martedì 30 settembre 2014

Aforisma di martedì 30 settembre 2014

“Le circostanze spezzano le ossa di un uomo; ma non è mai stato dimostrato che esse spezzino l'ottimismo di un uomo.”

Gilbert Keith Chesterton
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PARELUIS di Martin Buber: "Dove sei tu nel mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?”  
 Havete!
Don Carlo

lunedì 29 settembre 2014

Aforisma di lunedì 29 settembre 2014

“Chiunque sia veramente impegnato nel lavoro scientifico si convince che le leggi della natura manifestano l'esistenza di uno spirito immensamente superiore a quello dell'uomo, e di fronte al quale noi, con le nostre modeste facoltà, dobbiamo essere umili.”

Albert Einstein
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PARELUIS da Qohelet  ( intercettazioni ):  "Non dire male del re, neppure con il pensiero e nella tua stanza da letto non dire nulla del potente, perché un uccello del cielo trasporta la voce e un alato riferisce la  parola ( 10, 20 )”. 
 Havete!
Don Carlo

domenica 28 settembre 2014

Aforisma di domenica 28 settembre 2014

“Ed abbiamo riso di Lui | perché era diverso da noi | non abbiam pensato se Lui | era meglio di noi | non abbiam capito che Lui | era meglio di noi.”

Adriano Celentano
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PARELUIS dall’ art. 23 “Della dichiarazione universale dei diritti umani”: "Ogni individuo ha il diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione”. 
 Havete!
Don Carlo

sabato 27 settembre 2014

Aforisma di sabato 27 settembre 2014

"Prometti a te stesso di parlare di bontà, bellezza, amore a ogni persona che incontri; di far sentire a tutti i tuoi amici che c'è qualcosa di grande in loro; di guardare al lato bello di ogni cosa e di lottare perché il tuo ottimismo diventi realtà”.

Madre Teresa di Calcutta
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venerdì 26 settembre 2014

Aforisma di venerdì 26 settembre 2014

La dignità dell'artista sta nel suo dovere di tener vivo il senso di meraviglia nel mondo.”

Gilbert Keith Chesterton
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PARELUIS  di Eschilo:  "Là dove una storia finisce, può permettersi di ricominciare”.  
 Havete!
Don Carlo

giovedì 25 settembre 2014

Il Papa: no a cristiani vanitosi, sono come una bolla di sapone


Guardiamoci dalla vanità che ci allontana dalla verità e ci fa sembrare una bolla di sapone. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice, prendendo spunto dal passo del Libro di Qoelet nella Prima Lettura, ha sottolineato che, anche quando fanno del bene, i cristiani devono rifuggire la tentazione di apparire, di “farsi vedere”. Se tu “non hai qualcosa di consistente, anche tu passerai come tutte le cose”. Papa Francesco ha preso spunto dal Libro del Qoelet per soffermarsi sulla vanità. Una tentazione, ha osservato, che non c’è solo per i pagani ma anche per i cristiani, per le “persone di fede”. Gesù, ha rammentato, “rimproverava tanto” quelli che si vantavano. Ai dottori della legge, ha soggiunto, diceva che non dovevano “passeggiare nelle piazze” con “vestiti lussuosi” come “principi”. Quando tu preghi, ammoniva il Signore, “per favore non farti vedere, non pregare perché ti vedano”, “prega di nascosto, va nella tua stanza”. Lo stesso, ha ribadito il Papa, va fatto quando si aiutano i poveri: “Non far suonare la tromba, fallo di nascosto. Il Padre lo vede, è sufficiente”:
“Ma il vanitoso: ‘Ma guarda, io do questo assegno per le opere della Chiesa’ e fa vedere l’assegno; poi truffa dall’altra parte la Chiesa. Ma fa questo il vanitoso: vive per apparire. ‘Quando tu digiuni - dice il Signore a questi – per favore non fare il malinconico lì, il triste, perché tutti se ne accorgano, che tu stai digiunando; no, digiuna con gioia; fa' penitenza con gioia, che nessuno si accorga’. E la vanità è così: è vivere per apparire, vivere per farsi vedere”.
“I cristiani che vivono così – ha proseguito - per apparire, per la vanità, sembrano pavoni, si pavoneggiano”. C’è chi dice, “io sono cristiano, io sono parente di quel prete, di quella suora, di tal vescovo, la mia famiglia è una famiglia cristiana”. Si vantano. “Ma – chiede il Papa – la tua vita col Signore? Come preghi? La tua vita nelle opere di misericordia, come va? Tu fai le visite agli ammalati? La realtà”. E per questo Gesù, ha aggiunto, “ci dice che dobbiamo costruire la nostra casa, cioè la nostra vita cristiana, sulla roccia, sulla verità”. Invece, è stato il suo monito, “i vanitosi costruiscono la casa sulla sabbia e quella casa cade, quella vita cristiana cade, scivola, perché non è capace di resistere alle tentazioni”:
“Quanti cristiani vivono per apparire. La vita loro sembra una bolla di sapone. E’ bella la bolla di sapone! Tutti i colori ha! Ma dura un secondo e poi che? Anche quando guardiamo alcuni monumenti funebri, pensiamo che è vanità, perché la verità è tornare alla terra nuda, come diceva il Servo di Dio Paolo VI. Ci aspetta la terra nuda, questa è la nostra verità finale. Nel frattempo, mi vanto o faccio qualcosa? Faccio del bene? Cerco Dio? Prego? Le cose consistenti. E la vanità è bugiarda, è fantasiosa, inganna se stessa, inganna il vanitoso, perché prima fa finta di essere, ma alla fine crede di essere quello, crede. Ci crede. Poveretto!”.
E’ questo, ha sottolineato, è quello che succedeva al Tetrarca Erode che, come narra il Vangelo odierno, si interrogava con insistenza sull’identità di Gesù. “La vanità – ha detto il Papa – semina inquietudine cattiva, toglie la pace. E’ come quelle persone che si truccano troppo e poi hanno paura che le prenda la pioggia e tutto quel trucco venga giù”. “Non ci dà pace la vanità – ha ripreso – soltanto la verità ci dà la pace”. Francesco ha dunque ribadito che l’unica roccia su cui possiamo edificare la nostra vita è Gesù. “E pensiamo – ha affermato – a questa proposta del diavolo, del demonio, anche ha tentato Gesù di vanità nel deserto” dicendogli: “Vieni con me, andiamo su al tempio, facciamo lo spettacolo; tu ti butti giù e tutti crederanno in te”. Il demonio aveva presentato a Gesù “la vanità in un vassoio”. La vanità, ha ribadito il Papa, “è una malattia spirituale molto grave”:
“I Padri egiziani del deserto dicevano che la vanità è una tentazione contro la quale dobbiamo lottare tutta la vita, perché sempre ritorna per toglierci la verità. E per far capire questo dicevano: è come la cipolla, tu la prendi e cominci a sfogliare - la cipolla – e sfogli la vanità oggi, un po’ di vanità domani e tutta la vita sfogliando la vanità per vincerla. E alla fine stai contento: ho tolto la vanità, ho sfogliato la cipolla, ma ti rimane l’odore in mano. Chiediamo al Signore la grazia di non essere vanitosi, di essere veri, con la verità della realtà e del Vangelo”.

Aforisma di giovedì 25 settembre 2014

“Un popolo che non si prende cura dei bambini e degli anziani è un popolo in declino”.

Papa Francesco
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PARELUIS  di Bertrand Russell ( 1930 ):  "La felicità fondamentale dipende più di qualunque altra cosa da ciò che si può chiamare un cordiale interesse per le persone e le cose. Un cordiale interesse per le persone è una forma di affetto, ma non l’affetto avido che tende al possesso”.  
Havete!
Don Carlo

mercoledì 24 settembre 2014

AFORISMA DI MERCOLEDÌ 24 SETTEMBRE 2014

PARELUIS di Nelson Mandela:  "Una buona testa e un buon cuore sono sempre una combinazione formidabile”.  Havete!

Don Carlo
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Come si può mettere la Nona di Beethoven in un diagramma cartesiano? Ci sono delle realtà che non sono quantificabili. L'universo non è i miei numeri: è pervaso tutto dal mistero. Chi non ha il senso del mistero è un uomo mezzo morto.”
Albert Einstei

Aforisma di martedì 23 settembre 2014

PARELUIS di Francesco Bonami:  "Il futuro di solito lo fanno altri ed è meglio aiutarli a costruirlo che provare a impedirglielo. Questo certamente non ci salverà dal provare una terribile  invidia nel vedere l’energia dei giovani farsi avanti, raggiungerci e superarci: il sorpasso è inevitabile”. 
Havete

Don Carlo
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“Fate del bene sempre, del bene a tutti, del male a nessuno.”
San Luigi Orione 


lunedì 22 settembre 2014

«Se si estromette Dio, si finisce per adorare gli idoli , l’uomo smarrisce sé stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati»


Index 




INCONTRO CON I LEADERS DI ALTRE RELIGIONI
E ALTRE DENOMINAZIONI CRISTIANE
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
 Università Cattolica “Nostra Signora del Buon Consiglio”(Tirana)
Domenica, 21 settembre 2014

Cari amici,
sono veramente lieto di questo incontro, che riunisce i responsabili delle principali confessioni religiose presenti in Albania. Saluto con profondo rispetto ciascuno di voi e le comunità che rappresentate; e ringrazio di cuore Mons. Massafra per le sue parole di presentazione e introduzione. È importante che siate qui insieme: è il segno di un dialogo che vivete quotidianamente, cercando di costruire tra voi relazioni di fraternità e di collaborazione, per il bene dell’intera società. Grazie per quello che fate.
L’Albania è stata tristemente testimone di quali violenze e di quali drammi possa causare la forzata esclusione di Dio dalla vita personale e comunitaria. Quando, in nome di un’ideologia, si vuole estromettere Dio dalla società, si finisce per adorare degli idoli, e ben presto l’uomo smarrisce sé stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati. Voi sapete bene a quali brutalità può condurre la privazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa, e come da tale ferita si generi una umanità radicalmente impoverita, perché priva di speranza e di riferimenti ideali.
I cambiamenti avvenuti a partire dagli anni ’90 del secolo scorso hanno avuto come positivo effetto anche quello di creare le condizioni per una effettiva libertà di religione. Ciò ha reso possibile ad ogni comunità di ravvivare tradizioni che non si erano mai spente, nonostante le feroci persecuzioni, ed ha permesso a tutti di offrire, anche a partire dalla propria convinzione religiosa, un positivo contributo alla ricostruzione morale, prima che economica, del Paese.
In realtà, come affermò san Giovanni Paolo II nella sua storica visita in Albania del 1993, «la libertà religiosa […] non è solo un prezioso dono del Signore per quanti hanno la grazia della fede: è un dono per tutti, perché è garanzia basilare di ogni altra espressione di libertà […] Niente come la fede ci ricorda che, se abbiamo un unico creatore, siamo anche tutti fratelli! La libertà religiosa è un baluardo contro tutti i totalitarismi e un contributo decisivo all’umana fraternità» (Messaggio alla nazione albanese, 25 aprile 1993).
Ma subito bisogna aggiungere: «La vera libertà religiosa rifugge dalle tentazioni dell’intolleranza e del settarismo, e promuove atteggiamenti di rispettoso e costruttivo dialogo» (ibid.). Non possiamo non riconoscere come l’intolleranza verso chi ha convinzioni religiose diverse dalle proprie sia un nemico molto insidioso, che oggi purtroppo si va manifestando in diverse regioni del mondo. Come credenti, dobbiamo essere particolarmente vigilanti affinché la religiosità e l’etica che viviamo con convinzione e che testimoniamo con passione si esprimano sempre in atteggiamenti degni di quel mistero che intendono onorare, rifiutando con decisione come non vere, perché non degne né di Dio né dell’uomo, tutte quelle forme che rappresentano un uso distorto della religione. La religione autentica è fonte di pace e non di violenza! Nessuno può usare il nome di Dio per commettere violenza! Uccidere in nome di Dio è un grande sacrilegio! Discriminare in nome di Dio è inumano.
Da questo punto di vista, la libertà religiosa non è un diritto che possa essere garantito unicamente dal sistema legislativo vigente, che pure è necessario: essa è uno spazio comune – come questo –, un ambiente di rispetto e collaborazione che va costruito con la partecipazione di tutti, anche di coloro che non hanno alcuna convinzione religiosa. Mi permetto di indicare due atteggiamenti che possono essere di particolare utilità nella promozione di questa libertà fondamentale.
Il primo è quello di vedere in ogni uomo e donna, anche in quanti non appartengono alla propria tradizione religiosa, non dei rivali, meno ancora dei nemici, bensì dei fratelli e delle sorelle. Chi è sicuro delle proprie convinzioni non ha bisogno di imporsi, di esercitare pressioni sull’altro: sa che la verità ha una propria forza di irradiazione. Tutti siamo, in fondo, pellegrini su questa terra, e in questo nostro viaggio, mentre aneliamo alla verità e all’eternità, non viviamo come entità autonome ed autosufficienti, né come singoli né come gruppi nazionali, culturali o religiosi, ma dipendiamo gli uni dagli altri, siamo affidati gli uni alle cure degli altri. Ogni tradizione religiosa, dal proprio interno, deve riuscire a dare conto dell’esistenza dell’altro.
Un secondo atteggiamento è l’impegno in favore del bene comune. Ogni volta che l’adesione alla propria tradizione religiosa fa germogliare un servizio più convinto, più generoso, più disinteressato all’intera società, vi è autentico esercizio e sviluppo della libertà religiosa. Questa appare allora non solo come uno spazio di autonomia legittimamente rivendicato, ma come una potenzialità che arricchisce la famiglia umana con il suo progressivo esercizio. Più si è a servizio degli altri e più si è liberi!
Guardiamoci attorno: quanti sono i bisogni dei poveri, quanto le nostre società devono ancora trovare cammini verso una giustizia sociale più diffusa, verso uno sviluppo economico inclusivo! Quanto l’animo umano ha bisogno di non perdere di vista il senso profondo delle esperienze della vita e di recuperare speranza! In questi campi di azione, uomini e donne ispirati dai valori delle proprie tradizioni religiose possono offrire un contributo importante, anzi insostituibile. È questo un terreno particolarmente fecondo anche per il dialogo interreligioso.
E poi, vorrei accennare ad una cosa che è sempre un fantasma: il relativismo, “tutto è relativo”. Al riguardo, dobbiamo tenere presente un principio chiaro: non si può dialogare se non si parte dalla propria identità. Senza identità non può esistere dialogo. Sarebbe un dialogo fantasma, un dialogo sull’aria: non serve. Ognuno di noi ha la propria identità religiosa, è fedele a quella. Ma il Signore sa come portare avanti la storia. Partiamo ciascuno dalla propria identità, non facendo finta di averne un’altra, perché non serve e non aiuta ed è relativismo. Quello che ci accomuna è la strada della vita, è la buona volontà di partire dalla propria identità per fare il bene ai fratelli e alle sorelle. Fare del bene! E così, come fratelli camminiamo insieme. Ognuno di noi offre la testimonianza della propria identità all’altro e dialoga con l’altro. Poi il dialogo può andare più avanti su questioni teologiche, ma quello che è più importante e bello è camminare insieme senza tradire la propria identità, senza mascherarla, senza ipocrisia. A me fa bene pensare questo.
Cari amici, vi esorto a mantenere e sviluppare la tradizione di buoni rapporti tra le comunità religiose esistenti in Albania, e a sentirvi uniti nel servizio alla vostra cara patria. Con un po’ di senso dell’umorismo si può dire che questa sembra una squadra di calcio: i cattolici contro tutti gli altri, ma tutti insieme, per il bene della Patria e dell’umanità! Continuate ad essere segno, per il vostro Paese e non solo, della possibilità di relazioni cordiali e di feconda collaborazione tra uomini di religioni diverse. E vi chiedo un favore: di pregare per me. Anche io ne ho bisogno, tanto bisogno. Grazie.
  


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DON ERNEST RACCONTA 18 ANNI DI PRIGIONE IN ALBANIA E 10 DI LAVORI FORZATI. LE LACRIME DI PAPA FRANCESCO

Don Ernest racconta 18 anni di prigione in Albania e 10 di lavori forzati. Le lacrime di Papa Francesco
Secondo appuntamento del pomeriggio ieri a Tirana è stata la celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di San Paolo con i sacerdoti, i religiosi, i seminaristi e i movimenti laicali. Il Papa, visibilmente commosso per le toccanti testimonianze di un sacerdote e di una religiosa che hanno vissuto la persecuzione comunista, ha messo da parte il discorso scritto e ha parlato a braccio.
Due testimonianze molto forti: un sacerdote diocesano, don Ernest, racconta i suoi 18 anni di prigione sotto il regime comunista ateo, i 10 anni di lavori forzati, le torture. Suor Maria, religiosa stimmatina, dice: “non so come abbiamo fatto a sopportare tanto, ma Dio ci ha dato forza, pazienza e speranza”. Il Papa si commuove, fino alle lacrime, e li abbraccia con affetto. Commentando la Lettura dei Vespri, afferma: “non sapevo che il vostro popolo avesse sofferto tanto! Un popolo di martiri”: 
“E noi possiamo domandare a loro: ‘Ma come avete fatto a sopravvivere a tanta tribolazione?’. E ci diranno questo che abbiamo sentito in questo brano della Seconda Lettera ai Corinzi: ‘Dio è Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione. E’ stato Lui a consolarci!’. Ce lo hanno detto con questa semplicità. Hanno sofferto troppo. Hanno sofferto fisicamente, psichicamente, e anche quell’angoscia dell’incertezza: se sarebbero stati fucilati o no, e vivevano così, con quell’angoscia. E il Signore li consolava”.
Papa Francesco ricorda quando i primi cristiani, tutti insieme, pregavano per Pietro in carcere: “Tutta la Chiesa pregava per lui”. E il Signore ha consolato Pietro, i martiri dell’Albania e di ogni luogo e tempo:
“Il Signore li consolò perché c’era gente nella Chiesa, il popolo di Dio - le vecchiette sante e buone, tante suore di clausura… - che pregavano per loro. E questo è il mistero della Chiesa: quando la Chiesa chiede al Signore di consolare il suo popolo; e il Signore consola umilmente, anche nascostamente. Consola nell’intimità del cuore e consola con la fortezza”.
Si tratta di testimonianze – ha proseguito il Papa – che ancora oggi ci dicono qualcosa:
“Che per noi, che siamo stati chiamati dal Signore per seguirlo da vicino, l’unica consolazione viene da Lui. Guai a noi se cerchiamo un’altra consolazione! Guai ai preti, ai sacerdoti, ai religiosi, alle suore, alle novizie, ai consacrati quando cercano consolazione lontano dal Signore! … sappiate bene: se voi cercate consolazione altrove, non sarete felici! Di più: non potrai consolare nessuno, perché il tuo cuore non è stato aperto alla consolazione del Signore”.
“Non scoraggiatevi!” – è stata l’esortazione conclusiva di Papa Francesco – “Dio ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione, con la consolazione con cui siamo stati consolati noi stessi da Dio”. Sergio Centofanti

«Nessuno pensi di farsi scudo di Dio mentre compie violenza!»

Francesco a Tirana con il presidente Nishani
Index 





INCONTRO CON LE AUTORITÀ
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Salone dei ricevimenti del Palazzo Presidenziale (Tirana)
Domenica, 21 settembre 2014

Signor Presidente,
Signor Primo Ministro,
Distinti Membri del Corpo Diplomatico,
Eccellenze, Signore e Signori,
sono molto lieto di essere qui con voi, nella nobile terra di Albania, terra di eroi, che hanno sacrificato la vita per l’indipendenza del Paese, e terra di martiri, che hanno testimoniato la loro fede nei tempi difficili della persecuzione. Vi ringrazio per l’invito a visitare la vostra patria, chiamata “terra delle aquile”, e vi ringrazio anche per la vostra festosa accoglienza.
È trascorso ormai quasi un quarto di secolo da quando l’Albania ha ritrovato il cammino arduo ma avvincente della libertà. Essa ha permesso alla società albanese di intraprendere un percorso di ricostruzione materiale e spirituale, di mettere in moto tante energie e iniziative, di aprirsi alla collaborazione e agli scambi con i Paesi vicini dei Balcani e del Mediterraneo, con l’Europa e con il mondo intero. La libertà ritrovata vi ha permesso di guardare al futuro con fiducia e speranza, di avviare progetti e di ritessere relazioni di amicizia con le nazioni vicine e lontane.
Il rispetto dei diritti umani, - rispetto è una parola essenziale fra voi – il rispetto dei diritti umani tra cui spicca la libertà religiosa e di espressione del pensiero, è infatti condizione preliminare per lo stesso sviluppo sociale ed economico di un Paese. Quando la dignità dell’uomo viene rispettata e i suoi diritti vengono riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza e la personalità umana può dispiegare le sue molteplici iniziative a favore del bene comune.
Mi rallegro in modo particolare per una felice caratteristica dell’Albania, che va preservata con ogni cura e attenzione: mi riferisco alla pacifica convivenza e alla collaborazione tra gli appartenenti a diverse religioni. Il clima di rispetto e fiducia reciproca tra cattolici, ortodossi e musulmani è un bene prezioso per il Paese e acquista un rilievo speciale in questo nostro tempo nel quale, da parte di gruppi estremisti, viene travisato l’autentico senso religioso e vengono distorte e strumentalizzate le differenze tra le diverse confessioni, facendone però un pericoloso fattore di scontro e di violenza, anziché occasione di dialogo aperto e rispettoso e di riflessione comune su ciò che significa credere in Dio e seguire la sua legge.
Nessuno pensi di poter farsi scudo di Dio mentre progetta e compie atti di violenza e sopraffazione! Nessuno prenda a pretesto la religione per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita ed alla libertà religiosa di tutti!
Quanto accade in Albania dimostra invece che la pacifica e fruttuosa convivenza tra persone e comunità appartenenti a religioni diverse è non solo auspicabile, ma concretamente possibile e praticabile. La pacifica convivenza tra le differenti comunità religiose, infatti, è un bene inestimabile per la pace e per lo sviluppo armonioso di un popolo. E’ un valore che va custodito e incrementato ogni giorno, con l’educazione al rispetto delle differenze e delle specifiche identità aperte al dialogo ed alla collaborazione per il bene di tutti, con l’esercizio della conoscenza e della stima gli uni degli altri. È un dono che va sempre chiesto al Signore nella preghiera. Possa l’Albania proseguire sempre su questa strada, diventando per tanti Paesi un esempio a cui ispirarsi!
Signor Presidente, dopo l’inverno dell’isolamento e delle persecuzioni, è venuta finalmente la primavera della libertà. Attraverso libere elezioni e nuovi assetti istituzionali, si è consolidato il pluralismo democratico e questo ha favorito anche la ripresa delle attività economiche. Molti, specialmente all’inizio, mossi dalla ricerca di lavoro e di migliori condizioni di vita, hanno preso la via dell’emigrazione e contribuiscono a loro modo al progresso della società albanese. Molti altri hanno riscoperto le ragioni per rimanere in patria e costruirla dall’interno. Le fatiche e i sacrifici di tutti hanno cooperato al miglioramento delle condizioni generali.
La Chiesa Cattolica, da parte sua, ha potuto riprendere un’esistenza normale, ricostituendo la sua gerarchia e riannodando le fila di una lunga tradizione. Sono stati edificati o ricostruiti luoghi di culto, tra i quali spicca il Santuario della Madonna del Buon Consiglio a Scutari; sono state fondate scuole e importanti centri educativi e di assistenza, a disposizione dell’intera cittadinanza. La presenza della Chiesa e la sua azione vengono perciò giustamente percepite non solamente come un servizio alla comunità cattolica, bensì all’intera Nazione.
La beata Madre Teresa, insieme ai martiri che hanno eroicamente testimoniato la loro fede – a loro va il nostro più alto riconoscimento e la nostra preghiera – certamente gioiscono in Cielo per l’impegno degli uomini e donne di buona volontà nel far rifiorire la società e la Chiesa in Albania.
Ora, però, si presentano nuove sfide a cui dare risposta. In un mondo che tende alla globalizzazione economica e culturale, occorre fare ogni sforzo perché la crescita e lo sviluppo siano posti a disposizione di tutti e non solo di una parte della popolazione. Inoltre, tale sviluppo non sarà autentico se non sarà anche sostenibile ed equo, vale a dire se non terrà ben presenti i diritti dei poveri e non rispetterà l’ambiente. Alla globalizzazione dei mercati è necessario che corrisponda una globalizzazione della solidarietà; alla crescita economica deve accompagnarsi un maggior rispetto del creato; insieme ai diritti individuali vanno tutelati quelli delle realtà intermedie tra l’individuo e lo Stato, prima fra tutte la famiglia. L’Albania oggi può affrontare queste sfide in una cornice di libertà e di stabilità, che vanno consolidate e che fanno ben sperare per il futuro.
Ringrazio cordialmente ciascuno voi per la squisita accoglienza e, come fece san Giovanni Paolo II nell’aprile del 1993, invoco sull’Albania la protezione di Maria, Madre del Buon Consiglio, affidando a lei le speranze dell’intero popolo albanese. Dio effonda sull’Albania la sua grazia e la sua benedizione.
  


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Da periferia a centro del mondo: «Volate alto»

La sua visita ha costretto il mondo a guardare verso questo angolo d'Europa. La testimonianza dei martiri, la libertà religiosa, il grido a non usare Dio per compiere violenza... Ecco cosa è accaduto nel viaggio del Pontefice a Tirana
«Non sapevo che il vostro popolo avesse sofferto tanto». Non sapevo: Papa Francesco, tralasciando il discorso scritto,dopo aver ascoltato le testimonianza drammatiche di un sacerdote e una suora sulle persecuzioni e crudeltà subite da parte del regime comunista, ha puntato gli occhi su chi lo ascoltava e ha ammesso la sua ignoranza sulla storia dell’Albania prima della preparazione di questo viaggio.

Un’ignoranza per altro diffusa non poco oltre i confini di questo Paese che per anni decise di tagliare i rapporti con il mondo. Chi sa di suor Maria Kaleta che pur temendo di essere denunciata, accettò di battezzare una bambina di nascosto, prendendo un po’ di acqua dal fiume con la sua scarpa di plastica? Chi sa che don Ernest Simoni, torturato fin quasi alla morte perché non voleva parlare contro Dio, ha trascorso 18 anni di prigione e dieci di lavori forzati perché era un prete? Chi sa di don Stefen Kurti processato e ucciso solo per aver battezzato un bambino?Chi sa quanti altri sono gli uomini e le donne che l’ateismo di Stato ha cercato di cancellare fino al 1991? Sono solo venticinque anni fa.

Questa periferia, prima tappa europea per questo papa, che ancora una volta ha preferito “i piccoli”, è stata per un giorno il centro dell’attenzione dei media internazionali. Con la sua presenza fisica Francesco ha costretto il mondo a voltarsi per un momento verso questo angolo balcanico, lo ha indicato come un esempio da seguire per la tenacia con cui è rifiorito dopo i decenni del regime comunista. Anche grazie all’impegno inesausto degli uomini delle religioni, cattolici, ortodossi, musulmani sunniti e bektashi, che non hanno smesso di credere insieme nella possibilità di un’Albania libera e aperta alla diversità. Per il papa «troppo spesso viene travisato l’autentico senso religioso e vengono distorte e strumentalizzare le differenze tra le diverse confessioni, facendone scontro di violenza, anziché di dialogo aperto».

A questo proposito, parlando da Tirana a un mondo che sta conoscendo nuove terribili persecuzioni in Medio Oriente, Francesco ha scandito a chiare lettere, nell’incontro con le autorità al Palazzo presidenziale: «Nessuno pensi di poter farsi scudo di Dio mentre progetta e compie atti di violenza e di sopraffazione! Nessuno prenda a pretesto la religione per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita e alla libertà religiosa!».

La lotta tra Io e potere secondo don Giussani di Julián Carrón


 Da "la Repubblica" del 22 settembre 2014, estratti dalla prefazione di don Julián Carrón, presidente della Fraternità di CL, al libro di don Luigi Giussani, "In cammino" (Bur)
«Il supremo ostacolo al cammino nostro di uomini è la “trascuratezza” dell’io. Il primo punto, allora, di un cammino umano è l’interesse per il proprio io, per la propria persona. Un interesse che sembrerebbe ovvio, mentre non lo è per nulla: basta guardare al nostro quotidiano comportamento per vedere quali immani squarci di vuoto della coscienza e di sperdutezza della memoria lo qualificano». Don Giussani è imprevedibile. Chi di noi avrebbe mai detto che il supremo ostacolo al nostro cammino di uomini è la trascuratezza dell’io? A noi tutto il resto sembra più importante di questo. E proprio tale constatazione mostra fino a che punto si è oscurata in noi la percezione del nostro io. Lo affermava nel 1992 don Giussani, identificando in questo oscuramento il segno di una “età barbarica” che avanzava (oggi possiamo riconoscere con più evidenza di dati quanto avesse visto giusto): «Dietro la sempre più fragile maschera della parola “io” c’è oggi una grande confusione». La conseguenza è davanti agli occhi di tutti: «Nessuna disumanità è più grande che far scomparire l’io: è precisamente questa la disumanità del nostro tempo».

In questa situazione tutto sembrerebbe perduto. Ma lo sguardo di don Giussani è diverso. Riesce a vedere nell’io un germoglio che gli altri non vedono. Egli, infatti, ci aiuta a riconoscere che anche in questo contesto resta intatta nell’io, pur così confuso, l’attesa di salvezza, «come dice Adorno; l’uomo attende dalla verità delle cose, comunque la si concepisca, che emerga, nonostante tutto, dentro l’apparenza, oltre essa, l’immagine della salvezza. L’attesa della salvezza è inevitabile».

Ma da dove può venire questa salvezza? Con molto realismo sulla natura sterminata del nostro bisogno, don Giussani invita a riconoscere che «questa salvezza non può nascere da noi, non può essere inventata da noi, né da noi singoli né da tutti insieme. Da dove può venire, allora? «È solo un avvenimento che può rendere chiaro e consistente l’io nei suoi fattori costitutivi. È questo un paradosso che nessuna filosofia e nessuna teoria - sociologica o politica - riesce a tollerare: che sia un avvenimento, non un’analisi, non una registrazione di sentimenti, il catalizzatore che permette ai fattori del nostro io di venire a galla con chiarezza e di comporsi ai nostri occhi, davanti alla nostra coscienza, con limpidità ferma, duratura, stabile».

«Immaginiamoci Andrea e Giovanni, due pescatori rotti alla fatica, senza fantasie eccessive, immaginiamoli mentre vanno con Lui, prima mentre Lo seguono taciti e poi quando vanno con Lui fino a casa Sua: guardandoLo sentivano se stessi, non erano più loro, non erano più quello che erano la sera precedente, non erano più quello che erano la mattina quando sono partiti da casa. Se uno li avesse presi due giorni prima e avesse detto: “Giovanni e Andrea, pensate al vostro io, pensate alla vostra persona”, avrebbero detto: “Beh, speriamo di prendere tanti pesci stanotte, speriamo che mia moglie guarisca, speriamo che i figli crescano bene”, ma non avrebbero mai pensato a quello che hanno sentito; vedendo quell’uomo hanno sentito loro stessi».

Come vediamo, l’avvenimento ha la forma di un incontro umano alla portata di ciascuno. È un incontro che ridesta l’io dalla sua trascuratezza. Per questo dice don Giussani: «L’incontro risuscita la personalità, fa percepire o ripercepire, fa scoprire il senso della propria dignità. E siccome la personalità umana è composta di intelligenza e di affettività o libertà, in quell’incontro l’intelligenza si desta in una curiosità nuova, in una volontà di verità nuova, in un desiderio di sincerità nuova, in un desiderio di conoscere com’è veramente la realtà, e l’io incomincia a fremere di un’affezione all’esistente, alla vita, a sé, agli altri, che prima non aveva».

Ma c’è un inconveniente, direbbe don Giussani: questo avvenimento così pieno di conseguenze deve essere riconosciuto. «Occorre un io che lo accolga». Ma che cosa spinge l’uomo a accoglierlo? Il cuore, la cosa più trascurata eppure più decisiva per fare un cammino umano: «Senza cuore, senza che tu abbia cuore, senza che ti conservi il cuore che ti è stato dato, senza cuore Dio non può far nulla».

Perché questa insistenza sull’io? Perché essere se stessi è l’unica risorsa per frenare l’invadenza del potere. Di fronte al tentativo di spostare l’attenzione sull’azione dell’io nella società, don Giussani ci corregge. «L’unica risorsa che ci resta è una ripresa potente del senso cristiano dell’io. Dico del senso “cristiano” non per un preconcetto, ma perché è solo, di fatto, la concezione che Cristo ha della persona umana, dell’io, che spiega tutti i fattori che noi sentiamo irruenti dentro di noi, emergere in noi, per cui nessun potere potrà schiacciare l’io come tale, impedire all’io di essere io».

Ma che cosa fa riprendere l’io quando si smarrisce? Ecco la risposta di Giussani: «Solo la compagnia tra noi può sostenere lo sforzo, il rischio, il coraggio del singolo. Ma una compagnia che tutta quanta si esaurisca nel sostenere la ripresa del singolo non può esserci, non può essere trovata tra gli uomini, tra gli uomini soli. Occorre la presenza di un Altro, di un uomo che è più che uomo: Dio venuto in questo mondo per coagulare questa solidarietà che rafforzi e renda capace di riprendere continuamente la via al vero e al bene attraverso una fatica comune».

Perciò quello che definisce la compagnia cristiana è la «memoria» di quel fatto. Nessuna rete di protezione, nessun parafulmine o riparo dai temporali della vita. Al contrario, «essere in compagnia significa non lasciarsi fermare di fronte a nessuna negatività, a nessuna negazione, ma anche a nessun sacrificio, a nessuna fatica; e la protensione, la voglia del più grande, del più vero, diventa più importante di qualsiasi altra cosa». 

Le conseguenze del bell'amore.L'intervista integrale all'Arcivescovo di Milano


Il cardinale Angelo Scola.



Dal 5 ottobre i Vescovi di tutto il mondo si ritrovano a Roma a discutere di famiglia. l’anno prossimo, altra tornata sullo stesso tema. Perché al Papa sta così a cuore? E che cosa c’è in gioco, oltre alle questioni di morale e dottrina? Lo abbiamo chiesto al cardinale ANGELO SCOLA. Che rilancia partendo da un fatto: «La vita è una risposta»




Il «bell’amore». Lo chiama così, il cardinale Angelo Scola, con una espressione presa a prestito dalla sapienza biblica. Bruciando in due parole intere paginate di anticipazioni e commenti, di presunti scoop e diatribe più o meno velate, anche tra prelati. Tutti con oggetto il prossimo Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, che a leggere certe cronache sembrerebbe destinato ad affrontare quasi soltanto questioni etiche e giuridiche, come la comunione ai divorziati o la riforma della Sacra Rota. E invece sarà l’occasione per approfondire «un tema che alla Chiesa sta molto a cuore, perché si tratta di riscoprire il valore antropologico dell’esperienza affettiva». Parola dell’Arcivescovo di Milano, che a questi temi ha dedicato diversi saggi come teologo, ma soprattutto se li ritrova davanti in carne e ossa da pastore.
Il sipario si apre il 5 ottobre, con il Sinodo straordinario in Vaticano. Ne seguirà un altro l’anno prossimo. E nei mesi scorsi, nelle Diocesi di tutto il mondo, sono state raccolte opinioni, riflessioni, testimonianze che hanno portato all’Instrumentum laboris, il testo di preparazione.

Eminenza, perché questo Sinodo è così atteso? 
Sulla questione degli affetti è in corso, da almeno vent’anni, una radicale trasformazione dei comportamenti. Basta guardare al modo con cui vivono questa dimensione non solo gli adulti, ma anche i ragazzi, già dalle medie. La Chiesa vuole invitare tutti a riflettere su questa domanda: qual è il vero significato della dimensione degli affetti e dell’amore nella vita dell’uomo e della donna? Quello che viene presentato come un clima di libertà, in cui vige il criterio «fai come ti pare anche in campo sessuale», è davvero adeguato alla crescita della persona, alla prospettiva di felicità delle donne e degli uomini? Questa è la vera ragione dei due Sinodi. Per discutere le questioni etiche o problemi sollevati dalla bioingegneria genetica, che sono di grande importanza perché possono dare a questa trasformazione dei comportamenti una impronta irreversibile, bisogna approfondire un fattore che viene prima. E la Chiesa se ne occupa perché è per sua natura un soggetto educativo.

Dai lavori preparatori emerge quello che lei chiama uno «scarto significativo» tra le affermazioni della Chiesa, anche quando continuano ad essere viste come un ideale, e l’esperienza reale della maggior parte degli uomini. Perché questa distanza? 
Diciamo, anzitutto, che la fragilità umana in questo campo c’è sempre stata. La Chiesa lo sa, e ha sempre risposto proponendo la verità e la pienezza dell’esperienza del «bell’amore». Distinguendo il peccato dal peccatore, essendo molto comprensiva nei confronti del peccatore, ma mettendolo di fronte alla sua responsabilità e chiedendogli dei passi precisi per la riconciliazione e la maturazione. Solo che negli ultimi tempi le cose sono molto cambiate.

Che cosa è cambiato?
È cambiato il costume. I comportamenti oggi vengono platealmente esibiti in nome di una concezione della libertà intesa come insofferenza verso ogni vincolo. E quindi cose che prima sembravano inaccettabili - e che magari anche certi cristiani hanno contribuito, con la loro rigidità, a rendere più pruriginose -, vengono sbandierate come una liberazione.

Eppure il “bell’amore”, il fascino e il desiderio del “per sempre”, è connaturato all’umano. Come si è perso per strada? 
Ormai ho una certa esperienza come Vescovo, incontro spesso i fidanzati. Parlandoci, ci si rende conto che non sono stati molto aiutati a vedere la dimensione profonda dell’amore. Non solo per responsabilità degli uomini di Chiesa. Hanno molto peso la pressione dell’opinione pubblica, i media... Ma troppo spesso si è insistito sul «tu devi» senza motivarlo, senza darne le ragioni. Senza spiegare che questo dovere sgorga dalla bellezza del rapporto intrinseco tra l’affezione che spalanca al dono di sé, all’unità dell’uomo e della donna e al frutto di questo rapporto che è il figlio. Da anni chiamo l’intreccio di questi tre fattori “il mistero nuziale”. Ritengo necessario e liberante riproporre con forza questa visione complessiva.

Ma perché dottrina e pastorale sembrano così separate che ci si deve porre il problema di «coniugarle»? È una preoccupazione che emerge spesso, nelle relazioni affluite per preparare il Sinodo...
È una questione che viene da lontano. Bisogna anzitutto tener conto di un dato: i precetti e le leggi sono per loro natura universali, ma gli atti sono sempre singolari. Quindi l’azione morale deve essere valutata a partire dalla singola persona che compie il singolo atto, e questo dice la difficoltà di ogni etica e anche della morale cattolica. Tuttavia la separazione tra dottrina e azione pastorale è legata a una visione statica dell’uomo: si pensa ancora, con un certo intellettualismo etico, che l’unico problema sia imparare la dottrina giusta per poi applicarla alla vita: «L’autentica dottrina, una volta proclamata, vincerà». Questa posizione, però, non tiene conto di un dato: per il fatto stesso di essere “gettato” nella vita, l’uomo si trova a fare un’esperienza da cui nascono domande, interrogativi. La dottrina, che evidentemente per il cristiano si basa sull’esperienza originaria della sequela di Cristo proposta autorevolmente dal Magistero, deve essere riscoperta come risposta organica ai “perché?” che nascono dall’esperienza. Altrimenti non basta.

Il Papa, in questo, sta dando una spinta forte.
Mi sembra che il Santo Padre abbia visto con chiarezza la necessità di chinarsi sulle ferite dell’uomo anche sotto questo aspetto. Quando invita tutta la Chiesa, attraverso uno dei suoi organismi più importanti come il Sinodo, a riflettere sul significato della famiglia, penso che intenda affrontare questa situazione, con il realismo che gli è proprio, per ridare speranza e fiducia non solo ai cristiani, ma a tutti gli uomini e le donne che vogliano prendere sul serio questa esperienza elementare. La famiglia è un dato comune a tutti, perché ognuno di noi ha dentro di sé il desiderio di essere amato per sempre e vuole imparare ad amare; ognuno di noi si interroga su come questo desiderio possa diventare realtà e ognuno di noi si confronta ogni giorno con le figure dominanti dell’amore e della sessualità nella cultura attuale. Figure che sempre più scambiano il piacere con il vero godimento, il gaudium, quello che sant’Ignazio chiamava «il piacere che dura».

Lei insiste molto, nei suoi interventi, sulla necessità di recuperare l’«orizzonte sacramentale» del matrimonio. Perché è essenziale ribadirlo? Che cosa vuol dire che il matrimonio è anzitutto un Sacramento? 
Per il cristiano - ma se ben inteso questo discorso vale per qualunque esperienza umana - la questione di fondo è se Cristo è il cuore, il “centro affettivo” della mia vita. Se è il motore della mia vita, Cristo mi deve essere contemporaneo. È la grande sfida lanciata da Lessing: «Chi mi aiuterà a superare questo tremendo fossato che mi separa da Cristo vissuto duemila anni fa?». Kierkegaard diceva: «Solo uno che è contemporaneo a me può salvarmi». In che modo Cristo può essermi contemporaneo? La strada ce l’ha indicata Gesù stesso, offrendo alla nostra libertà il Sacramento, cioè il dono permanente della sua Passione, Morte e Resurrezione nell’Eucaristia. Il Sacramento è la possibilità, donatami tutti i giorni, di un’interlocuzione personale con Gesù, che si realizza pienamente nell’Eucaristia, ma che imposta in maniera analogica tutte le circostanze e i rapporti che Dio mi propone lungo una giornata. Rapporti e circostanze sono un «quasi sacramento»: hanno cioè nell’Eucaristia il paradigma pieno, ma sono una modalità con cui Gesù si rende contemporaneo alla mia vita. Allora, da questo punto di vista, cosa diventa l’amore? Cosa diventa il concreto innamorarsi di questa donna? Diventa una pro-vocazione, ovvero una chiamata che un Altro rivolge alla mia libertà, perché io mi coinvolga con Cristo attraverso l’assunzione responsabile di questo innamoramento. Responsabile, perché richiede un lavoro. Ma questa visione sacramentale riguarda tutti. Ogni uomo fa questa esperienza: è il fatto stesso dell’innamoramento a provocarlo ad una risposta, a metterlo in gioco. Non a caso gli amici ironizzano sull’innamorato, perché lo vedono come colpito da qualcosa di nuovo, un po' fuori dal mondo… Insomma capiscono al volo che c’è di mezzo un incontro con qualcuno che lo chiama in causa profondamente. Ecco, questo mi sembra – detto grossolanamente – uno sguardo sul valore sacramentale che è universale.

Non è un sigillo, una «garanzia», ma un rapporto vivo.
Ogni dono è dato alla libertà. Così il sacramento è un dono da accogliere e, come tale, mette sempre in gioco la libertà. Dove non si rischia, non c’è libertà e se si rischia uno deve pagare di persona. Come si paga di persona nell’amore, perché anche tutte le esperienze di amore ferito con cui ci imbattiamo si portano comunque dentro domande, questioni, interrogativi… Nel campo dell’amore niente si dà senza che uno ci metta la faccia e senza che uno ne esca comunque cambiato.

Nel dibattito in corso si considera abbastanza questa dimensione del rischio?
Dalle cose che ho potuto leggere, spero che il Sinodo sia l’occasione per riportare a galla le dimensioni profonde di questo tema, prima di affrontare i problemi pratici che ci sono e di fronte ai quali non ci si dovrà nascondere. Mi preme che venga a galla anzitutto la riflessione su quello che io chiamo il Mistero nuziale, e cioè sulla singolarità dell'esperienza affettiva di ogni uomo. Perché su questo punto c'è un grande equivoco: procedere per generalizzazioni, come se ci fosse il genere degli omosessuali, il genere dei divorziati e risposati… Mentre se c’è un aspetto che è strutturalmente singolare e che va affrontato in maniera specifica e personale da ciascuno è proprio quello della sessualità, dell’affezione, della sua relazione all’amore e alla procreazione. Esiste un processo, un cammino – che una equilibrata psicoanalisi chiama «di sessuazione» –, a cui ogni uomo è chiamato, da quando nasce a quando muore. Nessuno, eterosessuale od omosessuale, può espungere dalla propria vita questa componente sempre drammatica. Ognuno deve farci personalmente i conti, affrontarla per sé, perché ha origine nell’esperienza affettiva primaria dell’io che domanda di compiersi nell’amore dell’altro e per l’altro. Così come, dal punto di vista cristiano dobbiamo approfondire con cura il legame tra l’Eucaristia e il matrimonio, proprio perché l’Eucaristia è l’espressione potente della dimensione nuziale del rapporto tra Cristo e la Chiesa. Come dice la Lettera agli Efesini, l’unione dello sposo e della sposa diventa simbolo dell’unione tra Cristo e la Chiesa. Questi sono temi su cui comunque i Sinodi si concentreranno: proprio per avere un orizzonte abbastanza largo e poter affrontare anche le questioni etiche.

Ecco, a proposito di questioni etiche: in certe prese di posizione sui divorziati risposati non si rischia di fraintendere proprio il legame che lei sta richiamando adesso, tra Eucaristia e matrimonio? Si parte dalle ferite aperte, che certo ci sono, ma a volte sembra che si finisca quasi per reclamare un diritto...
Il problema è complesso. Per affrontarlo in termini realistici, cioè secondo tutta la sua verità, bisogna prima di tutto guardare in faccia la singolarità delle esperienze. Raggruppare nel “genere dei divorziati e risposati” un’esperienza inevitabilmente personale è di fatto qualcosa che va contro la realtà: non guarda in faccia né al processo di maturazione affettiva e sessuale dell’individuo, né al valore dell’Eucaristia come condizione della contemporaneità di Cristo alla mia vita. Inoltre, la dottrina cristiana ha già detto con grande chiarezza che i divorziati e risposati non sono fuori dalla comunione ecclesiale e ha già indicato le molte forme con cui possono partecipare alla vita della Chiesa: sono almeno nove, come dice la Sacramentum Caritatis, anche se non è possibile l’accesso alla Comunione sacramentale. Certo, c’è un po’ da correggere la modalità con cui spesso si è affrontata la questione nella pratica, oscillando tra il lassismo e il rigorismo anziché accompagnare tutti dentro un’esperienza viva di comunione. Penso che si debba e si possa guardare in termini più sostanziali e positivi anche a questo aspetto. L’altra cosa che va valutata bene sono i criteri di verifica di nullità del matrimonio e la modalità con cui questa verifica oggi viene fatta nella Chiesa: forse si possono trovare forme più pastorali. Così come il fenomeno massiccio del distacco da una pratica cristiana consapevole pone anche il problema del peso di un minimo di fede come condizione per contrarre il Sacramento matrimoniale. Bisogna lavorare, capire e trovare le strade rispettose della singolarità nell’esperienza dell’amore e anche del nesso oggettivo tra l’Eucaristia e il matrimonio.

L’altro grande dibattito che incrocia i temi sinodali è quello sulle unioni omosessuali. Non vorrei tanto entrare nel merito del perché, secondo la Chiesa, la differenza sessuale è una componente essenziale del legame familiare, quanto sottolineare un paradosso: perché, secondo lei, tante associazioni di omosessuali reclamano il diritto al matrimonio? Questo desiderio di vedere riconosciuta come matrimonio una relazione è solo una richiesta di tutele economiche e legali o ci dice altro?
È la conferma di un dato che io richiamo spesso: non è il matrimonio ad essere in crisi, infatti si vogliono sposare tutti… Quello che è in crisi è il bell’amore. È la capacità di vedere che non è vero che quando in un rapporto affettivo subentra il dovere finisce il volere. Non è vero che quando subentra il compito finisce il desiderio. Ritorniamo al fatto che la fragilità nel vivere l’esperienza amorosa è in realtà una fragilità antropologica. Si tende a non dare più la risposta alla grande domanda: «Chi è l'uomo?». E soprattutto, «chi vuole essere l’uomo del Terzo millennio?». Un io-in-relazione o semplicemente l’esperimento di se stesso? Per rispondere, bisogna risalire al problema dell’educazione.

Qual è il compito dei cristiani in tutto questo? Dall’Instrumentum laboris emerge la necessità di «testimoni». Ma cosa vuol dire testimoniare la bellezza del matrimonio?
Vuol dire fare quello che ancora tanti giovani fanno, cioè accettare di consegnare la riuscita della propria vita, che è la santità, alla strada che il Signore - attraverso dei segni precisi - ci indica come la via privilegiata per raggiungere questo compimento. Si tratta di testimoniare che si può amare così, maturando pazientemente, nella fatica e magari nella contraddizione, la dimensione affettiva della propria esistenza, compresa la dimensione sessuale, punto di partenza per spalancare la relazione con l’altro. Egli deve essere scelto ed amato per sé e in sé, aperti ad accettare il frutto di questo amore, secondo l’acuta intuizione di Von Balthasar: per capire fino in fondo che cos’è l’atto sessuale – egli afferma – occorrerebbe «saltare la distanza del tempo circa l'esito del frutto di questo atto». Ovvero, bisognerebbe capire che l’elemento unitivo e l’elemento procreativo sono contenuti nell'atto stesso del rapporto coniugale. Di qui l'urgenza di una testimonianza che è ben di più del buon esempio: è un modo di conoscere la realtà - in questo caso la realtà del bell’amore - e di conseguenza di comunicarla nella sua verità.

Il che non vuol dire ritirarsi in sacrestia: sottolineare che la chiave di volta è la testimonianza non implica il disinteresse per il dibattito pubblico, la politica, l’impegno a far sì che le leggi siano le migliori possibili...
Pensare che le due cose siano in alternativa nasce da un equivoco con cui si guarda alla testimonianza: come “buon esempio” e basta, appunto. Siccome la testimonianza parte dalla persona, dal soggetto, la si soggettivizza, la si ritiene un fatto privato. Ma la testimonianza assume di per sé anche quelle forme concesse dal diritto che sono diverse secondo la società in cui uno vive. Se siamo in una società plurale, questo tipo di testimonianza può battere le strade previste in democrazia e dare vita anche a proposte legislative, a pubblico dibattito, se è il caso a manifestazioni. Si tratta di decidere di volta in volta ciò che è proporzionato al compito, tanto più decisivo in una società plurale, di offrire la propria visione delle cose al libero confronto in vista di un riconoscimento reciproco, perché questo è costruire una democrazia. In questo contesto è, inoltre, fondamentale approfondire il valore sociale dell’obiezione di coscienza. Mi auguro che questo tema diventi occasione di un proficuo dibattito.

Due anni fa Benedetto XVI venne a celebrare la Giornata della Famiglia proprio a Milano: che frutti hanno portato quei giorni?
Anzitutto nel gesto in sé. Sia nell’assemblea che nella Messa molte famiglie, con semplicità e purezza hanno testimoniato, appunto, la bellezza della loro esperienza. Lì si è visto quanto sia fecondo l’amore familiare: penso all’impegno con chi è nel bisogno, all’adozione, all’accoglienza. Ma da lì sta nascendo anche un ripensamento della famiglia all’interno della proposta cristiana. Le famiglie stanno diventando sempre più – per usare un'espressione “ecclesia lese” – un “soggetto della pastorale” e non più solo un “oggetto della pastorale”. Nelle parrocchie, o nei gruppi e movimenti, lo tocco con mano: c’è una grande fraternità, le famiglie si aiutano molto tra di loro. Certamente si tratta di qualcosa che c’era anche prima, ma l’Incontro mondiale di Milano lo ha aiutato. Un altro fatto assai bello sono i gemellaggi tra famiglie lombarde e famiglie greche.

Ma se lei avesse davanti, ora, due giovani che le chiedono perché vale  la pena sposarsi, che cosa direbbe loro?
Che la vita è sempre una risposta. Se l’uomo non si autogenera, e non potrà mai farlo, se vengo da un Altro, allora devo farci i conti, devo rispondere. E dato che la vita - al di là di tutte le scoperte scientifiche - è breve ed è una sola, allora bisogna scoprire come l’esperienza della relazione e dell’amore ne sia il fondamento, perché l’amore vince la morte. Io sono chiamato a svolgere, lungo tutta la mia esistenza, la promessa contenuta nel bene di essere stato messo al mondo - con tutte le contraddizioni, le fatiche e via dicendo - affinché possa succedere quello che io vedo tutte le volte che vado in una parrocchia. Alla fine della messa, c’è sempre qualche coppia di anziani che, sorridendo, mi fa: «Eminenza, cinquant’anni di matrimonio, sessant’anni di matrimonio...». Penso che un’esperienza così sia formidabile, incomparabilmente più appagante di quella di chi ha cambiato dodici partners nella vita. Per questo dico ai giovani che ne vale la pena. Vadano alla ricerca di questi testimoni: non mancano!

Lei parla spesso della sua famiglia. Che cosa le è rimasto dell’educazione ricevuta dai suoi genitori, della vita che si respirava in casa?
La cosa più importante che ho visto nei miei genitori, forse, è il pudore degli affetti. Poche parole, poche smancerie e una dedizione totale ai figli, perché potessero essere e diventare uomini, e avere più carte di loro. Per esempio, lo studio. E ospitale apertura agli altri. E poi, i miei genitori erano complementari. Mia mamma era una donna di fede acuta e robusta, molto attaccata alla Chiesa e alla tradizione; mio padre era un po' lontano dalla Chiesa, ma molto appassionato alla giustizia e alla politica. Direi che mi hanno dato il gusto di tutte e due le cose.
 Davide Perillo

Aforisma di lunedì 22 settembre 2014

Il mondo non languirà mai per mancanza di meraviglie,ma soltanto quando l'uomo cesserà di meravigliarsi.”

Gilbert Keith Chesterton

domenica 21 settembre 2014

Aforisma di domenica 21 settembre 2014

“Chi non ammette l'insondabile mistero non può essere neanche uno scienziato.”

Albert Einstein
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PARELUIS di Marc Chagall: "Se tu esisti, rendimi azzurro, focoso, lunare, nascondimi nell’altare della Torah, fa’ qualcosa, Dio, in nome di noi, di me”. Chagall diventa impaziente e sfrontato col suo Dio, sentito come troppo lontano, a lui sempiternamente crocefisso. La sua pittura esprime dubbi, molti, continui, ulceranti. Havete

Don Carlo

sabato 20 settembre 2014

Aforisma di sabato 20 settembre 2014

PARELUIS di M. Proust:” Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere occhi nuovi”.  Havete!
Don Carlo
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…sempre convinti, anzi curanti, che questa Nostra dimora romana per nulla contrasti alla sovranità e alla libera espansione della vita civile italiana; Noi vogliamo anzi credere che la Nostra presenza sulla sponda del Tevere non poco conferisca all’amore e all’onore del nome di Roma in tutta la terra”.

Paolo VI, nella lettera a Giuseppe Saragat, presidente della Repubblica italiana 18 settembre 1970, nel centenario della Presa di Porta Pia

venerdì 19 settembre 2014

«Il tuo amore è pane per il mondo»Il messaggio dell'Arcivescovo cardinale Angelo SCOLA per la Giornata del Seminario

cardinale Angelo Scola
Carissimi fedeli,


la presenza del Seminario di Venegono nella nostra Diocesi ricorda costantemente a tutti noi, fedeli ambrosiani, che il solo pane capace di saziare definitivamente il cuore di ogni uomo è Dio stesso che, per lo Spirito, si dona con amore sconfinato in Cristo Gesù.
Come ebbi occasione di ricordare nel Discorso di Sant’Ambrogio dell’anno scorso, il tema di Expo2015, «Nutrire il pianeta energia per la vita», costituisce una straordinaria occasione per riflettere su talune questioni centrali dell’esistenza: «Alimentazione, energia, pianeta, vita. Ciascuna forma di vita ha bisogno di energia. Il nesso vita-alimentazione, a sua volta, incide sullo sviluppo del pianeta. Questa complessa circolarità chiama in causa una quinta parola chiave: l’uomo».
Anche coloro che ogni anno bussano alla porta del nostro Seminario si pongono domande su questi argomenti. Essi hanno intuito che seguire Cristo nella vita presbiterale nutrirà quel desiderio di pienezza che caratterizza il cuore umano. Di fronte a una società troppo spesso dimentica delle proprie responsabilità e affannata nella ricerca del potere e del dominio, si impone la testimonianza di questi giovani che, chiamati dal Signore, hanno voluto rispondere liberamente di sì.
I seminaristi abbandonano la cerchia della famiglia e dei rapporti quotidiani di lavoro per mettersi alla sequela di Gesù, seguito e amato come il centro affettivo, come nutrimento essenziale ed esistenziale per il cammino. L’intera comunità seminaristica ricorda a tutti noi che la vita non si esaurisce nella sola dimensione materiale, nel “mordi e fuggi” del sentimento e dell’emozione da soddisfare sotto l’impulso del benessere. Ogni seminarista intraprende un cammino di educazione del desiderio umano all’ideale che è Cristo.
Siamo grati al Signore per il dono di questi fratelli, vogliamo pregare per loro e siamo chiamati, nella misura delle nostre possibilità, a sostenere anche economicamente le spese del Seminario, impegnato nell’opera di ristrutturazione dell’ex liceo, in seguito alla riunificazione delle due comunità nell’unica sede di Venegono.
Il Seminario ci ricorda anche che questo nutrimento essenziale ed esistenziale che è l’amore di Dio non è un dono individuale, ma pane da spezzare, alimento da condividere convivialmente, destinato a sfamare tutto il campo che è il mondo. Nel Seminario, infatti, l’amore di Cristo è gustato e vissuto all’interno di una vita comunitaria, imponendosi come unica ragione capace di unire persone di diverse età e diverse provenienze. Questi giovani, impegnati nella verifica della loro vocazione e nella formazione al ministero presbiterale, ci spingono a un cambiamento di mentalità, dove la ricerca del vero, del bello e del buono dev’essere sempre condivisa nella comunione con gli altri fratelli per una crescita del bene comune.
L’amore di Cristo è un nutrimento che non va risparmiato, non va tenuto per sé, ma cresce solo con l’essere donato. Per questo i seminaristi sono chiamati alla missione sin dai primi anni di Seminario: all’inizio solo per qualche giorno nei nostri oratori e, una volta ordinati, nelle parrocchie in cui il Vescovo li manda. Il dono della vocazione è compito per il mondo.
I futuri presbiteri saranno chiamati un domani, con la grazia di Dio, a nutrire la nostra Diocesi con il dono di tutta la loro vita, portando quel pane sostanziale che è l’Eucaristia, il pane del Suo perdono, il pane della Sua Parola fino alle periferie materiali e esistenziali della nostra Diocesi. Saranno chiamati alla custodia e alla cura di tutti, specialmente dei bambini, degli anziani e di coloro che spesso si trovano ai margini del cuore del mondo.
Il nostro Seminario, in particolare in quest’anno dell’Expo 2015, davvero ci richiama all’amore di Cristo, il solo che può nutrire il mondo, perché può saziare il cuore di ogni uomo su questa terra. Per questo invito ognuno a «nutrire» a sua volta il Seminario: con la preghiera, con l’aiuto economico e magari - mi rivolgo ai più giovani - con la propria vita. Come non mi stanco mai di ripetere, ogni ragazzo, che abbia avvertito in cuor suo la possibilità di dedicare totalmente la propria vita a Cristo, è invitato dall’Arcivescovo a intraprendere un cammino di verifica di tale intuizione, parlandone con una persona di fiducia, come un educatore, un religioso o un sacerdote. Non c’è niente di più bello di una vita che sia, a immagine di Cristo, pane spezzato per la vita del mondo.
Auguro a tutti un buon cammino.

Chagall e il nostro desiderio d’infinito. L’arte svela il rapporto tra uomo e Dio


L’articolo che l’Arcivescovo ha scritto per il «Corriere della sera» in occasione dell’inaugurazione delle mostre allestite a Palazzo Reale e al Museo Diocesano di card. Angelo Scola 
La Mostra «Marc Chagall e la Bibbia», sezione del Museo diocesano all’interno della retrospettiva Chagall allestita a Palazzo Reale, mi riporta ad alcune suggestioni nate in me a partire dall’occasione, avuta qualche anno fa, di visitare una ricca mostra su Chagall, alla Fondazione Gianadda di Martigny. Non si può comprendere Chagall senza tener conto della sua ricerca inesausta intorno al tema del rapporto tra l’uomo e Dio. Le gouaches a tema biblico sono come il primo passo di questa ricerca, la sua prima intuizione. Attraverso il colore, la velocità del tratto, l’immediatezza espressiva, esse comunicano tutta la vibrazione dell’umano desiderio d’infinito. Nella creazione artistica di Marc Chagall, infatti, non è la narrazione che conta. Prevale l’effetto visivo di forme e colori che sembrano danzare nello spazio. La sua pittura diventa provocazione alla libertà di ogni uomo, anche ad una visione del mondo senza Dio.
Il mistero
Chagall conduce al mistero. La parola mistero però, come egli stesso chiarì esplicitamente, non rimanda alla sfera del non ancora noto che stimoli l’immaginario, ma alla profondità dello spirito: «Tutto il nostro mondo interiore è realtà, forse ancora più reale del mondo apparente». Nasce da qui nell’artista l’interesse vivissimo per la Bibbia, fonte inesauribile d’ispirazione per la sua vita prima che per la sua arte. «Mi sono riferito a quel grande libro universale che è la Bibbia. Fin dall’infanzia, mi ha riempito di visioni sul destino del mondo e mi ha ispirato nel mio lavoro. Nei momenti di dubbio, la sua grandezza e la sua saggezza altamente poetiche mi hanno quietato. Essa è per me come una seconda natura». Nella lunghissima esistenza di Chagall, che ha percorso l’intera drammatica parabola del XX secolo, la figura di Cristo crocifisso è ricorrente. Questo dato dice che il pittore riconosce nel Crocifisso un nucleo incandescente per l’interpretazione dell’umano. Ed il Crocifisso è ancor più tale per il travaglio dell’uomo moderno. Si può vedere nelle raffigurazioni di Cristo crocifisso la risposta cristiana al problema della sofferenza.
Il discorso sul dolore
Ma tale risposta non è una spiegazione. Gesù Cristo, il Figlio fattosi uomo per noi, Colui che poteva non morire, non fa un «discorso» sul dolore ma lo assume tutto su di sé. Così «inghiotte» da sotto «la morte per la vittoria», come suggerisce San Paolo (1Cor 15,54) riprendendo il profeta Osea. In obbedienza alla volontà del Padre, si consegna sponte (Anselmo) alla morte non solo per solidarietà con ogni donna ed ogni uomo, ma «al posto» di essi. Non solo con noi, ma per noi. La Sua è una morte veramente singolare, diversa dalla comune morte. La Sua morte è vittoria sulla comune morte. Guardando Crocifissione messicana (1945) sorprende la partecipazione degli animali, del cosmo, della «città» tutta al ludibrio della croce, ma ancor più attira l’abbraccio, in primo piano, delle due donne. Tenerezza nel dolore che anticipa, almeno per la sensibilità cristiana, la natura gloriosa della croce, l’«esaltazione della croce». È facile passare allora alla Creazione dell’uomo (1956), ove, portandolo in braccio, Dio gli dona il soffio della vita. La tenera misericordia del creatore fin dall’inizio tiene l’uomo vicino al cuore e nell’abbandono del Crocifisso, misericordia personificata, accoglie l’istanza di ciascuno di noi di fronte all’ombra sempre incombente della nostra morte che si fa domanda. La supplica ardente di Rilke che invoca per ciascuno «la sua morte, la morte che fiorì da quella vita in cui ciascuno amò, pensò, e sofferse».