venerdì 30 novembre 2012

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 28 novembre 2012

All'origine della pretesa cristiana


Testo di riferimento: All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, pp. 71-84; Lettera
alla Fraternità, 1 novembre, 2012.
• Il giovane ricco
• What wondrous love is this?
Gloria
Abbiamo a tema due testi: il capitolo sesto de All’origine della pretesa cristiana e la mia lettera alla Fraternità. Il capitolo ha come argomento la pedagogia di Gesù. Potremmo leggere questo capitolo soltanto come qualcosa che riguarda il passato, come una bella descrizione di che cosa è successo ad altri (invece sono curioso di sapere come lo avete letto, ciascuno di voi), ma la lettera ci impedisce di soccombere a questo rischio, ci impedisce di partire da altro che non sia l’unico punto che abbiamo a disposizione, cioè il presente. E per questo voglio iniziare da alcuni vostri contributi legati alla lettera, perché è solo dal presente che possiamo entrare nel capitolo. Nella lettera partivo dall’esperienza fatta al Sinodo. All’apertura dell’Anno della Fede il Papa aveva detto che la fede non è più un presupposto ovvio, e quindi che il deserto in cui ci troviamo non può fiorire semplicemente grazie a una strategia un po’ più scaltra (fin lì ci si arriva: non basta migliorare la strategia della comunicazione pastorale) e perciò occorre la conversione. Ma subito uno si chiede che cos’è la conversione, perché con la stessa parola “conversione” possiamo descrivere situazioni diverse; anche i farisei parlavano della conversione, erano tesi a compiere i seicento e passa precetti, erano disponibili a tutte queste pratiche, ma – come noi – non erano disponibili alla vera conversione: cedere a una Presenza presente. Tutta la resistenza che abbiamo visto, e che vediamo nel capitolo  sesto, dice qual è la novità (con cui  alcuni di voi hanno familiarità perché stanno leggendo il libro. La conversione al cristianesimo nei primi secoli, in cui Bardy descrive proprio questa differenza tra ogni altro modo di concepire la conversione e la conversione cristiana). 
Allora anche tra di noi possiamo pensare alla conversione, diciamo, in modo farisaico: 
disponibili a cambiare qualcosa; ma secondo la nostra immagine e le nostre idee. 
Se facciamo così, allora ritorniamo a porre la nostra speranza nel migliorare quello che noi
siamo in grado di migliorare, e non nel convertirci a qualcosa di presente.  
Per  sottolineare che questo non è un problema del passato, nella lettera, a un certo punto, 
cito don Giussani: all’inizio non fu così, all’inizio «il Movimento è nato da una presenza che
si imponeva», come per il popolo di Israele all’inizio era 
una presenza che si imponeva, ma poi come mai ci siamo affidati, come loro, all’organizzazione, ai 
piani pastorali? Perché non ci rendiamo conto che la conversione coincide con la sequela: «Affinché la nostra vita possa essere così cambiata, occorre la nostra disponibilità alla conversione, cioè alla sequela». E che cos’è la sequela (per non fare con altre parole la frittura solita)? «La sequela è il desiderio di rivivere l’esperienza della persona che ti ha provocato e ti provoca con la sua presenza nella vita della comunità, è il desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro, ed è a questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri, cui vuoi aderire, dentro questo cammino». Allora la prima domanda che mi ha fatto  uno di voi  è proprio questa, riguarda il seguire: «Mi ha colpito che nella lettera che ci hai  inviato (e di cui ti ringrazio tantissimo) due volte si ripete: “Rivivere l’esperienza della persona che ti ha provocato”, e “solo chi è disponibile a seguire un maestro, cercando di riviverne l’esperienza, potrà dare un contributo all’altezza della situazione”. Allora, mi puoi aiutare a capire cosa vuol dire questo rivivere l’esperienza di un  altro?».  Per rispondere  – è meglio farlo con le testimonianze che con le spiegazioni  – vi leggo questa lettera: «Ti scrivo per raccontarti ciò che mi è successo in seguito all’ultima Scuola di comunità. Mentre ascoltavo ciò che tu dicevi, tutti gli interventi che si 
succedevano, ero profondamente colpita e commossa, ma a un certo punto qualcosa mi ha 
2
disturbata, per la precisione quando hai detto: “Anche se tu affermi fino all’infinito qualcosa di te,
non è questo che ti compie, perché quello che ti compie è riconoscere l’infinito. È soltanto questa la vera affermazione di te, che ti rende libera dall’ottusità dell’amor proprio e  che  ti consente di 
obbedire”. E io mi sono sentita travolta da queste parole. Travolta perché le ho avvertite come 
estranee, come  astratte. Tutto ciò che avevo sentito fino a un secondo prima, che mi aveva 
sinceramente colpita e commossa, non teneva più. Ero disorientata. Ti dico che lavoro ha innescato questo in me, l’avventura che questo ha generato. All’inizio non capivo bene cosa mi avesse così disorientata, fingevo, anzi, di non avvertire questo disagio, cercavo di lasciarlo da parte. Il resto era stato bello, no? Allora perché non accontentarmi? Perché non mi bastava? Mi facevo dei problemi inutili? Ma in fondo al cuore sapevo quale fosse stato il punto di rottura, ovvero quando avevi detto: “Anche se tu affermi all’infinito qualcosa di te, non è questo che ti compie”. Io avevo immediatamente pensato al mio ultimo esame, all’ingiustizia che avevo subito essendomi stato dato un voto che non meritavo. Dentro di me avevo subito obiettato: cosa c’entra il fatto di aver preso un venticinque anziché trenta con il fatto che sono fatta per l’infinito? Mi sembrava astratto, eppure io come so bene che sono fatta per l’infinito, quante volte l’ho visto e saputo! Ma di fronte a quel fatto non c’era niente di più astratto, non teneva. Poi tu hai detto: “A noi sembra astratto rispetto a tutto quello che abbiamo in testa, e ci sembra più concreto riuscire, rimanendo vuoti”: esattamente ciò che pareva a me. Un particolare come quel voto ingiusto, minimo rispetto ai grandi problemi della vita, mi pareva molto più concreto dell’essere fatta per l’infinito. Questa obiezione pian piano ha insinuato in me un dubbio su tutta la mia vita: l’essere fatta per l’infinito cosa c’entrava con quel particolare? Cosa c’entra con i problemi di tutti i giorni? Il giorno seguente, così, questo tarlo mi ha impedito letteralmente di godere ciò che avevo tra le mani, e arrivando a casa la sera, prima di addormentarmi, mi sono domandata: perché sono così infinitamente triste? Ero stufa di esserlo. A quel punto allora ho pregato Lui, ma come può una figlia pregare un padre: mi lascerai finire la mia giornata così? Non mi verrai a prendere? E ho iniziato a riguardare tutta la mia giornata, dalla messa la mattina all’aver seguito un corso che mi appassionava, dal vedere il volto di un amico alla cena inaspettata preparatami da mia nonna; era stata una giornata piena di bellezza, eppure io ero triste, immensamente. Allora all’improvviso mi sono accorta: se tutti questi fatti belli non mi hanno riempito il cuore oggi, è vero che io sono fatta per l’infinito. Nulla di più bello e giusto vissuto fino a quel momento mi aveva fatto respirare. Solo l’accorgermi della capacità del mio cuore, irriducibile a tutto ciò che a me sembrava quello che chiamavo concreto, solo l’accorgermi di essere io questo rapporto con un Tu, mi ha improvvisamente liberata e riempita di una gioia senza pari. 
Non è stato un ragionamento  – un ragionamento non  riempie mai il cuore  –, è stato un 
riconoscimento; pur pensandomi in un modo mi sono scoperta in un altro, anzi, mi sono piegata a 
riconoscere ciò che si svelava come vero nella mia esperienza, ho scoperto cioè la mia vera natura. Ecco perché tutto ciò che avevo sentito prima alla Scuola di comunità non bastava, dovevo arrivare a giudicare fino a lì, perché un dubbio (almeno nella mia vita) non rimane mai circoscritto e in poco tempo si prende tutto e alla fine uno, non si sa come, si scopre scettico. Ma il dubbio ha sempre un’origine in un punto preciso che chiede, urla di essere guardato. Non è che io non avessi bisogno di quei fatti belli, ma avevo bisogno di un rapporto con Chi me li donava; senza quel rapporto quei fatti rimanevano muti. Questo, che può sembrare un fatto senza molta rilevanza, mi ha invece introdotto al metodo che tu ci stai indicando da tanto tempo, e ora la frase: “Tu sei fatta per l’infinito” non mi risulta più astratta, perché la posso ricondurre a un’esperienza reale che nessuno mi potrà mai più togliere. L’altra conseguenza di questo è l’accorgermi che io sono stata fatta bene, bene perché anche se io riduco me e la realtà, tutto di me e della realtà riapre continuamente per farmi riconoscere ciò che sono realmente. Banalmente mi penso in un modo e soffoco, e mi scopro in azione in un altro e respiro. Non ti sarò mai abbastanza grata del richiamo che tu sei continuamente per la mia vita, grazie.  Post scriptum: non so ancora perché io abbia preso venticinque, anziché un voto più alto  come forse avrei meritato, ma se la ferita che tale fatto ha generato ha portato a farmi accorgere di ciò che ti ho appena raccontato, benedetto venticinque!». 
Ecco, se adesso leggiamo la descrizione che Giussani fa dell’esperienza vi renderete conto  che è
3
diverso ripetere una frase che ci sembra costantemente astratta  rispetto  l’immedesimarci con 
un’esperienza. Seguire non è ripetere la frase di don Giussani, non è attaccarsi a una persona 
sentimentalmente o personalisticamente, perché questo attaccamento  personalistico è la modalità 
con cui noi nascondiamo la nostra mancanza di sequela, che invece è rivivere l’esperienza della 
persona che ti ha provocato. E qual è la persona che ha provocato tutti noi? La persona di Giussani:
seguendolo, a che cosa ci conduce? «Il desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella 
quale ti è portato qualcosa d’Altro». Se per noi seguire la persona che ci ha provocato non giunge 
fino a rifare e a rivivere la sua esperienza, noi non seguiamo, anche se diciamo di seguire. Non lo 
dico come un rimprovero; è perché poi non possiamo lamentarci che non succeda quello che 
descrive lui! Basta che uno si prenda tutto il tempo di cui ha bisogno per farlo, senza scandalizzarsi, e capisce dove porta: «Partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro, ed è questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri». La nostra aspirazione è a questo Altro, non alla persona che mi introduce a questo Altro. Se io mi blocco lì, se io mi fermo lì, io non seguo e quindi non faccio l’esperienza,  e  per questo  continuo a dire che è astratto, perdendo tempo in continuazione. Solo uno che fa tutta questa esperienza può rendersi conto  che il Mistero è così concreto, come ha descritto questa lettera, è radicalmente concreto, tanto che se non trovo una risposta, io non respiro, io sono stufo, io sono triste. È così concreto il Mistero che non possiamo vivere niente senza fare il paragone tra questo essere fatti per l’infinito e quel che troviamo; altro che astratto, è la cosa più concreta! E se noi non capiamo questo, se non stabiliamo un paragone tra quello che desideriamo e ogni fibra dell’essere che è fatta per l’infinito, qualsiasi cosa incontriamo ci delude, non capiamo e ci arrabbiamo con noi stessi perché ci sembra tutto ingiusto. Invece niente è più reale, più concreto, più radicale del fatto di essere fatti così, per l’infinito, in ogni fibra dell’essere. Questo è rifare l’esperienza, che è molto diverso dal fare un discorso sull’esperienza, lo vediamo subito dal respiro che provoca. È questo che dicevo la volta scorsa parlando di san Pietro, di quando ha tirato fuori la spada per difendere il suo Amico.  E una di voi mi dice: «Ma che commento hai fatto?! Pietro non si è mosso per cattiveria, come noi non ci muoviamo per cattiveria tante volte pensando di seguire, come uno che si attacca a un altro, si muove per un’affezione a quest’altro, non è cattiveria; voleva difendere l’Amico secondo la sua misura e io avrei fatto forse uguale, anzi, tante volte agisco mossa da un’idea buona, ma poi il risultato non lo è altrettanto. 
Dov’è l’inghippo?» Dov’è l’inghippo? Dobbiamo tornare di nuovo costantemente a Gesù, al 
dialogo di Gesù con Pietro, perché una volta che lui ha detto: «Tu sei il Messia», subito ha pensato 
che aveva già colto la questione;  e appena  Gesù  ha incominciato a parlare della passione ha 
esclamato: «No, questo no, per carità, ci mancherebbe!». Allora Gesù (Gesù!), che non vuole che si attacchi a Lui sentimentalmente, ma che vuole introdurre all’esperienza che Lui  fa, reagisce: 
«Pietro, allontanati da me, perché tu pensi come gli uomini e non come Dio. Se tu vuoi essere con 
me, tu devi fare la mia esperienza, tu devi entrare fino a lì, altrimenti potrai dire che sei attaccato a me, ma tu non mi segui, e quando tu cerchi di difendermi con la spada tagliando l’orecchio al primo che passa, tu dici che lo fai per difendere me. Io non ho bisogno di questa difesa, Io ti sfido di nuovo a che tu faccia la mia esperienza. Ma non ti rendi conto che mio Padre ha legioni di angeli, che potrebbe metterli in campo e “asfaltare” tutti? Ma a me non interessa questo, ma che tu faccia la mia esperienza». E quando  i due di Emmaus si scandalizzano: «Ma voi non capite che doveva succedere tutto questo?». Il Vangelo usa il termine greco dein, cioè «era necessario» che succedesse questo (che è una modalità di dire Dio). Allora seguire non è soltanto attaccarci
personalisticamente, perché Gesù non lo vuole, non vuole questo tipo di attaccamento, e se vuole 
attaccare a sé i discepoli, come ci ha insegnato sempre don Giussani, è per condurli al Padre. Non 
gli basta l’attaccarli a sé. Perché? Perché se bastasse un attaccamento sentimentale o personalistico, la sua sarebbe una presa in giro. Perché non ci basta, perché siamo fatti per l’infinito. Come la ragazza che mi ha scritto: era qui contentissima di quel che stavamo dicendo, ma se io non la sposto dicendo che, se anche si compisse l’esito che desideriamo, questo non basta, non sono amico suo. 
L’unica possibilità è che io ti dica: anche se tu affermi fino all’infinito qualcosa, non è questo che ti 
compie, perché quello che ti compie è riconoscere l’infinito. E se non ti avessi detto così, anche al 4
prezzo che tu non capisca per un po’ non ci saremmo aiutati. Perché è questo che don Giussani dice nel capitolo sesto parlando della rinuncia a se stessi. Mi scrive uno di voi: «Perché dobbiamo 
rinunciare a noi stessi se abbiamo detto che è il tempo della persona?». Dobbiamo rinunciare a una nostra misura affinché sia veramente il tempo della persona! Perché il tempo della persona è questo tempo dell’infinito per cui siamo fatti, e non c’è un tempo della nostra persona che non coincida con questo. E quando uno lo scopre nell’esperienza, come in altri testimoni  di cui adesso leggo sinteticamente, allora qualcosa comincia ad accadere, altrimenti qualsiasi evento succeda svela la nostra  inconsistenza. «La mia ragazza è partita da qualche settimana per l’estero, dove non c’è traccia della Chiesa: la Cina. Dopo qualche giorno mi provoca dicendo che si accorge di come il suo essere cristiana è molto legato alla cultura nella quale è cresciuta e al luogo dove viveva, l’Italia, ma nel momento in cui si è allontanata fisicamente da questa cultura allora scoppia la domanda grande. Mi ha scritto: “Ma io cosa ci faccio con Cristo? Ma qui serve veramente Cristo per campare oppure è il passatempo che utilizzavo in Italia? Perché alla fine vedo che la gente qui campa lo stesso, anzi, si fanno meno discorsi e si impiega più il tempo a rimboccarsi le maniche per fare. Mi accorgo che per assurdo io potrei tornare tra sei mesi miscredente, scoprendo che là Cristo non esiste”. Per me questo è stato come un terremoto, e di getto non ho potuto che risponderle, con le lacrime agli occhi, che non potevo fare altro che pregare che Cristo si incarnasse davanti ai suoi occhi anche in Cina, ma non solo per lei, ma soprattutto per darne testimonianza anche a me, perché se così non fosse, vorrebbe dire che Lui non è realmente risorto e che non è altro che una favola che ci raccontiamo qui in Italia, noi cresciuti in questa cultura cristiana e nel movimento, ma che appena si mette il naso fuori dal nostro “cortile” (per usare un tuo termine che mi ha sempre colpito), Cristo sparisce. E mi sono accorto che la sfida era lanciata a me, qui dove vivo: quante volte riduco il mio essere cristiano a una serie di attività, riti e incontri, frutto dell’educazione che ho ricevuto dal movimento e dall’amicizia che mi hanno fatto compagnia, quante volte mi ritrovo a vivere come un pagano (detta alla Bardy), dove la religione è quella propria della città dove si vive, è ridotta a un formalismo di rito e di gruppo. Mentre ora mi si spalanca la domanda: ma chi sei tu, Gesù? Al di là delle attività, dei riti… Chi sei tu, Gesù, per la mia vita? Dove poggia la mia vita? Su un personaggio di una favola o su un pieno? Non voglio più cincischiare davanti a questa domanda e capisco che alla base ci sta una vera e propria decisione di percorrere quella strada che porta alla certezza. Ed è una sfida che sento come una grazia, una grazia per lei in Cina che si è accorta di questo e per me in Italia, e vedo che anche il nostro rapporto si sta trasformando e diventando sempre più vero nel testimoniarci a vicenda i segni della Sua presenza reale nelle nostre realtà; è la compagnia più grande che ci possiamo fare, ma senza il tuo aiuto e la strada che ci indichi non potremo farcela. Per meno di questo, per meno di questa certezza, non mi accontento più».  
un’altra lettera dice: «Sono un ingegnere e per lavoro mi capita di partire per l’estero spesso, e in uno di questi viaggi [l’ultimo che arriva ci può sorpassare da destra e da sinistra] ho avuto la 
possibilità di lavorare con una collega che oggi è la mia morosa. Lei non era molto religiosa, anzi, 
per alcune vicende si era anche allontanata dalla Chiesa, ma incuriosita da me e, a detta sua, dalla 
mia fede, in tempi davvero rapidissimi ha ripreso il suo cammino di fede attaccandosi al movimento e all’esperienza di Giussani, fino a farla propria. Quello che mi stupisce è come in così breve tempo lei faccia capo alla sua esperienza alla luce della Scuola di comunità e quello che le racconto io, tanto che spesso è lei a indicare il cammino. Ti faccio un esempio: in questo periodo è all’estero, mentre io sono rimasto a lavorare in Italia, quindi ci possiamo sentire una volta al giorno, la sera per via del fuso orario. Ogni volta che ci sentiamo parliamo di cosa è successo nella giornata, tiriamo le somme e a volte il lamento di ciò che non va prevale. Ieri toccava a me, e io, dopo una giornata di forte stress sul lavoro, ho elencato tutto ciò che non andava con il capo, i colleghi, i committenti, che quindi stavo pensando di mandare tutto all’aria cominciando a cercare un lavoro più consono al mio carattere. E un po’ irascibile lei mi ha stupito dicendomi: “Ma se Cristo non c’entra anche con il capo che non ti valorizza e ti tratta male, allora non c’entra del tutto. Ma ti pare che al Signore sia sfuggito questo episodio? O Cristo c’entra con tutto, oppure è solo teoria”. Davanti  a lei che mi contestava, cioè metteva tutti i miei dubbi dentro a un contesto più ampio, non ho potuto che stare
 5
in silenzio e “gustarmi” come Cristo usasse lei per riprendermi. Sì, perché lei non sa il discorso su 
Cristo che magari so io, non ha ancora partecipato ad alcuna Scuola di comunità, ma dalla sua ha 
l’esperienza, infatti mi dice che queste cose gliele ho dette io qualche giorno fa; in realtà neanche le ricordo. Adesso capisco meglio la frase di san Paolo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me”. 
Perché non è un problema di cose da fare, di regole da seguire, anche perché il fare stanca, ma è 
l’essere sorpresi di come Lui si manifesta anche negli ultimi arrivati [cioè in uno che fa 
un’esperienza, che mette davanti un’esperienza anche se è l’ultimo arrivato: questo sta seguendo e l’altro no, anche se l’altro sa il discorso o se partecipa a certi gesti]. Grazie a questa discussione, il lamento così pesante e sterile è svanito e ha dato spazio alla sorpresa della Sua presenza che ti 
accompagna nelle vicende di tutti i giorni senza tralasciare niente». Potrei continuare a lungo, per 
dire: seguire è  – come dice don Giussani  – rivivere l’esperienza, perché senza questo noi non 
arriviamo all’Altro per cui siamo fatti, «ciò cui il nostro cuore aspira, desidera».

Sono segretaria di una scuola superiore, dove abbiamo un ragazzo che è gravemente malato.
Settimana scorsa ho accompagnato dei professori che andavano a trovarlo, mentre loro parlavano
con lui io sono stata un’ora e mezza con la mamma che mi poneva tutte le sue domande, tutto il suo
dramma, diceva: «Se morirà io impazzirò,  aiutami». Io le ho risposto per tutto quello che ci
insegnano, che so. Sono andata via, sono salita in macchina e ho telefonato a mio marito: «Io non
sono contenta perché questo colloquio non mi ha soddisfatto». C’era qualcosa dentro di me che
non tornava, infatti ho pensato: non mi chiamerà più perché devo aver “toppato” qualcosa, anche
se non capivo che cosa. Due giorni fa mi chiama alle otto di sera e mi dice: «Sono disperata perché
continuo a pensare a quel 20% di possibilità che lui ha, continuo a pensare alla  prossima
risonanza, sto impazzendo. Cosa devo fare?». Allora io le ho detto: «Che cosa è successo oggi?»;
lei mi diceva: «Oggi ha mangiato»; e io: «Guardiamo quel che è successo oggi: ha mangiato, ha
sorriso, per cui cena con la tua famiglia e goditi quello che hai oggi perché domani neanche io so
se mi alzo. Goditi l’istante, ringrazia che c’è». E lei mi dice: «Grazie, sapevo che dovevo chiamarti
perché io avevo bisogno di sentirmi dire questo adesso». Quando ho riattaccato ho sobbalzato
perché mi è venuto subito in mente l’esempio del re del Portogallo:  non è che  ha fatto  tanti
discorsi, prima ha aggiustato le cose e aiutato la gente, e poi, alla domanda, si è rivelato. Quindi
alla mattina sono corsa dal mio capo a dirgli: «Vedi? Io non devo avere il problema religioso con
lei,  perché non è quello il punto, io devo aiutarla  e farle compagnia  nella realtà; poi, se Lui si
rivelerà (magari attraverso di me), non lo so». Questo  capitolo sesto da lunedì mi ha veramente
cambiato la giornata, sono due giorni che godo del fatto di essere come il re del Portogallo.

È così. Il problema non è darle la teoria del re del Portogallo, è rifare l’esperienza in modo tale che 
lei possa sentire pertinente quello che dici al bisogno che ha; che cosa il Mistero farà, poi, con quel tuo gesto concreto per lei, lo staremo a vedere.


Io ho un episodio che vorrei che mi aiutassi a comprendere. Un giorno ero con un mio collega da

un cliente, nel cui ufficio erano esposte delle immagini sacre. Tornando in macchina questo mio
collega mi ha detto: «È scandaloso, è scioccante che un dirigente esponga delle immagini sacre nel
proprio ufficio; è un ente pubblico, per cui non ci devono essere immagini sacre». Allora io ho
detto: «Senti, io negli enti pubblici ho trovato immagini di tutti i tipi, anche calendari con donne
nude e uomini nudi. Ognuno espone quello che vuole. E perché uno non può esporre un’immagine
sacra?». Però lui a questo punto ha detto una cosa che mi ha stupito: «Sì, in fondo l’ateo è colui
che non ha una presenza a cui rispondere». Punto. Questa cosa mi ha come squartato, nel senso
che, a un certo punto, mi sono detto: io non sono ateo perché ho una Presenza a cui rispondere.
Però mi sono accorto di questo, che se la presenza è legata solo al mio riconoscimento, è come
qualcosa che quasi mi fabbrico io, mentre una presenza è qualcosa di oggettivo.
Sì.
Voglio dire: tu hai una biro in mano, questa biro è presente, e la vedo; io ho una biro nel mio
astuccio, quella biro è presente, anche se non è visibile.6
Certo.
Io volevo che tu mi aiutassi a capire come mai  io sono molto più legato a questa idea che la
presenza la devo in qualche modo…
…Generare.
Esatto.
Lasciamo la questione aperta, perché questo è il punto del capitolo  sesto. Perché dobbiamo 
sorprendere in  quale momento della nostra esperienza, adesso, ci scontriamo con qualcosa di 
presente che non possiamo avere il dubbio di crearcelo noi. A questo non si risponde con una teoria, si risponde con una presenza che ti stupisce, e questa non la generi tu. La cosa migliore è 
riconoscerlo, documentarlo, testimoniarcelo a vicenda.

Io volevo dire due cose sulla scorsa Scuola di comunità. Una riguarda il commento all’episodio del
Vangelo dell’Orto degli Ulivi sulla questione della spada: mi aveva particolarmente colpito  il
giudizio che avevi dato, soprattutto perché ritengo che quel tipo di giudizio possa in qualche modo
riguardare e giudicare la stessa storia della Chiesa e la stessa storia del  movimento. Perché
quando tu con ironia dici, rispetto al taglio dell’orecchio: «Forse il Mistero si è distratto?», poni
un interrogativo di riflessione sulla questione e questo mi fa dire…

La teologia dice che la provvidenza di Dio non sbaglia mai. Per questo tutto quello che succede è 
dentro la provvidenza di Dio; non perché il Mistero voglia il male o sia responsabile del male che 
noi facciamo, ma lo permette, in un certo modo, mi spiego? Allora la questione è se attraverso tutto questo è possibile vincere il male. Gesù come vince il male? Come lo sconfigge definitivamente, in modo che il male non faccia il male più grave che può fare? E qual è il male più male? Rompere il legame con il Mistero. Questo è il male, perché intacca quella che è la nostra possibilità di salvezza. Non mollando sul legame col Padre. Infatti noi vediamo tanti amici nostri, tante persone, che nella difficoltà, come abbiamo sentito, o nella malattia o nelle situazioni più diverse, fioriscono perché non è intaccato questo rapporto col Mistero, e Lui ci ha testimoniato questo dandoci la possibilità di vedere come noi, anche se il Mistero non ci risparmia niente, possiamo vincere il male perché Lui l’ha vinto. Questo è il contributo più grande che ci dà; non risparmiarcelo, non stravincere e poi lasciarci da soli; no, mostrando a ciascuno di noi che quel legame è più potente della morte, più potente del male, perché il male in Lui non è riuscito – come dico sempre – a “slegarlo” dal Padre. 
E questo è decisivo perché quando si introduce il sospetto è questo che ci ammazza veramente, che veramente ci ferisce fino al midollo, perché è come rompere la possibilità della salvezza, il legame che ci salva.
Tra l’altro questo fa emergere in modo netto che il giudizio che esce dalla Scuola di comunità è
utile su tutto.
Assolutamente.
Assolutamente su tutto, fino a toccare anche questi aspetti.
Se non servisse con tutto, non sarebbe vero, lo abbiamo appena sentito dalle lettere.


L’altra questione che mi ha colpito è quando tu, rispondendo a una domanda, ponevi la questione

dell’eterno; perché io sono uscito dalla Scuola di comunità quella sera con una esperienza di
respiro così impressionante che mi è parso quasi di non aver mai respirato come in quella
circostanza, come quella sera, con la conseguenza che il  mese che è venuto dopo ho vissuto le
circostanze normali, quotidiane (il lavoro, le problematiche,  eccetera) con una serenità e una
intensità che, oserei dire senza esagerare, non avevo sperimentato fino a quel momento lì.

Questo mi consente di rilanciare la sfida per la prossima Scuola di comunità, che continueremo a 
fare su questo capitolo sesto: che cosa c’entra quel che hai appena detto adesso con la Scuola di 
comunità? Perché, dopo quanto abbiamo detto stasera sulla lettera alla Fraternità  e sulla sequela, adesso possiamo continuare a lavorare su questo capitolo fino alla prossima volta: non cerchiamo di fare commenti sul testo, ma di rilevare situazioni in cui ci è successo qualcosa di quello che dice il testo, perché se è un’esperienza noi dobbiamo poterla fare adesso, altrimenti non possiamo fare il cammino della certezza che lì viene descritto, il cammino attraverso cui il Mistero ha rivelato
 7
veramente la Sua pretesa unica. Vi leggo questo brano di Guardini per introdurvi alla lettura e al 
lavoro su  questo capitolo: Gesù testimoniava  «un continuo, silenzioso trascendere i limiti delle 
umane possibilità, in una grandezza e in una vastità che si percepiscono dapprima come una 
naturalità benefica, come una libertà che appare naturale, come umanità semplicemente sensibile». 
Dov’è la pretesa? Tante volte, siccome non appare in tutta la clamorosità, non la cogliamo, ci 
sembra che noi siamo degli sfortunati rispetto a quelli del Vangelo che hanno avuto la possibilità di 
toccare con mano i gesti clamorosi di Gesù. Ma Guardini scrive che quello che colpisce di più è 
questo «continuo, silenzioso trascendere i limiti delle umane possibilità», quasi che sembra una 
naturalità benefica, ma che nel tempo «finisce per rivelarsi semplicemente come un miracolo […]
un passo silenzioso che trascende i limiti segnati alle umane possibilità, ma [attenzione!] ben più 
portentoso della immobilità del sole e del tremare della terra». Ben più portentoso. E siccome noi 
questo tante volte non lo cogliamo, allora Cristo ci sembra astratto, e continuiamo a parlare e a 
ripetere frasi quasi cercando di convincerci. Non funzionerà mai così. È lì, in quello che vedo, che 
c’è qualcosa di ben più portentoso dell’immobilità del sole e del tremare della terra. E quello che 
inizialmente sembrava frutto di una benevolenza o di una libertà naturale o semplicemente di una 
sensibilità umana è in realtà un miracolo, i fatti riguardanti Gesù narrati dal Vangelo sono più 
prodigiosi del tremare della terra. Allora ci rendiamo conto  di  quale attenzione,  convivenza, 
disponibilità a cogliere quella prodigiosità nel quotidiano occorra, perché il nostro problema è la 
riduzione che noi facciamo della presenza del divino, di Cristo, all’espressione di una mera natura 
benefica:  ma cosa c’è di diverso da una apparente simpatia, da un’umanità  «semplicemente 
sensibile»? E non capiamo che questo è un miracolo. Per noi un miracolo è solo qualcosa di 
strepitoso, invece questo trascendere i limiti segnati alle umane possibilità è ben più portentoso del tremare della terra. Per questo se noi vogliamo rifare l’esperienza dei discepoli, dobbiamo aiutarci e sorprenderci cogliendo questo nella nostra esistenza, perché è lì dove incominceremo a vedere la pretesa che ha Gesù sulla vita; altrimenti “pretesa” sarà un’altra parola, che non ha presa su di noi. 
Ma la pretesa cristiana è irriducibile, tanto che in alcuni genera, come vedremo, perfino ostilità! Per questo aiutiamoci a guardare la vita che viviamo con questo capitolo negli occhi, per sorprendere nell’esperienza quello che accade. Perché seguire è rivivere l’esperienza di un altro.

La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 19 dicembre alle ore 21.30. 
Continueremo il lavoro sul sesto capitolo de All’origine della pretesa cristiana e anche sulla lettera
alla Fraternità.


Mi permetto di raccomandarvi la rivista Tracce, questo è il periodo della campagna abbonamenti, 

come sapete. Tracce è l’unico strumento di cui ci sentiamo direttamente responsabili, che cerca di 
documentare la novità di vita che Dio fa accadere tra noi ed esprime i tentativi di giudizio che il 
cammino tra noi fa maturare. È sempre stato utile diffonderla, perché è  comunicare quello che il 
Mistero fa accadere, ma tutti capiamo che è specialmente importante adesso, con tutto quello che si 
dice di noi sui giornali, per la riduzione che alcuni fanno della nostra esperienza: quello che noi 
possiamo offrire non è soltanto una dialettica o un controbattere, ma testimoniare una vita. Allora 
diffondere Tracce adesso ha un’urgenza particolare per permettere a tante persone di buona volontà, che forse non hanno altra possibilità di conoscerci, di poter rivedere il giudizio o l’idea che si sono fatte e che si fanno del movimento. Due ragazzi raccontavano di un incontro con una persona che stava dicendo di tutto  e di più su tutto, e allora, dopo essersi arrabbiati mentre mangiavano e  la sentivano parlare, alla fine le hanno dato Tracce. A qualcuno, vedendo qualche programma TV, è venuta la voglia di andare a vendere  Tracce. L’insistenza sulla diffusione è decisiva soprattutto perché fa emergere la coscienza che abbiamo di quello che ci è capitato; e che io mi aspetto (per fare un esempio) che qualcuno tra noi, di fronte alla situazione attuale, non vada in confusione e non  domandi impaurito: «Cosa facciamo?», ma proponga  Tracce o lo rilegga lui stesso per rispondere ai dubbi che gli vengono, lo rilegga perché siamo noi i primi  ad avere bisogno della
 8
testimonianza che Dio dà davanti a noi. Come per il cieco nato, anche per ciascuno di noi è 
possibile essere un “io” diverso e non succube dell’ambiente, essere nella mischia e non fuori dal 
reale, perché ciascuno di noi è un io che pesca la sua consistenza nell’evento insuperabile che gli è 
capitato, che ha incontrato; e allora in ogni circostanza, anche in quella che sembra più ostile, uno 
non è fermato, bloccato nel rispondere con creatività, cioè non reagisce negativamente, ma propone una presenza, propone un’esperienza, per esempio dicendo: «Volete sapere che cos’è Cl? Ve lo dico io, e metto io la mia faccia per dirvi che cos’è, ve lo racconto attraverso uno strumento che è questo, Tracce». È una possibilità a portata di ciascuno.


Volantone di Natale. Sono due i testi, uno di Benedetto XVI e uno di don Giussani. L’immagine è 
l’Adorazione dei Magi di Gaetano Previati. Il testo del Papa  è questo:
«Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità. È la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Dio ci è diventato così vicino che Egli stesso è un uomo: questo ci deve sconcertare e sorprendere sempre di nuovo! Egli è così vicino che è uno di noi. Conosce l’essere umano, lo conosce dal di dentro, lo ha provato con le sue gioie e le sue sofferenze. Come uomo, mi è vicino, vicino “a portata di voce”».
 E questo è il brano di Giussani:
  «Il miracolo più grande, da cui i discepoli erano colpiti tutti i giorni, non era quello delle gambe raddrizzate, della pelle mondata, della vista riacquistata. Il miracolo più grande era uno sguardo rivelatore dell’umano cui non ci si poteva sottrarre. Non c’è nulla che convinca l’uomo come uno sguardo che afferri e riconosca ciò che esso è, che scopra l’uomo a se stesso. Gesù vedeva dentro l’uomo, nessuno poteva nascondersi davanti a lui, di fronte a lui la profondità della coscienza non aveva segreti».

Il Libro del mese per dicembre e gennaio (come potrebbe essere diversamente?) è L’infanzia di 
Gesù di Benedetto XVI, appena uscito. Questo libro è un altro regalo che il Papa ci fa per 
accompagnarci in questo Anno della Fede.

Veni Sancte Spiritus

Canti:

.IL GIOVANE RICCO  di Claudio Chieffo


Lui stava parlando,
seduto sopra i gradini,
di quella casa bianca,
in mezzo a tanti bambini.
Erano tutti sudati,
Pietro cercava da bere,
c'erano anche i soldati,
io non riuscivo a vedere.
Va', vendi tutto quello che hai e vieni con me. (2 v.)

Mi feci avanti pian piano,
flnchè non giunsi tra i prirni,
tenevo la testa bassa
e gli occhi fissi ai gradini.
Lui continuava a parlare,
sembrava dicesse a me.
Guardavo fisso la terra
e mi chiedevo perche'.

Sentivo quelle parole,
ma non volevo capire;
poi mi riprese la folla
e non lo volli seguire.
Lui stava parlando,
seduto sopra i gradini
di quella casa bianca,
in mezzo a tanti bambini.


.WHAT WONDROUS LOVE IS THIS?



What wondrous love is this, O my soul, O my soul!
What wondrous love is this, O my soul!
What wondrous love is this that caused the Lord of bliss
To bear the dreadful curse for my soul, for my soul,
To bear the dreadful curse for my soul.
When I was sinking down, sinking down, sinking down,
When I was sinking down, sinking down,
When I was sinking down beneath God’s righteous frown,
Christ laid aside His crown for my soul, for my soul,
Christ laid aside His crown for my soul.
To God and to the Lamb, I will sing, I will sing;
To God and to the Lamb, I will sing.
To God and to the Lamb who is the great I Am;
While millions join the theme, I will sing, I will sing;
While millions join the theme, I will sing.
And when from death I’m free, I’ll sing on, I’ll sing on;
And when from death I’m free, I’ll sing on.
And when from death I’m free, I’ll sing and joyful be;
And through eternity, I’ll sing on, I’ll sing on;
And through eternity, I’ll sing on.


domenica 25 novembre 2012

Volantone Natale 2012


Nessuno può dire: ho la verità- questa è l'obiezione che si muove- e, giustamente, nessuno può avere la verità. E' la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Dio ci è diventato così vicino che Egli stesso è un uomo: questo ci deve sconcertare e sorprendere sempre di nuovo! Egli è così vicino che è uno di noi. Conosce l'essere umano, lo conosce dal di dentro, lo ha provato con le sue gioie e le sue sofferenze.
 Come uomo, mi è vicino, vicino "a portata di voce" 
BENEDETTO XVI

Il miracolo più grande, da cui i discepoli erano colpiti tutti i giorni, non era quello delle gambe raddrizzate, della pelle mondata, della vista riacquistata. Il miracolo più grande era uno sguardo rivelatore dell'umano cui non ci si poteva sottrarre. Non c'è nulla che convinca l'uomo come uno sguardo che afferri e riconosce ciò che esso è, che scopra l'uomo a se stesso. Gesù vedeva dentro l'uomo, nessuno poteva nascondersi davanti a lui, di fronte a lui la profondità della coscienza non aveva segreti. 
LUIGI GIUSSANI













Colletta 2012/ 9.622 tonnellate di alimenti donati in un giorno


Fondazione Banco Alimentare Onlus


Grazie innanzitutto a ciascuno degli oltre 
cinque milioni di persone che, anche quest’anno, hanno manifestato 
la loro generosità condividendo i bisogni di quanti 
vivono in condizioni di povertà, attraverso un 
semplice gesto quotidiano come quello di fare la spesa.


Foto



Un grazie speciale ai centoventimila volontari che hanno consentito la 
realizzazione di questo grande evento di solidarietà. La loro generosità,
il loro entusiasmo, la loro dedizione sono il segno più evidente che la 
condivisione e il dono sono 









Grazie anche alle oltre 8.700 strutture caritative che offrono quotidianamente assistenza 
ai poveri e agli emarginati in tutta Italia, ridistribuendo gli alimenti raccolti dal Banco 
Alimentare durante la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare e nel corso dell’anno.
Attraverso le strutture caritative un abbraccio di cuore va a quanti in Italia vivono in
condizioni di disagio. Sappiamo che la nostra opera è una goccia nel mare del bisogno, 
molto più ampio della sola povertà materiale e ci adoperiamo per condividere, attraverso 
il gesto del dono, il bisogno più profondo dell’uomo: quello di significato.


Grazie agli oltre 9.000 ipermercati, supermercati e punti vendita che 
in tutta Italia hanno aderito alla Giornata Nazionale della Colletta 
Alimentare,la loro disponibilità ci ha permesso di realizzare il più 
grande evento italiano di solidarietà e di condivisione.
















Ringraziamo le aziende, i centri media, le concessionarie di pubblicità, le emittenti radiotelevisive che 
hanno sostenuto l’evento offrendo servizi e supporti indispensabili alla realizzazione della Giornata 
Nazionale della Colletta Alimentare.



Grazie di cuore anche a tutti gli amici della Rete Banco Alimentare che 
con grande dedizione sono insieme a noi testimoni di un grandioso 
spettacolo di gratuità che va sempre oltre ogni nostra attesa. È con 
questa rinnovata carica di energia, che lavoriamo con loro per portare 
un aiuto concreto a chi vive nel bisogno, consapevoli che condividere 
i bisogni è per “condividere il senso della vita”.

GRAZIE PER AVER CONDIVISO QUESTA FANTASTICA XVI EDIZIONE 
DELLA GIORNATA NAZIONALE DELLA COLLETTA ALIMENTARE!

  La XVI edizione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare,
svoltasi ieri, sabato 24 novembre, in più di 9.000 supermercati, è 
stata uno spettacolo di gratuità che ha cambiato coloro che vi hanno 
partecipato, come dimostrano i numerosissimi messaggi ricevuti:

Tutte le persone che ho incontrato in quel supermercato mi hanno consegnato un 
qualcosa che considero un valore sia per la loro disponibilità nell’aiutare il prossimo, 
sia per la sensibilità alle problematiche sociali. Non nascondo che mi sentivo 
frastornato dal caos della gente che c’era nel supermercato. Tanta emozione che 
non posso e non potrò mai dimenticare conservandolo per sempre nel mio cuore.

....

Mentre mi accingo all’inscatolamento dei prodotti, lo sguardo si sofferma nel 
notare il mio viso riflesso nel vetro antistante, sembra assurdo ma notai gli 
occhi luminosi e raggianti paragonabili alla felicità di un bambino nel ricevere 
il regalo.

....
Grazie all’aiuto di più di 130.000 volontari sono state raccolte 9.622 tonnellate di prodotti alimentari, confermando sostanzialmente, nonostante la crisi, il dato dell’edizione 2011 (9.600 tonnellate).

Il cibo raccolto sarà ora distribuito alle oltre 8.600 strutture caritative convenzionate con la Rete Banco Alimentare che assistono ogni giorno 1.700.000 poveri.

Il Presidente della Fondazione Banco Alimentare Onlus Andrea Giussani, ringraziando tutti i volontari e i donatori, afferma che, “ancora una volta, l’opportunità di donare tocca le radici della persona e, contro il pessimismo, rilancia una piccola o grande responsabilità individuale”.





venerdì 23 novembre 2012

Fare la spesa per un povero è un gesto di gratitudine



Colletta Alimentare 2012 - Io ci sarò!


 Si fa giustamente un gran parlare di volontariato in questi tempi grami. Che in momenti in cui la vita è difficile e incerta rimanga un impeto altruistico non solo individuale ma anche collettivo è fatto grandemente positivo che testimonia dell’umanità e della vitalità della società italiana. «Ama il prossimo tuo come te stesso», recita il Vangelo con una formula che ancora oggi, dopo duemila anni, può essere interpretata in modo equivoco (ad esempio, secondo una certa concezione volontaristico­buonista in voga), come se amare se stessi fosse egoismo. «Amor, che a nullo amato amar perdona», l’amore, che obbliga chi è amato ad amare a sua volta, recita Dante parlando di Paolo e Francesca nel V canto dell’Inferno. Ecco, quel che vale per l’amore tra un uomo e una donna è ciò che vale per la natura ultima di ogni uomo nel suo rapporto con tutto.
  Più difficilmente un bambino che sia stato privato degli affetti familiari sarà capace di sviluppare una affettività equilibrata. Solo un uomo che si percepirà amato e voluto saprà amare e volere l’altro in modo profondo e continuo. Per un cristiano questo vale in modo radicale perché riconosce di essere voluto e amato da Dio senza condizioni: carità è dono di sé commosso del Creatore verso ogni persona, prima che un gesto dell’uomo verso i suoi simili, come sempre sottolineava don Luigi Giussani ai suoi ragazzi impegnati nelle tante iniziative di carità.
  Dio che si fa uomo dona se stesso in un atto di carità suprema. Allora la carità e i gesti di carità sono un riflesso di questo essere voluti da un Altro che costituisce la radice più profonda di sé. E quanto più uno ama questa radice profonda, più sarà capace di amare gli altri in modo concreto. San
 Martino che dona il suo mantello, San Francesco che bacia il lebbroso, don Bosco tra i piccoli emarginati della periferia di Torino, don Orione tra i terremotati di Messina, don Gnocchi che abbraccia i mutilatini, Madre Teresa di Calcutta con i moribondi, esprimono una carità frutto di un legame profondo con l’amore di cui sono oggetto.
  Ma questo è ciò che accade anche per il più vero altruismo laico: ci si muove più sinceramente verso gli altri se si è oggetto di affezione e se si è imparato ad aver cara la propria natura come esigenza insaziabile di bello, di giusto e di vero. Così, naturalmente, ci si unisce in reti sociali in cui questa nostra natura è sostenuta e valorizzata. Il significato della sedicesima Giornata Nazionale della Colletta Alimentare (organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare onlus per domani, sabato 24 novembre) è tutto qui: fare una spesa per i poveri come espressione della gratitudine per essere al mondo, per essere voluti, per essere generati da un amore, qualunque sia. Il gesto, semplicissimo, esprime quell’impeto radicale a farsi compagni degli altri che nessuna crisi potrà estirpare. E questo diviene nuova speranza per tutti e nuova energia per la ricostruzione che in ogni settore ci aspetta.
 
GIORGIO VITTADINI *  -  *Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà

giovedì 22 novembre 2012

Colletta Alimentare 2012 Sabato 24 Novembre

Colletta Alimentare 2012 - Io ci sarò!

Ecco i 9713 punti vendita dove poter fare la spesa :


http://www.bancoalimentare.it/colletta-alimentare-2012/puntivendita

Seleziona la tua Regione, la Provincia e il Comune, vedrai comparire la lista dei punti vendita presenti sulla mappa. Se Google non è riuscito a determinarne la posizione, troverai il punto vendita contrassegnato da *

Colletta Alimentare 2012 - Io ci sarò!


Accanto alla operosa attività quotidiana di recupero di eccedenze alimentari da destinare ai più poveri del nostro paese, la Fondazione Banco Alimentare Onlus organizza ogni anno, l´ultimo sabato di novembre, la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare.
Ormai giunta alla 16ª edizione, la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare è diventata, dal suo esordio nel 1997, un importante momento che coinvolge e sensibilizza la società civile al problema della povertà attraverso l'invito a un gesto concreto di gratuità e di condivisione: fare la spesa per chi ha bisogno. Durante questa giornata, presso una fittissima rete di supermercati aderenti su tutto il territorio nazionale, ciascuno può donare parte della propria spesa per rispondere al bisogno di quanti vivono nella povertà. E' un grande spettacolo di carità: l'esperienza del dono eccede ogni aspettativa generando una sovrabbondante solidarietà umana.

Nel 2011:
120.000 volontari hanno donato il loro tempo, permettono la realizzazione di questa giornata.
5.000.000 gli italiani che hanno acquistato cibo per chi non può farlo.
oltre 9.000 i punti vendita della gdo che hanno partecipato.
9.600 le tonnellate di cibo donato e raccolto nella Giornata nazionale della Colletta Alimentare 
che insieme alle eccedenze che ogni giorno la Rete Banco Alimentare recupera (58.400 tonnellate nel 2011) sono state ridistribuite gratuitamente a:
8.673 strutture caritative che hanno accolto e aiutato 1.700.000 persone in condizioni di bisogno.

Le ragioni di fondo di questo gesto di carità sono descritte nel testo delle “dieci righe”, pensate per favorire un dialogo con tutti coloro che a vario titolo partecipano alla GNCA:



Condividere il bisogno, per condividere il senso della vita



Dona a chi è povero e non può fare la spesa come te. Nel tuo sacchetto metti: olio, omogeneizzati, alimenti per
l´infanzia, pesce e carne in scatola, legumi in scatola, pelati e sughi. Prima di acquistare un prodotto controlla la data di scadenza.


Avete scelto in quale punto vendita farete la spesa per i 

poveri sabato 24 Novembre? 

Ecco l'elenco completo:


http://www.bancoalimentare.it/colletta-alimentare-2012/puntivendita


Grazie per il tuo sostegno! 

Colletta Alimentare 2012 - Io ci sarò!






I malati sono una benedizione per la mia vita


Questa è la seconda parte dei racconti che descrivono due mesi trascorsi nella Clinica da Dea, gentile signora, volontaria della Clinica Divina Provvidenza San Riccardo Pampuri. Sono piccole riflessioni, semplici e sincere, nate dal suo cuore attento e commosso. Tutti i giorni lei viene in Clinica con il suo camice bianco, in attesa di servire, di vedere come il Mistero accade e per giudicare con occhi aperti la realtà a partire dalla presenza di Cristo. Alcune di queste storie sono già state lette dal Cielo, dove il volto sofferente di Cristo in ogni paziente si è trasfigurato per sempre in un volto glorioso. Che questi santi pazienti ci benedicano dal Cielo.
paldo.trento@gmail.com




Cintia è una ragazza giovane, malata di cancro, che è stata operata alla testa e che di solito non sorride mai. Da alcuni giorni, invece, è più serena e raggiante e questo da quando le abbiamo suggerito di chiedere a Dio il perché della sua malattia, affinché ricevesse una risposta di fede, la grazia della fede, utile a capire ciò che oggi non può capire. «Il Signore ha le sue vie, ma sei benedetta, anche se questo non si può capire facilmente», le ricordo sempre. Oggi ho visto che le hanno cambiato stanza e sono stata contenta, perché credo che si stesse annoiando dove era. Ha mangiato bene e ha chiesto due volte il minestrone e il pane. L’infermiera che la sta seguendo ha detto che questa settimana sta molto meglio. Cintia ha due bambini, un maschio di 12 anni e una femmina di 2. È una madre single e i bambini ora stanno con una zia. Qualche giorno fa ho visto la madre di Cintia che è venuta a visitarla e lei era a letto sorridente. È la prima volta che l’ho vista così. Sta meglio quando è circondata dalla sua famiglia. Questo è essenziale nel malato terminale: trovare affetto a fianco del suo letto solitario, credere e convincersi che la speranza non voglia dire per forza alzarsi e uscire per una passeggiata, ma raggiungere il cielo.
Oggi è arrivata una donna di circa 53 anni, il suo nome è Ernesta. È di Puerto Casado e le hanno diagnosticato il cancro. Ha 12 figli, due sono morti e l’ultima, una bambina di 6 anni, la preoccupa molto perché vorrebbe che stesse con lei. Probabilmente la porteranno in una Casita di Belén. Suo marito viene a trovarla di notte per starle vicina. Un giorno ho visto Ernesta con gli occhi pieni di lacrime. Mi hanno riferito che aveva la pancia gonfia e questo la faceva soffrire molto. Un’infermiera doveva stare sempre al suo fianco per medicarla. Suo marito e sua figlia maggiore erano al suo fianco. Il marito aveva il volto distrutto mentre la figlia cercava di abbozzare un sorriso, ma era solo una smorfia per non peggiorare ancora di più lo stato di sua madre. Questa giovane donna con un’immensa famiglia arrivata per stare al suo fianco, per assisterla, ma senza poter fare nulla… Tutte le parole se ne vanno come la sua vita. Senza capire il significato del dolore, la vita scivola, come gli avanzi sotto il suo letto in cui è riposto il sacco che raccoglie i liquidi dei reni.
Il 27 gennaio è morta Pastora, la donna che mi chiedeva sempre del figlio che all’inizio la veniva sempre a trovare e poi se ne è andato e non è più tornato. Io le ho riposto che i figli hanno sempre molto da fare, ma che sicuramente sarebbe ritornato… sì, è venuto oggi a cercarla con altri familiari. La donna aveva un cancro agli occhi, nel volto e nel collo alcuni tumori enormi. Nonostante fosse sfigurata aveva un grande sorriso e non si è mai lamentata del dolore. L’hanno portata nel suo paese Ybycuí, ma prima Antonella, la ragazza della reception, ha dovuto sbrigare alcune pratiche, affinché le facessero l’imbalsamazione a causa del calore eccessivo di quel periodo.
«Grazie per avermi ascoltata»
Nery è arrivato otto giorni fa, è ammalato di Hiv e ha nel cervello un tumore enorme. Ha 42 anni, è bello, robusto, pelle bianca, capelli abbastanza chiari. Adesso pesa già molto meno, è visibilmente più magro… passeggia e conversa con sua moglie Zunny la quale mi ha raccontato che hanno cinque figli: un maschio di 19 anni, un altro di 18, un altro di 15 e credo due bambine, la più piccola di 6 anni. Dopo averle parlato molto e averla incoraggiata a stare di fronte a questa enorme croce che non sa come portare e che lei definisce «tragedia e castigo», le ho chiesto se aveva fede e mi ha risposto di sì e che per lei era già un miracolo il fatto di essere arrivata in Clinica, che per lei era un luogo benedetto. Quando l’ho salutata per andarmene e le ho detto che sarei ripassata il giorno dopo, mi ha risposto: «Grazie per avermi ascoltata».
È enorme ciò che sento attraverso le parole di questa gente che non conosco e che abbraccio come se fossero miei familiari, perché è così che ci sentiamo in mezzo al dolore… non esistono nomi, né cognomi quando la vita se ne va, si spegne, si chiude il sipario dell’Opera delle nostre vite sotto le lenzuola bianche, impeccabili, dei letti della Clinica. Si chiude la vita, ma in molti casi si porta la vita cristiana nelle famiglie, si produce l’unità, incontro di molte famiglie, anche se spessp questo bisogna costruirlo. Cristo è presente in questi esseri sofferenti e questo è il luogo in cui Dio ci spiega il significato della croce; è questo il valore della sofferenza, senza questo significato cristiano niente avrebbe senso né valore tra gli umani.
Marciana è stata qui solo 8 giorni. È arrivata con il marito, entrambi giovani, circa 32 anni e con due bimbi. Bella ragazza con un viso angelico, con la pelle scura, come fosse abbronzata, e i capelli ricci. Le ho detto che qui avrebbe trovato molto amore ma quando è arrivata non riusciva a parlare a causa dei grandi dolori; nei giorni successivi quasi non mangiava e non ha mai potuto sorridere. Provava molta sofferenza anche nel lasciare i figli. Di fronte a tanto dolore provato da qualcuno così giovane, uno non trova le parole, si può solo guardarli e dargli un po’ di affetto attraverso gesti semplici.
Lo scorso febbraio hanno portato una signora di 46 anni malata di cancro e con il volto totalmente contratto dal dolore. L’accompagnava senza dire una parola la figlia di 18 anni, la più piccola delle tre. Ho detto alla mamma che qui avrebbe ricevuto molto amore e che tutti l’avrebbero amata e lei mi ha risposto che anche lei avrebbe imparato ad amarci tutti. Le ho spiegato che i medici le avrebbero attenuato il dolore e così è stato. Ma il cancro è avanzato velocemente. Quando vado a trovarla la trovo comunque bene, con un volto molto sereno e la figlia ha un sorriso dolce, proprio come la madre. Bisogna solo aspettare che Dio dica quando e come. Alcuni giorni fa mi ha detto: «Ti voglio bene», e mi ha commossa. Vengo quasi tutti i giorni a trovarla e le parlo.
L’angelo della ClinicaVittorino, l’angelo della Clinica, si trova in una stanza con altri due bambini idrocefalici. Sono i tre bambini a cui tutti sono affezionati. Vittorino è il più piccolo, ha compiuto cinque anni il 12 aprile. Tutti i giorni vado a trovarlo, lo accarezzo dolcemente, gli parlo e così fanno tutti, anche i malati ambulatoriali lo vengono a trovare e gli chiedono dei miracoli. Come la ragazza che voleva sposarsi, quella che voleva rimanere incinta, quella malata di tumore ed un’altra che ha trovato lavoro. Un giorno ho chiamato in Clinica e mi hanno detto che stava male. Sono andata a trovarlo ma non si poteva entrare. Il mio desiderio come volontaria è quello di portare un po’ di amore a ciascun ammalato, portargli un sorriso, un gelato o un piccolo regalo, una carezza, una piccola conversazione per tagliare la distanza, affinché si sentano amati come in una famiglia. Per me fare la volontaria vuol dire riuscire ad amare veramente ciò che faccio, ma rispettando sempre gli ordini dei medici o degli infermieri che lavorano con molta passione. Ora Vittorino è molto grave quindi non si può andare a trovarlo, non si può entrare nella sua stanza. Possiamo solo aspettare e pregare per lui.
La forza del Rosario
Hipólito è un malato che parla molto forte e dice sempre il Rosario. Adesso è in una stanza in cui ha un quadro della Madonna di fronte al letto. Prega molto la Madonna. Alcuni giorni fa gli ho portato la cena e casualmente è entrata una mosca. Ho cercato di farla uscire dalla stanza di Hipólito spegnendo la luce perché attratta da un lume esterno se ne andasse. Ho anche acceso il ventilatore al massimo per cercare di darle fastidio. Ma quando credevo che se ne fosse andata e ho riacceso la luce, ho trovato la mosca davanti alla sua cena, come se niente fosse. Nella Clinica è tutto talmente curato e pulito che non si vede mai una mosca… È incredibile! Gli ho detto: «Guarda Hipólito, chiediamo alla Madonna, che tu preghi molto, che ti faccia avere pazienza con questa mosca e vedrai che ti sentirai bene». Mi ha risposto: «Sì signora, sì e voglio recitare il Rosario anche con lei». Mi è piaciuta l’idea e gli ho detto che sarei tornata lunedì per pregare con lui. Il giorno dopo sono andata in Clinica per un altro motivo però sono passata da lui per un saluto così gli ho detto che se voleva potevamo recitare il Rosario subito. Hipólito mi ha risposto che mi stava pensando molto, stava domandando alla Madonna che andassi a pregare con lui. E Maria lo ha ascoltato. Abbiamo recitato il Rosario insieme, Hipólito era molto contento. Abbiamo inoltre recitato la giaculatoria che ripete padre Aldo: «Sacro cuore di Gesù in te confido, sacro cuore di Maria siate la salvezza dell’anima mia, divina provvidenza di Dio, provvedi per noi». L’abbiamo ripetuta varie volte per impararla a memoria e perché lui possa sempre ripeterla: ne è rimasto entusiasta. Sono stata benedetta, attraverso un paziente che mi chiedeva di pregare con lui.

Dea Frizza