queste parole. E pochi mesi dopo, Luigi Giussani pubblicava la prima edizione del testo Il senso religioso. Esattamente quarant’anni dopo, don Giussani terminò l’ultima e definitiva versione di quest’opera, che è anche il primo volume del suo fondamentale PerCorso.

martedì 18 gennaio 2011

MEETING NEW YORK/ Don Julian Carron e il cardinale O’Malley presentano Il Senso religioso



Circa milleduecento persone erano riunite ieri al Manhattan Center, hotel che ha ospitato l’edizione 2011 del New York Encounter, in occasione della presentazione del libro di don Giussani, Il Senso Religioso. Protagonisti dell’incontro dal titolo “Reale, ragione, libertà. Alle radici della ricerca religiosa” sono stati don Julian Carron e il Cardinale Sean Patrik O’Malley, vescovo di Boston.
Attraverso alcuni esempi della propria storia personale, O’Malley ha introdotto il tema del senso religioso, inteso come quel complesso di domande e di esigenze ultime contenuto nel cuore di ogni uomo.

Tali domande, ha continuato Carron, emergono potentemente nell’impatto che l’Io ha con il reale, come tanti poeti hanno testimoniato con le loro opere. La ragione dell’uomo, dunque, può dirsi pienamente tale solo quando è capace di comprendere la realtà secondo la totalità dei suoi fattori, quando cioè riconosce che essa è segno di qualcosa d’altro.

Ma chi può rispondere al bisogno dell’uomo, al suo desiderio di compimento? La sfida di Carron è chiara: solo Cristo è la risposta al cuore dell’uomo, tanto è vero che Egli esalta concretizzando il nostro senso religioso. Esempio di questo è l’incontro dei primi due discepoli, Giovanni e Andrea, con Gesù. La profonda corrispondenza che loro sentivano ascoltandoLo parlare pian piano ha iniziato a cambiarli: è cambiato il modo con cui stavano in famiglia, con cui lavoravano, con cui stavano tra di loro. «Andrea era lo stesso, ma era diverso; era lo stesso, ma era più se stesso», perché aveva trovato ciò che realmente rispondeva al suo senso religioso. Questo è anche il modo attraverso cui Dio educa il nostro senso religioso: «Se uno segue Cristo, si mette nella migliore condizione per affrontare la realtà e per affrontare il problema del destino».
«Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo», disse Mario Vittorino, retore romano. Per noi è possibile fare esperienza di questa corrispondenza oggi, duemila anni dopo Andrea e Giovanni, solo se Cristo continua ad accadere nella storia. Come accade questo? Attraverso la realtà della Chiesa. In questo modo, Cristo salva anche il senso religioso dell’uomo, poiché senza riconoscere il Suo mistero presente oggi egli sarebbe immerso nella confusione, nella delusione: non si aspetterebbe più nulla dalla realtà che lo circonda
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Riportando un esempio di Papa Benedetto XVI, il Cardinale O’Malley ha fatto notare come la bellezza delle splendide finestre delle chiese gotiche sia maggiore se guardate dall’interno delle chiese stesse. Questo è esattamente ciò che ha ricordato Carron, rileggendo Il Senso Religioso dall’interno della fede.

(Chiara Brighi)-
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venerdì 14 gennaio 2011

Qui, perché il filo non si spezzi e perché questo è paradiso


HAITI UN ANNO DOPO: UN ABBRACCIO NUOVO

È passato un anno. Tempo di bilanci sembrerebbe, tempo per guardarsi indietro e dire cosa si è fatto e cosa non si è fatto, chi ha lavorato bene e chi no, di chi i meriti e di chi le colpe.

A noi del Vilaj Italyen di Haiti non interessa guardare indietro, vogliamo guardare avanti e per farlo capiamo che dobbiamo guardare all’istante che oggi ci è dato di vivere.

E così… guardiamo all’oggi, chiedendoci cosa ci ha tenuto qui in questi lunghi mesi, cosa ci ha fatto muovere sfidando l’impossibile della ricostruzione di un Paese da sempre devastato, cosa ci muove oggi davanti agli alti e bassi del colera. E perché continuiamo a proporre ai nostri amici di aiutarci e continuiamo, su un immondezzaio che sembrerebbe non aver futuro, a vivere le giornate con la nostra gente, indicando una strada, una speranza, un abbraccio nuovo.
Guardando il volto della mia gente, fermandomi a parlare con loro o prendendo in braccio i loro bimbi sporchi e nudi, è come se mi fosse data la possibilità di ripartire ogni giorno dall’unica ragione che può tenere una persona qui: la generosità ed il buonismo finiscono in fretta in un posto così.

Per cosa si resta e si continua a credere che anche qui sia possibile l’esperienza di felicità per l’uomo? Per Cristo, per l’Unico che questa condizione umana l’ha abbracciata come compito e l’ha vissuta fino in fondo, non rifiutando nulla di ciò che comportava.
Quale speranza avrebbe questa gente fuori dall’abbraccio di Cristo al proprio destino? Volti polverosi, consumati dalla fatica e dal dolore, senza una storia e senza un futuro. Volti che vagano nella notte in attesa non sanno neanche di cosa o di chi.

Volti che potrebbero gridare al tradimento, all’inganno. Perché nascere quaggiù custodendo nel cuore la promessa di felicità e il desiderio di buono, bello, giusto, può sembrare un inganno.

E se poi ti travolge un terremoto, vivi in una tendopoli, vedi morire i tuoi figli di fame, i tuoi amici di colera, beh, allora l’inganno diventa insopportabile ed il grido diventa rabbia e tutto viene distorto perché staccato dall’origine.

Allora non si resta qui a dire che bisogna essere buoni e che c’è soluzione a tutto, battendo una pacca sulla spalla e dicendo 'coraggio'. Si resta qui perché l’Origine riaccada per questa gente, perché il filo non si spezzi, perché Cristo possa usare della nostra povera umanità per abbracciare i suoi figli nel dolore. Ieri una suora che è venuta a trovarci, vedendomi circondata dai miei ragazzi, mi ha detto: «Ma tu qui sei in Paradiso». Sì, sono in Paradiso: si resta qui per questo.

Per che cosa si continua a lavorare?

Per Cristo

SUOR MARCELLA CATOZZA

Scuola di comunità con Julián Carrón

Milano, 12 gennaio 2011
Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp.417-441.
• “Ballata dell’amore vero”
• “The Fields of Athenry”
Gloria
Con questo capitolo arriviamo alla fine del percorso che era partito dalla fede e che ha la sua espressione ultima nella verginità. Abbiamo visto lungo il lavoro che non si può capire il passo successivo senza aver capito il precedente, perché è soltanto in quell’origine che precede che possiamo capire l’esperienza nel suo procedere; se questo è vero in ogni capitolo, in quest’ultimo è decisivo, perché senza tutto quanto abbiamo detto, come esperienza, questo è “cinese”. Don
Giussani, in Si può (veramente?!) vivere così?, a pagina 510, dice una frase che è decisiva, è la grande regola: «Si capisce quello che si è già incominciato a sperimentare». È impossibile smuovere don Giussani da questo, perché per lui è una convinzione totale il fatto che la realtà si rende trasparente nell’esperienza, non in una spiegazione; tanto è vero che continua: «Però, se non ce lo si sente dire, neanche vien voglia di incominciare a sperimentare, neanche, soprattutto, vien
voglia di chiedere a Dio che ci faccia incominciare a sperimentare [tutto lo scopo del parlare è per sperimentare, perché venga il desiderio di sperimentare; non per sostituire l’esperienza, ma per incoraggiare l’esperienza]. Ma si capisce quello che si è almeno incominciato a sperimentare». Il punto di partenza è l’esperienza, che si può riassumere in questa domanda: quando ciascuno di noi ha fatto esperienza della verginità? Dobbiamo guardare l’esperienza per poterlo capire, perché
altrimenti partiamo dall’immagine che ci facciamo nella nostra testa su che cosa, secondo noi, sia la verginità, partiamo dai nostri pregiudizi. E questo, invece che un aiuto, diventa una difficoltà per capire. Per questo don Giussani, a pagina 421, fa l’esempio della Maddalena: «Possedette di più la donna da marciapiede, la Maddalena, Cristo che la guardò un istante mentre le passava davanti o tutti gli uomini che l’avevano posseduta?». Ecco, quando noi abbiamo fatto esperienza di questo
possesso? E dopo dice: «Quando uno arrivava a venti metri da lui, era trapassato da quella Presenza e andava a casa con dentro quella figura che stentava giorni a tirarsi via». Uno fa un’esperienza dell’imporsi di una Presenza che stenta giorni a tirarsi via, che fa fatica a tirar via. Se domandassimo alla Maddalena quando ha fatto esperienza della verginità, dovrebbe raccontare quello, altrimenti non capiremmo. Allora, domando a ciascuno di noi: quando abbiamo avuto un’esperienza di questo calibro, quando noi abbiamo fatto l’esperienza di un’imponenza di una
presenza che abbiamo stentato a tirarla via, e che ha determinato l’esperienza di essere posseduti da qualcosa che ci ha fatto fare un’esperienza unica, diversa?

Ho trascorso questo mese con una certa irrequietezza per l’incapacità apparente di riuscire a stare davanti a questi due capitoli. L’avevo già detto la scorsa volta che avrei voluto saltarli, ma, evidentemente, ci faccio i conti e in questo mese non è stato semplice starci davanti, anzi, non ci riuscivo.

Vedete? Il punto di partenza è sbagliato. L’ho fatto venire qua perché tutti possiamo capire l’errore di impostazione. A ciascuno di noi è capitato di dirsi: «Non ce la faccio a vivere così...». Lo sappiamo, che scoperta è? Vi stupisce? Non è che facciamo fatica: è proprio impossibile! Così sgombriamo subito il campo...
Grazie!
Mi stupisce che noi, invece di partire dall’esperienza dove possiamo imparare che cosa è il cristianesimo, partiamo da quando non c’è, e poi diciamo che non ne siamo in grado. È ovvio. Se
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nel cristianesimo partiamo da quello che non c’è, troviamo sempre l’impossibilità di generarlo noi, perché è diventato già un’altra cosa, l’abbiamo ridotto, ne abbiamo cambiato la natura. Perché il cristianesimo è quello che abbiamo detto di Giovanni, di Andrea, di Zaccheo: qualcosa che anzitutto si impone. Ma noi tante volte cambiamo il punto di partenza: «Non ne siamo in grado». Vedete che fatica facciamo, dopo tutto il percorso di due anni, a cambiare il chip? Non è per un rimprovero, ma
affinché ci aiutiamo a capire queste cose, perché altrimenti continuiamo a sbagliare, e poi diciamo che il cristianesimo è difficile. Perché non è questo il cristianesimo, è un’altra cosa.


Ho vissuto questo mese un po’ così, finché in questi ultimi due giorni era imminente la Scuola di comunità e ho sorpreso anzitutto un sentimento di ringraziamento per questo lavoro che non mi molla e, secondo, mi è venuto in mente che io all’ultima Scuola di comunità ero in fondo, e quando tu hai letto la lettera della ragazza del Clu ho preso e sono uscito perché io non ce la facevo a star fermo, mi è capitata una cosa esplosiva, una cosa che non stai più nella pelle perché io mi sono
detto: «Io una cosa così è ciò che voglio per me, è la cosa per me più desiderabile». E io quella sera lì io sarei stato capace di qualunque cosa, qualunque cosa mi avessero chiesto.

Questa è l’esperienza della verginità. Ma per tutto questo tempo essa è stata sopraffatta in nome del fatto che non eri in grado di farcela. Che cosa si è imposto l’ultima volta leggendo quella lettera?
L’esperienza dell’imponenza di una Presenza, che gli ha dato una sovrabbondanza tale che non stava più nella pelle. Questo! Tanto è vero che dopo un mese gli ritorna in mente. Non lo può generare lui, ma lo può sperimentare come il dono di una Presenza che si impone così potentemente che ti fa fare un’esperienza di sovrabbondanza tale che saresti disponibile a qualunque cosa. Perché uno, trapassato così, come tratta l’altro, come si rapporta all’altro? E qui, per aiutarci a capire questo capitolo, dobbiamo ritornare a quello sulla povertà, perché in esso don Giussani spiega,
molto più distesamente che qua, che cosa la rende possibile. La povertà che cos’è? Il distacco da un certo possesso delle cose. Che cosa è la verginità? Un distacco da un certo possesso con le persone.
Chiaro? E lì dice (a pagina 259): «La povertà si rivela come libertà dalle cose in quanto è Dio che compie i desideri, non la certa cosa cui tu miri». Tu puoi essere libero perché è Dio che compie. Poiché hai questa esperienza di sovrabbondanza, puoi essere libero. E questa libertà porta con sé il germe della letizia. La verginità è la povertà al suo livello estremo, quindi tu puoi trattare le cose con questa libertà perché non ti manca nulla. Se questo è decisivo per trattare le cose con questa libertà, immaginate che razza di esperienza occorre fare per trattare le persone con la stessa libertà, con la stessa gratuità, per poterle guardare per il loro destino e non per il tornaconto del rapporto! Ciò non è possibile senza di Lui, perché chi ha introdotto nel mondo questa libertà dalle cose si chiama Gesù Cristo, e chi ha introdotto questa libertà nel rapporto con le persone si chiama Gesù
Cristo. Per questo è impossibile parlarne senza fare riferimento a tutta l’esperienza che don Giussani ha descritto nei capitoli sulla fede, sulla speranza e sulla carità. Cosa vuol dire libertà nei rapporti? Che il rapporto è poggiato su qualcosa che permane, cioè sul divino che permane: la povertà è l’affermazione di un Altro come significato di sé (è lo stesso che ha detto nella carità: noi
possiamo avere questa carità rispetto all’altro soltanto per l’esperienza di quella sovrabbondanza, di quella passione del Mistero per il nostro niente perché «ti ho amato e ho avuto pietà del tuo niente»). Soltanto sotto la pressione di questa commozione possiamo amare, traboccando di quello che riceviamo. Per questo dice che la verginità ha bisogno di uno che riconosca il destino presente, Gesù presente nella storia. L’ultimo capitolo è la verifica che abbiamo fatto questo percorso come
percorso di esperienza – adesso, magari, qualcuno mi può raccontare tutta la logica del testo, ma se non è diventato carne, questa esperienza se la sogna, perché non è l’esito di una logica, anche se c’è dentro tutta, ma di una esperienza che rende possibile soltanto Lui –. È per questa esperienza imponente che posso rapportarmi alle cose con questa Presenza negli occhi, sotto la pressione di questa commozione; è soltanto l’invadenza di questa Presenza che mi consente un rapporto vero con le cose e con le persone. È Lui che la rende presente, senza di questo ritorniamo al nostro solito ritornello: «Non ce la faccio, è impossibile». È impossibile a chi non fa l’esperienza cristiana. È possibilissimo, come dono, come grazia. A quale condizione? Di vivere il cristianesimo come esperienza; come esperienza, non come discorso o come etica, come pensiero, come sentimento. Ma
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qual è la questione? Che occorre una lealtà grande con il nostro io, con il nostro cuore, altrimenti rimane impossibile.


Io mi sono accorta che l’esperienza della verginità è l’esperienza che mi rende totalmente dipendente dal mio cuore; è l’esperienza che mi fa scoprire chi sono io, tanto che me ne fa dipendere. «Occorre un sacrificio, il sacrificio dell’immediato. L’immediato non è vero, tant’è che crepa, fa crepare […]. L’immediato lega, incatena». È vero, è così: innanzitutto l’immediato ti attrae tantissimo, l’immediato è qualcosa che sembra che ti prometta mari e monti, in quel
momento sembra la cosa più affascinante. Ma l’immediato fa crepare perché io, quando vivo dell’immediato, mi sento come un animale in gabbia, cioè mi sento incatenata, non sono io, mi manca l’aria. E io mi rendo conto di ciò per cui sono fatta perché il cuore mio ha provato ciò che non lo rende incatenato, l’ha provato, l’ha vissuto, e quindi quando tu fai l’esperienza di ciò che fa respirare il tuo cuore...
Il problema della verginità non è un problema di moralismo, è questa lealtà con il cuore.
Io ho bisogno di vivere ciò che mi fa vivere; e l’esperienza della verginità toglie in me il dualismo, cioè mi fa coincidere con me stessa. Io, quando accade che faccio questa esperienza, sono io. Nella vocazione quello che non ho perso è il cuore, perché esiste una Presenza che c’è e che me lo fa scoprire.

La verginità è la vittoria sul dualismo perché fa coincidere con noi stessi, e perciò non è un problema che riguarda soltanto un certo tipo di vocazione. Chi non desidera essere se stesso? Chi non desidera coincidere con se stesso? Chi non desidera non perdere il cuore? Per questo sarà sempre una sfida a chi ha a cuore il proprio desiderio di felicità, poter avere davanti un’esperienza di vita dove il cuore non si è perduto. Se questo riguardasse soltanto un certo tipo di persone, non ne saremmo interessati. Ma la questione è che l’esperienza di cui stiamo parlando è l’esperienza che rende l’io veramente io, lo fa coincidere con se stesso. Questa è la promessa. E in questo senso questo capitolo è la conferma che la fede è vera, che quello che riconosce la fede non è una creazione dell’uomo, non è una creazione della mia ragione, non siamo qui a gonfiare quello che non c’è, non siamo qui a inventarci quello che non c’è, a generare noi la fede, il fatto. No! Perché se
fosse così, noi non potremmo parlare della verginità, men che meno farne esperienza. La verginità è la conferma ultima della verità del fatto della fede, della verità di quella Presenza nella storia. Per questo Giussani pone la verginità alla fine del percorso, e per questo la verginità è la dimostrazione più palese della verità del cristianesimo, della verità di quella Presenza riconosciuta dalla fede, perché senza quell’esperienza, quella Presenza riconosciuta dalla fede non ci sarebbe come
esperienza; non ne avremmo potuto parlare, tanto è vero che non se ne è parlato fin quando non è arrivato Cristo; storicamente parlando, è un dato di fatto. Perciò in questo capitolo troviamo conferma della verità della fede, di quella Presenza che la fede riconosce come tale, che non può essere inventata perché un’invenzione non permette di fare un’esperienza come quella della verginità
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Un fatto che è capitato mi ha permesso di accorgermi di quello che ci hai detto nell’articolo di Natale e cioè che dell’annuncio cristiano e di annunciare il cristianesimo ne ho bisogno io, ho bisogno di vedere come questo prodigio entra e risponde alla vita, e di vedere come anche gli altri prendono posizione di fronte a questo fatto. È successo che attraverso la caritativa abbiamo incontrato una donna peruviana che ha iniziato a partecipare a questa nostra caritativa e da due
mesi partecipa alla Scuola di comunità. È sorprendente vedere come lei, incollata allo schermo, continua a ripetere: «È vero, è vero». L’ultima volta, uscendo, ci ha detto: «Ma lo voglio anch’io questo libro che avete voi, voglio anch’io poter rileggere queste cose». Il giorno dopo sono andata a salutarla perché era in partenza per il Perù e mi ha colpito tantissimo perché lei era ancora lì su
quello che aveva sentito la sera prima.
Era lì ancora su quello che aveva sentito.
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Ne aveva parlato con le sue amiche e, incontrando una donna dal parrucchiere, l’aveva invitata a questi incontri (non sapeva neppure che si chiamassero Scuola di comunità). E la cosa più sorprendente è che poi, a un certo punto, mi ha detto: «Ma adesso dimmi, che cos’è la Fraternità? Che cos’è il fondo comune?», e io, per spiegarle questa cosa, sono dovuta partire da molto lontano.
Sono uscita con le gambe che mi tremavano quella sera, perché mi ha colpito come arrivino le parole, come suscitino la vita e di come io (di fronte a questa cosa che tu dicevi alla fine sulla Fraternità e sul fondo comune) non avevo neanche ascoltato perché sapevo già, e ci è voluta lei per farlo capire a me. Domenica l’ho incontrata al ritorno dal Perù ed è stata una sorpresa ancora più grande, perché lei è andata, ha portato con sé il volantone di Natale, le nostre foto, ha raccontato a tutti quello che ha incontrato qui, quello che facciamo, io le avevo portato gli appunti della Scuola di comunità, li ha tradotti a quelli che ha incontrato e poi mi ha detto: «Ecco, io ho un’offerta e voglio iscrivermi alla Fraternità».

Che esperienza c’è dietro tutto questo? L’imponenza di una Presenza che ti rende possibile rapportarti al reale così, tanto è vero che non puoi non comunicarlo a tutti. Ma quello che mi colpiva, e che mi colpisce di quello che dici, è che tu cogli la portata di questa testimonianza dell’amica peruviana per il bisogno che hai tu di questa testimonianza. Per esempio uno mi diceva:
«Che cosa me ne importa del Cairo? Che cosa c’entra con la mia vita?». E dico: come è possibile che noi abbiamo questa grandissima difficoltà a cogliere quello che accade, la diversità, l’eccezionalità di quello che accade? Perché quello che è accaduto a Il Cairo è una cosa così eccezionale, così al di là di qualsiasi nostra previsione, di qualsiasi nostro progetto, che uno può dire: «Che cosa c’entra con me?», solo se non capisce, perché viene ridotto il reale a qualcosa che è
solo apparenza. E attraverso questa donna peruviana, attraverso quel ch’è successo a Il Cairo che cosa si rende presente? La contemporaneità di Cristo che rende possibile che la vita sia diversa. Se noi invece diciamo: «Già lo sappiamo», allora andiamo tutti a quel paese. Invece guardate che differenza con quella persona peruviana. Se noi, facendo strada nella vita del movimento, non diventiamo più così, quello che sappiamo per noi è una gabbia che ci impedisce di capire. Per
questo abbiamo bisogno di un’educazione al senso religioso – e per questo iniziamo la nuova Scuola di comunità –, sennò non abbiamo la semplicità di questa donna che coglie subito il significato. Vedete? Non sapeva neanche che cos’è la Scuola di comunità, ma non ha potuto evitare che fosse determinante la vita più di qualsiasi altra cosa, tanto da portarsela in Perù e dirlo a tutti, da tradurre… tutto.


Una compagna di dottorato, con cui ho preparato un articolo che contiene interviste ai ragazzi di Cometa cambiati dopo la frequentazione della scuola, aveva conservato la memoria di quello che era successo in quella esperienza. Questo fatto mi ha sollecitato tanto, perché io avevo un po’ un problema quando tu parlavi del fatto e dell’interpretazione. Questa cosa che è successa con lei, questa amicizia che sta nascendo, mi ha fatto forse capire un po’ meglio e volevo che tu mi correggessi. Il fatto. Ho pensato che stare davanti al fatto vuol dire starci con tutta la propria
statura umana, quindi con tutte le proprie esigenze. Questo vuol dire starci in modo virginale: è una metamorfosi, come se uno, a un certo punto, guardasse il mondo e lo vedesse finalmente a tre dimensioni anziché due. Parlando con lei mi sgorgavano tutte queste considerazioni, proprio un cambiamento totale di mentalità. L’interpretazione non è negativa in sé, ma è un fattore secondario; uno parte dalla propria storia, dalla propria cultura, dal proprio modo di essere, nello
stare davanti al fatto non è che non c’è l’interpretazione; il punto è che è molto più pregnante, consistente quest’altro aspetto proprio della trasformazione, di come tu vedi le stesse cose. Lei non si è sicuramente fermata all’apparenza, perché ha nel cuore questa cosa, però è come se non riuscisse a dargli fino in fondo un nome.

E perché succede così? Perché alcuni davanti a un fatto colgono una cosa e gli altri restano all’apparenza?

Io credo, in questo caso specifico, che sia proprio una questione di libertà, perché lei è come se volesse fermarsi ai frutti e non vuole vedere l’origine.
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Gli stessi fatti sempre hanno un’interpretazione. Se io vedo due persone in metropolitana – ho fatto spesso questo esempio – che si scambiano un regalo che io ho visto in un negozio “Tutto a un euro”, posso dire: «Queste persone si stimano soltanto un euro», o: «Queste persone attraverso questo dono si dicono quanto si vogliono bene». Il fatto è lo stesso. Davanti ai miracoli di Gesù uno diceva: «L’ha fatto per il potere di Dio», l’altro: «L’ha fatto per il potere del diavolo». Il fatto, proprio perché è un segno, chiede la libertà, per questo la libertà si esprime – dice Giussani – nell’interpretazione del fatto. La questione è quale delle due interpretazioni dà più ragione di tutti i fattori del fatto, di tutti gli elementi del fatto! Se tu fossi lì a dare a una persona amata il regalo che
vale un euro non è che ti fermi al valore monetario del dono: «Ti voglio bene, attraverso un euro o attraverso un milione di euro». Non è questione di prezzo, è un segno attraverso cui ti dico quanto ti voglio bene. Per questo è falso fermarsi al valore monetario: perché l’interpretazione data del fatto è riduttiva. Non perché non occorra un’interpretazione, no, ma l’interpretazione che tu stai dando è
riduttiva dell’esperienza che sto facendo io, per questo non mi sento capito. La questione è: che cosa ti consente di non ridurre il fatto a un’interpretazione a volte così meschina? Soltanto se uno ha una semplicità che consente di capire tutta la portata di quello che sta succedendo lì. Per questo occorre opporre il fatto a un’interpretazione del fatto che non sia in grado di dare ragione adeguata
di tutti i fattori del fatto. E questo è quello su cui occorre sfidarla: un’interpretazione come quella che dà lei è in grado di dare ragione di tutti fattori? E qui incomincia il dialogo. Per questo non è una chiusura, ma è l’inizio di un’avventura, di un dialogo: «E questo? Questo come lo spieghi?
Come lo spieghi?»; ciò consente all’altro di cominciare a cogliere tutti i fattori che lo spalancano a una possibile interpretazione più adeguata del fatto. Un’interpretazione più grande generata dalla propria esperienza può aiutare l’altro a fare questo percorso; dipende da te.


Io comunque mi sento preferita perché mi ha scelta. L’altra cosa che volevo dire è sulla questione del centuplo. Quando uno soffre tanto perché si sente censurato rispetto a questa cosa che dicevamo… Io ho dato, per esempio, il volantino nella mia famiglia d’origine sulla questione della crisi ed è scoppiato un putiferio. Allora mi chiedevo se anche quando succedono queste cose (io ho sofferto tantissimo e soffro tanto per questa situazione) si può dire che è il centuplo, perché vuol
dire affermare il desiderio di un rapporto che sia nella sua verità, nella trasparenza eterna.

E certo. L’unica cosa è che tu capisca che questa testimonianza, a volte, può essere non capita dall’altro. E questo è diverso da come don Giussani parla qui del centuplo – questa è una cosa che non voglio perdere –. Noi il centuplo, nella questione della verginità, lo immaginiamo «come un allargamento dell’istintività». Cento volte di quello che noi abbiamo in testa, non cento volte di quello che è il vero. Questo è un bello sbaglio perché noi tante volte diciamo: «Questo non mi
corrisponde, non corrisponde alla promessa che mi ha fatto del centuplo», perché non corrisponde alla mia immagine in cui ho ridotto il centuplo a un allargamento dell’istintività. Ma questo significa essere proprio incastrati in questa situazione, e questo non corrisponderà mai all’esigenza del cuore; perché gonfi una cosa fino a quando vuoi, non per questo corrisponde. Il centuplo è
qualcosa d’altro, è un’altra cosa, diversa, entra qualcosa di nuovo nell’esperienza umana; non è un allargamento di quello che noi proviamo a sperimentare, è qualcosa di più, che corrisponde molto di più di qualsiasi altra immagine.


Giovedì scorso è morto improvvisamente il papà di mio marito, però questo non è un intervento su una mancanza ma su una pienezza, perché leggendo il capitolo sulla verginità io mi sono accorta che l’imposizione di questo distacco mi ha obbligata a guardare a questa persona come vorrei guardare tutti: guardare al loro destino. E così, pur nel dolore, c’è stata anche la commozione per la tenerezza che il Mistero ha avuto per noi in questi giorni, perché ci ha fatto fare esperienza di
una paternità più grande anche di quella di quest’uomo, e così il dolore non ci ha annichiliti, ma ci ha messi di fronte alla necessità della conversione per cui ci siamo dovuti chiedere, ci siamo dovuti interrogare sulla ragionevolezza della fede, perché che noi possiamo dire che con la morte non è finito tutto, ma che lui è nelle braccia del Signore, o è un’idea oppure è per la Presenza che noi abbiamo sperimentato da quando abbiamo incontrato il movimento. E così, di fronte a una cosa per
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cui tutto il mondo può solamente dire: «Mi dispiace, non ci sono parole», il rosario, il funerale e gli amici, sono stati il segno di un Uomo che è entrato nella nostra vita e che può dire: «Donna, non piangere!». E così la domanda sul destino di mio suocero mi ha fatto accorgere che questa paternità domina ogni mia giornata, più dello stato d’animo che sarebbe giù per le circostanze avvenute. Qualunque cosa accada, io sono abbracciata. E questo per me è sperimentare il centuplo,
perché io vedo che in questo modo non perdo più niente e nessuno.

È così. Ma per poter fare questa esperienza, di nuovo, occorre non un’idea, ma una Presenza, perché senza questa Presenza davanti è impossibile. A proposito di questo, leggo una delle domande che mi avete mandato, perché questo distacco tante volte ci spaventa. «Ho tre figli che si stanno inoltrando nell’età adulta, di venti, diciotto e diciassette anni. Il mio desiderio più grande è che possano scoprire e abbracciare il disegno che nostro Signore ha su di loro per fare esperienza della
vera felicità e in questo desidero accompagnarli. Nel capitolo sulla verginità don Giussani ci richiama al distacco come condizione di un voler bene autentico, così che non prevalga in noi il tentativo di possesso verso la persona amata. Io voglio molto bene ai miei figli, ma mi accorgo che ho paura della loro libertà, dei “no” che essa può porre a Dio e alla Sua volontà. Ti chiedo come posso voler loro bene sul serio e amare e non temere la libertà. Cosa vuol dire vivere in questo il
distacco che rende la relazione tra noi più vera?». Queste domande dobbiamo guardarle in faccia.
Chi ci ha fatto liberi? Uno che non ci vuole bene o uno che ci vuole bene? Ha avuto, il Mistero, paura di farci liberi? Dobbiamo immedesimarci con il vero Padre, che non ha avuto paura di buttarci nel reale attrezzati soltanto con un criterio, il cuore, cosciente di quello che faceva. Perché con questo criterio ci ha dato la possibilità di scoprire il vero in qualsiasi cosa e, soprattutto, di scoprire Lui, nel momento in cui uno Lo può incontrare. Non ha avuto paura della nostra libertà. Per
questo se noi abbiamo paura della nostra libertà o soccombiamo a questo tentativo di possesso, è perché non ci immedesimiamo con Colui che ci ha generati, ma vogliamo rispondere al nostro tentativo invece di abbracciare il disegno che il Mistero ha sui nostri figli; perché noi pensiamo che sappiamo già qual è il disegno e come devono raggiungerlo. Invece siamo noi che dobbiamo piegarci alla modalità con cui il Mistero li porta al destino, che non sappiamo. E capisco che a uno viene la paura come padre, come genitore. Che cosa ha potuto portare il Mistero a generarci così e a
correre questo rischio? È soltanto immedesimandoci con quella paternità che noi possiamo imparare la paternità nostra, perché altrimenti creiamo più problemi di quelli che risolviamo. Questo vuol dire che non possiamo fare niente? No, possiamo fare molto, come ha fatto Lui. Per risolvere il problema non ha tolto la libertà, non si è imposto, si è fatto uomo (lo abbiamo appena celebrato nel Natale): è diventato una Presenza in modo tale che ciascuno potesse, vedendo, riconoscere quello
per cui è fatto e potesse scoprire il cammino che compie la libertà. Che cosa possiamo fare noi a somiglianza di Lui? Diventare una presenza, diventare testimoni, il che non toglie la libertà, ma aiuta mettendo davanti all’altro una presenza che chiarisca la strada: «Guarda, guarda come la vita si compie». Perché è così che possiamo diventare padre e madre, cioè testimoni, come dice San Paolo: «Non padroni della vostra fede, ma collaboratori della vostra gioia». Questo è essere padre,
perché diventiamo una presenza che attira perché corrisponde. Mettiamo davanti ai figli una bellezza fatta carne (non un discorso), una vita vissuta in modo così sovrabbondante che il figlio può avere davanti l’ipotesi realizzata della proposta che voi siete per lui. Capisco che è più immediato il possesso che diventare testimoni. Ma il possesso non è scambiabile con questa attrattiva della testimonianza di qualcosa che rende la vita più chiara; ciascuno deve decidere. Non
confondiamoci, voler bene al figlio è questo: nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita.
E cosa è dare la vita? Mettere davanti una presenza così. Con questo finiamo il nostro percorso.
La prossima volta faremo la presentazione della nuova Scuola di comunità che è Il senso religioso.
Sarà mercoledì 26 gennaio alle ore 21,30. Sarà l’occasione di un incontro pubblico di CL a cui poter invitare tutti. A questo gesto parteciperanno anche il Clu e GS.
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All’incontro presso il Palasharp di Milano parteciperanno le persone della mia Scuola di comunità qui riunite in sala, il Clu e GS di Milano, procurandosi l’apposito tesserino in segreteria.
In città a Milano rimarranno attivi tutti gli altri luoghi in collegamento; le altre città della diocesi di Milano, della Lombardia e le altre regioni seguiranno l’incontro sempre dai luoghi in collegamento video.
Abbonamenti a Tracce. È iniziata la campagna abbonamenti a Tracce per l’anno 2011.
Raccomando di sottoscrivere l’abbonamento, sia perché in questo modo dimostrate il vostro interesse e desiderio di leggerlo, sia per il sostegno alla rivista stessa. Nel numero di gennaio trovate il dépliant con le varie possibilità di abbonamento.
L’ultima volta che l’ho vista a Rimini, agli Esercizi del Clu, una persona, stupita di quanto succedeva tra di noi, ha detto una cosa che riguardava Tracce che mi ha colpito: «Occorreva leggere Tracce in ginocchio» perché è come toccare con mano che cosa sta operando il Mistero. Allora non è che facciamo propaganda di una rivista, facciamo propaganda di quello che il Mistero fa tra di noi. Per questo ci interessa per la nostra fede, ci interessa toccare con mano i fatti. Se a qualcuno interessa, si abboni.
Giornata nazionale di raccolta del farmaco. Sabato 12 febbraio si terrà la Giornata nazionale di raccolta del farmaco, organizzata dal Banco Farmaceutico. I farmaci raccolti permetteranno di sostenere 1.200 associazioni italiane che assistono 400.000 persone indigenti. Quest’anno la raccolta del farmaco verrà fatta anche in Spagna e Portogallo. È un gesto semplice di carità cui è possibile partecipare come volontari nelle farmacie. Potete chiedere maggiori informazioni alla segreteria delle vostre comunità o direttamente al Banco Farmaceutico, al numero di telefono: 02
70104315.
• Veni Sancte Spiritus

mercoledì 12 gennaio 2011

LA MORTE, L’INDIFFERENZA, LA FEDE -LA ZONA GRIGIA




U n uomo per la strada vede una ragazzina che trema, ha solo un vestito leggero, nien­te da mangiare. Si arrabbia con Dio: «Perché lo permetti? Perché non fai qualcosa?». Dio tace. Fatti di cronaca come quello del bimbo morto a Bologna mi inducono alla stessa reazione. So­no i fatti che appartengono alla zona grigia del­l’esistenza, che fanno dubitare della bontà del­la creazione e del creatore. Creatore forse, ma Padre?

Di fronte a questa zona d’ombra però si apre per me lo spazio della compassione, del dolo­re di fronte al dolore altrui: è mio o no? Quan­do vedo una mendicante che trema in ginoc­chio al centro del marciapiede, quel dolore mi interpella.

Posso reagire come Ivan Karamazov che, nella sofferenza degli innocenti, scorge un segno del­l’assenza di Dio e se ne serve per la sua ribel­lione contro il redentore. In fondo però la com­passione di Ivan verso il dolore innocente è la scusa, la teoria progettata da un cuore incapa­ce di amare con i fatti. Egli ama quel dolore non per alleviarne la sofferenza, ma per sé stesso. Senza quel dolore assurdo, non potrebbe star­sene chiuso a casa nel suo cinismo con tanto di certificato medico. Egli ama il dolore altrui, per mettere a tacere la sua coscienza e Dio ed ergersi a giudice. Il mondo è male: cosa posso mai fare io?

Posso non reagire. Facendo finta di non vede­re o non vedendo proprio, se non un ostacolo da superare: l’ennesimo mendicante a intral­ciare la mia strada di uomo fortunato. Perché qualcuno non risolve? Non pago forse le tasse? Un liceale al quale era stato proposto di dona­re il sangue ha risposto: 'Quanto mi pagate?'. La logica del dono è fuori moda: cosa c’entro io con il dolore altrui?

Oppure posso fare come Rilke che s’imbatte in una donna che chiede l’elemosina. L’amico che lo accompagna le dà uno spicciolo, il poeta ti­ra dritto, ma più avanti compra una rosa e di ritorno solleva la donna e gliela regala: va oltre il bisogno materiale, coglie la persona nella sua interezza e agisce 'personalmente' restituen­do dignità alla donna, che almeno quel giorno smise di mendicare.

Quando la zona grigia mi aggredisce, trovo in me questi personaggi. Ma ho pace solo quando provo a fare come il poeta, quando il gesto affronta il bisogno, ma non si ferma lì, offrendo una soluzione che va oltre; quan­do sono io a mettermi in gioco, con il mio es­sere e non solo con il mio avere.

Mi tornano in mente quelle parole di Cristo, che danno ragione della zona grigia, in una logica tanto sorprendente quanto concreta che solo il Dio incarnato raggiunge, l’uomo più uomo degli uomini. Non mi nasconde la zona grigia, ma me ne rivela il senso e la pos­sibilità di illuminarla, coinvolgendomi. Agli ipocriti che criticano lo spreco di un un­guento prezioso per lui, invece di darne il prezzo ai poveri, risponde: 'i poveri li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete'. Questa frase smaschera tutti: cinici, indifferenti o ipocriti compratori della pro­pria pace più che cercatori di quella altrui.

La zona grigia c’è e resta, ma è affidata a noi la capacità di diminuirne l’area, illuminan­dola con la luce del dono personale, fatico­so e possibile solo a patto di avere quella lu­ce: se Dio è amore, chi è in lui può realmen­te donare sé stesso. La storia citata all’inizio si conclude qualche ora dopo, nella notte, quando a quell’uomo che si e­ra adirato con Lui per la po­vera bambina infreddo­lita Dio risponde: 'Certo che ho fatto qualcosa. Ho fatto te'. Per questo: io c’entro con la morte del bim­bo bolognese, con il disagio della sua famiglia. Per questo io resto li­bero e Dio è an­cora Padre.

ALESSANDRO D’AVENIA - Avvenire

lunedì 10 gennaio 2011

Alla ricerca di una convivenza possibile -



di Francesco Ventorino
Ho appena compiuto un pellegrinaggio in Terra Santa alla guida di un gruppo, un piccolo popolo cristiano. I pellegrini erano centocinquanta, tutti amici fra di loro, convocati da un evento doloroso che aveva segnato una delle loro famiglie. L'anno scorso, l'ultimo di quattro figli, un ragazzo di tredici anni, mentre andava in bicicletta, era stato travolto e ucciso da un camion. La sua famiglia, anziché chiudersi nel proprio dolore, era divenuta una dimora nella quale tutti si trovavano bene, tanto che molti vi si recavano per confidare i propri problemi e cercare il senso dell'esistenza, il fondamento di una speranza ragionevole.
Dopo un anno, è maturata la proposta: andare insieme nei luoghi dov'era accaduto quell'avvenimento impensabile che costituiva la sostanza della loro speranza, il Figlio di Dio fattosi uomo per compiere nella sua carne l'obbedienza perfetta al Padre e così vincere nella sua morte l'umana morte.Una prima riflessione, dunque, è stata questa. Un pellegrinaggio nella terra di Gesù si distingue da una gita turistica solo se è generato da una grande domanda sulla verità dell'avvenimento cristiano e quindi da un desiderio appassionato di conoscerne le circostanze concrete, storiche e geografiche, alla ricerca dei "gusti" di Dio. Solo questa disposizione, infatti, consente di inserirsi in quel flusso di pellegrini che soprattutto dal iv secolo in poi hanno cercato in quei luoghi le tracce di Cristo, lasciando testimonianze e indizi, che poi gli archeologi del nostro tempo, per lo più francescani, hanno potuto verificare e documentare con le loro scoperte.

La seconda riflessione riguarda proprio loro, i francescani, che fedeli al carisma del loro fondatore, sono in Terra Santa da ottocento anni, e hanno pagato un caro prezzo di fatiche, di stenti e anche di sangue. Senza la loro presenza, riconosciuta dalla Chiesa con un vero e proprio mandato - quello di "custodire" quei luoghi - noi pellegrini di oggi non sapremmo dove andare, sostare, dove pregare.

Un pellegrinaggio in Terra Santa, poi, se è il cammino di un popolo, non può non visitare quella parte di popolo cristiano che, piccolissima minoranza, vive là dai tempi di Gesù, resistendo a ogni intimidazione e oppressione esterna, e anche all'intima tentazione di emigrare, in cerca di migliori condizioni di vita. Per la maggior parte si tratta di arabi cristiani, che in parte condividono la situazione degli altri palestinesi. In questo contesto non facile, gli ospedali e le scuole cristiane, nonché l'università cattolica di Betlemme, voluta da Paolo vi, svolgono una funzione preziosa e si può ben dire profetica: generando una profonda solidarietà tra cristiani e musulmani, pongono in quel luogo un segno emblematico di convivenza possibile fra diversi per etnia e religione.

S'impongono, poi, quando si va in quella terra benedetta, l'attenzione e la tenace ricerca dell'amicizia nei confronti del popolo ebraico, che alla luce del progetto sionista ha tentato di ridarsi una terra con le proprie mani, facendone uno Stato dove tutti gli ebrei del mondo possano tornare a vivere. Non mancano peraltro, proprio in alcune frange ortodosse, coloro che contestano quest'ultima soluzione, convinti così di mantenersi fedeli alla promessa ricevuta da Dio.

In questa regione, come ci diceva padre Pizzaballa, Custode di Terrasanta, uomini appartenenti a popoli, culture, religioni e riti differenti sono "costretti" a stare insieme. La convivenza li arricchisce a vicenda, ma inevitabilmente genera tensioni tra diritti spesso in conflitto, tra speranze difficilmente conciliabili. Appare qui evidente che la pace del mondo - cioè una giustizia senza censure delle esigenze di tutti e di ciascuno - è un equilibrio che gli uomini non devono smettere mai di cercare, ma nello stesso tempo è un miracolo che solo Dio può compiere.Questa terra, pertanto, dispone, in modo particolare, il popolo cristiano ad attendere il suo Signore. E riesce a carpire il segreto che in essa si annida - la sua singolare posizione rispetto al cosmo e alla storia - soltanto il pellegrino. Il quale porta dentro di sé una grande domanda sul senso della propria vita e il desiderio di divenire certo della propria salvezza.
(©L'Osservatore Romano - 9 gennaio 2011)