mercoledì 30 marzo 2011

LO SCANDALO DEGLI SBARCHI E QUELLO CHE È GIÀ QUI - Perché questa miseria non diventi paura -

Rudolf è morto di freddo, in uno scantinato. Era di colore, ma nato in Italia.

Non è successo nei meandri di una grande metropoli, Roma o Milano, dove l’anonimato della disperanza miete vittime con i suoi precisi missili, invisibili e fatali. È successo a Meldola, dolcissimo paese a dieci chilometri da Forlì in piena Romagna. È successo nella periferia.

Nella parte migliore d’Italia, si dice, almeno per quel che riguarda la tenuta del cosiddetto Welfare.

Delle relazioni di sostegno. Mentre gli occhi di tutti si puntano su Lampedusa, e sembra che quella ondata di corpi ci metta in difficoltà, rischiamo di non vedere la difficoltà che già è sbarcata.

Nessun posto è un’isola. Alcuni dicono che stiamo andando verso un medioevo della necessità. Sia a causa di fenomeni macroscopici che muovono da fuori dei nostri confini, sia per implosioni, per crisi interne. E interiori. Il Welfare non tiene, dicono. Problemi di tagli. Di nuove emergenze.

Problemi legati alla bassa natalità, allo smembrarsi di quel Welfare naturale che sono le famiglie. E cresce un’aria di insicurezza. Come se ci aspettasse un’età più dura. Un’età dove saremo costretti a convivere con micidiali impotenze.

Dove lo spettacolo della miseria, dell’accattonaggio, della vita precaria occuperà altro spazio sulle scene visibili e meno visibili della nostra società. Dove vedremo cose che non immaginavamo. Il povero ragazzo morto di freddo a Meldola, qualche tempo fa la morte di stenti, assurda, di un piccolo di pochi mesi, in piazza Maggiore a Bologna, città ex-vetrina della 'buona' amministrazione.

Cose che non immaginavamo. E ci prepariamo a vedere quel che non ci lascerà tranquilli. Per niente tranquilli. A Lampedusa, a Meldola.

Ovunque. Un medioevo che torna, dice qualcuno usando a vanvera parole e categorie. Perché il medioevo fu un tempo più duro di questo. Per certe cose. Francesco baciò il lebbroso. I mendicanti erano molti per città e campagne. Un tempo duro. Ma altrettanto dura della indigenza era la speranza tra gli uomini. E forte, all’ombra delle cattedrali che si ergevano per testimoniare il legame con il cielo e tra gli uomini, era l’azione della carità. Forte era in quel medioevo che abbiamo alle spalle (e davanti) la difficoltà alla sopravvivenza. E nelle vie delle nostre città era – e sarà – avvilente lo spettacolo dell’arte di arrangiarsi, l’arroganza dei malvissuti, la fastidiosa presenza del povero. Ma grande era anche lo spettacolo di una civiltà impegnata, con sodalizi, confraternite, iniziative di gente di ogni censo tese a rispondere con lo slancio di una carità operosa, ad abbracciare lo sventurato. Sarà ancora così?

Nei più domina un timore attonito. Ci si guarda attorno con sgomento. Si dice: che mondo lasciamo ai nostri figli. Si dice: qualcuno si muova.

E si chiede che lo Stato, la politica, la polizia o chi... si attivi per sgombrare il campo dal nostro disagio. Da questa umanità ferita, non romantica, lacera, sperduta. E invece il campo si ingombra di più. E quel che non vediamo direttamente ce lo danno i media. Le istituzioni possono arrivare fino a un certo punto, la coperta è stretta e a volte cucita o tagliata male, E così il futuro sembra un assedio. Il Vangelo ammoniva l’uomo presuntuoso che ritiene di poter eliminare lo scandalo della miseria dal mondo. Ma è lo stesso Vangelo che in molte epoche ha educato il cuore del popolo facendo sorgere miriadi di iniziative di carità e di sollecitudine. Ora, di fronte alle emergenze note come Lampedusa, sia a quelle ignote come Meldola abbiamo bisogno di istituzioni responsabili. Ma abbiamo soprattutto bisogno del Vangelo.

Senza l’annuncio del Dio che si fa carne per tutti avremo solo lo scandalo duro della miseria che diventa paura e non lo spettacolo della speranza che diviene carità mai domabile.

D.R.

lunedì 28 marzo 2011

TEMPO (E NECESSITÀ) DI MISERICORDIA - QUELL’ANSIA LUMINOSA

MARINA CORRADI

S ommersi sempre da un fiume di parole. Dal primo radiogiornale del mattino alla televisione al web, camminiamo ogni giorno come dentro una selva di parole. Noi giorna­­listi, poi: con questo schermo davanti agli oc­chi su cui scorrono allineate falangi di paro­le, e quasi sempre parole di sconfitte, di vio­lenze, di torti; oppure vacue e inutili e chias­sose parole, che non dureranno un giorno. Dentro a questa selva ogni tanto però passa­no rare parole pesanti. Come facce care, tra una folla estranea e distratta. Ciò che ha det­to Benedetto XVI venerdì alla Penitenzieria apostolica, per esempio. Parlava ai confesso­ri: conoscere e visitare l’abisso del cuore u­mano, ha detto, alimenta la certezza che «l’ul­tima parola sul male dell’uomo e sulla storia di Dio, è della sua misericordia, capace di fa­re nuove tutte le cose». Provate a rileggerla, questa frase breve come un dispaccio d’agenzia. Soppesatela: non è inchiostro, ma materia più densa e più anti­ca. L’ultima parola sul male e sulla storia è la misericordia di Dio, che rinnova ogni cosa. Il Papa parla di ciò che avviene nella Peniten­za, sacramento oggi desueto e quasi general­mente avversato già per il suo stesso nome. Penitenza? E di che? Noi rivendichiamo, pro­testiamo, accusiamo – preferibilmente, gli al­tri – ma quanto ci suona antiquato e sgrade­vole questo termine che indica un ripensa­mento su di sé, un’umiltà – un inginocchiar­si. Senonché in questa ostilità epidermica di­mentichiamo l’altro lato, e il più grande, del sacramento. Che è la misericordia di Dio; che fa nuovi gli uomini e le loro anime lise.

Questo aspetto ricreatore della misericordia, nell’oblio di molti e anche credenti, a legger­lo nel discorso del Papa si mostra come un motore potente e silenzioso della storia d’Oc­cidente. Perché la storia degli uomini è stata segnata da ogni male: ferocia di assedi e guer­re, persecuzioni, stupri. Noi non sappiamo che cosa c’è fra le pietre di ogni nostro augu­sto palazzo, e cosa hanno visto i selciati e i ponti delle strade millenarie. Ma se sapessi­mo, potremmo rimanere atterriti; e per rea­zione diventare disperati, oppure, più facil­mente, cinici. Il fatto è però che sempre ha agito in fondo alla storia dell’Occidente cristiano quel mo­tore occulto e forte: del domandare perdono a Dio, e averne la grazia di rico­minciare. Sappiamo bene che molte delle nostre più splendide cattedrali sono sorte anche con donazioni di briganti e di ladri. Ma contemplando Chartres o la cattedrale di Strasburgo, e pen­sando che sono state fatte con le mani e con gli ori di poveracci co­me noi, sembra di ve­dere incisa nella pie­tra la misericordia di cui parla il Papa; misericor­dia che crea e rinnova o­gni cosa. Che trae, afferma Tommaso, dal ma­le un bene più grande. Quale grande motore abbiamo avuto, pos­sente, silenzioso, nelle fondamenta, mentre costruivamo la civiltà occidentale e le città che oggi ammiriamo stupiti, senza saperle ri­fare così belle. Questo tesoro avevamo: come la misericordia di una madre, come la forza di un padre che ogni volta ripete: non dispe­rarti, io ti do la grazia di andare oltre. Ora che ci affermiamo invece creature autonome e senza bisogno di alcun padre, il grande mo­tore gira piano. Gli manca quell’acqua catti­va, direbbe il poeta Charles Peguy, da cui trar­ne di pura, quell’acqua vecchia da cui trarne di giovane: l’acqua che trasformi le 'anime calanti' in 'anime sorgenti'.

Sarebbe bello in questa Quaresima ritornare a fidarsi, semplicemente, di ciò che è pro­messo. Noi superinformati, noi complicati, noi orgogliosi e diffidenti: fidarci ancora, sem­plicemente.

Basta guardarsi e vedersi, e riconoscere il no­stro male, e chiedere perdono. Il resto è gra­zia, è la misericordia di un Dio che non ripa­ga secondo la nostra misura, ma ricrea. E sua è l’ultima parola sulla storia, non nostra, non atterrita dalla nostra miseria. Fidarsi ancora, bisognerebbe; e rimettere in moto quel pos­sente motore che, in tutto il nostro male, ri­costruisce ogni volta, e afferma un’ansia irri­ducibile di vita, di un destino buono.

MARINA CORRADI

sabato 26 marzo 2011

CON ACUTA SPERANZA - FEDE, LAICITÀ E DIALOGO

Nel cuore di Parigi, città simbolo, ere­de dell’Illuminismo laicista, antica culla della dea ragione, ideatrice della mo­dernità senza Dio, la voce del Papa entra con suadente semplicità non per criticare o condannare il nostro povero tempo, ma per invitare a raccolta i giovani, credenti e non credenti, a un dialogo profondo sulle questioni che contano. Plaudendo all’ini­ziativa, promossa dal cardinale Gianfran­co Ravasi, presidente del Pontificio Consi­glio della Cultura, nata da un suo suggeri­mento sull’incontro costruttivo di tutti in ordine alla ricerca di Dio e della sua verità, pensando simbolicamente alla spianata del Tempio, cortile dei gentili, Benedetto XVI si rivolge a quanti, ancora in ricerca, sono generosamente aperti a intercettare il senso autentico del loro stare al mondo. Due sono, a suo avviso, i problemi centra­li che vanno affrontati senza paura e con il coraggio dell’intelligenza: il primo riguar­da la presenza di Dio nei nostri giorni, sia che si riveli ai credenti nella figura di una Persona che ama e salva, sia che rimanga sullo sfondo della coscienza dei tanti ra­gazzi che inconsapevolmente lo cercano ancora, intravedendolo appena co­me un Dio sconosciuto.
In questo simbolico 'cortile' lo sguardo di Benedetto li coglie insieme e insieme li invita a ma­turare un’attitudine aperta e pensosa, capace di «rispettare, sostenere e amare l’essere uma­no », chiunque egli sia, là dove a­bita insieme alla solitudine, alla sofferenza, all’indigenza, e an­che alla gioia, quando queste in­segnino l’arte difficile e splendi­da dell’accoglimento dell’altro per quello che è. Un modo con­creto e definitivo per dare il giu­sto peso al dialogo e al ricono­scimento del valore di verità di cui ciascuno è portatore, atti­vando la pratica della fraternità, parola cruciale dell’Illumini­smo, di certo però poco pratica­ta. Se infatti la libertà e l’ugua­glianza hanno infiammato le ri­voluzioni sociali e politiche, dando vita a nuovi assetti istitu­zionali in tutto l’Occidente mo­derno, il valore della fraternità – anche se il Papa non lo dice a­pertamente – trova di certo la sua fonte originaria nel cuore del cristianesimo. Siamo tutti fratelli non tanto perché – come vuole il credo illuminista – sia­mo tutti uguali e tutti apparte­nenti al genere umano, ma per­ché tutti ci riconosciamo figli dello stesso Padre. Si tratta di un importante valore aggiunto al patrimonio ideale delle giovani generazioni, spontaneamente pronte a creare vincoli di amici­zia, a potenziare legami di mu­tuo sostegno, per condividere interessi e fi­ni comuni, pronti a lottare per veder rea­lizzati i loro sogni. Vivere la fraternità, in un mondo che ap­pare segnato dall’individualismo e dall’in­differenza, non vuol dire certo – come chia­risce il Papa – omologare le differenze per trovare qualche punto in comune, ma col­tivare «la giusta laicità», quale prospettiva che consente a ciascuno di vivere quello che crede, in coerenza con la propria co­scienza e con la consapevolezza di arric­chire le proprie convinzioni anche trami­te il confronto e il rispetto delle altrui cre­denze.
Facendo riferimento al prossimo incontro estivo di Madrid per la Giornata mondiale della gioventù, appuntamento amato da tanti giovani credenti, il Papa allarga il suo invito a tutti, senza alcuna esclusione, con­vinto com’è che Dio si fa trovare vicino in modo inaspettato, anche quando lo si sen­te lontano. Ed è toccante la parte finale del messaggio, là dove Benedetto XVI chiede ai giovani, anche ai non credenti, di entrare in catte­drale e di provare a pregare, certi che l’in­vocazione a Dio, oltre che dalla fede pro­vata, può nascere dall’acuta speranza di es­sere ascoltati e accolti.PAOLA RICCI SINDONI - Avvenire

BRASILE Il segreto della vita, tra l'alluvione e il carnevale


Tracce-25/03/2011 - Un gruppo di settanta giovani di Cl si riunisce a Petrópolis in occasione del carnevale, per lavorare a Cuiabá Valley, una delle regioni più colpite dalle piogge estive, a Rio de Janeiro


Foto di gruppo a Cuiabá Valley.



Era la notte del 12 gennaio, quando una forte pioggia ha colpito la regione montuosa di Rio de Janeiro, in Brasile. Il bilancio: oltre 900 morti e 340 dispersi. Intere famiglie hanno dovuto soccombere alla forza dell’acqua e centinaia di case sono state sepolte o danneggiate, tale era l’intensità della pioggia.
L’evento ha commosso l’intera nazione. Giornali e riviste hanno descritto i fatti con un’impressionante dovizia di dettagli. Ma oggi, a due mesi dalla tragedia, nessuno ricorda più quello che è successo e il paese sta già festeggiando il carnevale. Proprio in questo momento un gruppo di settanta giovani di Comunione e Liberazione si è recato a Cuiabá Valley, a Petrópolis, per dedicare le proprie vacanze al lavoro volontario nelle zone colpite.
In un primo momento i giovani avevano intenzione di aiutare le persone che hanno perso tutto, ma poi, il sabato, Padre Julián de la Morena li ha sorpresi dicendo: «In questi giorni si impara a dare la propria vita come Cristo ci ha dato la sua. È un insegnamento per ciascuno di noi: imparare che la legge della vita è donarsi a un altro». E la sorpresa più grande di tutte è stata scoprire che non erano lì per aiutare a ricostruire le case, ma piuttosto per contribuire a ripulire e restaurare le chiese della regione. Secondo il parroco don Rogério Dias, la chiesa è stata il luogo in cui la comunità ha trovato rifugio dopo la tragedia. «È stata il punto di raccolta che le persone stavano cercando, in cui hanno tenuto alta la loro fede e la loro speranza». Dopo queste parole, i volontari si sono recati nel posto di lavoro dove hanno operato durante tutti questi giorni: ridipintura, pulizia, distribuzione di cibi e acqua, oltre al recupero di mobili e stoviglie.
Il primo giorno, il desiderio di fare il lavoro nel miglior modo possibile era stato frustrato. «Uno dei responsabili ha detto che dovevamo pulire meglio, togliere anche tutto il fango. Non lo si poteva fare altro che per Cristo, e anche per me, per la mia conversione. Per questo motivo è stato bello lavorare. Vedere la soddisfazione di quelli che lavoravano dando il massimo, è stata la cosa più preziosa», dice Natasha Gaparelli di Rio de Janeiro.
Anche Roberta Moss, di Sorocaba, è rimasta impressionata dalla cura dei particolari. «Le cose che sono successe qui non succedono da nessun’altra parte. Non ho mai lavorato con tanta gioia e letizia. La gente è felice, canta, ed è un lavoro a cui non siamo abituati. Mi rendo conto che abbiamo con le piccole cose lo stesso rapporto che abbiamo con l’Infinito».
L’organizzazione nei locali del seminario, dove si erano sistemati, rifletteva la serietà con cui i giovani stavano affrontando quei giorni di lavoro. C’erano sempre più volontari del necessario, si svegliavano presto per preparare il caffè, e si dedicavano anche a rimettere in ordine la cucina dopo cena.
Alla fine del secondo giorno, monsignor Filippo Santoro, vescovo di Petropolis, ha incontrato i volontari e ha raccontato la sua esperienza personale, a partire dal momento in cui ha conosciuto il movimento in Italia, e ha concluso dicendo come sta vivendo adesso: «Il periodo trascorso dalle piogge di gennaio a oggi è una storia ricca di incontri, che ha mostrato lo spettacolo della presenza della Chiesa tra la gente. Una storia che testimonia la vittoria di Cristo su qualsiasi tragedia». Alcune delle persone colpite dalle piogge hanno reso la loro testimonianza, raccontando che cosa è successo e come sono riuscite a salvarsi tra fango e macerie; storie che senza dubbio potevano essere solo miracoli.
Il carioca Carlos Miranda ha raccontato che queste testimonianze hanno cambiato il suo modo di guardare. «Queste persone hanno capito la vita molto più di me. Hanno una fede che a me manca, che è troppo grande; può arrivare una tempesta e distruggere tutto, uccidere tutta la famiglia e loro rimangono in piedi. Io voglio avere questa fede, voglio vivere così».
Il terzo giorno Julián ha chiesto a tutti di considerare i giorni di carnevale non come un punto di arrivo, ma di partenza. «Dobbiamo riconoscere l’apertura del nostro cuore nel lavoro, perché se è positiva, nessuno può avere paura di perderla. Quello che è successo qui è stato un dono di Dio per imparare alcune cose di cui avevamo bisogno. La vita ha un segreto, è una legge, e chi la conosce è felice. Chi non conosce la legge (donare la propria vita, ossia la carità) non conosce la felicità. Quindi, amici, chiediamo di poter rispondere a Cristo nel nostro tempo libero».
L’ultimo giorno è stato intenso almeno quanto gli altri. Nel tardo pomeriggio sono state organizzate donazioni nella chiesa del Divino Espírito. Bottiglie d’acqua impilate ordinatamente e sedie ben pulite nella chiesa di São Francisco. Tutti hanno aiutato a pulire la sagrestia e la sala parrocchiale, che era già stata ridipinta, con il pavimento e la facciata ben puliti. Un’organizzazione impensabile, vista dall’esterno.
Al termine del lavoro è stata evidente l’importanza di questa esperienza nella vita di ciascuno. Emily Dillinger, di Belo Horizonte, ha detto di sentirsi una privilegiata. «Prima di tutto per essere qui, poi per aver lavorato nella chiesa che serve come rifugio e, in terzo luogo, perché si può essere veramente loro amici. Sono rimasta impressionata dalla libertà nei rapporti, fin dal primo giorno; c’era tutto, gioia e dolore. Avevano davanti agli occhi la loro realtà e dicevano: Dio è buono; non è sentimentalismo. Ora che dobbiamo andarcene, sappiamo bene che cos’è una vera amicizia. Non è il desiderio di tornare indietro e fare di più, ma il desiderio di mantenere con loro un rapporto. Qui si è visto il frutto di una vera amicizia ed è stato molto bello».
Nel saluto finale, Julián ha concluso lanciando a tutti i presenti una provocazione: «Qui è successo qualcosa di grande. Tornerò a casa amando molto di più il Movimento. Nel lavoro, eravamo una sola forza, si vedeva che la nostra comunità era reale. Avevamo due possibilità: appartenere o partecipare. Chi in questi giorni ha scelto di appartenere, ha certamente sperimentato un’inimmaginabile pienezza di vita. Chi ha fatto un passo indietro, ha perso tutto. Amici, siamo liberi, Dio ama più la nostra libertà che la nostra salvezza. Chi ha pensato di aver trovato qui un posto per sé, qui ha una famiglia».

venerdì 25 marzo 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 23 febbraio 2011

Testo di riferimento: L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 31-44.
• Il giovane ricco
• Give Me Jesus
Cominciamo il nostro lavoro leggendo una mail
che mi ha mandato uno di voi, perché è quello che io desidererei per me al
principio di questa Scuola di comunità: sentire l’urgenza che vibra in questo
amico. «Io sto toccando con mano che su questa questione della moralità mi
gioco la vita. E non c’è niente su cui abbiamo lavorato negli ultimi mesi che
mi abbia provocato così tanto, in quanto vedo che è ciò su cui mi blocco più
spesso, in particolare quando si dice che “sembra banale, ma non è così disinvoltamente praticabile, perché noi siamo proclivi a rimanere legati alle opinioni che già abbiamo sui significati delle cose e a pretendere di documentare
il nostro attaccamento”»
.

Quando ho letto questo capitolo mi è venuto in mente quel ragazzo che era
intervenuto l’altra volta e che aveva detto: «Che bello poter vivere questa
cosa che il Gius dice, ma è impossibile». Perché ho incominciato a leggere
tutto il pezzo sulla conoscenza che non è possibile se uno non ha un
interesse,e il problema mio è che non mi interessano le cose, che io spesso davanti alle cose(pensavo anche in questi giorni che sono stanca), presa dall’istintività, non ci sono. Poi però mi sono un po’ confortata perché
alla fine dice che serve un lavoro, per cui ho detto: «Se serve un lavoro,
posso farcela». Però lì poi dice: «Per amare la verità più di se stessi (…) occorre un lavoro», e questa è la definizione classica della moralità. E io dicevo: ma io non so voler bene neanche a me stessa, come faccio ad amare la verità se di me guardo solo il limite, l’istintività?
Ripeti questa frase che hai detto.
Come posso amare la verità, se non capisco neanche cosa vuol dire amare me stessa?
Io non so dirti, Julián, se io mi voglio così bene, non lo so. La domanda è:
come ci si disincastra dal noninteresse?
Potrei fare tutti gli esempi di ogni istante della vita in cui abbiamo un
sentimento, cioè sempre, da quando ti alzi al mattino. Immediatamente quello
che accade è che io prendo posizione, il cuore prende posizione di fronte al sentimento, cioè di fronte alla reazione. Viene immediatamente fuori questo
desiderio di felicità che giudica il sentimento e lo stato d’animo che ci
ritroviamo addosso inevitabilmente. E quando lascio spazio a questo lavoro, a questo giudizio che non ha niente di artificioso ma proprio me lo ritrovo come immediato, allora divento certo e conosco. Meno male che c’è il sentimento, così
sono obbligato a chiedermi sempre che cosa voglio, cosa desidero.
Ma – rispetto alla prima domanda – se tu
giudichi così come hai detto, questo non è il primo sintomo dell’interesse
che hai? Che non ti accontenti di qualsiasi cosa?

Il dispiacere di non essere interessato è il giudizio su quello che mi ritrovo addosso.

Noi abbiamo in reparto una donna cui hanno trovato delle metastasi al cervello.
Un giorno arriva sua figlia, che io non conoscevo, tutta trafelata, angosciatissima: «Sto cercando mia mamma.
Voglio parlare con il medico». La cosa che mi ha impressionato è che io sono dovuta andare a guardare sul tabellone chi fosse sua madre perché neanche mi ricordavo chi fosse quella donna. Mi ha agghiacciato perché mi sono accorta
che questa donna per me non esisteva, mentre per sua figlia era tutto.
Entriamo nello studio dei medici, questa figlia disperata chiede: «Quanto ci
rimane?». E la dottoressa le dice: «Settimane». Questa figlia ha iniziato a tirare fuori tutto quello che stava vivendo con sua madre, e a me la cosa che ha
sconvolto è stata che lì per lì mi sono detta: chi è questa donna per essere così tutto per questa figlia? In quell’istante quella malata ha iniziato
a esistere per me; dalla reazione che io ho avuto nei confronti di questa figlia ho iniziato a

2
interessarmi della madre. Che cosa mi porto a casa di questo episodio? Che il sentimento che mi è accaduto lì, che è nato in me in quell’istante, è la scintilla che fa iniziare la conoscenza, nel senso che, uscita da quella stanza, mi è
venuto di andare a capire chi era quella donna. Il sentimento –
come dice il don Gius –, che può essere di propensione o di repulsione, è una scintilla, cioè io nella vita non sono fatta per prendere lucciole per
lanterne, vale a dire, quel che resta non è il sentimento, ma è l’oggetto che
io conosco, che è molto di più del sentimento che ho nei confronti
dell’oggetto. A me ha colpito che io ho bisogno di qualcosa che resti nel
tempo, e il sentimento, anche nei confronti di ciò che amo, è qualcosa che va e viene, invece io ho bisogno di qualcosa che resti, e il qualcosa che resta è ciò
che io conosco, che è molto di più di quel che io provo.

Allora si capisce che quello che l’ha fatta interessare a quella donna è il sentimento destato dalla presenza della figlia. Perciò senza quel sentimento destato dall’interesse che la figlia aveva per la mamma, per lei quella donna
avrebbe continuato a essere una sconosciuta. Questo mostra come il
sentimento non è un ostacolo, ma un fattore decisivo del conoscere. La questione
è se noi andiamo dietro a quella scintilla che provoca l’interesse.


Settimana scorsa sono stato invitato a cena da un gruppo di studenti universitari
per discutere della situazione specifica di quell’ateneo e provare a scrivere
insieme un volantino. Io avevo avuto una giornata molto intensa, ero molto stanco, non avevo assolutamente voglia di partecipare a quella cena; e quindi sono
arrivato non attendendomi niente, sperando di cavarmela nel minor tempo
possibile e scappare via. Cosa accade? Che arrivo lì e ci sono già una decina
di studenti miei amici che mi stavano aspettando, avevano preparato tutto, si vedeva come c’era in loro un’attesa e un desiderio di non perdere quella cena,
di investire tutto quel tempo che potevamo vivere insieme senza perdere nulla.
È iniziata la cena e io continuavo a rispondere parando i colpi e cercando di
cavarmela, però man mano loro continuavano a incalzare, e allora, a un
certo punto, mi sono trovato a un bivio: continuare a stare “fuori” oppure
lasciarmi provocare, e quindi seguire quello che stava accadendo lì con loro.
E così è cambiato tutto, perché ho iniziato a implicarmi veramente
in quella cena, nelle discussioni, nel dibattito. È stata una delle cene più
belle degli ultimi tempi,tant’è che ci siamo trovati alla fine a scrivere il volantino come se fosse stato il primo che avessimo mai scritto.
Allora, rispondendo alla prima domanda: come si è disincastrato il tuo interesse?

Secondo me attraverso due fattori. Uno: sono stato di fronte a quello che c’era
lì, perché facendo fuori quello che io avevo di fronte, da solo non penso che mi sarei riuscito a disincastrare.

Se noi non stiamo davanti a quello che abbiamo di fronte, ciò che resta è soltanto uno sforzo titanico, che tante volte non ce la facciamo a reggere.
Invece se uno si lascia colpire, trascinare da quello che accade, comincia a diventare semplice.

Due: non ha prevalso quello che già sapevo, c’è stato un elemento di
semplicità che è diventata un’apertura sempre più larga.

Ma quando la realtà diventa tosta, come si sta davanti?

L’altro giorno sono andata a fare il turno di notte in terapia intensiva neonatale. Quando sono arrivata mi hanno subito detto che uno dei neonati, un bambino che è in incubatrice da tre mesi, stava morendo perché non arrivava più ossigeno al cervello e perché il suo polmone, da quando è nato, non si è riuscito
a sviluppare. Ho provato tutta la sera a cercare di evitare di guardare quel
bambino perché avevo paura di non riuscire a reggere davanti a lui, come dice
a un certo punto Giussani: «Qualcosa accade, penetra e produce inevitabilmente, meccanicamente, una certa reazione, vale a dire uno stato d’animo (…)
Qualcosa accade che tocca la persona, “muove” la persona, una emozione, una commozione».
Da subito il dolore di quel bambino, che da un momento all’altro è entrato nel
mio orizzonte, mi ha suscitato quello stato d’animo, quel sentimento. Mi sono
trovata a usare la ragione in un modo ridotto. Quel sentimento struggente e
tutte quelle domandeQuel dolore era troppo scomodo, io inconsapevolmente
continuavo a dire di no a un pezzo della realtà che mi provocava. Verso
le quattro di notte, però, il suo pianto mi ha calamitato, l’insistenza
del suo esserci non mi permetteva più di rimanere indif erente, era nella
sua culla con gli occhi gonfi e blu come se qualcuno gli avesse tirato due
pugni e cercava di aprirli. Sono rimasta lì a guardarlo e mi è scoppiato nel
cuore un dolore pungente, una domanda di senso enorme. Eppure, proprio mentre
lo guardavo, ho dovuto fare i conti con la verità di me e la verità di quel
bambino, come ancora Giussani dice: «La moralità è il desiderio sincero di
conoscere l’oggetto in questione in modo vero più di quanto noi si sia
abbarbicati a opinioni già fatte o inculcate». Qui è come se avessi messo a
fuoco la lente. Proprio mentre lo guardavo ho dovuto fare i conti con
la vera esperienza ragionevole che ultimamente mi costituisce, che mi libera
ogni volta, che mi fa essere me fino in fondo, che dà senso al mio vivere, e
cioè che sono una poveretta ma eternamente amata.
E per questo, guardando quel bambino, senza eliminare niente, ho potuto
affermare con certezza:in questo istante Cristo si sta piegando sul mio
nulla e sul tuo nulla, sulla nostra piccolezza perché ci siamo, perché viviamo.
La nostra consistenza è questo continuo abbraccio che non ci lascia, che
non ci abbandona, che ci fa essere. Io consisto del Suo amore continuo,
instancabile a me, e quel bambino nel silenzio e nella discrezione più
totale sta portando la croce di Cristo per me. Ma perché io posso stare
davanti a lui così? Perché posso rimanere anche davanti a tutte le domande
che mi esplodono nel cuore e non scappare? Perché posso non cancellare o dimenticarmi fino a diventare cinica? Perché a me è accaduto e continua a riaccadere Cristo che mi ama come io stessa non so amarmi e mi permette di
non censurare o dimenticare le domande più profonde del mio cuore. Come dice
ancora Giussani: «L’uomo infatti solo da un amore e da una affezione è
mosso. L’amore che ci può persuadere a questo lavoro (…) è l’amore a noi
stessi come destino, è l’affezione al nostro destino. È questa commozione
ultima, è questa emozione suprema che persuade alla virtù vera».
È quell’amore a me che mi rende trasparente e chiaro che quel bambino
non è la fine, la morte o la sua malattia, come io non sono il fastidio
che tante volte ho di me, o i miei limiti o la mia piccolezza, ma entrambi ora
siamo rapporto con Uno che ci ama. È davvero solo la Sua contemporaneità che mi permette di guardare a me stessa e a quei bambini con verità, proprio come tu dicevi all’incontro del 26 gennaio: «Nessuno riesce a mantenersi da sé
nell’atteggiamento giusto a cui pure l’incontro con Cristo lo ha
spalancato». Perciò l’unica risposta alla nostra fragilità è la permanenza
reale della Sua presenza. È da diversi giorni che mi viene continuamente in
mente quel bambino, ogni secondo: invece di desiderare di non pensarci mi
commuovo, perché è la possibilità per me di rifare memoria che Cristo si
sta piegando sul mio nulla e non si dimentica dei Suoi figli.
Non è soltanto quando le cose che abbiamo da affrontare davanti sono
piacevoli, può essere una cosa che uno non è in grado neanche di guardare.
E quando è così, la ragione è usata come misura:non riesco a vedere tutta la
realtà di quello che ho davanti, neanche di me. Occorre – e questo non
ce lo possiamo dare noi stessi davanti a certe circostanze – una Presenza,
cara e amata, che io non posso far fuori nel momento in cui mi trovo davanti
a queste cose, e che impedisce la vittoria della ragione come misura.
E qui mi viene sempre in mente una frase di Giussani: «È il cuore […] la
condizione dell’attuarsi sano della ragione. La condizione perché la ragione
sia ragione [stia aperta alla totalità di quella realtà che ho davanti senza censurare niente] è che l’affettività la investa e così muova tutto l’uomo».
E che cosa può investire tutta la vita di questa affezione che consente di
guardare tutto? Non è un meccanismo, è soltanto una Presenza che è in grado di calamitare tutta la mia vita in modo tale da poter guardare – nella compagnia
della Sua Presenza – tutto. E questo,come ha detto lei, non lo posso fare da
me soltanto; devo essere costantemente riaperto a questa totalità; nessuno può mantenersi da sé in questo atteggiamento, se non perché Cristo riaccade come
contemporaneo e ci consente di stare davanti alla realtà. È questo che abbiamo
visto di nuovo il 26 gennaio: senza che riaccada l’Avvenimento, senza una realtà
che ci educa, senza una Presenza che ci salva costantemente da questa riduzione,
noi non guardiamo o non ci interessiamo. Per questo che mi nascevano davanti
a lui non mi facevano nemmeno avvicinare all’incubatrice dove dormiva.

3

Quel dolore era troppo scomodo, io inconsapevolmente continuavo a dire di no
a un pezzo della realtà che mi provocava. Verso le quattro di notte, però,
il suo pianto mi ha calamitato, l’insistenza del suo esserci non mi permetteva
più di rimanere indif erente, era nella sua culla con gli occhi
gonfi e blu come se qualcuno gli avesse tirato due pugni e cercava di
aprirli. Sono rimasta lì a guardarlo e mi è scoppiato nel cuore un dolore
pungente, una domanda di senso enorme. Eppure,proprio mentre lo guardavo, ho
dovuto fare i conti con la verità di me e la verità di quel bambino,come ancora Giussani dice: «La moralità è il desiderio sincero di conoscere l’oggetto in questione in modo vero più di quanto noi si sia abbarbicati a opinioni già fatte
o inculcate». Qui è come se avessi messo a fuoco la lente. Proprio mentre
lo guardavo ho dovuto fare i conti con la vera esperienza ragionevole che ultimamente mi costituisce, che mi libera ogni volta, che mi fa essere me fino
in fondo, che dà senso al mio vivere, e cioè che sono una poveretta ma
eternamente amata. E per questo, guardando quel bambino, senza eliminare niente,
ho potuto affermare con certezza: in questo istante Cristo si sta piegando sul
mio nulla e sul tuo nulla, sulla nostra piccolezza perché ci siamo, perché
viviamo. La nostra consistenza è questo continuo abbraccio che non ci lascia,
che non ci abbandona, che ci fa essere. Io consisto del Suo amore continuo, instancabile a me, e quel bambino nel silenzio e nella discrezione più
totale sta portando la croce di Cristo per me. Ma perché io posso stare
davanti a lui così? Perché posso rimanere anche davanti a tutte le domande
che mi esplodono nel cuore e non scappare? Perché posso non cancellare o dimenticarmi fino a
diventare cinica? Perché a me è accaduto e continua a riaccadere Cristo
che mi ama come io stessa non so amarmi e mi permette di non censurare o
dimenticare le domande più profonde del mio cuore. Come dice ancora Giussani: «L’uomo infatti solo da un amore e da una affezione è mosso. L’amore che ci
può persuadere a questo lavoro (…) è l’amore a noi stessi come destino, è
l’affezione al nostro destino. È questa commozione ultima, è questa
emozione suprema che persuade alla virtù vera». È quell’amore a me che mi rende trasparente e chiaro che quel bambino non è la fine, la morte o la sua malattia,
come io non sono il fastidio che tante volte ho di me, o i miei limiti o la mia piccolezza, ma entrambi ora siamo rapporto con Uno che ci ama. È davvero
solo la Sua contemporaneità che mi permette di guardare a me stessa e a quei
bambini con verità, proprio come tu dicevi all’incontro del 26 gennaio:
«Nessuno riesce a mantenersi da sé nell’atteggiamento giusto a cui pure l’incontro con Cristo lo ha spalancato». Perciò l’unica risposta alla
nostra fragilità è la permanenza reale della Sua presenza. È da diversi
giorni che mi viene continuamente in mente quel bambino, ogni secondo: invece
di desiderare di non pensarci mi commuovo, perché è la possibilità per me di
rifare memoria che Cristo si sta piegando sul mio nulla e non si dimentica
dei Suoi figli.

Non è soltanto quando le cose che abbiamo da affrontare davanti sono piacevoli, può essere una cosa che uno non è in grado neanche di guardare. E quando è così, la ragione è usata come misura:
non riesco a vedere tutta la realtà di quello che ho davanti, neanche di me.
Occorre – e questo non ce lo possiamo dare noi stessi davanti a certe
circostanze – una Presenza, cara e amata, che io non posso far fuori nel
momento in cui mi trovo davanti a queste cose, e che impedisce la vittoria
dellaragione come misura. E qui mi viene sempre in mente una frase di
Giussani: «È il cuore […] la condizione dell’attuarsi sano della ragione.
La condizione perché la ragione sia ragione [stia aperta alla totalità di
quella realtà che ho davanti senza censurare niente] è che l’affettività la
investa e così muova tutto l’uomo». E che cosa può investire tutta la vita di questa affezione che consente di guardare tutto? Non è un meccanismo, è soltanto
una Presenza che è in grado di calamitare tutta la
mia vita in modo tale da poter guardare – nella compagnia della Sua Presenza –
tutto. E questo, come ha detto lei, non lo posso fare da me soltanto; devo
essere costantemente riaperto a questa totalità; nessuno può mantenersi da sé
in questo atteggiamento, se non perché Cristo riaccade come contemporaneo e ci consente di stare davanti alla realtà.
È questo che abbiamo visto di nuovo il 26 gennaio: senza che riaccada
l’Avvenimento, senza una realtà che ci educa, senza una Presenza che
ci salva costantemente da questa riduzione, noi non guardiamo o non ci interessiamo. Per questo

4

l’unica possibilità di salvare la ragione così, di salvare un’affezione così, è che siamo costantemente
calamitati da una Presenza, che diventi così familiare che niente possa bloccarci.


Domenica a messa mi ha molto colpito la lettura sulla Samaritana, motivo
per cui stasera sonoqua, nel senso che mi sono sentita proprio come la
Samaritana che molla la brocca e corre a direquello che le sta capitando.
Quello che mi capita è quello che hai detto tu, cioè che è solo
l ’eccezionalità di una Presenza che spalanca la tua ragione e il tuo
sentimento. Io questo possodire di averlo visto in due situazioni totalmente opposte, una di dramma e una di gioia, ma il comune denominatore è lo stesso.
Io ho avuto uno tsunami che è stata una malattia che per cinque mesi mi ha
devastato nel fisico e non solo. Ho dovuto come cedere a quello che capitava dentro tutto il dramma. Adesso invece mi è capitata – dopo spiego il senso di entrambe le esperienze – un’esperienza di gioia nel lavoro. Ho fatto esperienza
di quel che ci diciamo sempre: che il metodo è quello dell’adesione alla
realtà per quello che è. È stata una duplice sorpresa di un Altro che
accade e che ti fa riguardare le stesse cose con occhi nuovi; è un periodo di
grande grazia per me,perché mi sento davvero investita da questa Presenza che mi supera da tutte le parti. Io questa cosal’ho capita in tutte e due le esperienze. Sicuramente la più forte è stata quella della malattia, perché lì è stato
evidente in modo molto più drammatico se vogliamo, che non mi faccio da me,
ma ancora di più adesso, perché anche se sta partendo una nuova avventura lavorativa, non è mia neanche questa, è proprio il dono di un Altro che si fa presente. Un’altra cosa mi ha molto colpito. Qui dice: «L’amore che ci può
persuadere a questo lavoro (…) [perché davvero bisogna trapassare la crosta
– come si diceva – delle opinioni] è l’amore a noi stessi come destino».
Io ci pensavo e dicevo:l’amore a me come destino è l’amore a me come desiderio
di rispondere continuamente a ciò che un Altro mi chiede, è la vocazione,
niente altro che questo. Come esempio della questione di trapassare la crosta
dico un’ultima cosa, perché per me anche questa è un dono grandissimo in
questo periodo. Io gli incontri più significativi li ho fatti attraverso
delle persone totalmente corrispondenti, sono stata fortunatissima. Che cosa è successo da un certo periodo a questa parte? Che ho cominciato a vedere con chiarezza la corrispondenza dentro un rapporto non così “immediato”. Eppure, paradossalmente, mi sta facendo attraversare quella crosta. Perché?
Siccome vedo che questa persona è innamorata davvero di Cristo, questo mi
costringe ogni volta adover decidere: mi fermo o vado oltre? Ma se vado oltre,
non è per una mia capacità, ma perché vedo in questa persona quello che desidero anche io.
E che cosa fa sì che uno possa non fermarsi e andare oltre? O che cosa consente che uno possa affermare qualcosa senza che
diventi possesso? E qui ritorniamo a quello che dicevamo prima, che
senza questa contemporaneità è inevitabile che io affermi qualcosa come
possesso o che io mi fermi. La questione è che cosa ci libera da questo modo
di possedere. Che cosa occorre che si introduca nella vita perché io possa rapportarmi con il reale liberato da questo desiderio di possesso? O che io
non mi blocchi davanti ai limiti dell’altro? Questo è quello che ciascuno deve
cercare di riconoscere quando succede: che cosa mi impedisce di non bloccarmi?


Il lavoro sulle tre premesse mi sembra che trovi una magnifica sintesi nella frase di san Paolo
quando dice: «La realtà invece è Cristo», «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» «e
morire è un guadagno». Mi sembra infatti che il realismo si identifichi proprio con il
riconoscimento che la realtà, cioè l’oggetto, è Cristo, e che questo spalanca la ragione; tutti i
fattori della realtà concorrono al bene di coloro che amano Dio, per poi giungere al capitolo di
oggi: morire è un guadagno, cioè amare la verità più di se stessi è un guadagno. Infatti a pagina 42
dice: «La regola morale: (è) l’amore alla verità dell’oggetto più di quanto si sia attaccati alle
opinioni che già ci siamo fatti su di esso». Poi parla del distacco di sé e dell’amore a noi stessi
come destino, condizione per persuaderci a questo lavoro. È una premessa per rispondere: ma
quando mi sono sorpresa riconoscendo l’incidenza della moralità nella conoscenza? Parto
dall’esperienza che più di altre documenta nella mia vita questo lavoro di ascesi, cioè il mio

5

rapporto coniugale. Di fronte a questa esperienza vocazionale non mi sono mai potuta permettere –
per fortuna – di leggere la Scuola di comunità e impararla a memoria, men che meno di mutuare
da altri il metodo, come dice a pagina 5: «Il metodo (…) è imposto dall’oggetto». Nell’esperienza
di cui vi parlo l’oggetto in questione è proprio mio marito, la sua storia, la sua cultura, il suo
paese, i suoi gusti: belga e figlio della cultura razionalista nordeuropea lui, radicatissima nella
tradizione cattolica del sud Italia io (con l’“aggravante” di essere impostata in termini di metodo
dall’incontro con il carisma di Cl). Come fanno questi due mondi a convivere? Per spiegare questa
cosa mi permetto di usare un tuo passaggio, don Carrón, tratto dal libro Allargare la ragione, a
pagina 23. Partiamo da un primo fatto, che io e mio marito appartenenti a mondi estranei, ci
incontriamo e diventiamo amici, e partiamo anche da un altro fatto e cioè che questo incontro sia
l’inizio di un cammino che porta a una conoscenza reciproca grazie alla disponibilità sia sua che
mia di allargare la ragione. Questa «non è semplicemente una vicenda privata per quanto
edificante. Esso ha una portata più ampia del perimetro del rapporto tra i due», a maggior ragione
la nostra che è un’amicizia coniugale. La nostra esperienza «costituisce una vera e propria novità
in un contesto culturale che oscilla tra lo scontro e l’indif erenza. (…) Cosa permette che si diventi
amici pur essendo storicamente determinati da tradizioni e culture diverse? È la presenza in
ognuno di noi (…) della stessa esperienza elementare, (è il) cuore». In concreto quello che è
scattato nel nostro rapporto è quello che il don Gius dice a pagina 42: «Il desiderio sincero di
conoscere l’oggetto in questione in modo vero più di quanto noi si sia abbarbicati a opinioni già
fatte o inculcate». In questo contesto vi racconto un fatto come esito di questo lavoro e che,
secondo me, forse risponde ancora di più alla domanda. Mercoledì scorso c’era Scuola di
comunità di ripresa, e mio marito mi manda un messaggio: «Un mio amico viene anche lui. Ci
vediamo insieme e poi andiamo». Io non l’avevo mai visto, anche se mio marito mi aveva parlato
del loro incontro per motivi di lavoro. Durante la cena insieme rimango, in crescendo, sempre più
sorpresa, perché questo amico mi racconta che mio marito era da tempo che gli parlava del
movimento ed era arrivato anche a regalargli Il senso religioso. Tra l’altro, questo amico è qui
stasera perché ha proprio chiesto di venire a questa Scuola di comunità... Non mi dilungo su altri
dettagli importanti per motivi di sintesi. A me questo avvenimento ha molto sorpreso, perché mio
marito mi ha testimoniato cosa vuol dire amare la verità più di se stessi e questo fatto, come tanti
altri, dice di un’apertura della ragione e di una grande lealtà con il proprio desiderio. Però, a
partire proprio da questa esperienza, desidero far fuori una questione, che c’è tra me e lui, perché
continua a dire: «Io non lo vedo questo Cristo presente, non so cosa vuole dire la contemporaneità
di Cristo». Però, cosa fa? Invita un suo amico alla Scuola di comunità. Sembra esserci
un’apparente contraddizione. Questa cosa mi ha fatto riflettere innanzitutto su di me, perché
quante volte capita che Cristo opera anche attraverso di me e io non me ne accorgo, cioè non
faccio il passo del riconoscimento. Ti chiedo: non è forse una questione di metodo? Non è forse che
invece che applicare il metodo della certezza morale noi applichiamo il metodo razionale, del
dimostrabile? Se puoi, per favore, ti chiedo di ritornare sulla questione della certezza morale.

Mi sembra che tu e tuo marito sappiate bene che cos’è la certezza morale. Allora la questione non è
ripetere una definizione, la definizione ce l’avete nel libro; il problema è che questo allargamento
della ragione in voi due è una sfida per te: «Io non lo vedo Cristo presente». Tuo marito dovrà fare
il suo percorso, tu devi fare il tuo. Tu che suggerimento, che indicazione, che segnalazione gli puoi
dare perché possa fare questo percorso, in modo tale che lui possa trovare nell’esperienza che vive
qualcosa che gli facilita questo riconoscimento? Non è questione di spiegare di nuovo il metodo,
ché già lo sai, ma di mettersi a usarlo. Questa è un’ipotesi di lavoro affinchè ciascuno possa mettersi
davanti al reale e possa lasciare emergere da questa esperienza, da questa realtà che viviamo, il
riconoscimento di Cristo. Per questo occorre un lavoro, occorre un’attenzione al reale, una capacità
di abbracciare qualsiasi aspetto, qualsiasi barlume che possa servire per rintracciare quello che sta
cercando.


6

Viene a casa mia un amico sposato e da qualche tempo separato e mi dice: «Io mi sono accorto, nel
percorso che ho fatto, che tra me e mia moglie non c’è possibilità di convivenza. Le abbiamo
provate tutte, ci vogliamo anche bene, molto, ma umanamente non è possibile». Poi si ferma – e
sembrava che tutto fosse finito così – e dice: «Umanamente non è possibile, però il percorso che
stiamo facendo, il lavoro che stiamo facendo mi ha così provocato che mi chiedo, siccome io il
contraccolpo di quella corrispondenza l’ho sentita su di me e mi ha cambiato la vita, cosa vuol
dire. Non posso lasciarla cadere». Questa cosa a me ha provocato un interesse ad andare a
conoscere qual è l’oggetto di cui stiamo parlando, non potevo fermarmi, e mi sono trovata per la
prima volta che non avevo da dire: «Va bene, non va bene, potresti fare, non potresti fare», ero
davanti a una cosa totalmente nuova. Lascio qui un attimo questo fatto per raccontarne un altro
che mi è accaduto a scuola, per dirti poi cosa ho capito. A scuola – io lavoro alle elementari – una
settimana e mezzo fa un insegnante di sostegno, che negli ultimi anni è continuamente rimbalzato
tra un istituto e un altro, viene contestato dai genitori che chiedono sia spostato. Ef ettivamente lui
è molto in dif icoltà, probabilmente non è adatto a questo lavoro. Ci ritroviamo in sala insegnanti
in cinque o sei, con lui presente, con lui che io avevo giudicato così come ho detto, e mentre
parliamo di lui, lui dice: «Guardate, io posso anche andare in biblioteca a lavorare. Ho
cinquantadue anni, sono solo, non ho nessuno, mia madre tutte le sere mi telefona dalla Sicilia e mi
dice: “Senti, anche questa volta ti è successo?”. E io non ho un lavoro, non so come fare a
mantenermi». In quel momento mi son chiesta: ma io che l’ho giudicato esattamente così, fino a
quel momento assolutamente certa del giudizio che avevo dato, veramente sono interessata
all’altro? Come mi interpella questa cosa che ha detto? Io quello che ho capito, Carrón, è questo:
che se non mi fosse ridonato nel presente il contraccolpo di una corrispondenza che c’è, la mia
opinione personale, che è sempre non solo approssimativa ma a volte inadeguata e totalmente
sfasata, non avrei modo di superarla; è così, non me ne libererei.


È così. Questo ci introduce al contenuto del Volantone di Pasqua di quest’anno, perché è proprio la
risposta a questo che hai appena detto. E lo capiamo ancora di più con negli occhi le immagini di
quel che è successo in Giappone, davanti alle quali ci rendiamo veramente conto di che cosa siamo
e di qual è la portata di quello che a noi è capitato. Quando vediamo spazzare via in un istante tutto,
le nostre opinioni traballanti e le nostre preoccupazioni piccole che cosa significano? Che cosa ci
consente di stare davanti a una cosa così? Vorrei rileggere quel pezzo dell’Introduzione a Il rischio
educativo che sempre più risponde al nostro bisogno: «Ero profondamente persuaso che una fede
che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa [una fede
confermata dall’esperienza stessa], utile a rispondere alle sue esigenze non sarebbe stata una fede in
grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto». Mi viene in mente questo
perché, come abbiamo detto in altre occasioni, se noi non facciamo un’esperienza di questo calibro,
se non troviamo nell’esperienza l’evidenza delle sue ragioni, noi davanti alla malattia, davanti al
dolore, davanti alle circostanze brutte, davanti a quello che non ci piace, non siamo in grado di
tenere tutta l’affezione e tutta la ragione aperta; occorre che ci sia qualcosa di presente che ci
calamiti e che ci convinca di questo. E – come dicevi – può essere solo in un’esperienza presente
che noi troviamo la conferma della sua ragionevolezza, dell’interesse per la vita, altrimenti qualsiasi
tsunami spazza via tutto. Per questo, dicevo, non basta un’esperienza della quale, poi, dobbiamo
chiedere la conferma a qualcuno fuori di noi. Questo mi ha fatto andare a cercare la prima
premessa, dove Giussani dice: «Se non si partisse dall’indagine esistenziale [dall’esperienza],
sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno, che vivo io, a un altro [e questo sarebbe
semplicemente fragile davanti agli tsunami della vita]. Il che […] renderebbe l’opinione altrui
supplenza di un lavoro che mi compete». In questo noi tante volte siamo pigri e chiediamo all’altro
che supplisca un lavoro che compete a noi, perché sono io che ne ho bisogno e non mi deve essere
risparmiato. Se sei madre o padre, non puoi evitare, a volte, la tentazione di risparmiarlo a tuo
figlio, ma il figlio ha bisogno dell’evidenza dell’esperienza che fa per poter stare nel reale; e senza
questa esperienza qualsiasi cosa lo fa fuori. Dovete pensare bene che cosa vuol dire amare l’altro,

7
perché tante volte noi cerchiamo di supplire questo lavoro che ci compete, e allora noi siamo
proprio alienati. Ma come posso io fare esperienza di questo nel presente? Questa è la grande frase
del Papa che troverete sul Volantone, tratta dal suo ultimo libro: «“Ma se Cristo non è risorto, vuota
allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1 Cor 15,14s). La fede cristiana sta o
cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si
può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e
sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere – una sorta di concezione religiosa del
mondo –, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso non è più il criterio di misura; criterio è
allora soltanto la nostra valutazione personale che sceglie dal suo patrimonio ciò che sembra utile [il
cristianesimo sarebbe soltanto un patrimonio di idee sull’uomo, sul mondo, di cui ciascuno può
prendere quello che gli piace o gli interessa o sceglie]. Questo significa che siamo abbandonati a noi
stessi [soli come cani: possiamo continuare a discutere sul patrimonio del cristianesimo, sulla
valutazione, sui valori, su distinte interpretazioni del cristianesimo, ma abbandonati a noi stessi]. La
nostra valutazione personale è l’ultima istanza. Solo se Gesù è risorto [cioè se è successo un fatto],
è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell’uomo. Allora
Egli, Gesù, diventa il criterio, del quale ci possiamo fidare. Poiché allora Dio si è veramente
manifestato». Guardate che qui c’è tutto quello che è in gioco, e i fatti del Giappone ce lo rendono
ancora più palese: se Cristo non è risorto, che cosa resta delle nostre idee più o meno geniali, dei
nostri tentativi? Siamo abbandonati a noi stessi. Ma come questo può diventare per noi
un’esperienza? Come dicevi tu, attraverso un incontro presente. Ma la tentazione di ridurre il
cristianesimo a patrimonio l’abbiamo ancora, cioè anche il carisma può correre lo stesso rischio se
esso è soltanto un patrimonio da cui ciascuno prende lo spunto più gradito a sé – si può discutere
sulle interpretazioni del patrimonio, ma noi siamo abbandonati di nuovo a noi stessi: per smarrire la
strada bastiamo ampiamente noi stessi… –. Allora la questione è se quello che è capitato a noi, se
quello che ci ha affascinato, può rimanere presente, non soltanto come qualcosa che ho imparato
come patrimonio, perché in tante occasioni non è che non sappiamo quello che dice Giussani.
L’altra settimana in un’assemblea uno è intervenuto, io sono assolutamente certo che lui sapeva che
il vertice della ragione è la categoria della possibilità, l’avrà ripetuto migliaia di volte! Ma ha detto:
«È solo da due anni che io veramente credo possibile la realizzazione vera di me», perché non basta
accanirsi sull’espressione, puoi parlare di categoria della possibilità ed essere razionalisticamente
convinto che non possa succedere. Infatti, il brano di don Giussani che c’è sul Volantone è la
risposta a una domanda che gli aveva fatto uno a un raduno del Gruppo adulto. In quel periodo il
don Gius, prendendo spunto dal pensatore Finkielkraut, aveva particolarmente sottolineato che la
conoscenza è sempre un avvenimento. E questo amico chiese: «Ma allora, se si conosce soltanto per
avvenimento, tutto quel che ho cercato di imparare di quanto ci hai detto durante questi anni, e che
mi sono impegnato ad approfondire, è una gabbia del “già saputo” che mi impedisce di
conoscere?». Giussani rispose che aveva perfettamente ragione, a meno che non succeda quello che
è, appunto, riportato sul Volantone: «L’avvenimento non identifica soltanto qualcosa che è accaduto
e con cui tutto è iniziato, ma ciò che desta il presente, definisce il presente, dà contenuto al presente,
rende possibile il presente. Ciò che si sa o ciò che si ha diventa esperienza se quello che si sa o si ha
è qualcosa che ci viene dato adesso: c’è una mano che ce lo porge ora, c’è un volto che viene avanti
ora, c’è del sangue che scorre ora, c’è una risurrezione che avviene ora. Fuori di questo “ora” non
c’è niente! Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non da una
contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che mi sta accadendo [ora]. Allora, perché
quello che sappiamo – Cristo, tutto il discorso su Cristo [potete metterci tutto quello che volete] –
sia esperienza, occorre che sia un presente che ci provoca e percuote: è un presente [attenzione!]
come per Andrea e per Giovanni è stato un presente. Il cristianesimo, Cristo, è esattamente quello
che fu per Andrea e Giovanni quando gli andavano dietro; immaginate quando si voltò, e come
furono colpiti! E quando andarono a casa sua… È sempre così fino adesso, fino in questo
momento!». Se non è così fino a questo momento, il cristianesimo ha già incominciato a diventare

8un patrimonio che ci lascia abbandonati a noi stessi e che non è in grado di cambiarci. Per questo
tutta la moralità si gioca davanti al presente, davanti alla modalità con cui Lui mi attrae, mi attira,
mi provoca. E allora tutto è semplice, basta la semplicità di cuore, cioè essere veramente se stessi
(invece che partire dall’immagine che uno ha di sé).
E questo è il punto successivo della Scuola di comunità. Se quello che vogliamo capire è il senso
religioso, e il senso religioso è un’esperienza che succede in noi, il punto di partenza è partire da noi
stessi. Ma non da noi stessi – di nuovo – come introspezione, come “già saputo”, bensì da noi stessi
in azione, per sorprendere i fattori che emergono nell’esperienza. Perché è soltanto se noi partiamo
da questo che potremo veramente vedere qual è la realtà vera del nostro io, quali sono i fattori
costitutivi del nostro io. E questo succede soltanto se noi ci impegniamo; dice don Giussani che i
fattori costitutivi dell’umano si percepiscono là dove sono impegnati nell’azione, altrimenti non
sono rilevabili. E aggiunge: «La condizione per poter [ecco di nuovo la parola] sorprendere in noi
l’esistenza e la natura di un fattore portante, decisivo come il senso religioso, è l’impegno con la
vita intera». Non con quello che decidiamo noi: con la vita intera! Allora se è così, si capisce perché
il quarto capitolo comincia dicendo che il vero problema non è quello di una particolare
intelligenza, ma è un problema di attenzione: sorprendere in azione i fattori costitutivi dell’io.
Per questo il lavoro che dobbiamo fare per la prossima volta è vivere l’attenzione per sorprenderci
in azione, cercando di rispondere a questa domanda: che cosa ho scoperto di me sorprendendomi in
azione? Perché così verrà fuori il vero bisogno che ci metterà davanti alla Sua presenza con una
facilità di riconoscimento, con una povertà di spirito.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 6 aprile alle ore 21.30 sul quarto capitolo «Il
senso religioso: il punto di partenza». Vi raccomando di far avere le domande e gli interventi per la
Scuola di comunità entro la domenica precedente l’incontro, così possiamo usarli.
È in uscita il Volantone di Pasqua, che sarà disponibile nei prossimi giorni. Mi sembra che con
questo abbiamo già introdotto il lavoro che può essere decisivo nei prossimi tempi; niente sembra
più adeguato al momento storico che viviamo. Non è una parola per uso interno; è allo stesso tempo
il giudizio su di noi e sul mondo, perché davanti allo tsunami che cos’altro abbiamo da offrire che
non sembri assolutamente impresentabile se non dire che Cristo è risorto? Che cosa tiene davanti a
una situazione così? Non abbiamo altro di più adeguato da dire, da offrire a noi stessi e ai nostri
amici che il Volantone, col suo contenuto.
• Gloria
• Veni Sancte Spiritus

L'ANGELUS Storia di una preghiera quotidiana

Beato Angelico, L'Annunciazione.





Sono parole care alla Chiesa e al movimento. Anche don Giussani ce le ha sempre fatte ripetere. Ma da dove viene questa tradizione? Tutto ha inizio nel Duecento, quando un giovane ricco....
Siamo nel 1211-1212: Francesco di Assisi è ad Arezzo e con le sue parole infiamma i cuori di chi lo incontra. Un gruppo di giovani, tra cui spiccano figli di nobili e ricchi casati, decidono di seguire quel carisma che Francesco portava: aderire a Cristo e alla sua umanità «sine glossa».
Nella storia dell’Angelus è implicato proprio uno di questi giovani, Benedetto Sinigardi (1190 ca. -1282), che dopo aver incontrato il santo di Assisi, «dette addio al padre e alla madre e a tutte le grandi ricchezze cha abbondavano nella sua casa».
Nel 1214 Benedetto inizia il cammino di obbedienza a Francesco che lo porterà, poco più che ventenne, a diventare uno dei principali responsabili del movimento. Ma, poiché «ebbe sempre fisso nel cuore il desiderio del martirio ed ottenne di poter andare oltremare», nel 1220 raggiunge il Medio Oriente per sostituire lo stesso Francesco, e pone le basi dell’insediamento francescano nei luoghi santi.
Ora Benedetto tocca con mano la terra di Gesù, contemplando con commozione lo stesso orizzonte che gli occhi di Maria, Giovanni e Pietro avevano guardato. Ciò che lo colpisce di più sono Nazareth e Cana. Terre lontane scelte da Dio per entrare nella storia. Grazie a Maria. Colei che ha permesso a Dio di compiere il suo disegno tra gli uomini. Per questo dal Medio Oriente, stupito dai continui richiami alla preghiera del muezzin, sollecitò con una lettera i superiori perché insegnassero, a tutte le ore e al suono delle campane, lodi a Dio in ogni luogo della terra.
Al suo ritorno in Italia nel 1241, insieme alle reliquie, Benedetto portava stampato nel cuore quel momento decisivo per la storia dell’uomo. L’annuncio dell’Angelo. Un fatto accaduto nel silenzio di un luogo lontano e solitario diventato concreto nella sua quotidianità: «Qui, proprio qui è iniziato tutto. Qui Angelus locutus est Marie!». E proprio questa frase diventò poi l’antifona cantata nel monastero di Arezzo, dopo Compieta. Benedetto «ripeteva e insegnava le parole rivolte dall’arcangelo Gabriele alla Vergine, cioè la prima parte dell’Ave Maria».
La devozione alla Madonna nel convento fu così grande che la consuetudine si trasmette rapidamente. Già nel 1274 l’uso di questa preghiera è ormai diffuso per tutta Europa, come testimoniano i documenti: da Magonza a Milano, da Montecassino a Wurzburgo.
Nel 1288 uno statuto dei calzolai di Lodi ordinava che essi dovessero subito smettere il lavoro «appena fatto il primo suono della campana dell’Ave Maria, nel campanile della chiesa maggiore di Lodi la sera di ogni sabato e di ogni vigilia di S. Maria». E allo stesso modo, a Padova, dove un capitolo provinciale del 1295 ordinava di suonare per tre volte la campana in tutti i luoghi in onore delle Vergine «...e allora tutti i frati si genufletteranno e diranno tre volte: Ave Maria grazia plena».
Nel 1318 la Santa Sede, nella veste di papa Giovanni XXII, approva l’usanza e verso la fine del Trecento alla pratica serale si affianca quella del saluto a Maria da farsi al mattino. Ciò accade anche in Inghilterra, dove il suono del mattino viene introdotto dal cardinale Cantorbery su desiderio del re Enrico IV. E mentre san Carlo Borromeo raccomanda di recitarlo sempre, sant’Ignazio di Loyola lo porta in Spagna. Fino a che, nel 1560, in un catechismo stampato a Venezia, appare per la prima volta la formula Angelus Domini nunziavit Mariae.
A distanza di secoli, la tradizione dell’Angelus viene consolidata dai Papi. Come Paolo VI che, nell’Esortazione Apostolica Marialis cultus, dice: «La Nostra parola sull’Angelus Domini vuole essere solo una semplice, ma viva esortazione a mantenere consueta la recita, dove e quando sia possibile. Tale preghiera non ha bisogno di restauro: la struttura semplice, il carattere biblico, il ritmo quasi liturgico, che santifica momenti diversi della giornata, l’apertura verso il mistero pasquale, per cui, mentre commemoriamo l’Incarnazione del Figlio di Dio, chiediamo di essere condotti per la sua passione e la sua croce alla gloria della risurrezione, fanno sì che essa, a distanza di secoli, conservi inalterato il suo valore».
Con la stessa devozione, Giovanni Paolo II ha fatto dell’Angelus il momento d’incontro domenicale con i fedeli in piazza San Pietro.
Il 23 maggio 1993, pregando davanti alla tomba del beato Benedetto Sinigardi, nella basilica di San Francesco ad Arezzo, papa Wojtyla ha detto: «È sempre molto suggestiva questa sosta a metà della giornata per un momento di preghiera mariana. Lo è oggi in modo singolare, perché ci troviamo nel luogo dove, secondo la tradizione, è nata l’usanza di recitare l’Angelus Domini».
Oggi, anche Benedetto XVI continua questa tradizione riconoscendo all’essenzialità dell’Angelus la potenza della memoria. Che ci ricorda come e quando è accaduto un fatto. Il contenuto della speranza dell’uomo.
di Claudia Nicastro

giovedì 24 marzo 2011

L'evidenza dell'esperienza


18/03/2011 - La Pagina Uno di "Tracce" di marzo, gli appunti dall’intervento di Julián Carrón all’Assemblea Responsabili dell’Italia di Comunione e Liberazione, Pacengo (Verona), 27 febbraio 2011

Uno stupore pieno di gratitudine che il Signore abbia ancora pietà del nostro niente mi ha invaso questa mattina, quando mi sono svegliato, pensando alla giornata di ieri; e mi è venuto subito alla mente un passo di don Giussani che mi ha letto un amico in settimana: «Specialmente in questi tempi mi veniva in mente che ciò che spiega perché il nostro movimento è cresciuto senza nessun programma, senza nessun progetto e senza nessuna pretesa: è cresciuto dal niente. L’ultimo pensiero era che la settimana dopo si potesse vivere ancora, ci fossimo ancora. Siamo nati con questa, non dico umiltà, ma senso realistico della nostra pochezza» (L’uomo e il suo destino. In cammino, Marietti, Genova 1999, pp. 76-77). È esattamente l’impressione che mi invade spesso: che ancora ci siamo, non che ci siamo come organizzazione, ma che ci siamo, che il Signore continui ad avere pietà del nostro nulla, del nostro niente, e che possa costantemente risvegliarsi la nostra libertà davanti all’eccezionalità della Sua presenza. Mi sembra che la giornata di ieri sia una conferma di questo.
Le domande che ci eravamo fatti erano: come il percorso su Si può vivere così? è stato ed è di aiuto a che l’intelligenza della fede diventi intelligenza della realtà? E che cosa la presentazione pubblica de Il senso religioso (insieme all’articolo di Natale su L’Osservatore Romano e al volantino «Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo») ha messo in moto nella vita del movimento? Perché sarebbe logico aspettarsi di essere in condizioni migliori per giudicare. Invece abbiamo registrato in alcuni una reazione impaurita rispetto al gesto del Palasharp (la presentazione del libro di don Giussani); in altri una posizione confusa rispetto al momento storico-politico. C’è chi tenta di risolvere il problema facendo analisi, chi invita nelle comunità l’esperto di turno (il politico, lo psicologo, il giornalista) per un “supplemento” di giudizio; riducendo così il carisma del movimento a riflessioni pie e “interne” che non servono per vivere.
La questione è molto, molto seria. A che cosa serve la fede? O, per dirla in un altro modo (soprattutto tenendo presente le difficoltà emerse nella Scuola di comunità sulla prima premessa de Il senso religioso): dove si genera il nostro giudizio?
Eravamo partiti - per dirla in modo sintetico - da quello che don Giussani risponde nell’intervista ad Angelo Scola: «Il cuore della nostra proposta è piuttosto l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso. È la percezione di questo avvenimento che resuscita o potenzia il senso elementare di dipendenza e il nucleo di evidenze originarie cui diamo il nome di “senso religioso”» (Un avvenimento di vita, cioè una storia, Il Sabato, Roma 1993, p. 38). A noi è capitato in un incontro, che si è prolungato in una storia; in noi è accaduto questo potenziamento delle evidenze originali; e abbiamo avuto esperienza di una corrispondenza tale che è imparagonabile, tanta è l’eccezionalità di quello che ci è capitato e ci è successo nell’incontro con Cristo: qualsiasi altra esperienza (innamorarsi di una donna o struggersi per un amico) è una «ombrata analogia» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), Bur, Milano 2010, p. 44).
Dovrebbe, quindi, essere facile giudicare; se si sono potenziate tutte le evidenze originali che sono il criterio di giudizio, se abbiamo avuto un’esperienza di corrispondenza tale che è senza paragone con nessun’altra, tutto sembrerebbe a posto per un paragone immediato, di schianto. E invece ci sentiamo dire che siamo confusi, e spesso lo siamo. Come quando per venire fuori dalla confusione politica si leggono tutti i giornali, e tutto diventa ancor più confuso! Oppure quando ci si rivolge agli “esperti” per i problemi nella politica, nella scuola o nella vita affettiva. Col che, di fatto, il cristianesimo si dimostra inutile, malgrado le nostre intenzioni, malgrado i nostri discorsi, malgrado le nostre logiche; e ci ritroviamo alienati come tutti: dipendiamo sempre da qualcuno fuori dell’esperienza. E uno si domanda: ma allora qual è la convenienza umana della fede, qual è la ragionevolezza della fede?
A questo si aggiungono due altre forme di complicazione.
Una riguarda il rapporto tra la Scuola di comunità in collegamento video e i gesti nelle comunità locali. A un raduno una persona mi ha detto che notava che alcuni partecipano al collegamento e non alle Scuole di comunità. E dove starebbe il problema? «Nel collegamento che deresponsabilizza le persone», ha detto lei. Io ho replicato: «Non è che forse è il contrario? Che se non stiamo a quel livello nelle nostre comunità locali, è difficile sopportare il nostro ritrovarci?». Il giorno dopo ho ricevuto questa lettera da una nostra amica: «Durante questi anni ho fatto questo percorso. Primo: “Cristo me trae tutto tanto è bello”, come dice il titolo degli Esercizi della Fraternità che mi hanno cambiato la vita. Secondo: allora voglio vivere solo così, se la realtà mi dà la possibilità di scegliere non voglio niente di meno. Ora ti voglio dire che per molti anni ho sofferto alla Scuola di comunità, perché era pesante e noiosa. Pensavo che fosse un mio problema, ma ci son sempre stata; non per timbrare il cartellino, ma perché oggettivamente era l’unica strada per vivere il rapporto con Cristo secondo il carisma che ho incontrato. E per me questo è indispensabile, a qualunque costo. Poi è arrivata la tua Scuola di comunità: è stato un dono infinito, oltre ogni speranza e immaginazione. Ho ripreso il gusto dell’inizio, la Scuola di comunità è diventata nuovamente vitale. Quando arriviamo agli avvisi mi dico: “Come, è già finita?”. Il punto non è che tu sei bravo, il punto è che ti poni come un amico che sta facendo una scoperta, ce la comunica e ci spinge a farla anche noi. Insomma, per me è un respiro infinito. Perciò non mi viene voglia di andare alla Scuola di comunità locale, così incastrata e pesante, dove per me non solo non c’è attrattiva, ma anzi c’è la grande tentazione di guardare solo quello che non va. Io lo chiedo a te, perché dove dovrei altrimenti porre questa domanda?». A lei risponderò quel che devo rispondere per il suo cammino personale. Ma a noi cosa chiede la sua urgenza?
La seconda difficoltà l’ho rilevata spesso in queste ultime settimane: alcuni pensano che saremmo più incidenti storicamente se facessimo altre cose rispetto a quel che stiamo facendo, per esempio se dessimo altri e più “puntuali” giudizi, perché i nostri sarebbero troppo astratti. Che cosa ci dice questo complesso di minorità?
In questi tre giorni è venuto fuori con chiarezza ciò che è al centro di tutto il nostro metodo (e sul quale dobbiamo avere le idee veramente chiare, sottomettendo la ragione all’esperienza): quale è la natura del cristianesimo, quale è la natura del nostro movimento. Perché se a questo riguardo non guadagniamo una chiarezza, in fondo penseremo sempre che sarebbe meglio fare altro (il partito, o la consulenza psicologica, o l’assistenza sociale); e c’è chi ci prova, cercando di ridurre il carisma a qualcuna di queste varianti, in nome di una presunta inincidenza storica. Come se nella nostra storia non fosse successo niente, come se non avessimo già vissuto il ’68, quando tutto sembrava più incidente del cristianesimo e della comunione cristiana! Tutti ricordiamo quell’episodio di don Giussani che, vedendo un universitario che fa le barricate, gli chiede: «Cosa fai?». «Sono qui con le forze che cambiano la storia». E Giussani gli risponde con la frase geniale che abbiamo richiamato in un recente volantino: «Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo».
Per questo vogliamo domandarci sempre più, insieme al Papa, «che cosa possa ultimamente muovere l’uomo nell’intimo» (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 2): che cosa è veramente concreto, che cosa è veramente incidente alla radice dell’io perché possa cambiare anche la storia? Se su questo non siamo chiari - e questo dice fino a che punto è adeguato il lavoro che stiamo facendo -, non si risveglia il senso religioso; se il cristianesimo non è in grado di risvegliare il nostro io, siamo come tutti, e quello che viviamo non è decisivo né per noi né per gli altri. Che tenacia e che certezza del don Gius lungo tutta la nostra storia per non mollare su questo punto! E davanti a qualsiasi tentativo di cercare al di fuori dell’esperienza qualche soluzione, don Giussani ci ripropone continuamente un metodo diverso. Già dal primo capitolo de Il senso religioso ci ricorda che se uno vuole capire che cosa è il senso religioso, non deve andare a cercare altrove (che cosa dice internet, che cosa dicono i libri, che cosa dicono gli esperti). No. E perché no? Perché don Giussani è un fissato o perché l’esperienza ci mostra che il metodo dialettico della moltiplicazione dei punti di vista ci fa finire con l’essere ancora più confusi? Perché tu puoi leggere tutto quanto si dice su una cosa, ma se non parti dall’esperienza non hai il criterio di giudizio per giudicare nemmeno quello che leggi... È l’esperienza il metodo - dice lui -: «Se non si partisse dall’indagine esistenziale, sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno, che vivo io, a un altro. Il che, se non fosse conferma, arricchimento o contestazione a seguito di una riflessione già personalmente intrapresa, renderebbe l’opinione altrui supplenza di un lavoro che mi compete e veicolo d’opinione inevitabilmente alienante» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 6).
Don Pino ieri diceva: «Il don Gius ha sempre proclamato la precedenza del fatto sulle interpretazioni. Il problema tra noi non può essere l’interpretazione migliore di Giussani, perché questa è gnosi. Se è un conflitto di interpretazioni secondo la storia di ciascuno, allora ci saranno solo opinioni e nessun giudizio, nessuna liberazione, nessuna novità». E l’autorità, poi, dovrebbe fare la sintesi tra le diverse interpretazioni. Io sarei qui a gestire il punto su cui mettersi d’accordo, come fosse una questione di potere.

Tutto questo spiega qual è la sfida che abbiamo davanti, amici: se noi vogliamo seguire Giussani già dal primo capitolo de Il senso religioso e mettere a tema l’esperienza; perché altrimenti avremo sempre bisogno dell’esperto, di un supplemento di verità al di fuori dell’esperienza stessa. O l’esperienza porta in sé le ragioni («L’esperienza porta in sé l’evidenza», diceva ieri mattina una di voi), oppure dovremo sempre prenderle da fuori. Ma così crollerebbe tutto. E, ancor più grave, così renderemmo “inutile” il cristianesimo. Invece tutti sappiamo e tutti accettiamo che per rispondere al desiderio di compimento non bastano le tante frecce che puntano al Mistero, ma occorre qualcosa d’altro, che non è una dialettica o un conflitto di interpretazioni, ma un fatto, anzi, “il” Fatto. Perché il dualismo, in cui tante volte stiamo immersi fino al midollo, non è vinto da un discorso, ma da un’esperienza. Senza di questo la nostra intelligenza della fede non diventa intelligenza della realtà, e per questo noi non siamo decisivi. Il nostro contributo sarà decisivo «solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà», come ha detto Benedetto XVI.
Che cosa è successo in questi giorni? Diceva ieri uno di voi: «Cristo è Memor mei», e le testimonianze che aveva sentito gli facevano dire: «I miei occhi hanno visto, le mie mani hanno toccato il Verbo della vita. Io sono memor Domini perché Lui è Memor nostri, Memor mei, cioè c’è Qualcuno che mi tira via dal mio nulla, si rende così palese ai miei occhi che tutta la mia vita è riempita della Sua memoria, della Sua presenza, e io vedo che cosa è Lui perché sono più consapevole della irriducibilità del mio io». O come descriveva un altro: «Sono più consapevole della natura del mio bisogno, perché io devo confessare che stando da tanto tempo nel movimento avevo ridotto la mia domanda umana. Tu eri felice e io no, e ho capito che nessuno riesce a mantenersi da sé nell’atteggiamento giusto cui l’incontro con Cristo lo ha spalancato. Se non vivo personalmente questa sproporzione strutturale, non sono un soggetto». Ascoltandolo, mi veniva in mente quello che dice il don Gius: «Bisogna stare molto attenti perché troppo facilmente non partiamo dalla nostra esperienza vera, cioè dalla esperienza nella sua completezza e genuinità. Infatti spesso identifichiamo l’esperienza con delle impressioni parziali, riducendola così a un moncone, come frequentemente avviene nel campo affettivo, negli innamoramenti, o nei sogni sull’avvenire. E più spesso ancora noi confondiamo l’esperienza con dei pregiudizi o degli schemi magari inconsapevolmente assimilati dall’ambiente. Per cui, invece di aprirci in quell’atteggiamento di attesa, di attenzione sincera, di dipendenza, che profondamente l’esperienza suggerisce ed esige, noi imponiamo all’esperienza categorie e spiegazioni che la bloccano e la angustiano, presumendo di risolverla» (L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, pp. 84-85). Perché? Perché noi non partiamo dai nostri bisogni veri, non sappiamo a volte neanche che cosa siano. In che cosa si vede che Cristo si ricorda di noi, che Cristo è presente in mezzo a noi? Nel fatto che ci rende più consapevoli del nostro bisogno, del nostro mistero, della irriducibilità del nostro io, della sproporzione strutturale; e questo porta a una scoperta di me, della vera natura del mio io, di quanto sono mendicante, di quanto sono dipendente.
Allora qual è il criterio della verità e della chiarezza? Che succeda l’avvenimento di Cristo - che porta dentro l’evidenza delle ragioni, che mi tira via da tutta la mia confusione, che mi dà la chiarezza sul mio io e sul reale -! E per questo non basta tutto il passato, tutta la storia; abbiamo bisogno ora della contemporaneità di Cristo, occorre che Qualcuno continui ad avere pietà di noi, perché altrimenti noi finiamo nella confusione di tutti e siamo inutili per il mondo. Allora quando vediamo ridestarsi di nuovo lo stupore, non è scontato, non è scontato; quello che è successo ieri non è scontato: che dopo sei anni dalla morte di don Giussani il Signore continui ad aver pietà di noi non è scontato, ma questo chiede a noi una disponibilità a lasciarci generare.
Mentre preparavo la presentazione de Il senso religioso mi è venuto in mente che il primo tentativo educativo di Dio è stato il popolo d’Israele. Eppure da questo popolo sono venute fuori due figure, che il Vangelo mette davanti ai nostri occhi. Gli scribi avevano preso sul serio la storia, si erano impegnati a studiarla, sapevano la logica, ma questo non li ha resi disponibili; la tentazione del “già saputo” è sempre in agguato per tutti, e gli scribi lo documentano - anche noi, in nome del “già saputo”, potremmo non essere disponibili a quello che il Mistero fa ora, perché la vera intenzione dell’educazione di Dio non è il “già saputo”, che sarebbe la tomba, ma la povertà di spirito -. Chi si è dimostrato aperto e disponibile alla modalità di Dio è stata la Madonna, o Giovanni e Andrea, o Zaccheo. Saremo tutti sempre davanti a queste due possibilità. Non è soltanto una storia del passato, ma è una storia del presente: in nome del “già saputo” possiamo misurare il presente, invece di lasciarci colpire dal presente e fare l’esperienza della liberazione.
Mi ha colpito il racconto di uno che da tanti anni è nel Gruppo Adulto, che ha ricordato quando don Giussani nel 1992, disse citando il filosofo Finkielkraut che si può conoscere solo per avvenimento: «Più guardavo questa affermazione, più ne prendevo coscienza, e più mi sembrava che davanti ai miei occhi emergesse il tipo umano che fa un’esperienza di quel genere, cioè un uomo baldanzoso, un uomo libero. Mi affascinava moltissimo questa concezione della conoscenza come avvenimento. Allora ho domandato a Giussani: “Ma io tutto il tentativo che ho fatto in tutto questo tempo nel Gruppo Adulto è stato voler imparare seguendoti. Se tutto questo che io ho imparato è una gabbia, allora come posso vivere costantemente davanti a questo avvenimento? Quel lavoro che ho costruito intorno al mio io può diventare una gabbia e resto così imprigionato proprio dall’esito della mia passione, che era imparare. Altro che uomo libero, altro che uomo povero, baldanzoso, libero e creativo!”. Il don Gius mi rispose: “Sì, quello che dici è vero; a meno che quello che sai non ti venga ridonato da uno presente”. Questa frase mi piacque moltissimo, ma non la capii e forse non capii neanche di non capirla, però me la sono ricordata per tanti anni come un sottofondo presente nella mia memoria, e come un fiume carsico mi è ritornata esplicitamente alla coscienza sentendo in questi anni parlare Carrón: sentendo parlare lui ho fatto e faccio l’esperienza di cui parlava il don Gius». Posso essere io o può essere un altro, non è questa la cosa importante. Decisivo è se io sono disponibile nei confronti di colui attraverso il quale il Mistero si rende presente ridonandomi quello che già sapevo, perché se io non sono disposto ad accoglierlo come presente, siamo finiti. E questo in che cosa si vede, in che cosa si documenta? Che io sono disponibile, che non capisco, ma mi sento di nuovo afferrato, che io ricomincio a respirare, e questo mi fa veramente capire.

Questa, amici, è l’unica possibilità che il movimento continui a essere movimento: se noi ci lasciamo generare da qualcosa di presente, qualsiasi sia la modalità attraverso cui il Mistero lo fa riaccadere, che può essere - come dicevamo ieri - l’ultimo arrivato, uno “vecchio”, uno “nuovo”, con storia o senza storia, chiunque. Perché la libertà del Mistero si mette in evidenza così. Noi lo stiamo vedendo in tante occasioni, come documentavate ieri, perché quando le persone si lasciano generare, sorprendiamo il fiorire di figure autorevoli, che vengono fuori dallo stato di minorità, perché poggiano sull’evidenza delle ragioni dell’esperienza che fanno, diventando così protagonisti, non gregari bisognosi sempre di qualche conferma del capo per mancanza di evidenze. E il test di questo protagonismo è il modo di stare nel reale, la lealtà con i dati, l’affezione, perfino la dimensione cosmica di quello che si vive.
A differenza di quello che potevamo pensare, mettere a tema questo non soltanto non ha fatto venir meno l’amicizia, ma ha generato una intensità di rapporti di amicizia prima sconosciuta, non formale, di una verità che stupisce, una amicizia nell’essenziale, in quello che abbiamo più a cuore, e non nelle conseguenze soltanto, non nel secondario. Perché quando il dramma della vita bussa alla nostra porta - come ci ha testimoniato un amico ieri, parlando della morte di suo figlio - non basta qualsiasi altra cosa che non sia Cristo: nessun’altra cosa ci consente di stare davanti alle sfide vere della vita! Perciò è come se la parola amicizia acquistasse anche davanti ai nostri occhi una intensità di rapporti prima sconosciuta, e questo si vede nel rifiorire delle comunità, che sono anche generate da questi “ii” nuovi, da queste creature nuove, da questi protagonisti che sono prima di tutto un dono per le comunità stesse, e che allo stesso tempo hanno bisogno di spazio, di accoglienza, di un abbraccio se non vogliamo perderli - perché questi l’evidenza ce l’hanno, non sono dei sottomessi -.
Che razza di conversione, amici, chiede questo a chi ha responsabilità, perché non è il programma di conversione fatto a tavolino: la conversione è a quello che il Mistero fa. Quale altro modo di affrontare la Quaresima è più interessante e più incidente e più adeguato che non il fatto di accogliere l’Avvenimento presente, che il Signore ci dona facendolo accadere davanti ai nostri occhi? Perché la responsabilità è la conversione dell’io all’Avvenimento presente. Domandiamo alla Madonna di avere questa semplicità sua: la capacità di accogliere il nuovo che il Signore fa, che ci è dato per noi e per il mondo.

sabato 12 marzo 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 23 febbraio 2011

Testo di riferimento: L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 17-30.
• Errore di prospettiva
• Lela
Gloria
Ci eravamo dati due domande per il nostro lavoro di questi quindici giorni: quando abbiamo sorpreso in noi un uso vero dalla ragione (cioè come coscienza della realtà secondo tutti i fattori) e quando abbiamo percepito la ragionevolezza del nostro agire? Sono domande che cercavano di invitare ciascuno di noi a sorprendere nell’esperienza quando succede questo, secondo il metodo che ci ha insegnato don Giussani già dal primo capitolo: che il punto di partenza per fare la strada si chiama esperienza.

Volevo dire una cosa proprio su questo metodo, perché io ho accettato di fare la Scuola di comunità in questi quindici giorni rispondendo a queste domande, prima ancora di andare a chiarirmi le idee sui contenuti. Che cosa è successo? Che nei primi due giorni avevo già risposto perché dicevo: «Mai». Cioè mi sono trovata molto in difficoltà di fronte a questa domanda. E questo mi ha spinto a riprendere anche i contenuti. Riprendendo i contenuti, e soprattutto leggendo
tutti gli esempi che fa sulla ragionevolezza, ho compreso che non avevo mai capito che la ragionevolezza è un’esigenza, e quindi facevo l’errore di tradurre
la tua domanda così: quando sono stata brava nell’usare la ragione? E quindi ero incastrata, perché ovviamente la risposta è: mai. Mentre la ragionevolezza è un’esigenza! Per cui è cambiato tutto, perché poi sono andata a cercare quando mi sono sorpresa a sentire come bisogno quello della totalità dei fattori e allora
lì sì che ho cominciato a rispondere, ma alla luce del fatto che avevo finalmente, per la prima volta,sentito la ragionevolezza non come una necessità, ma come un’esigenza. Ho scoperto che la conoscenza di una cosa veramente avviene per un incontro, perché io all’inizio ho dovuto accettare di non aver tutto chiaro, ma di cominciare a rispondere a questa domanda.

Ti ringrazio perché questo ci introduce al tipo di lavoro che cerchiamo di imparare a fare, perché tu– lo so bene – conoscevi già bene la premessa, che cos’è la ragione, che cos’è la ragionevolezza.
Ma quello che ti urge a riprendere anche i contenuti di quello che dice il testo è la percezione di una esigenza. Già l’altra volta mi aveva colpito che tante volte la difficoltà che abbiamo nel giudizio è la stessa: noi il giudizio lo pensiamo come qualcosa di aggiunto, di appiccicato al reale (e allora dire
che occorre giudicare è qualcosa per gente che si complica la vita). E se uno esce di qui con questa convinzione di fondo, anche se impara “che cos’è” il giudizio, non gli serve a niente. Ma se voi avete un amico o una persona cara o la mamma che ha certi segni di una malattia grave e sta cominciando a fare gli accertamenti per verificare che cosa ha, vi urge il giudizio o no? O pensate che questa è una cosa appiccicata? Che l’importante è andare avanti e che si può passare sopra al
giudizio? Quando la vita urge il giudizio è un bisogno, è un’urgenza: ho bisogno di sapere se la mamma ha il tumore o no! Giudicare è un bisogno! Se non capiamo questo, se non lo percepiamo nell’esperienza, anche se studiamo benissimo tutti i passaggi del primo capitolo, rimarrà sempre come qualcosa per qualcuno che si complica le cose, e non lo sentiremo di certo necessario per una liberazione.
Questo lo possiamo fare rispetto alle grandi questioni come alle piccole
preoccupazioni: quante volte, durante questi quindici giorni, avete sentito
l’urgenza di giudicarle?
Tante volte le sopportiamo, sono lì che incombono su di noi rendendo la vita pesante, e non le guardiamo in faccia, non le giudichiamo, e perciò non sperimentiamo mai la liberazione. E possiamo aver riletto tutto il capitolo de
Il senso religioso, ma se non succede questo,, noi il capitolo
non l’abbiamo imparato. Mi è venuto in mente questo mentre sentivo parlare lei, ripensando ad
2
alcune delle urgenze che mi avete scritto nelle mail – ne sono arrivate più di duecento: questo vuol dire che quando siamo richiamati ci mettiamo al lavoro –. Per esempio, tanti sono preoccupati che andiamo troppo in fretta; può essere vero, ma mi interessa che, a proposito di questo, ci rendiamo conto di un errore: non è che ripeterci per più tempo le definizioni giuste ci faccia di per sé arrivare a usare la ragione in un modo più vero. Infatti tanti di noi il concetto vero di ragione lo sanno; sono sicuro che se domandassi: «Ma che cos’è la ragione secondo don Giussani?», tutti mi direste:«Coscienza della realtà secondo tutti i fattori».
Vero? Tutti.Ma uno con il concetto vero di ragione può continuare a essere un razionalista, cioè a usare la ragione secondo una misura! Questo è il problema. E per questo nella presentazione avevamo detto che è la contemporaneità di Cristo che
consente alla ragione tutta la sua apertura, permettendo di raggiungere un’intelligenza della realtà prima sconosciuta: ogni circostanza, ogni cosa, anche
la più banale, è esaltata, capiamo tutta la sua portata. Ma chi ci consente di usare la ragione così? Il rileggere più accanitamente Il senso religioso? È uno studio più approfondito quello che ci fa fare automaticamente esperienza delle
parole del don Gius?


Appena ho letto la domanda che hai posto due settimane fa, la prima cosa che ho pensato è stata che è impossibile. Avere coscienza del reale secondo tutti i fattori è un’utopia. Ed ero tutto chiuso su un’immagine che io avevo di ragione come misura, cioè come capacità di elencare analiticamente tutti i fattori descrittivi
di quello che mi accade davanti. Ma quello che poi mi ha liberato da questa immagine sono state due esperienze in cui mi sono sorpreso a vivere la ragione non secondo l’immagine che ne avevo, ma secondo la natura che è. La prima esperienza è stata quella che ho vissuto al weekend dell’Assemblea Responsabili dell’Italia a Pacengo.
Da lì deriva la Pagina Uno del Tracce di marzo: «L’evidenza dell’esperienza», che vi raccomando di leggere.

Lì, davanti a me, è accaduto un fatto che era così affascinante, così totalizzante, così “per me”, che l’unica cosa che ho dovuto fare è stata accorgermi di quella Presenza che stava accadendo, cioè accorgermi ancora una volta che Cristo è
Memor mei (nonostante tutta la mia meschinità). E,come dicevi tu al Palasharp: «Nella fede cristiana non vi è una ragione che spiega, ma una ragione
che si apre – percependosi così finalmente compiuta nella sua dinamica – allo svelarsi stesso di Dio». E davanti al fatto di Cristo questo è riaccaduto con un’evidenza che è impressionante,soprattutto quando dici che la ragione si compie nella sua dinamica. Esperienzialmente questo l’ho visto perché io coincidevo
con me stesso lì, come desiderio di essere felice, come capacità di riconoscere che Cristo è vero, è reale, è risorto ma non perché lo diciamo, ma perché io posso riconoscerLo nel reale. E lì, dall’interno di questa esperienza, mi sono
accorto che è questa passività nel riconoscerLo ciò per cui io sono fatto,
perché quando accade ti accorgi che la ragione è questa apertura nel riconoscere
Lui quando irrompe nella vita. La seconda esperienza è questa.
Sabato sera ero a cena con un gruppo di universitari e a un certo punto uno di
questi mi racconta che circa un anno fa un suo amico è morto in un incidente
stradale e che qualche mese fa un altro suo amico, sempre più o meno della mia
età, si è suicidato. E lì che cosa puoi dire, di fronte a un
dramma così? La vertigine era così grande che in un primo istante mi sembrava di
non poter dire nulla di ragionevole, di profondamente vero. Ma quello che mi
sono sorpreso anche lì a riconoscere è stato questo, ancora una volta: che in me innanzitutto c’è un fattore che è irriducibile, che io sono ora rapporto con
il Mistero, per il fatto che ci sono, per il fatto che esisto e per il fatto che
ho una domanda di significato che supera tutto quello che mi sta intorno. Io sono rapporto infinito ora, e questo nucleo di me, di cui mi sono reso conto da quando ho incontrato Cristo un anno e mezzo fa, non può morire,
non può essere spazzato via, perché non è riducibile a questo mondo. E questo
nucleo che è in me, che io sono, è la verità di quei due ragazzi che sono
morti, che non sono finiti nel nulla. Di questo sono certo: che neanche la
morte è in grado di spezzare il nesso che io vivo con il Mistero.
E riconoscere questo nesso quella sera per me è stato usare la ragione in modo vero, cioè riconoscere la totalità di quel fatto che mi è stato posto davanti. Veramente io non avevo in mano niente della loro vita, non so neanche i loro nomi, ma
3
percepirli nel loro essere fatti e voluti da un Altro è stato riconoscere il reale per la totalità che è.
Ultima cosa. Questo per me è un altro segno della pertinenza della fede alle esigenze della vita,
cioè che la mia ragione rimane spalancata senza soccombere al dolore, alla vertigine di fronte a un
fatto come quello, perché ancora una volta è stata riallargata da quello che mi è accaduto quel
weekend, cioè dall’imporsi di Cristo nella mia vita.

Grazie.
Se noi guardiamo queste due esperienze, cosa ci dicono? Che la ragione riesce a essere veramente se stessa davanti a un fatto che la prende totalmente (per questo Giussani continua a dire che Giovanni e Andrea sono l’esempio dell’intelligenza,
di questa ragione che si apre, che si compie) o davanti alla morte dove urge totalmente. Non è un ripetere un concetto di ragione, è vedere accadere questo concetto di ragione di cui don Giussani dopo ci dà la definizione. Ma la
definizione del concetto di ragione don Giussani da dove la tira fuori? E noi da
dove la possiamo tirare fuori? La possiamo tirare fuori dal riconoscimento dell’esperienza che facciamo. E allora uno capisce il contenuto del testo e
quando lo legge dice: «Ah! È questo». Noi questo passaggio che abbiamo cercato
di spiegare nella presentazione (e siccome tutti vi aspettavate che io vi
“spiegassi” Il senso religioso, siete stati spiazzati) non l’abbiamo
ancora colto, perché tutto quanto ci ha detto Giussani è che noi non siamo in
grado di ridestarci il senso religioso, di ridestarci la ragione, di
ridestarci l’esigenza del nostro io e tutta la nostra libertà; e che per
questo occorre Cristo, ché
soltanto Lui ridesta il senso religioso, lo educa e lo salva. Per questo
l’educazione al senso religioso sta succedendo costantemente nel modo in
cui noi viviamo la vita; la questione è se noi siamo attenti a quello che
accade, e allora possiamo incominciare a capire che cosa è quello che dice
Giussani; e possiamo ritornare al testo, rileggerlo, e allora ogni parola acquista una carnalità. Non è diverso il metodo da quello che abbiamo detto rispetto
alla Bibbia, citando Sant’Agostino: «Nei nostri occhi i fatti, nelle nostre mani
i codici». Il lavoro che vi propongo e che propone Giussani è questo; se ci dice
che noi non siamo in grado di ridestare tutto il senso religioso, ce lo dice per
la consapevolezza che ha e che gli ha consentito di scrivere Il senso religioso:
perché gli è accaduto qualcosa che gli ha fatto capire. Allora: nei nostri occhi
i fatti. E con i fatti negli occhi possiamo andare a rileggere il testo, e allora
lo capiamo – e smetteremo di dire che il testo è complicato,perché è
complicato solo per chi travolge il metodo –. Che succeda una cosa che ti
spalanca tutto e ti lascia senza parole, questo non solo è difficile: è impossibile. Ma quando accade è facilissimo, anche se non lo possiamo
generare noi. E allora uno capisce che il vero concetto di ragione è la
ragione che si apre e che capisce che ha tutti i fattori come mai prima.
Come quando uno si innamora; non è l’analisi di tutto (i capelli piuttosto che
la faccia, piuttosto che l’altezza), ma è la capacità di cogliere il reale in
tutti i fattori cosicché mai come in quel momento hai colto, hai capito
che cosa hai davanti, mai come in quel momento la ragione è diventata ragione.
Mai come in quel momento la ragione compie la sua natura di ragione: coscienza
della realtà secondo tutti i fattori. È questa esaltazione che l’esperienza religiosa, cristiana, rende possibile. Vi leggo come questo, poi,
diventa una tensione a entrare in tutto, per esempio nel lavoro: «Caro
don Carrón, volevo innanzitutto dirti che trovo utilissime le domande che ci
poni come traccia del lavoro. Parto al mattino con dentro queste domande,
tesa a vedere come il Mistero si mostra nell’esperienza. Mi sono accorta che è proprio l’attrattiva di Cristo che facilita quell’apertura che sarebbe
impossibile senza di Lui. Inizio a fare esperienza di quello che ci hai
ricordato alla presentazione de Il senso religioso, cioè che la contemporaneità di Cristo consente così alla ragione tutta la sua apertura permettendole di
raggiungere un’intelligenza della realtà prima sconosciuta. Ogni cosa, ogni
circostanza, anche la più banale è esaltata, diventa segno, parla, è
interessante da vivere. Ci sono tanti piccoli fatti in cui ho sorpreso in me questa posizione di apertura riguardo al lavoro, alla famiglia, agli amici.
Per esempio l’altro giorno mi arriva la chiamata di un cliente che aveva
bisogno di un aiuto su una cosa di cui non mi occupo io, quindi gli stavo dicendo che lo avrei passato al collega che se ne occupava; subito mi
interrompe e mi dice che è da venti minuti che sta chiamando e che ogni volta gli veniva risposto così; ho capito che era una di quelle chiamate di cui nessuno si vuole occupare perché rognosa, e inizia quindi il palleggio da un collega all’altro. In quel momento mi è proprio venuto in mente in un attimo l’esperienza di un’amica che mi aveva

4
raccontato di come stesse imparando da ogni persona aspetti dell’azienda dove lavora, e questo era possibile proprio da una
posizione di apertura che le permetteva di cogliere ogni aspetto con
un’attenzione e una intelligenza impensabili. In un attimo ho come colto
che quello era un pezzettino di realtà da guardare, da conoscere e non da
scaricare solo perché fastidiosa. E soltanto se uno comincia a fare questo può sperimentare che allora la vita non è prima di tutto da sopportare,
che c’è una possibilità di guadagno, di interesse per sé». Questo può capitare nel lavoro o può capitare nello studio
.

Per rispondere alle due domande, quando abbiamo sorpreso in noi un uso vero della ragione equando abbiamo percepito la ragionevolezza del nostro agire,
volevo raccontare un fatto. Mi sono laureata due settimane fa alla laurea triennale con una tesi sulla Russia in Clemente Rebora. Lo scopo del lavoro era quello di cercare di capire cosa avesse spinto il poeta verso la cultura russa e cosa di questa cultura lo affascinasse. È opinione abbastanza comune dai pochi scritti relativi a questo suo interesse che egli si avvicinò alla Russia grazie alla relazione con una pianista russa, ma a me pareva una spiegazione insufficiente,
che non esauriva le domande che io avevo sul perché di tanto coinvolgimento da
parte sua con questa cultura e su come mai egli preferisse certi autori
piuttosto che altri. Leggendo l’epistolario di Rebora ho iniziato a
formulare alcune ipotesi e intuizioni che lentamente si facevano più concrete,
ma ero sempre titubante a dire la mia e aspettavo di trovare la conferma
delle mie ipotesi in qualche critico di sicuro più esperto di me, che
ne sapesse di più in materia, dicendomi: «Ma se non lo dice lui che ne sa di
più, chi sono io per dirlo?». Anche di fronte a dei dati evidenti era come se avessi paura a dire la mia, se prima qualche esperto non me la avesse confermata. Sono andata, allora, da un professore della mia
università che ha scritto molti libri sul tema e gli ho esposto le mie considerazioni, sperando in un suo appoggio, ma mi ha risposto che stavo
andando fuori strada, che era meglio fare un lavoro più
tecnico e che l’unico, reale motivo che lui aveva per avvicinarsi
alla Russia era la donna di cui si era innamorato. Sono uscita di lì convinta
delle sue parole e mi sono rimessa al lavoro cercando di
mostrare i fatti che legavano Rebora alla Russia. Questi legami erano sempre
di più, ma la mia domanda sul perché di tale coinvolgimento, per capire cosa ci trovasse lui di così interessante non se ne andava; anzi, partendo proprio da uno studio più approfondito, si faceva sempre più forte. Ho deciso, allora, di
prenderla in considerazione e cercare di rispondervi seriamente. Si è aperto
così un campo interessantissimo, che mi ha fatto andare a fondo di questo studio e incontrare veramente il poeta. Mi ha stupito, infine, come di fronte a una commissione di filologi che potevano criticare molti aspetti del mio lavoro,
nessuno ha potuto dire niente, anzi, io ho potuto dire qualcosa di più
in merito a questo studio. Anche se non sono la massima esperta di Rebora,
posso dire di averlo conosciuto davvero, di possederlo davvero. Durante questo lavoro mi sono a volte chiesta cosa significasse essere cristiani facendo
una tesi e cosa c’entrasse Gesù in tutto questo. Ho spesso tentato di appiccicare un’etichetta e dire: «Gesù», ma non cambiava niente, a parte un
trasporto sentimentale che durava poco. Mi si è reso evidente, invece, che
un’intelligenza tale sullo studio non me la sono data da sola (perché vedo,
invece, spesso come io rimanga sulla superficie) e non è neanche frutto di una conoscenza totale di Rebora (perché – ripeto – non sono un’esperta). Eppure
mi sono trovata addosso una ragione che è stata capace di rendersi conto di
tutti i fattori in gioco e che mi ha permesso di non cancellare le domande
che avevo di fronte a quello che studiavo. Misono accorta che quel centuplo quaggiù di cui parliamo non è qualcosa di astratto, ma è questo
possesso più vero.

Questo è un esempio di come il fatto che ci è capitato può farci usare la ragione in un modo che non si trattiene nel “già
saputo” degli altri, ma continua a vivere questa tensione di entrare nel reale
avendo presente il desiderio di prendere tutti i fattori, anche quelli che gli
altri hanno già scartato. Equesto lo possiamo fare in ogni aspetto del reale.
Proprio su questo leggo ancora quel che scrive uno di voi: «Quando abbiamo
sorpreso in noi un uso vero della ragione? Penso a tutte le volte in cui mi
capitano momenti di malinconia triste. In questi momenti lo sguardo che ho
sulla realtà che sichiama “io” è tendenzialmente pessimista, deluso. Allora
essere ragionevole significa chiedermi:
5
“Ma io sono quello che sto vedendo adesso, sono solo lo stato d’animo
che mi domina?”. La risposta è “no”. No, perché io sono desiderio di cui quello stesso disagio è un documento; sono una storia che ha tanti momenti positivi,
sono dei rapporti cui posso guardare, sono destinato a un bene
che ho già cominciato ad assaporare. Essere ragionevole significa alzare lo sguardo, non per illudermi, ma per vedere cose che lo stato d’animo offusca. Allora mi rendo conto che in quelmomento sto anche verificando la verità della fede, perché non aver paura del desiderio infinito èuna cosa che mi viene continuamente insegnata, ridestata. La positività della mia storia di uomo
viene tutta dall’incontro che ho fatto, la certezza del destino buono mi è testimoniata dal mio cammino ormai lungo nel movimento e da tanti esempi che ho attorno. Posso quindi concludere cheanche i momenti di malinconia sono una
tappa del cammino e così mi capita la sorpresa disperimentare ciò che mi
sembrerebbe impossibile: un barlume di letizia [questo barlume di letizia
noi lo possiamo incominciare a percepire come esperienza usando la ragione così:
non è che ha avuto non so quale “trasporto”, semplicemente non è rimasto incastrato in un uso della ragione
come misura]. E questo stesso modo ragionevole di guardare mi capita di
utilizzarlo verso l’altro [immaginiamo nei rapporti di amicizia, immaginiamo
tra marito e moglie], che è di più dellareazione in cui lo vedo dibattersi,
del problema che pone, dell’errore che fa. Questo non è un atteggiamento di
bontà morale, è proprio un giudizio della ragione. Lo stesso avviene nei
confronti della realtà circostante; quante volte mi capita di vedere cose che
gli altri evidentemente non vedono: il sole che tramonta, o una signora chef
fatica a salire sull’autobus con la carrozzina. Anche in questo caso non è una questione di una certa moralità, ma proprio di una ragionevolezza. Allora
tutto incomincia ad avere un peso, una intensità, una capacità di profondità che rende tutto diverso».
E questo come possiamo acquistarlo sempre più? Che cosa lo rende possibile? Lo rende possibile questo ridestarsi continuo della ragione per un avvenimento
che ci educa costantemente a usarla così, fin quando diventi sempre più mia, più nostra. E allora quanto più uno sente questo, più ritorna al libro con questo
negli occhi, con questa urgenza di capire di più. Perché, allora, leggiamo Il
senso religioso? Perché è lì dove si descrive che cosa è la ragione, che cosa è
la ragionevolezza, che cosa è la certezza; e lì possiamo fare il paragone.
Ma noi possiamo riconoscere non in modo intellettualistico la portata di quello
che leggiamo, proprio perché succede. Allora la questione non è soltanto darci più
tempo, ma è vivere con questa intensità perché è lì dove noi impariamo, non nelle
definizioni che tutti sapremmo ripetere quasi perfettamente. Non si diventa meno razionalisti perché facciamo la critica della ragione (come dimostra Kant). Chi
ci libera dal razionalismo? Chi ci educa a vivere la ragione secondo tutti i fattori, a conoscere il reale? Questo è quello che Giussani ci diceva:
«Guardate che questo succede per un incontro, per un rapporto», non per un accanimento o soltanto leggendo in continuazione il libro; così come noi leggendo soltanto i Vangeli non saremmo arrivati a capire tutto quanto. Perché? Perché soltanto se vediamo i fatti nel presente, possiamo leggerli in tutta la loro profondità. Secondo me questo è decisivo per il cammino che stiamo facendo, altrimenti perdiamo ciò su cui tanto ha insistito Giussani: che il punto di partenza è l’Avvenimento come metodo, e che questo Avvenimento (l’incontro
con la contemporaneità di Cristo) potenzia l’evidenza elementare, potenzia l’uso della ragione, potenzia il senso del reale, potenzia la libertà, potenzia tutto.
E questo è veramente decisivo perché altrimenti, un istante dopo
il 26 gennaio, siamo già smarriti, aspettandoci la risposta solo da un
maggior approfondimento intellettuale. No! Perché se non usiamo la ragione in maniera sana, non vuol dire che dobbiamo “imparare” meglio i contenuti del
libro, ma che dobbiamo vivere con semplicità l’Avvenimento
cristiano che ci consente di usare la ragione così come don Gius ci documenta.



Volevo confrontare con te l’ultima cosa emersa dal lavoro di Scuola di comunità, anche perché poi volevo finire con una domanda personale. Il fatto scatenante è
stato l’incontro con un mio collega che mi raccontava dei problemi oggettivamente seri che ha con il figlio (secondo me un po’ aggravati forse dalla posizione sua e di sua moglie): «Vedi, noi abbiamo consultato molti specialisti; tanti ci danno definizioni e nessuno ci dice cosa dobbiamo fare». Di fronte alla sua
angoscia, la prima cosa che ho pensato è: «Non ha tutti i torti», e nello stesso tempo ho come
6
cercato, mentre lui mi parlava, di aprire dei file per trovare delle frasi che potessi dirgli; fino a che l’unica conclusione a cui sono giunta è che a me
quello che ha permesso di poter reggere l’urto e il dramma della vita non è
stato avere di volta in volta delle istruzioni per l’uso, ma quel percorso che tu
continui a riproporci incessantemente, cioè partire dalla mia umanità così com’è
e dal reale come una possibilità di conoscenza e di verifica della speranza che
ho incontrato. Solo attraverso questo lavoro totalmente personale, in cui
nessuno mi si può sostituire, io posso reincontrare l’unico punto che tiene
e compie il bisogno che il mio cuore grida (sia nei momenti in cui il
dramma urge o anche nei momenti in cui sei invasa da una gioia profonda che
capisci che non ti dai e non ti puoi nemmeno mantenere). Da qui, però, è
scattata una serie di dinamiche in cui mi accorta che molto spesso nei rapporti,
nei dialoghi anche normali tra di noi, c’è il rischio di guardare subdolamente
alla realtà come attendendosi da essa qualcosa di risolutivo, cioè che in
fondo quel fatto di cui noi parliamo sia qualcosa che accade e ci sistema, e
quindi in qualche modo c’è sempre una grande disillusione. Io capisco che se
anche è vero che noi possiamo dire con verità che la realtà è Cristo, che noi
abbiamo sperimentato una corrispondenza che ci fa dire: «Ma dove
andiamo lontano da qui?», questo non ci impedisce di dover rifare
costantemente questo percorso.

Non è che non ce lo risparmia: è l’unica condizione che rende possibile farlo! Mi spiego? La maggioranza non lo fa perché è già incastrata. A noi non viene risparmiato niente, come vediamo; e senza la ragionevolezza che scaturisce dall’Avvenimento, davanti alla morte
siamo bloccati, davanti alle difficoltà siamo incastrati, davanti alle
circostanze siamo fermi. Qual è la differenza? Non che a noi viene risparmiato
il lavoro della ragione, ma che a noi è successo qualcosa che ci consente
ancora, malgrado tutto, di fare il percorso. Per un’educazione e per quello
che ci è capitato,possiamo veramente vivere da uomini con tutta l’esigenza della ragione, con tutto il percorso della libertà, vivere la circostanza, non
soltanto subirla. Questa è la verifica della fede, perché senza di
Lui questo noi ce lo sogniamo! Non è che a noi, per il fatto di aver
incontrato Cristo, venga risparmiata la vita; non ci viene risparmiato niente,
e non vogliamo che ci venga risparmiato niente.
Ma possiamo guardare in faccia la realtà, possiamo usare la ragione, possiamo fare il paragone, possiamo entrare nel reale, possiamo essere tutti tesi ad aspettare come Lui si svelerà davanti ai nostri occhi. Senza l’esperienza
cristiana, come vedete intorno a voi, è impensabile. Se viene meno il
cristianesimo, viene meno l’umano! Viene meno l’uso della ragione, viene
meno l’uso della libertà, viene meno il paragone, viene meno tutto. Questo potenziamento e sommovimento dell’umano è ciò che ci aspettiamo da questo luogo. Vi ho detto tante volte che ringraziavo don
Giussani anzitutto per questo: perché mi ha consentito di fare un cammino umano.
Non è che non avessi la fede; ma una fede vissuta così, come lui ce l’ha testimoniata, è quello che ridesta tutta la nostra capacità umana, la ragione, l’affezione, la libertà, l’intelligenza, tutto.


Tant’è che io sono andata a rileggermi tutto quel che tu avevi detto il 26 gennaio, e aveva tutta un’altra dimensione.

È questo il dialogo che dobbiamo avere con
quello che ci diciamo. Così come lei è andata a rileggerlo e allora l’ha capito
un po’ di più, così possiamo andare dopo questo nostro incontro a rileggere il capitolo sulla ragione, o domani quello sulla moralità nella conoscenza. È
questo dialogo che non finisce.
Non è che perché stiamo più tempo su una premessa, la capiamo di più. La capiamo di più perché vivendo e ritornando, vivendo e
ritornando, sperimentiamo finalmente ciò di cui stiamo parlando.



Quindi la domanda è: questa cosa che tu dici sempre – «Io non vorrei mai mi
fosse risparmiato niente» – perché mi mette sempre anche un po’ a disagio?

Perché vogliamo che ci vengano risparmiate le cose? Perché non sappiamo come affrontarle. Ma quando uno ha gli strumenti adeguati, allora desidera mettere
le mani in pasta. Provate a dirmi dino..
.
Magari non capisco ancora tutto, ma…

Ma uno che comincia a studiare così, come abbiamo sentito prima dalla nostra amica, vuole che gli venga risparmiato? No, è quello
che le desta tutto il desiderio di studiare di più. Se avesse cominciato a studiare così dall’inizio, figuratevi! Un festival, altro che la sopportazione dello

7
studio! E così la vita, così ogni giorno. Questa è la promessa. Ma se noi non sperimentiamo che la
fede è per questo, che cavolo ci interessa la fede? Se non è perché ci ridesta tutte le nostre capacità
che abbiamo – la ragione, la libertà, l’affezione, tutto quanto, tutto il nostro io – e ci fa godere la
vita, non so dove è ragionevole.

Qualcosa che capisco è che se c’è in ballo un’umanità così, non mi interessa nient’altro.


Esatto. Allora quando abbiamo un’umanità così non soltanto non vogliamo che ci si risparmi niente,
ma vogliamo entrare nel reale così.


Volevo raccontare la vicenda della morte del papà di mio marito. È stata proprio l’evidenza
dell’impossibilità di far tacere il cuore e di
non giudicare. Mio suocero ha avuto un gravissimo
incidente
due settimane fa, è stato rianimato, portato in ospedale, attaccato a un’infinità di
apparecchiature. Quando siamo arrivati lì, prima
di tutto in mezzo alla tragedia ci scoprivamo
tranquilli, e
questo era una sorpresa guardandosi in faccia, e capivamo che l’origine
veniva da
questo lavoro. Era impossibile non giudicare, non far
parlare il cuore, perché c’è stata la riunione
con tutta la famiglia
e i medici hanno detto in modo molto sbrigativo: «In un’ora dovete decidere
se
staccare le macchine o no», dando dei criteri prima ma in modo
molto brutale, senza umanità, per
cui si è creata in tutta la
famiglia una repulsione a questa pressione. Per cui lì è stato evidente che
uno deve andar dentro nella realtà e capire le ragioni di quello che accade.
A me ha colpito, perché
questa famiglia è dif icile, alla fine di
questa riunione con i medici si è anche creata confusione.
Mio
marito ha chiesto subito una sala per riunire la famiglia e parlarsi.
Io l’ho guardato e ho
detto: «Cosa gli è saltato in testa?
Ma non lo sa come è questa famiglia?». Mi colpiva tantissimo
vedere mio marito tranquillo in questo frangente, e lui mi ha detto proprio che senza la coscienza
della presenza di Cristo, senza la preghiera e la visibile unità tra noi due per lui sarebbe stato
impossibile fare questo.
Quando mi ha detto così io mi sono detta: «Ecco perché, ci sei Tu, la
presenza è passata attraverso la sua libertà».


Cosa hai imparato tu da questo?

«Cosa dici tu, che giudizio dai? Perché?»: andavamo a cercare gli appunti di Scuola di comunità,
andavamo a rileggere, ci interrogavamo…
Vedete? Quando la vita urge davvero ritorniamo a tutto quel che ci diciamo.

Esatto, non potevamo mollare. A me questo ha colpito tanto perché al funerale alla fine han fatto
aspergere la bara da tutti i parenti. Quando è stato il mio turno è come uscito il dolore guardando
la foto che c’era sulla bara: non ti vedrò mai più. E in quel momento ho intuito cosa vuol dire “o
Cristo o nulla”, e ho detto: «Grazie Cristo che sei arrivato a fare questo, di dare la vita per lui e
per me, per salvare me in questo momento», perché il mio cuore può rimanere aperto davanti alla
morte anche con questa ferita, solo se so che Lui ha fatto quello che il mio cuore desidera nel
profondo, e mi veniva da pensare che tenere aperta la mia esigenza davanti a Cristo è stato come
presentire che il mio cuore è Lui stesso, per cui non c’è da avere paura di niente; piangevo, ma ero
proprio lieta. Tornati a casa il lavoro continua.


Grazie. Aggancio a quel che dici un testo del don Gius del 1989 sulla Madonna che mi ha suggerito
uno di voi, perché vi si vede in atto cosa vuol dire l’uso della ragione; si intitola «Maria: fede e
fedeltà» ed è la Pagina Uno del Tracce di maggio 2007: «A me piace immedesimarmi con quel
momento lì, quando non c’era più né l’Angelo né nient’altro, e la Madonna era lì, dicevo, ragazza
quindicenne, da sola, da sola con quell’Avvenimento, che ancora non sentiva, non poteva sentire
dentro di sé, ma che capiva, aveva capito che era accaduto e si sarebbe sviluppato. E poteva pensare
ai suoi genitori, poteva pensare a Giuseppe, suo fidanzato, e alla gente, a quello che diceva: sola,
sola, non c’era più niente a cui appoggiarsi. In quel momento ha toccato il culmine di quella che si
chiama “fede”: la fede. La più grande produzione della libertà dell’uomo di fronte all’Infinito è la
capacità della fede, che è vedere l’Infinito, vedere il Mistero dentro le cose apparenti: ché,
apparentemente, non c’era più niente, ma lei ha creduto, lei ha mantenuto l’adesione all’evidenza
che le era accaduta, lei ha capito – e ha aderito – che dentro, dietro quel silenzio apparente delle
cose, il grande Mistero, per cui l’umanità era stata fatta, che fino allora tutti aspettavano in vario 7

8
modo, specialmente il suo popolo, era accaduto. Lei ha capito questo e ha accettato questo,
nonostante le apparenze. La fede, infatti, torno a dire, è riconoscere la grande presenza del Mistero,
il mistero del Padre e il mistero di Cristo, Verbo fatto carne, il mistero di Dio che si è fatto presente,
identificandosi con la precarietà della materia. Nel suo corpo di giovanissima, di giovane ragazza,
Dio c’era; e in quella casupola, piena di oscurità, Dio, la luce di Dio, c’era. Vedere Dio dentro,
come prospettiva: dentro le cose, perché tutte le cose - tanto più quelle che sono vicine a noi, tanto
più quelle che amiamo - sono un segno, cioè l’introduzione alla verità, alla vera vita, alla verità e
alla vita, che è Dio, Dio fatto uomo, perché si è fatto carne dentro di lei». La fede è questo. Solo
nella fede viene vinta l’apparenza delle cose (cioè un uso della ragione ridotta a misura). Che in noi
possa diventare familiare questo uso della ragione, così che l’apparenza si trasformi in primo invito
a entrare nell’essere e ad arrivare al Tu! Ciascuno può guardare in faccia quante volte in questi
quindici giorni l’ha usata così, guardando il reale, non immaginandolo, ma entrandoci dentro.
Questo è quello a cui ci introduce questo lavoro, ché – come vedete – un conto è sapere la
definizione di ragione, un altro conto è che questo diventi familiare nel modo di viverla. È qui dove
costantemente siamo sorretti e sfidati dalla contemporaneità di Cristo, che ci tira fuori dalla nostra
distrazione e ci facilita. E allora possiamo vedere quello che diceva il don Gius di Giovanni e
Andrea: la ragione che finalmente diventa se stessa.
Per continuare questo lavoro la prossima volta faremo il capitolo sulla moralità nella conoscenza,
naturalmente senza mandare in archivio alcunché di quel che abbiamo visto sinora. In questo
capitolo, che è la terza premessa che don Giussani introduce, entra in gioco la conoscenza. Già l’avevamo detto agli scorsi Esercizi della Fraternità: la libertà è sempre in gioco nella conoscenza.
Per questo don Giussani dice che il cuore del problema della conoscenza umana non sta in una particolare capacità di intelligenza, ma nell’atteggiamento giusto di fronte al reale; si chiama moralità questo atteggiamento, che si può definire così: l’amore alla verità dell’oggetto che voglio
conoscere più che alle mie opinioni su di esso. O, detto ancora più sinteticamente: amare la verità più di se stessi. Questo don Giussani lo riassume dalla fine di pagina 42: «“Beati i poveri di spirito,perché di essi è il regno dei cieli”. Ma chi è il povero? Il povero è chi non ha nulla da difendere, chi
è distaccato da ciò che sembra avere, così che la sua vita non è per affermare il proprio possesso. La povertà di spirito suprema è quella di fronte alla verità, è quella che desidera la verità e basta».Ma siccome noi viviamo nella storia e siamo pieni di preconcetti, pieni di immagini, pieni di una crosta, attraversare questa crosta è un lavoro; mi dispiace, non è immediato. Mi ha sempre colpito il capoverso finale della terza premessa: «Ma che cosa può persuadere a questa ascesi, a questo lavoro e allenamento? L’uomo infatti solo da un amore e da una affezione è mosso. L’amore che ci può persuadere a questo lavoro per arrivare a una capacità abituale di distacco dalle proprie opinioni e dalle proprie immaginazioni (non di eliminazione, ma di distacco da esse!), così da porre tutta la nostra energia conoscitiva nella ricerca della verità dell’oggetto qualunque esso sia, è l’amore a noi stessi come destino, è l’affezione al nostro destino. È questa commozione ultima, è questa emozione suprema che persuade alla virtù vera». Qui si mette a tema l’amore al nostro destino e l’amore a noi stessi. Ecco le domande che vi suggerisco, siccome di nuovo occorre partire dall’esperienza: quando ci siamo sorpresi riconoscendo l’incidenza della moralità nella conoscenza? Che cosa viene fuori dalle difficoltà che troviamo in questo uso della moralità? La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 23 marzo alle ore 21.30 sulla «Terza premessa:incidenza della moralità sulla dinamica del conoscere». La Fraternità ci richiama l’importanza che la Chiesa ha sempre attribuito ai tempi liturgici, perché la liturgia, con i suoi ritmi, ci provoca ad andare a fondo dell’esperienza cristiana. Perciò la Fraternità ci propone un momento di ritiro durante la Quaresima

9
Il ritiro si articola in un momento di annuncio del sacerdote che prende spunto da una scheda preparata da me per questo momento; segue uno spazio di silenzio (perché lo stare davanti a una Presenza riempie di silenzio), un momento di assemblea, gli avvisi e la Messa.Il ritiro di Quaresima insieme a quello di Avvento e agli Esercizi sono il modo con cui la Fraternità accompagna con un gesto comunionale non tanto il gruppo ma la persona, ciascuno di noi, ad andare a fondo della verità di sé e a stare di fronte alla scoperta del proprio cuore, così come ci è stato ridestato nell’incontro con il carisma. Per questo mi raccomando: il ritiro di Quaresima è un’occasione privilegiata per guardare in faccia tutto quello che viviamo, e soprattutto Lui.Domani, giovedì 10 marzo, uscirà il nuovo libro del Papa: Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione. Il Centro Culturale di Milano organizza la prima presentazione pubblica del libro, martedì prossimo 15 marzo alle ore 21, presso l’Auditorium in Corso S. Gottardo a Milano. Intervengono Reiner Riesner (esegeta protestante, esponente della Scuola di Tubinga ed amico del Santo Padre) e don Pino. Per partecipare all’incontro è necessario prenotarsi on-line telefonicamente presso lo stesso Centro Culturale di Milano (per evitare di non trovare posto).
Preghiamo•

Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam