lunedì 31 marzo 2014

Il Papa ai Salesiani: vicini ai poveri e responsabili nella gestione dei beni, giovani siano protagonisti nella Chiesa



“Lavoro e temperanza” guidarono l’opera di San Giovanni Bosco, volta a curare le anime, specie dei giovani. Lo ha ricordato il Papa, ricevendo stamane i partecipanti al 27.mo Capitolo generale dei Salesiani dedicato al tema “Testimoni della radicalità evangelica”, nell’anno bicentanario della nascita del fondatore. “Lo Spirito Santo vi aiuti a cogliere le attese e le sfide del nostro tempo” , ha auspicato Papa Francesco rivolto al neo-eletto rettor maggiore, don Angel Fernandez Artime, e al Consiglio generale, raccomandando a tutta la famiglia salesiana “trasparenza e responsabilità nella gestione dei beni”, oltre che “una vita essenziale ad austera”
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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CAPITOLO GENERALE DELLA
SOCIETÀ SALESIANA DI SAN GIOVANNI BOSCO (SALESIANI)
Sala Clementina
Lunedì, 31 marzo 2014

Cari fratelli,
siate i benvenuti! Ringrazio Don Angelo per le sue parole. A lui e al nuovo Consiglio Generale auguro di saper servire guidando, accompagnando e sostenendo la Congregazione salesiana nel suo cammino. Lo Spirito Santo vi aiuti a cogliere le attese e le sfide del nostro tempo, specialmente dei giovani, e a interpretarle alla luce del Vangelo e del vostro carisma.
Immagino che durante il Capitolo - che aveva come tema “Testimoni della radicalità evangelica” - abbiate avuto sempre davanti a voi Don Bosco e i giovani; e Don Bosco con il suo motto: “Da mihi animas, cetera tolle”. Lui rafforzava questo programma con altri due elementi: lavoro e temperanza. Io ricordo che nel collegio era vietato fare la siesta!… Temperanza! Ai salesiani e a noi! «Il lavoro e la temperanza - diceva - faranno fiorire la Congregazione». Quando si pensa a lavorare per il bene delle anime, si supera la tentazione della mondanità spirituale, non si cercano altre cose, ma solo Dio e il suo Regno. Temperanza poi è senso della misura, accontentarsi, essere semplici. La povertà di Don Bosco e di mamma Margherita ispiri ad ogni salesiano e ad ogni vostra comunità una vita essenziale e austera, vicinanza ai poveri, trasparenza e responsabilità nella gestione dei beni.
1. L’evangelizzazione dei giovani è la missione che lo Spirito Santo vi ha affidato nella Chiesa. Essa è strettamente congiunta con la loro educazione: il cammino di fede si innesta in quello di crescita e il Vangelo arricchisce anche la maturazione umana. Occorre preparare i giovani a lavorare nella società secondo lo spirito del Vangelo, come operatori di giustizia e di pace, e a vivere da protagonisti nella Chiesa. Per questo voi vi avvalete dei necessari approfondimenti e aggiornamenti pedagogici e culturali, per rispondere all'attuale emergenza educativa. L'esperienza di Don Bosco e il suo“sistema preventivo” vi sostengano sempre nell'impegno a vivere con i giovani. La presenza in mezzo a loro si distingua per quella tenerezza che Don Bosco ha chiamato amorevolezza, sperimentando anche nuovi linguaggi, ma ben sapendo che quello del cuore è il linguaggio fondamentale per avvicinarsi e diventare loro amici.
Fondamentale qui è la dimensione vocazionale. A volte la vocazione alla vita consacrata viene confusa con una scelta di volontariato, e questa visione distorta non fa bene agli Istituti. Il prossimo anno 2015, dedicato alla vita consacrata, sarà un'occasione favorevole per presentare ai giovani la sua bellezza. Bisogna evitare in ogni caso visioni parziali, per non suscitare risposte vocazionali fragili e sorrette da motivazioni deboli. Le vocazioni apostoliche sono ordinariamente frutto di una buona pastorale giovanile. La cura delle vocazioni richiede attenzioni specifiche: anzitutto la preghiera, poi attività proprie, percorsi personalizzati, il coraggio della proposta, l'accompagnamento, il coinvolgimento delle famiglie. La geografia vocazionale è cambiata e sta cambiando, e questo significa nuove esigenze per la formazione, l'accompagnamento e il discernimento.
2. Lavorando con i giovani, voi incontrate il mondo della esclusione giovanile. E questo è tremendo! Oggi, è tremendo pensare che ci sono più di 75 milioni di giovani senza lavoro, qui, in Occidente. Pensiamo alla vasta realtà della disoccupazione, con tante conseguenze negative. Pensiamo alle dipendenze, che purtroppo sono molteplici, ma derivano dalla comune radice di una mancanza di amore vero. Andare incontro ai giovani emarginati richiede coraggio, maturità e molta preghiera. E a questo lavoro si devono inviare i migliori! I migliori! Ci può essere il rischio di lasciarsi prendere dall'entusiasmo, inviando su tali frontiere persone di buona volontà, ma non adatte. Perciò è necessario un attento discernimento e un costante accompagnamento. Il criterio è questo: i migliori vanno lì. “Ho bisogno di questo per farlo superiore di qua, o per studiare teologia…”. Ma se tu hai quella missione, mandalo lì! I migliori!
3. Grazie a Dio voi non vivete e non lavorate come individui isolati, ma come comunità: e ringraziate Dio di questo! La comunità sostiene tutto l'apostolato. A volte le comunità religiose sono attraversate da tensioni, con il rischio dell'individualismo e della dispersione, mentre c'è bisogno di comunicazione profonda e di relazioni autentiche. La forza umanizzante del Vangelo è testimoniata dalla fraternità vissuta in comunità, fatta di accoglienza, rispetto, aiuto reciproco, comprensione, cortesia, perdono e gioia. Lo spirito di famiglia che Don Bosco vi ha lasciato aiuta molto in questo senso, favorisce la perseveranza e crea attrattiva per la vita consacrata. 
Cari fratelli, il bicentenario della nascita di Don Bosco è ormai alle porte. Sarà un momento propizio per riproporre il carisma del vostro Fondatore. Maria Ausiliatrice non ha mai fatto mancare il suo aiuto nella vita della Congregazione, e certamente non lo farà mancare neppure in futuro. La sua materna intercessione vi ottenga da Dio i frutti sperati e attesi. Vi benedico e prego per voi, e, per favore, pregate anche per me! Grazie!


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Il Papa: chi ha fede cammina verso le promesse di Dio, se no è un “turista esistenziale”

Non girovagare per la vita, compresa quella dello spirito, ma andare diritti alla meta che per un cristiano vuol dire seguire le promesse di Dio, che mai deludono. È l’insegnamento che Papa Francesco ha tratto dalle letture di oggi, spiegate all’omelia della Messa presieduta in Casa S. Marta.

Ci sono cristiani che si fidano delle promesse di Dio e le seguono lungo l’arco della vita. Poi vi sono altri la cui vita di fede ristagna e altri ancora convinti di progredire e che invece fanno solo del “turismo esistenziale”. Papa Francesco distingue fra tre categorie di credenti, accomunate dal sapere che la vita cristiana è un itinerario ma divergenti nel modo di percorrerlo o non percorrerlo affatto. Anzitutto, spiega il Papa rifacendosi al brano di Isaia della prima Lettura, Dio sempre “prima di chiedere qualcosa, promette”. La sua promessa è quella di una vita nuova e di una vita di “gioia”. Qui, afferma, c’è il “fondamento principale della virtù della speranza: fidarsi delle promesse di Dio” – sapendo che Lui mai “le delude” – e c’è l’essenza della vita cristiana, cioè “camminare verso le promesse”. Poi, riconosce, ci sono anche altri cristiani che hanno “la tentazione di fermarsi”:

“Tanti cristiani fermi! Ne abbiamo tanti dietro che hanno una debole speranza. Sì, credono che ci sarà il Cielo e tutto andrà bene. Sta bene che lo credano, ma non lo cercano! Compiono i comandamenti, i precetti: tutto, tutto… Ma sono fermi. Il Signore non può fare di loro lievito nel suo popolo, perché non camminano. E questo è un problema: i fermi. Poi, ci sono altri fra loro e noi, che sbagliano la strada: tutti noi alcune volte abbiamo sbagliato la strada, quello lo sappiamo. Il problema non è sbagliare di strada; il problema è non tornare quando uno si accorge che ha sbagliato”.

Il modello di chi crede e segue ciò che la fede gli indica è il funzionario del re descritto nel Vangelo, che chiede a Gesù la guarigione per il figlio malato e non dubita un istante nel mettersi in cammino verso casa quando il Maestro gli assicura di averla ottenuta. All’opposto di quest’uomo, afferma Papa Francesco, c’è invece forse il gruppo “più pericoloso”, in cui ci sono coloro che “ingannano se stessi: quelli che camminano ma non fanno strada”:

“Sono i cristiani erranti: girano, girano come se la vita fosse un turismo esistenziale, senza meta, senza prendere le promesse sul serio. Quelli che girano e si ingannano, perché dicono: ‘Io cammino!’. No, tu non cammini: tu giri. Gli erranti… Invece, il Signore ci chiede di non fermarci, di non sbagliare strada e di non girare per la vita. Girare la vita... Ci chiede di guardare le promesse, di andare avanti con le promesse come quest’uomo, come quest’uomo: quell’uomo credette alla parola di Gesù! La fede ci mette in cammino verso le promesse. La fede nelle promesse di Dio”.
La “nostra condizione di peccatori ci fa sbagliare di strada”, riconosce Papa Francesco, che però assicura: “Il Signore ci dà sempre la grazia di tornare”:

“La Quaresima è un bel tempo per pensare se io sono in cammino o se io sono troppo fermo: convertiti. O se io ho sbagliato strada: ma vai a confessarti e riprendi la strada. O se io sono un turista teologale, uno di questi che fanno il giro della vita ma mai fanno un passo avanti. E chiedo al Signore la grazia di riprendere la strada, di metterci in cammino, ma verso le promesse”.

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Aforisma di lunedì 31 marzo 2014


“Potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno fermare la primavera.”
Pablo Neruda (pseudonimo di Ricardo Eliezer Neftalí Reyes Basoalto
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Kaliméra di Etty Hillesum: "Una volta è un Hitler; un'altra è Ivan il 
Terribile, per quanto mi riguarda; in un caso la rassegnazione, in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta e risolve il dolore, e se riesce a mantenere intatto un pezzettino della propria anima".
Havete!

Don Carlo

domenica 30 marzo 2014

Eucarestia e matrimonio, così si ripete il passaggio del Mar Rosso

Eucarestia
Il dibattito accesosi attorno alla questione dei divorziati risposati e del loro non poter accostarsi all'Eucarestia, ha messo in evidenza - come ampiamente documentato da La Nuova BQ - che molti cattolici e anche importanti fette dell'episcopato non solo hanno perso il significato del valore sacramentale del matrimonio, e quindi il suo carattere di indissolubilità, ma anche quello dell'Eucarestia. La riduzione della Comunione a un diritto e la pratica ormai diffusa in Europa di accostarsi alla Comunione anche in stato di peccato grave e senza sentire il bisogno di confessarsi, ne sono una lampante dimostrazione. Per questo abbiamo pensato di proporre un itinerario che aiuti a recuperare il significato dell'Eucarestia, affidandolo a una firma ben nota ai nostri lettori che è anche suora adoratrice del Santissimo Sacramento. Suor Maria Gloria Riva ripercorre per noi la storia di alcuni miracoli eucaristici per introdurci al Mistero, con tutte le sue implicazioni.
In alcune miniature medievali, che adornavano i libri di preghiera, il talamo coniugale veniva messo in relazione con il roveto ardente di Mosè. Tale e tanta era la coscienza della sacralità del matrimonio che spesso, accanto al giaciglio dove giacevano gli sposi, erano visibili le calzature che i due avevano abbandonato, similmente a Mosè che si era tolto i sandali per non calpestare la terra santa.
Anche alcuni miracoli eucaristici rimandano in modo straordinario alla vicenda di Mosè e del popolo d’Israele che proprio nel momento del passaggio del Mar Rosso ha celebrato, in certo senso, le sue nozze con Dio.

Uno di questi miracoli accadde ad Avignone, bella città francese collocata sulle rive del Rodano. Per comprendere il miracolo, avvenuto nel 1433, bisogna risalire a qualche secolo prima. Nei primi decenni del 1200 si andava diffondendo in Francia l’eresia degli Albigesi. Un’eresia che, iniziata nella città di Albi – dalla quale prese il nome - contestava i sacramenti e, in particolare, quello del matrimonio e dell’eucaristia.
Il Re di Francia, Luigi XIII, padre di San Luigi IX (noto anche come san Ludovico e festeggiato il 25 agosto), per controbattere l’eresia, volle edificare ad Avignone un tempio in onore alla Santa Croce e istituire la festa dell’Esaltazione della Croce.  Nel 1226, il 14 settembre, si festeggiò per la prima volta la suddetta festa. Un corteo, col Sovrano in testa rivestito di un abito frusto e grigio, con una candela in mano, sfilò dietro al Santissimo percorrendo tutta la città fino alla Cappella di Santa Croce, dove si tenne un’ininterrotta preghiera di adorazione, giorno e notte. Nacquero così i Penitenti grigi, guardiani laici del Santissimo Sacramento che adottarono la regola francescana per lo zelo con cui quest’Ordine (accanto a quello Domenicano) si oppose all’eresia. Questa Confraternita, che perdurò nel suo servizio di adorazione anche durante gli anni della Rivoluzione francese, è una delle poche a sussistere ancora oggi.
Il fiume Rodano, sulle cui rive sorge la Cappella dei Penitenti grigi, secondo un’antica tradizione straripa ogni cento anni. Nell’autunno del 1433, la notte tra il 29 e il 30 novembre, a causa di piogge torrenziali il fiume straripò sommergendo la città di Avignone. I Penitenti grigi, preoccupati per la sorte del Santissimo, presero una barca per raggiungere la Cappella di Santa Croce. Giunti che furono s’avvidero che le acque la stavano sommergendo. Aprirono le porte forzandole, pronti ad essere trascinati all’interno dall’ondata dell’acqua. La barca, invece, precipitò con un tonfo all’interno del tempio, sull’asciutto. Le acque, rimaste compatte come pareti a destra e a sinistra della navata, lasciavano completamente libero il passaggio fino all’altare dell’Esposizione. Ai lati, vicino agli stalli della cappella gli abiti della Confraternita appesi si erano bagnati d’acqua, non così tutto ciò che si trovava davanti all’altare cioè: libri, pergamene, indumenti, tovaglie e reliquiari.

I dodici Penitenti corsero a chiamare alcuni dotti frati francescani che subito avviarono un’indagine per il riconoscimento ufficiale del Miracolo. Il Santissimo, portato in salvo in una Chiesa Francescana scampata dall’inondazione, venne onorato con preghiere e canti preceduti dalla lettura del passo dell’Esodo 14 al versetto 21, in cui si narra il passaggio del Mar Rosso.
Ancora oggi, nel giorno anniversario dell’evento soprannaturale i Penitenti a piedi nudi, in ginocchio e con una corda al collo in segno di riparazione, percorrono la navata della cappella miracolosamente preservata dalle acque.
È curioso che i penitenti fossero proprio dodici, come le tribù di Israele, come i dodici apostoli, numero che simbolicamente indica la totalità dell’umanità chiamata a quell’alleanza sponsale che si rinnova ad ogni Pasqua. Questi dodici sono il segno di coloro che, grazie alla Fede nella Presenza di Dio, riescono a passare incolumi dentro alle devastazioni del peccato che certe filosofie e certi costumi favoriscono grandemente.

Un secondo miracolo, simile a quello di Avignone, accadde a santa Germana Cousin. Siamo ancora in Francia, a Pibrac nei pressi di Tolosa, nel 1589. Qui viveva Germana, una fanciullina menomata a un braccio la quale, rimasta orfana di madre quando era piccolissima, non fu mai accettata dalla matrigna e fu costretta a vivere in uno scantinato. Solitaria e spesso canzonata per la sua fede, si occupava del gregge. Germana trovava conforto nei sacramenti. Ogni giorno attraversava il torrente Courbet per raggiungere la chiesa e ricevere l’Eucaristia lasciando il gregge incustodito. Accadde una volta che, a causa delle piogge, il torrente era così ingrossato da scoraggiare ogni traversata. Il desiderio però di ricevere il Santissimo ebbe la meglio: Germana  fece il segno della croce e si cimentò nel guado. Le acque miracolosamente si aprirono ed ella passò all’asciutto tanto all’andata che al ritorno.
In questo miracolo, matrimonio, Eucaristia e Pasqua ancora si rivelano strettamente legati. Santa Germana seppe vincere il disagio di una vita emarginata (anche a causa del secondo matrimonio del padre), attraverso la fede nell’Eucaristia. La traversata miracolosa del torrente in piena, diventa il simbolo dell’attenzione che Dio ha per chi si affida lui totalmente. Sorprende come santa Germana benché giovanissima (era nata nel 1579) avesse la certezza che l’Eucaristia valesse ogni sacrificio e ogni emarginazione, mentre oggi, nella maggior parte dei casi, l’Eucaristia è considerata un diritto da ricevere senza condizioni.


Riflettere su questi miracoli allora può aiutare, può riportarci a quel Mistero al quale, forse ci siamo abituati e che rischiamo di non più conoscere. Maria Gloria Riva

In lavanderia e in mezzo ai malati. Quando il lavoro è amare Cristo di padre Aldo Trento

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Ogni giorno il Signore mi dà la grazia di convivere con persone per cui il rapporto con Cristo è l’unica ragion di vita. Persone semplici, a volte analfabete, che testimoniano come sia possibile, e allo stesso tempo bello, vivere il cristianesimo dentro tutte le circostanze della vita. Vi propongo la storia quotidiana di due donne sposate che lavorano con i miei malati e mostrano a tutti che quando Cristo diventa il criterio di tutto, la vita diventa intensa e umana.
Saturnina vive in uno dei piccoli villaggi che formano il comune della città di Itá. Villaggi o “compagnie” che in questo posto si chiamano Fraternità. È un’espressione di origine francescana il cui significato indica l’essenza del cristianesimo. «Siate uno affinché il mondo creda», disse Gesù. Fra Luis de Balaños e gli evangelizzatori francescani solitamente chiamavano così le piccole comunità che nascevano grazie all’incontro con Gesù.
Così come alcune decadi più tardi i gesuiti, creando le Riduzioni, hanno voluto proporre il carisma di Sant’Ignazio che chiamò i suoi amici “La compagnia di Gesù”. Tornare a scoprire le nostre origini significa riconoscere chi siamo. Evangelizzare significa rivivere oggi, con una coscienza ancora maggiore, la nostra appartenenza a Cristo.
Saturnina è figlia di una di queste Fraternità e vive nell’insediamento chiamato 30 de Agosto-km 34. Madre di sette figli, suo marito è morto di cancro nella nostra clinica. La povertà, la semplicità di cuore e la passione per il lavoro sono le sue caratteristiche. L’attenzione e la compagnia che abbiamo offerto a suo marito nella clinica sono state per lei motivo di grande gratitudine al Signore. Rimasta vedova, ci ha chiesto di rimanere a lavorare con noi come responsabile della lavanderia. Si alza ogni giorno alle tre del mattino. Prepara tutto per i suoi sette figli in modo che possano affrontare il duro lavoro di ogni giorno.
Alle quattro e mezza, dopo aver camminato per 30 minuti, raggiunge la fermata dell’autobus che la porta ad Asunción in due ore. Comincia la sua giornata con noi accompagnando la processione Eucaristica che si sviluppa tra un letto e l’altro dei pazienti. Poi fa colazione e, con le sue amiche, scende nel seminterrato della clinica dove rimane al lavoro fino alle 15, manovrando le grandi macchine per lavare e asciugare l’enorme mole di lenzuola, federe, asciugamani che i pazienti usano ogni giorno.
Qualche settimana fa ho voluto mostrare alle infermiere il lavoro che Saturnina e le sue colleghe fanno nella lavanderia, perché l’unico metodo per imparare è quello di vedere. Saturnina era sola nella lavanderia, mentre le sue compagne erano già andate via. Le ho domandato come mai alle 17 era ancora lì. E lei: «Padre, io non vado mai via sino a che non finisco di lavare tutto, perché non voglio che manchi ai pazienti la biancheria necessaria. A volte, quando non riesco a finire rimango qui anche a dormire. E lo faccio con tanto amore e passione. Ma solitamente vado a casa, dove arrivo intorno alle 20, quando già l’oscurità avvolge la realtà. Una volta a casa, però, mi rimangono ancora da fare i lavori domestici che mi obbligano a stare in piedi fino a mezzanotte. Dormo non più di tre ore al giorno».
Tutti noi rimaniamo muti, perché di solito le infermiere, che lavorano trenta ore la settimana, arrivata l’ora mettono il loro dito sul marcatore di presenza e vanno via. Quelli che fanno il turno di notte, lavorano solo tre notti alla settimana. Che abisso con Saturnina e le altre donne che lavorano in lavanderia.
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Il pane quotidianoNon ho mai visto nella mia vita una simile testimonianza di passione e amore per gli altri, per il lavoro. San Paolo in una sua lettera afferma: «Chi non vuole lavorare neppure mangi». Nel nostro paese coloro che avrebbero l’esclusivo diritto di mangiare sarebbero Saturnina e le altre donne che vengono dalla campagna e che lavorano così tanto assumendosi la responsabilità della famiglia a 360 gradi. Inoltre Saturnina, con tutto il suo sacrificio, guadagna solo il minimo sindacale che, secondo me, è niente di niente paragonato ai sacrifici che affronta ogni giorno.
Come vorrei dare a queste donne molto di più! Per questo prego la Divina Provvidenza che ci ama, di darci la possibilità di offrire uno stipendio dignitoso a quanti si guadagnano il pane di ogni giorno con molto sacrificio e sudore della fronte.
Nilda vive a Itá con la sua famiglia. Ha 42 anni, sposata in chiesa, sei figli. Si alza alle quattro del mattino, prepara il mate, la colazione per la sua famiglia e poi prende l’autobus e va a lavorare alla fattoria San Padre. Due anni fa è riuscita a comprarsi una motocicletta che le permette di utilizzare al meglio il suo prezioso tempo. Non solo lavora a casa sua e nella fattoria, dove la fondazione San Rafael ospita i suoi malati di Aids, ma si occupa anche della cappella dove è catechista e segretaria della Legione di Maria.
Da lunedì a sabato, fa anche da mamma a un gruppo di adulti che l’Aids non si è portato al cimitero grazie alle cure che hanno ricevuto e che ricevono ogni giorno. Alla mattina, quando arriva, riunisce i ragazzi nella cappella per la liturgia della Parola. Con la sua intelligenza di fede, la spiega ai ragazzi e poi distribuisce la comunione ai malati. Le sue ore lavorative sono molte, ma l’amore che la muove è così grande che nemmeno se ne rende conto. Parla con sano orgoglio della sua famiglia di sangue e di quella spirituale, fatta di volti concreti che si chiamano Thomas, Robert, Alcides, Vicente, José, Julio. Persone che arrivano da tutto il mondo perché abbandonati, a causa della loro malattia, persino dai propri parenti.
Nilda cura ognuno di loro con un amore commovente, fatto di cose molto concrete come cucinare, lavare, stirare, tenere in ordine il giardino e molte altre cose. Grazie a lei e a questi ragazzi la fattoria ha un orto che è un paradiso di bellezza. Le piace raccontarmi spesso che lei ha frequentato soltanto il secondo grado della scuola elementare e malgrado ciò, la Legione di Maria l’ha scelta per redigere i “verbali” di ogni riunione.
«Non sapevo né leggere né scrivere ma la Vergine Maria è stata la maestra che mi ha insegnato non solo a scrivere, ma anche a leggere. E a leggere bene». Vi garantisco che la maggior parte dei professori non saprebbero proclamare la Parola di Dio come la signora Nilda.
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La visita del superioreÈ venuto a trovarci il superiore generale della Fraternità sacerdotale dei missionari di san Carlo Borromeo, padre Paolo Sottopietra, e noi sacerdoti siamo andati con lui alla fattoria per condividere con gli ammalati il pranzo e mostrargli tutte le novità successe negli ultimi anni. La signora Nilda ha preparato un pranzo di prim’ordine con galline allevate in fattoria, verdure dell’orto e molte altre cose. Finito il pranzo ho chiesto chi volesse raccontare la propria avventura. Hanno parlato diversi ragazzi lasciandoci a bocca aperta. L’ultima a intervenire è stata la signora Nilda. Ha raccontato la sua storia con molti particolari, uno più bello dell’altro.
Tuttavia, quello che ha commosso tutti, è stato quando lei, piangendo dalla commozione, ci ha parlato dell’Eucaristia, della sua relazione con Cristo Eucaristia. Ha ricordato il giorno in cui le ho chiesto di distribuire quotidianamente la comunione ai malati. Per lei questa richiesta era troppo grande e sono stati necessari diversi giorni per convincerla. Si sentiva indegna di toccare l’ostia consacrata. Mentre raccontava questo avvenimento, il più grande della sua vita, piangeva, tanto era il suo amore a Gesù.
Non ho mai visto piangere una persona parlando del dono di toccare l’Eucaristia! Nemmeno noi preti, che quando celebriamo Messa spesso osiamo sostituirci a Gesù. Guardando il superiore diceva: «Padre, non puoi immaginare quello che significa per me distribuire ogni giorno la santa Eucaristia ai malati, a questi miei figli malati».
La cappella, benedetta dall’ex nunzio apostolico, quel sant’uomo di Dio, monsignor Antonini, è per noi il cuore della fattoria nella quale possiamo rifugiarci in ogni momento difficile o bello, per chiedere aiuto o lodare il Signore. È proprio vero che Gesù si fa presente mediante la luce dei semplici di cuore, semplici come lo sono queste persone.
paldo.trento@gmail.com


Il Papa all'Angelus: non rimaniamo ciechi, apriamoci alla luce di Dio

Non rimanere “ciechi nell’anima”, ma aprirsi “alla luce, a Dio e alla sua grazia”. È l’esortazione di Papa Francesco all’Angelus, in una Piazza San Pietro gremita da 50 mila fedeli. Nell’odierna quarta domenica di Quaresima, il Vangelo di Giovanni presenta la figura del cieco nato: il Pontefice ha più volte esortato a rileggerne il brano.

La nostra vita a volte “è simile a quella del cieco che si è aperto alla luce, a Dio e alla sua grazia”; a volte purtroppo “è un po’ come quella dei dottori della legge”, dei farisei, che sprofondarono "sempre più nella cecità interiore”: “dall’alto del nostro orgoglio giudichiamo gli altri, e perfino il Signore”. La riflessione di Papa Francesco all’Angelus ha preso spunto dall’episodio evangelico dell’uomo cieco dalla nascita, al quale Gesù dona la vista: alla fine, mentre i “presunti vedenti” continuano a rimanere ciechi, il cieco guarito “approda alla fede” ed è questa, ha detto il Pontefice, la “grazia più grande che gli viene fatta” da Cristo: “conoscere Lui, che è ‘la luce del mondo’”.

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PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Piazza San Pietro
IV Domenica di Quaresima, 30 marzo 2014

Cari fratelli e sorelle, buongiorno
il Vangelo odierno ci presenta l’episodio dell’uomo cieco dalla nascita, al quale Gesù dona la vista. Il lungo racconto si apre con un cieco che comincia a vedere e si chiude – è curioso questo - con dei presunti vedenti che continuano a rimanere ciechi nell’anima. Il miracolo è narrato da Giovanni in appena due versetti, perché l’evangelista vuole attirare l’attenzione non sul miracolo in sé, ma su quello che succede dopo, sulle discussioni che suscita; anche sulle chiacchiere, tante volte un’opera buona, un’opera di carità suscita chiacchiere e discussioni, perché ci sono alcuni che non vogliono vedere la verità. L’evangelista Giovanni vuol attirare l’attenzione su questo che accade anche ai nostri giorni quando si fa un’opera buona. Il cieco guarito viene prima interrogato dalla folla stupita – hanno visto il miracolo e lo interrogano -, poi dai dottori della legge; e questi interrogano anche i suoi genitori. Alla fine il cieco guarito approda alla fede, e questa è la grazia più grande che gli viene fatta da Gesù: non solo di vedere, ma di conoscere Lui, vedere Lui come «la luce del mondo» (Gv 9,5).
Mentre il cieco si avvicina gradualmente alla luce, i dottori della legge al contrario sprofondano sempre più nella loro cecità interiore. Chiusi nella loro presunzione, credono di avere già la luce; per questo non si aprono alla verità di Gesù. Essi fanno di tutto per negare l’evidenza. Mettono in dubbio l’identità dell’uomo guarito; poi negano l’azione di Dio nella guarigione, prendendo come scusa che Dio non agisce di sabato; giungono persino a dubitare che quell’uomo fosse nato cieco. La loro chiusura alla luce diventa aggressiva e sfocia nell’espulsione dal tempio dell’uomo guarito.
Il cammino del cieco invece è un percorso a tappe, che parte dalla conoscenza del nome di Gesù. Non conosce altro di Lui; infatti dice: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi» (v. 11). A seguito delle incalzanti domande dei dottori della legge, lo considera dapprima un profeta (v. 17) e poi un uomo vicino a Dio (v. 31). Dopo che è stato allontanato dal tempio, escluso dalla società, Gesù lo trova di nuovo e gli “apre gli occhi” per la seconda volta, rivelandogli la propria identità: «Io sono il Messia», così gli dice. A questo punto colui che era stato cieco esclama: «Credo, Signore!» (v. 38), e si prostra davanti a Gesù. Questo è un brano del Vangelo che fa vedere il dramma della cecità interiore di tanta gente, anche la nostra perché noi alcune volte abbiamo momenti di cecità interiore.
La nostra vita a volte è simile a quella del cieco che si è aperto alla luce, che si è aperto a Dio, che si è aperto alla sua grazia. A volte purtroppo è un po’ come quella dei dottori della legge: dall’alto del nostro orgoglio giudichiamo gli altri, e perfino il Signore! Oggi, siamo invitati ad aprirci alla luce di Cristo per portare frutto nella nostra vita, per eliminare i comportamenti che non sono cristiani; tutti noi siamo cristiani, ma tutti noi, tutti, alcune volte abbiamo comportamenti non cristiani, comportamenti che sono peccati. Dobbiamo pentirci di questo, eliminare questi comportamenti per camminare decisamente sulla via della santità. Essa ha la sua origine nel Battesimo. Anche noi infatti siamo stati “illuminati” da Cristo nel Battesimo, affinché, come ci ricorda san Paolo, possiamo comportarci come «figli della luce» (Ef 5,8), con umiltà, pazienza, misericordia. Questi dottori della legge non avevano né umiltà, né pazienza, né misericordia!
Io vi suggerisco, oggi, quando tornate a casa, prendete il Vangelo di Giovanni e leggete questo brano del capitolo 9. Vi farà bene, perché così vedrete questa strada dalla cecità alla luce e l’altra strada cattiva verso una più profonda cecità. Domandiamoci come è il nostro cuore? Ho un cuore aperto o un cuore chiuso? Aperto o chiuso verso Dio? Aperto o chiuso verso il prossimo? Sempre abbiamo in noi qualche chiusura nata dal peccato, dagli sbagli, dagli errori. Non dobbiamo avere paura! Apriamoci alla luce del Signore, Lui ci aspetta sempre per farci vedere meglio, per darci più luce, per perdonarci. Non dimentichiamo questo! Alla Vergine Maria affidiamo il cammino quaresimale, perché anche noi, come il cieco guarito, con la grazia di Cristo possiamo “venire alla luce”, andare più avanti verso la luce e rinascere a una vita nuova.

Dopo l'Angelus:
Saluto cordialmente le famiglie, i gruppi parrocchiali, le associazioni e i singoli fedeli provenienti dall’Italia e da tanti Paesi, in particolare quelli di Ponferrada e Valladolid; gli studenti e i professori dei collegi di Murcia, Castelfranco de Cordoba e Laganés; gli alunni dei collegi di Parigi e gli emigrati portoghesi di Londra.
Saluto il Movimento Giovanile Lasalliano, il gruppo “Giovani, arte e fede di Santa Paola Frassinetti”, gli universitari di Venezia.
Un particolare saluto rivolgo ai militari italiani che hanno compiuto un pellegrinaggio a piedi da Loreto a Roma, pregando per la pacifica e giusta risoluzione delle contese. E questo è molto bello: Gesù nelle beatitudini dice che sono beati coloro che lavorano per la pace.
Un pensiero va ai gruppi di fedeli di Potenza, Atella, Sulmona, Lomagna, Conegliano, Locara, Napoli, Afragola, Ercolano e Torre del Greco; ai ragazzi della Cresima di Gardone Valtrompia, Ostia, Reggio Emilia, Fane, Serramazzoni e Parma; agli studenti di Massa Carrara e Genova-Pegli.
Saluto infine la Corale di Brembo, la Polisportiva Laurentino di Roma, i motociclisti di Terni-Narni; i rappresentanti del WWF-Italia, incoraggiandoli nel loro impegno a favore dell’ambiente.
E non dimenticate oggi: a casa, prendere il Vangelo di Giovanni, capitolo 9 e leggere questa storia del cieco che è diventato vedente e dei presunti vedenti che si sono affondati di più nella loro cecità
A tutti auguro una buona domenica e un buon pranzo. Arrivederci!


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Il Papa ai ciechi e ai sordomuti: solo chi riconosce la sua fragilità può incontrare Gesù






I malati e i disabili sono i privilegiati da Gesù. E’ quanto affermato da Papa Francesco nell’udienza di ieri in Aula Paolo VI incontrando migliaia di ciechi e di sordomuti, accompagnati dal Movimento Apostolico Ciechi e dalla Piccola Missione Sordomuti. Il Papa ha ribadito che bisogna favorire la cultura dell’incontro per sconfiggere la cultura dell’esclusione e del pregiudizio.

L'amore di Gesù vince gli ostacoli della disabilità. Papa Francesco ha voluto soprattutto testimoniare questo alle persone sordo-mute e ai ciechi convenuti in Aula Paolo VI. 

Index




DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AGLI ADERENTI AL MOVIMENTO APOSTOLICO CIECHI (MAC)
E ALLA PICCOLA MISSIONE PER I SORDOMUTI
Aula Paolo VI
Sabato, 29 marzo 2014

Cari fratelli e sorelle, benvenuti!
Saluto il Movimento Apostolico Ciechi, che ha promosso questo incontro in occasione delle sue Giornate della Condivisione; e saluto la Piccola Missione per i Sordomuti, che ha coinvolto molte realtà dei sordi in Italia. Ringrazio per le parole rivolte dai due responsabili; ed estendo il mio saluto ai membri dell’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti che partecipano a questo incontro.
Vorrei fare con voi una breve riflessione a partire dal tema “Testimoni del Vangelo per una cultura dell’incontro”.
La prima cosa che osservo è che questa espressione termina con la parola “incontro”, ma all’inizio presuppone un altro incontro, quello con Gesù Cristo. In effetti, per essere testimoni del Vangelo, bisogna aver incontrato Lui, Gesù. Chi lo conosce veramente, diventa suo testimone. Come la Samaritana – abbiamo letto domenica scorsa –: quella donna incontra Gesù, parla con Lui, e la sua vita cambia; lei torna dalla sua gente e dice: “Venite a vedere uno che mi ha detto tutto quello che ho fatto, forse è il Messia!” (cfr Gv 4,29).
Testimone del Vangelo è uno che ha incontrato Gesù Cristo, che lo ha conosciuto, o meglio, si è sentito conosciuto da Lui, riconosciuto, rispettato, amato, perdonato, e questo incontro lo ha toccato in profondità, lo ha riempito di una gioia nuova, un nuovo significato per la vita. E questo traspare, si comunica, si trasmette agli altri.
Ho ricordato la Samaritana perché è un esempio chiaro del tipo di persone che Gesù amava incontrare, per fare di loro dei testimoni: persone emarginate, escluse, disprezzate. La samaritana lo era in quanto donna e in quanto samaritana, perché i samaritani erano molto disprezzati dai giudei. Ma pensiamo a tanti che Gesù ha voluto incontrare, soprattutto persone segnate dalla malattia e dalla disabilità, per guarirle e restituirle alla piena dignità. E’ molto importante che proprio queste persone diventano testimoni di un nuovo atteggiamento, che possiamo chiamare cultura dell’incontro. Esempio tipico è la figura del cieco nato, che ci verrà ripresentata domani, nel Vangelo della Messa (Gv 9,1-41).
Quell’uomo era cieco dalla nascita ed era emarginato in nome di una falsa concezione che lo riteneva colpito da una punizione divina. Gesù rifiuta radicalmente questo modo di pensare – che è un modo veramente blasfemo! - e compie per il cieco “l’opera di Dio”, dandogli la vista. Ma la cosa notevole è che quest’uomo, a partire da ciò che gli è accaduto, diventa testimone di Gesù e della sua opera, che è l’opera di Dio, della vita, dell’amore, della misericordia. Mentre i capi dei farisei, dall’alto della loro sicurezza, giudicano sia lui che Gesù come “peccatori”, il cieco guarito, con semplicità disarmante, difende Gesù e alla fine professa la fede in Lui, e condivide anche la sua sorte: Gesù viene escluso, e anche lui viene escluso. Ma in realtà, quell’uomo è entrato a far parte della nuova comunità, basata sulla fede in Gesù e sull’amore fraterno.
Ecco due culture opposte. La cultura dell’incontro e la cultura dell’esclusione, la cultura del pregiudizio, perché si pregiudica e si esclude. La persona malata o disabile, proprio a partire dalla sua fragilità, dal suo limite, può diventare testimone dell’incontro: l’incontro con Gesù, che apre alla vita e alla fede, e l’incontro con gli altri, con la comunità. In effetti, solo chi riconosce la propria fragilità, il proprio limite può costruire relazioni fraterne e solidali, nella Chiesa e nella società.
Cari amici, vi ringrazio di essere venuti e vi incoraggio ad andare avanti su questa strada, in cui già camminate. Voi del Movimento Apostolico Ciechi, facendo fruttificare il carisma di Maria Motta, donna piena di fede e di spirito apostolico. E voi della Piccola Missione per i Sordomuti, nella scia dal venerabile Don Giuseppe Gualandi. E tutti voi, qui presenti, lasciatevi incontrare da Gesù: solo Lui conosce veramente il cuore dell’uomo, solo Lui può liberarlo dalla chiusura e dal pessimismo sterile e aprirlo alla vita e alla speranza.

Parole pronunciate dal Santo Padre prima di impartire la Benedizione Apostolica ai presenti:
E adesso guardiamo la Madonna. In Lei è stato grande il primo incontro: l’incontro tra Dio e l’umanità. Chiediamo alla Madonna che ci aiuti ad andare avanti in questa cultura dell’incontro. E la preghiamo con l’Ave Maria.


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Aforisma di domenica 30 marzo 2014

Kaliméra di Emmanuel Mounier: "Una persona non raggiunge la  sua piena maturità se non nel momento in cui sceglie qualcosa, a cui restar fedele e che valga la pena di vivere".
                                                                                                     Havete!
                                                                                                     Don Carlo
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“Avevo a modello donne molto forti: mia madre, mia nonna e mia zia. Erano solite dire: Quando cadi rialzati. Se ricadi, rialzati. E non ti vergognare di cadere.”
Carrie Saxon Perry

Omelia di don Carlo Venturin 4^ di Quaresima – 30/3/2014


Es 34, 27-35,1    Mosè toglie il velo della cecità davanti al Signore
Salmo 36             “Signore, nella tua luce vediamo la luce”
2 Cor 3, 7-18       Vedremo ( non più ciechi ) Dio faccia a faccia
Gv 9, 1-38           La dinamica per credere-vedere

                              Osea 2, 16: “Ti condurrò nel deserto e parlerò al tuo cuore”
                     Il cieco vedente, i vedenti ciechi: dinamiche opposte sulle strade del mondo

Nel grande affresco del Vangelo di Giovanni, in un riquadro, viene rappresentata una strada frequentata da mendicanti e passanti frettolosi, come tante nostre strade: Gesù è fra questi con i discepoli. Nelle altre Domeniche il Maestro fu dipinto nel deserto, ma i suoi non erano presenti; poi al pozzo, solo, con una donna eretica e poligama, i discepoli, come il diavolo, si erano preoccupati del cibo materiale; poi nel Tempio, ma i credenti in Lui, polemici e legati a forme rituali inveterate, impongono la tradizione e tentano di ucciderlo. Oggi la domanda dei suoi riguarda l’origine del male: “Chi ha peccato, Lui, o i suoi genitori?” Gesù non si avventura in una discussione sterile, ma si occupa del cieco nato, il non vedente.

La descrizione nell’affresco è complessa, con coprotagonisti dai caratteri contrastanti: i discepoli, Gesù, il cieco, i mendicanti, i farisei, i genitori, il “vis- a- vis” finale tra il neo vedente e “l’oculista” miracoloso. Il quadro si ravviva a seconda dei personaggi di turno: i dubbi e le certezze dei compagni di accattonaggio, la paura dei genitori di essere estromessi dalla comunità, ma anche, forse, dalla mancata entrata della elemosina, gli arroganti e supponenti detentori della “verità”, la pacatezza del miracolato, che racconta senza cadere in contraddizioni.

  Se si approfondisce lo sguardo all’interno del racconto, si scopre il percorso divergente dei protagonisti. L’anonimo cieco (siamo tutti noi?) che gradualmente si muove dalla cecità alla LUCE. Ciò avviene perché è “tenuto per mano” dal possessore della luce, il quale compie gli stessi gesti di Dio, quando creò il mondo e invita a lavarsi nella piscina-Battistero di Siloe, “che significa INVIATO” - l’Inviato è Gesù - così vede la luce: “Nella tua luce vediamo la luce”; è percorrere la via verso l’aurora splendente: l’affresco luminoso. Ora l’ex cieco “VEDE” Gesù nella sua totalità: un uomo chiamato Gesù mi ha donato la vista, poi “il Figlio dell’Uomo”, “ il Signore”, infine l’adorazione; Gesù ora è tutto per Lui.
Gli altri vedenti vanno a ritroso: con arroganza affermano di sapere tutto “Noi sappiamo”, tu “sei nato tutto nel peccato” (il buio pesto dei sedicenti professionisti della verità: non c’è maggior cieco di chi non vuole vedere). L’affresco ora è avvolto da semioscurità: da vedenti a non vedenti “noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”.

Nel racconto vi sono alcuni passaggi:
ü Il dramma della persona che soffre, vittima del pregiudizio di tutti, a cominciare dai discepoli; vittima della “legge”, abbandonata a se stessa, senza difesa da parte degli intimi: “ha l’età, chiedetelo a lui”.
ü L’accoglienza della luce: le sue risposte sono semplici e precise, nonostante i tanti interlocutori; lascia che Gesù agisca su di lui, esegue le sue indicazioni, testimonia con candore ciò che gli è accaduto. Nessuna ombra, nessun dubbio: “quell’uomo viene da Dio”; non solo quella fisica ma anche le sua vita interiore viene illuminata: “credo, Signore”.
ü Il dono della salvezza. Davanti a “Io sono la luce del mondo” i comportamenti sono diversi, opposti: il cieco-vedente accoglie con fiducia; altri si chiudono con il “Noi sappiamo”; altri hanno paura delle conseguenze negative, altri incerti sulla vera identità del miracolato; i discepoli, che avevano provocato la risposta di Gesù, sono spariti: a quale categoria  noi apparteniamo? Se siamo “vedenti”, l’anonimo dell’elemosina diventa indicazione per noi, anche con passaggi dolorosi: per la sua testimonianza viene espulso dalla Sinagoga, dalla società, da tutti, neanche l’elemosina sarà lecita. E’ l’anticipo di quel che capiterà a Gesù.
ü Gesù non e il solo protagonista, spedisce il cieco alla piscina: ha un itinerario da compiere, con passaggi dolorosi.
ü Gli ostacoli sono evidenti nel dialogo con i genitori, non hanno coraggio, neanche manifestano gioia per il figlio ora guarito; sono occupati a non subire conseguenze: se ne lavano le mani.
ü L’incontro con Gesù avviene proprio quando è emarginato da tutti: è un isolato, fragile; ma si fida: “Io credo, Signore”. Le domande dei farisei sono volte a screditare Gesù, anche in questa occasione, senza neppure l’ombra dei suoi discepoli. Il miracolato ora non ha paura del futuro. Ora con la nuova vista sa riconoscere le persone, la Verità. Gli occhi della fede ora non hanno incertezze. Il buio fitto cede il posto alla luce: “nella tua luce vedo la luce”, il nuovo itinerario, posso decifrare la realtà inedita. La guarigione fisica porta alla relazione che cambia la sua condizione.
ü Il finale è amaro, un monito a noi vedenti o no. Gesù constata una realtà drammatica: quelli che non ci vedono, grazie a lui diventano vedenti, capiscono l’incredibile; altri che ci vedono o ritengono di vedere (“Noi sappiamo”) cadono nella cecità completa, non vedono se non se stessi e le proprie teorie. La domanda di costoro è allarmante: “Siamo ciechi anche noi?... siccome dite: noi vediamo, il vostro peccato rimane”.

Sulla tomba del Card. Martini, su sua indicazione, vi è la frase del Salmo 118: “Lucerna ai nostri passi è la tua parola”. Per noi ciechi-vedenti nell’oggi  è fede vissuta.



Don Carlo

sabato 29 marzo 2014

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón , 26 marzo 2014

Beato Angelico, affreschi dal Museo di San Marco, Firenze. Qui, ''Noli me tangere'' (part).
Testo di riferimento: L. Giussani, «Di fronte alla pretesa», in All’origine della pretesa cristiana,
Rizzoli, Milano 2001, pp. 127-137.

• Il monologo di Giuda
• Quando uno ha il cuore buono

Gloria

Ci eravamo dati come testo su cui lavorare il capitolo nono de All’origine della pretesa cristiana 
con cui finisce il libro. Poi ripartiremo lavorando sugli Esercizi della Fraternità che terremo 
prossimamente. Ma insieme avevamo finito la volta scorsa proponendo, e poi pubblicando su 
Tracce, la Pagina Uno, dove si cercava di dare un contributo per capire che cosa sta succedendo 
nella società e offrire un inizio di giudizio. Allora incominciamo. 

Io sono rimasta molto colpita dall’ottavo capitolo e in particolare da Pagina Uno, che ha
illuminato, in maniera inedita per me, un aspetto del mio lavoro su cui non avevo mai riflettuto e
che invece è il dato culturale più impressionante di questa generazione di ragazzi con cui ho a che
fare tutte le mattine. Perché, molto più e molto prima delle analisi morali che fanno sui ragazzi di
oggi, il problema dei ragazzi che io mi trovo davanti a scuola è che odiano Leopardi. Se io dovessi
dire qual è la caratteristica di questa generazione è l’odio a Leopardi, tanto che sono anni – ma è
impressionante come la realtà ti dia dei segni che tu non leggi – che quando inizio con una quarta
liceo, il primo giorno di scuola c’è sempre uno che alza la mano e dice: «Prof, non è che
quest’anno si fa Leopardi? Noi Leopardi non lo vogliamo fare». Quest’anno, per una storia anche
che ho avuto con questa quarta, ma soprattutto per le cose che ci hai detto tu, per questa tua
scoperta dell’ottavo capitolo come giudizio sulla realtà che viviamo, mi ha posto davanti agli occhi
questa ostilità e ho deciso di affrontarla. Sono rimasta impressionata la settimana scorsa, perché
ho sfidato la mia quarta; perché dovevo cominciare a spiegare Leopardi; i ragazzi non volevano,
c’era un ammutinamento e allora io ho detto: «Sentite, fatemelo fare, vi leggo una poesia. Poi alla
fine vi pongo una domanda». Ho letto il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Loro sono
stati bravissimi, hanno ascoltato; alla fine ho detto: «Adesso ditemi perché non vi piace». Il primo
che ha parlato ha detto: «Prof, non mi piaceva fino a un’ora fa, perché mi hanno sempre
sottolineato la risposta di Leopardi, e questa io la odio, ma nessuno aveva mai sottolineato la
domanda che pone, perché questa è la mia». Lì ho capito che odiano Leopardi perché è sempre
stato letto loro come il poeta del pessimismo, del nichilismo, mentre, come diceva Giussani,
Leopardi è nella domanda che pone, non nella negazione. Allora io ho detto: «Infatti quella che
Leopardi pone è “la” questione, poi uno può decidere di evitare questa domanda, può come
Leopardi dare una risposta che voi odiate, oppure può, come è successo a me, avere la grazia di
incontrare qualcosa che risponde realmente». A questo punto prende la parola uno studente e dice:
«Prof, ma io non voglio una risposta, perché io voglio che la vita resti misteriosa, che nessuno mi
tolga il mistero. Non voglio sapere la mattina come andrà a finire la giornata». Da qui è
cominciato un dialogo bellissimo che non sto a raccontare. Uscendo dalla classe e parlando con
alcuni adulti delle questioni etiche, non ho potuto non raccontare questo dialogo che avevo avuto
con i ragazzi, perché è come se, improvvisamente, avessi capito che quello che noi ci portiamo
addosso è che il movimento è nato da Leopardi, da questo dialogo con Leopardi. Se non
riconosciamo questo, noi accettiamo di parlare, per esempio, di tutte le questioni etiche su un
terreno finto in cui possiamo dare risposte opposte a quelle degli altri, ma in fondo uguali,
ugualmente ideologiche.
E cosa c’entra questo con Pagina Uno? 2

Che non si può curare il tumore con la Tachipirina.
Mi sembra molto significativo quel che racconti, perché è la documentazione – e qui si vede un 
esempio di ciò che dice Pagina Uno – di come il potere riduce il desiderio, cioè la natura dell’io, la 
natura della domanda umana, e quindi non intercetta la domanda che i ragazzi hanno, offrendo loro 
delle risposte che poi, siccome partono dalla domanda già ridotta di tanti adulti, non servono, non 
corrispondono; e così si ribellano contro la risposta. È per questo – avevamo detto – che il capitolo 
ottavo è prezioso, perché pone la domanda, di nuovo. Don Giussani ripropone la domanda di Gesù: 
«Ma a che cosa serve all’uomo guadagnare il mondo intero se perde se stesso?». E dice che senza 
prendere sul serio questa domanda, uno si «preclude le esperienze umane più significative». E 
quando si ripropone la domanda umana più significativa, che cosa succede? Che cominciamo a 
intercettare di nuovo il bisogno dell’uomo. È questo il punto di partenza di Pagina Uno, perché la 
vita ci provoca, provoca un’insegnante nel fare le lezioni, provoca tutti nella attuale discussione sui 
valori e sui nuovi diritti. Ci provoca. Ma prima che una questione di etica è una questione di 
conoscenza, cioè di che cosa stiamo parlando e di qual è la natura propria dell’io. Sono contento, 
perché io questa mattina ho spiegato Leopardi in Università Cattolica e ho collegato – senza sapere 
che tu avresti fatto questo intervento – questa questione ai nuovi diritti; perché quando uno riduce 
quel che dice Leopardi (e il capitolo quinto de Il senso religioso è pieno di Leopardi), allora cerca 
una risposta nei propri tentativi. E io dicevo loro: «Ma voi pensate che uno che capisce la natura 
della domanda umana possa risolvere la questione, per esempio, cambiando di sesso (con la fatica e 
il dolore che ciò comporta)? Pensate che legittimare questa scelta risolva il problema?». Basterebbe 
capire la portata del problema: che quel che cerchiamo nei piaceri è l’infinito; e nessuno si 
accontenterà con meno di questa infinità – diceva Pavese –, perché quel che cerchiamo in tutto, 
anche attraverso queste modalità, è l’infinito. Tutte le battaglie in favore dei nuovi diritti sono una 
riduzione di questo desiderio, perché sentendo un’insoddisfazione si cerca – come dicevi – o di 
evitare la domanda o di dare una risposta sbagliata. Perché uno non sta alla natura della 
provocazione della realtà! È soltanto se uno capisce la natura della domanda che, allora, la risposta 
che dà gli appare come una Tachipirina per il tumore. Ma se noi non comprendiamo questo, non 
capiamo neanche, come abbiamo detto nella Pagina Uno, perché don Giussani, invece di fare una 
battaglia sui valori (il che non significa che non desiderasse che la gente vivesse secondo certe 
modalità che Cristo ha introdotto nella storia e nella vita, che si traducono anche in certi valori), si è 
speso per ridestare la totalità del desiderio; la sua lotta contro il potere non è stata a proposito di 
certe cose, ma della riduzione del desiderio. E questo non è un problema degli altri, ma è un 
problema nostro quando rispondiamo agli altri accettando lo stesso campo di gioco; cioè quando la 
nostra risposta, invece di essere una presenza originale, è una presenza reattiva che accetta il punto 
di partenza ridotto della natura dell’io. E lo scontro di una posizione contro l’altra non riesce a far 
cambiare idea a un ragazzo che di Leopardi pensa una cosa e dopo un’ora un’altra solo perché è 
successo qualcosa che gli ha spalancato la capacità di capire. Per questo Giussani non è tenero con 
una riduzione della risposta! Come dice alla fine del capitolo ottavo: «Cristo è venuto a richiamare 
l’uomo alla religiosità vera [se qualcuno ha qualche domanda su che cos’è la religiosità vera, vada a 
rileggere il capitolo quinto de Il senso religioso, dove Giussani spiega la natura della religiosità con 
tutte le domande inestirpabili, la sproporzione strutturale, la tristezza, la noia, la solitudine come 
espressione di questa natura della religiosità; perché Cristo è venuto a richiamare alla religiosità 
vera, cioè non ridotta a moralismo o a devozione o a etica o a sentimento], senza della quale 
[attenzione!] è menzogna ogni pretesa di soluzione» (p. 124), di una parte e dell’altra. È menzogna! 
Non ridestando il desiderio non si sa rispondere, perché per rispondere alla vera natura del desiderio 
occorre qualcosa di più che l’ideologia, di un tipo o di un altro. Per questo, quando tante volte si 
dice: «Ma sul tale tema non si dà un giudizio», vuol dire che per noi la Scuola di comunità non è un 
giudizio, che il capitolo ottavo della Scuola di comunità non è un giudizio sul reale, ma è 
semplicemente lo spunto per venire qui ogni tanto a fare commenti sul testo, spirituali o 
sentimentali; dunque il carisma non è il criterio, il modo con cui io mi pongo nel reale, che aiuta me 
prima di tutto a non ridurre me stesso. Invece proprio questo documenta la presenza di Cristo! Chi è 3 

Cristo lo si vede proprio dal fatto che duemila anni dopo di Lui c’è uno – uno, si chiama Luigi 
Giussani! – che scrive questo capitolo, che è la cosa più contro la mentalità dominante che ci possa 
essere, di un tipo e di un altro. Ma per alcuni questo è spiritualismo astratto e non incidente, e 
quindi poi occorre fare altro quando, in realtà, basterebbe capire questo per porci noi davanti a tutti i 
dialoghi che dobbiamo avere sulle diverse questioni con una vera autocoscienza. Perché il problema 
è che noi partiamo, in tante occasioni, malgrado tutto, dalla stessa riduzione di cui accusiamo gli 
altri! E questo in un movimento come il nostro dove, se abbiamo avuto la grazia di qualcosa, è di 
uno che ci ha parlato sempre del desiderio di Leopardi come emblema della religiosità vera, cioè 
come emblema non per la risposta che dà, ma per la totalità della domanda che pone, perché la 
religiosità coincide con certe domande – dice il capitolo quinto de Il senso religioso – che sono 
assolutamente uniche in quanto totali e inestirpabili, e chiedono una risposta totale, non la 
Tachipirina: risposta totale alla totalità della domanda! Ciascuno, se vuole veramente seguire il 
carisma, dovrà guardare come sta affrontando tutte queste vicende proprio in paragone col testo del 
capitolo ottavo e del capitolo nono. Perché la resistenza che vediamo, anche fra tanti di noi, rivela 
che in fondo non c’è bisogno di Cristo, perché Cristo sarebbe astratto, perché l’essenziale sarebbe 
astratto, per usare una parola in voga. E allora? Dobbiamo fare, riempire la vita con altre cose. Il 
che può andare benissimo, ma se non ha dentro questo, «è menzogna ogni pretesa di soluzione». 

Io ho una domanda che era sempre sul capitolo ottavo, sul punto tre, quando parla della libertà. A
un certo punto, Giussani descrive la possibilità della scelta che si ha davanti alla realtà e parla
anche della tentazione e di «realtà che alla coscienza libera appaiono attrattive psicologicamente
più forti di altre ontologicamente più vicine al fine». Allora la mia domanda è questa: come è
possibile riconoscere ciò per cui siamo fatti, cioè scegliere e decidere per ciò che davvero ci
compie senza confonderci con quelle realtà che appaiono come attrattive psicologicamente più
forti? Perché Giussani dice che «la libertà è la capacità che l’essere cosciente possiede di
realizzare completamente se stesso» (pp. 123-124). Ora, io mi accorgo che desidero realizzare me
stessa, ma mi sembra che sempre, o comunque molto spesso, non so distinguere che cosa è bene,
cioè dov’è il vero, e che cosa è, invece, tentazione. Penso che la strada per operare la scelta sia
un’attrattiva, e non credo che questo sia totalmente sbagliato, però vedo che è un criterio molto
confuso e molto labile, perché spesso non porta a una libertà mia, ma a un restare invece
incastrata e non libera, qualsiasi sia poi la scelta che faccio.

Vedi? Questo è un esempio della stessa questione. Che cosa è la libertà – ci ha detto sempre 
Giussani –? Quando siamo liberi? Quando noi possiamo compiere un desiderio. Qual è la natura del 
desiderio umano? Ciò che stiamo dicendo: la libertà è la capacità di soddisfazione del desiderio, 
siamo liberi quando compiamo questo desiderio. Ma noi, come tutti gli uomini, viviamo la lotta con 
attrattive psicologicamente più forti che sembrano più vere di quelle vere. E allora è di nuovo 
evidente che anche quelli che sbagliano non hanno una natura diversa dalla nostra; quelli che 
scelgono e propugnano modalità diverse hanno lo stesso desiderio; tutti vogliamo essere liberi, 
vogliamo arrivare a un compimento, a una soddisfazione. E a loro sembra che questa soddisfazione 
si raggiunga attraverso una certa strada che ai loro occhi appare psicologicamente più attrattiva. 
Allora la questione è: loro hanno la nostra stessa domanda e noi sbagliamo tante volte come loro, 
perché non siamo diversi. Questa consapevolezza ci metterebbe già nella condizione di poter 
veramente capire gli altri e dialogare con tutti, e di non ridurre a ideologia la vicenda umana. Tu 
dici: una cosa è il bene e un’altra cosa è la tentazione; allora tante volte ci sembra che il criterio sia 
confuso o labile. No, il criterio non è confuso! Occorre imparare a usarlo. Il criterio non è confuso, 
il criterio è oggettivo e infallibile! Tu non decidi, carissima, quando la tua vita si compie; tanto è 
vero che quando tu sbagli, per esempio, perché hai scelto una modalità inadeguata di compierti e sei 
riuscita a realizzarla, poi il criterio ha giudicato; tu ti sorprendi non soddisfatta, e questo dimostra 
che il criterio non è confuso e labile, il criterio c’è e non è manipolabile, neanche da noi stessi. La 
questione è che tante volte di questo ci rendiamo conto tardi, quando… Tutti ricordiamo l’esempio 
di Giussani davanti ai suoi ragazzi durante una festa: tutti erano lì a ballare. Chi pensava a come 4 

sarebbe finita? Nessuno dei ragazzi; loro erano così attratti da quel che stava succedendo che certo 
non pensavano che, quando sarebbero andati a dormire, sarebbe emersa l’amarezza o una certa 
delusione, anche se tutto era andato benissimo. Perché? Perché mancava questa educazione a 
distinguere il bene da quel che appariva psicologicamente più attrattivo. Chi era già educato, come 
don Giussani, chi era già maturo, avendo fatto una strada umana e avendo imparato a giudicare, 
sapeva che quel festeggiare non poteva compiere; allora ha fermato il ballo e lo ha detto loro, prima 
che succedesse. Noi, la maggioranza delle volte, ce ne rendiamo conto tardi e poi diciamo che il 
criterio è labile, confuso; no, il criterio non è labile o confuso! Il problema è che – primo consiglio 
di Giussani nel primo capitolo de Il senso religioso! – il giudizio è l’inizio della liberazione; 
giudicare è l’inizio della liberazione, perché è soltanto se uno comincia a giudicare che inizia a 
distinguere il bene dall’apparenza, e allora, pian piano, vede la differenza tra il contraccolpo 
sentimentale e la corrispondenza. Per noi c’è quasi una totale identità tra contraccolpo sentimentale 
e corrispondenza, invece sono radicalmente diversi. Non che la corrispondenza non abbia dentro un 
contraccolpo sentimentale (perché tutto ha un contraccolpo sentimentale o un’attrattiva), ma è 
molto di più perché è quel che corrisponde all’esigenza del cuore. Quando uno ha fatto un 
cammino, e quindi è maturo perché ha imparato a sottomettere la ragione all’esperienza, allora pian 
piano comincia a non lasciarsi confondere. Quando tu imparavi matematica la formula era valida, 
ma tu non avevi ancora abbastanza dimestichezza con quel tipo di problemi per non sbagliare 
nell’applicazione. Il criterio non è confuso, è valido ed è vero; è confusa l’applicazione. Occorre 
imparare, per non sbagliare poi nell’applicazione. Quando uno sottomette costantemente la ragione 
all’esperienza impara, ma poi occorre una decisione: una volta detto questo, occorre stare 
all’esperienza, a quel che è venuto fuori con chiarezza nell’esperienza. Per questo non interessa 
tanto che uno sbagli o no, occorre imparare anche dallo sbaglio; tante volte abbiamo imparato cose 
strepitose proprio attraverso sbagli! Non è sbagliare, il problema, ma imparare, e quindi che possa 
venire fuori con più chiarezza una capacità di giudizio che non mi incastri in una soluzione che è 
faziosa. Poi c’è una spia – se in noi ancora mancasse piena coscienza di questo – che è 
un’oggettività: il Mistero è diventato carne e ci ha rivelato che cos’è il vero, la vera umanità; se uno 
in qualche modo non riesce ancora a tirarlo fuori dall’esperienza, ha un’indicazione, non per 
risparmiarsi l’esperienza, ma come traccia nel momento di confusione: qui qualcosa non torna, la 
Chiesa mi dice altro, Gesù mi dice altro. Allora non è che semplicemente mi sottometto a questo 
risparmiandomi il desiderio di capire, ma vado al fondo della questione, perché Gesù e la Chiesa 
non vogliono imbrogliarmi. Relativamente a questo ho ricevuto una domanda: «Innanzitutto grazie 
di averci fatto lavorare su Pagina Uno di Tracce, perché ciò mi costringe ogni giorno a fare una 
verifica, e che la vita è provocata è sempre per me una grazia, perché mi dà una strada per capire di 
più. Per esempio, mi sono resa conto che innanzitutto Gesù in me ridesta il desiderio, cioè mi fa 
tornare a desiderare tutto, una cosa che per me non è più scontata, anzi, spesso non desidero più 
niente [vedete che il problema che abbiamo tutti è questo decadere del desiderio, e che per questo 
noi facciamo fatica poi a giudicare, perché venendo meno il desiderio viene meno anche la capacità 
di giudizio]. Dico questo perché alla Scuola di comunità ci è stata fatta la domanda: ma noi che cosa 
difenderemo di fronte agli attacchi del mondo? E io sono rimasta inchiodata, perché non avevo una 
risposta che facesse venir fuori tutto di me, tutto ciò che sono io, tanto da difenderlo con le unghie e 
i denti. E io ho proprio bisogno di ripartire dall’esperienza di ciò che ridesta la mia persona, 
altrimenti Gesù me lo invento o non Lo conosco di più, e alla fine mi delude [come abbiamo visto]. 
Ti chiedo, per un aiuto: ci puoi fare un esempio di come tu tieni presenti tutti i fattori del capitolo 
ottavo di fronte alle sfide del tuo vivere?». Semplicemente prendendolo sul serio. È semplice. Non 
riducendo il capitolo ottavo – come altri testi della Scuola di comunità – a spiritualismo, a 
moralismo, a istruzioni per l’uso. Lì don Giussani ci sta dicendo la verità della vita, la concezione 
che Gesù ha della vita, lo sguardo che Gesù ha sull’uomo, che ci rende consapevoli di tutto quel che 
noi siamo. Per questo se noi seguiamo, partecipando, il metodo che don Giussani ci propone 
sempre, cioè la verifica nell’esperienza, noi a un certo momento ci sorprendiamo di avere presenti i 
fattori, sempre più fattori perché, come dice all’inizio del capitolo, è il frutto di un’educazione 5 

questa genialità umana che ci è richiesta per capire il vero, in fondo per distinguere, perché tutta la 
premessa di quel capitolo è per poter identificare un uomo tra tanti uomini, “lo” uomo. Giussani 
cosa propone? Un tipo di educazione, una genialità umana composta dalla natura, da certi fattori e 
da un’educazione. È soltanto partecipando a questa educazione che noi possiamo cominciare ad 
avere tutti i fattori del presente, senza ridurli. Mi stupiva, sabato, a un’assemblea con gli 
universitari, come un ragazzo sintetizzava la questione: «Noi su queste questioni non siamo 
informati». Uno che dice così dopo aver letto il capitolo ottavo de All’origine della pretesa 
cristiana, ammette che il capitolo ottavo non gli dà le “informazioni” sulla natura dell’uomo né il 
giudizio sulle sfide del presente, e quindi le deve cercare altrove. Capite? Ci possono lasciar fare 
perfino la Scuola di comunità; che problema c’è, se poi la pensiamo come tutti, cerchiamo le 
informazioni altrove e il criterio di giudizio ce lo danno altri? Il criterio di giudizio per giudicare 
quel che stiamo vivendo è il Fatto che a noi è capitato? Il Fatto che a noi è capitato ha dentro il 
giudizio su tutto o lo dobbiamo cercare altrove? Se lo dobbiamo cercare altrove, perché vale la pena 
essere ancora cristiani? Per questo, non è una questione secondaria, è radicale, è radicale! Senza di 
questo, senza rispondere a questo, manca la ragionevolezza della fede, la fede manca di quelle 
ragioni per cui vale la pena, altrimenti il cristianesimo sarà una tra tante cose nel pantheon della 
religiosità moderna, dove è accettato tutto, perché in fondo noi non abbiamo un criterio di giudizio 
su tutto che nasce da quel che ci è capitato; non per imporlo ad alcuno, anzi, e per questo possiamo 
dialogare con tutti. 


La domanda è sempre sul capitolo ottavo, paragrafo cinque. Io volevo chiedere che differenza c’è
tra il servizio come senso del dovere e il servizio come dono di sé, perché è esperienza di tutti i
giorni che di fronte a tutte le richieste della giornata, dei figli, del marito, del lavoro, le mille cose
da fare e da ricordare, io ho l’impeto e mi sento in dovere di rispondere a tutto e di fare le cose
giuste e bene. Ma questo man mano, con la stanchezza eccetera, mi soffoca. Allora il mio senso del
dovere, che come buona moglie e buona madre mi imporrebbe di rispondere a chi ho davanti, mi
angoscia, poi mi fa sentire in colpa per tutta la mia inadeguatezza, il mio non aver fatto ciò che
avrei dovuto e nel modo giusto. Leggendo invece questo capitolo capisco bene come Cristo è venuto
a cambiare questo modo di servire il tutto, a mostrarmi la verità, il significato e la profonda
convenienza umana come via e possibilità di avere il centuplo nella vita di tutti i giorni, e questa è
una cosa che mi interessa. Allora vedo che c’è un consumarsi che porta alla pace e un consumarsi
che porta esattamente all’opposto, all’angoscia. In che cos’è che si distingue? Io intuisco che il
senso del dovere è rispondere a tutto moralisticamente, mentre il dono di sé è rispondere al tutto in
un rapporto reale, concreto, con Cristo; però vorrei capirlo bene, perché per me sarebbe un delitto
pensare di appiccicare l’etichetta “per Cristo” a quel che devo fare, neanche un pomeriggio
reggerei! Vorrei che tu mi potessi raccontare quando ti sei sentito in trappola, soffocato dai tuoi
mille impegni e responsabilità, nella guida del movimento o prima in Spagna, che cosa è successo,
qual è stato il punto di svolta perché invece tu vivessi un altro respiro, nella coscienza che
l’esistenza umana è un consumarsi per qualcosa e non invece un senso del dovere.

Grazie, perché questa domanda, come vedete, è un’altra modalità di fare la stessa domanda: se alle 
provocazioni del reale che dobbiamo fronteggiare noi rispondiamo moralisticamente o rispondiamo 
come dono di sé, cioè in rapporto con qualcuno, con Cristo. Ma che cosa vuol dire in rapporto con 
Cristo? Vuol dire che io vivo ogni circostanza come la possibilità non di chiudere moralisticamente 
la vicenda, ma di spalancarmi a ciò attraverso cui il Mistero mi raggiunge, che è la circostanza. Tu 
hai detto che nel libro è descritto come conveniente umanamente. Il dono di sé ci conviene, e uno 
capisce benissimo quando fa le cose perché ama la persona con cui si è sposata o soltanto perché ha 
il dovere di sposa di farlo. Qual è il test? Quando cominci a pensare i compiti come un dovere, 
perché tutto era lo stesso dall’inizio, ma all’inizio tutto era visto come la possibilità di un rapporto e 
di dire alla persona amata: il mio amore arriva fino a questi dettagli. Era il contrario del moralismo. 
In che cosa si vede la differenza? Nella riduzione che noi facciamo della realtà, se per noi la 
circostanza è semplicemente qualcosa da sopportare o da fare moralisticamente, o la circostanza è 6 

un’occasione di entrare in rapporto. Per me questo è stato una svolta decisiva, perché tante volte 
quel che tu hai detto capitava a me; invece incontrando il movimento ho incominciato a vivere 
queste circostanze come la possibilità di un dialogo con Cristo, come tu dici, come la possibilità che 
mi offre adesso di dire “sì” liberamente, come scaturendo dalla sorgente ora, come tu potresti 
desiderare di dirlo alla persona che ami o ai tuoi figli. Questo è quel che cambia, non perché cambia 
la difficoltà di ciò che devo fare: cambia la natura di quel che faccio, perché la natura di quel che 
faccio o è soltanto dovere moralistico oppure è l’opportunità offerta a me ora di dire “sì” 
liberamente a un Altro. E questo fa la differenza. Se è dovere moralistico, soffochiamo, prima o poi, 
perché cercare la soddisfazione soltanto in un dovere moralisticamente inteso soffoca; mentre 
spalancare tutta l’ampiezza della domanda, tutta l’ampiezza del desiderio, tutta la misteriosità della 
realtà fa respirare, fa respirare! Se invece, come tante volte succede nella discussione sui nuovi 
diritti, uno si incastra e pensa che questo risolverà la questione, alla fine soffoca. Tutto è della stessa 
natura. Perché? Perché niente sfida di più la nostra mentalità che quel che dice tutto il capitolo: la 
dipendenza, cioè che io per compiermi devo entrare in rapporto, devo entrare in un rapporto vero, 
perché la mia felicità dipende da questo rapporto. Questo rapporto non è secondario, non è 
aleatorio, non è superfluo, ma è cruciale, per la natura dell’io, perché l’io è rapporto; e se uno non 
vive ogni cosa dentro questo rapporto, soffoca. Invece se ogni realtà, ogni circostanza è vissuta 
come la possibilità di un rapporto, allora si spalanca. E se uno comincia a rendersi conto che 
attraverso questo il Mistero ti ridesta costantemente e ti chiama a rispondere, non sempre tutto è 
piacevole, ma ti rilancia; se uno non vede tutte queste sfide, come quella che stiamo vivendo 
adesso, come occasione di presa di coscienza di sé, del ridestarsi di sé, non vede la convenienza 
umana, non vede più il centuplo. Perché io non sarei me stesso come sono se non avessi risposto a 
tutte le provocazioni senza lasciarle cadere o vivendole moralisticamente nel lamento. No: 
accettando qualsiasi sfida, perché se il Signore la permette, la consente, vuol dire che è qualcosa per 
me.

Del capitolo nono mi sembra centrale quando dice che «il mistero dell’Incarnazione stabilisce il
metodo che Dio ha creduto opportuno scegliere per aiutare l’uomo ad andare da Lui», e dice che
risponde «alla natura dell’uomo, che è carica di esigenza di sensibilità» e «alla dignità della
libertà umana, in quanto Dio la assume come collaboratrice della sua opera» (p. 132). Che questo
metodo risponde alla natura dell’uomo che ha l’esigenza di concretezza, di fisicità, lo capisco,
perché non mi basta l’idea che Dio mi vuole bene, ma ho bisogno di vederlo ora, così come con mio
marito non mi basta sapere che lui mi vuole bene, ma ho bisogno della sua presenza o dei segni che
rimandano al suo amore. Invece la seconda parte sulla collaborazione alla sua opera, il fatto che
Dio ha bisogno di me e della mia libertà collaboratrice della sua opera, questo è un punto che
vorrei capire meglio (un po’ l’hai detto anche prima), perché questo collaborare è positivo e quindi
presuppone un gusto nel fare le cose. Un caro amico mi diceva che questo gusto significa
riconoscere che non si sarebbe fino in fondo se stessi senza il rapporto con questo Altro, e la
dipendenza così vissuta fa fare l’esperienza della libertà, e quindi in tutte le cose che ti capitano sei
libero, non le subisci. Ecco, io faccio questa fatica in questo momento, perché la tentazione è quella
di vivere la dipendenza in modo passivo: sono certa che dipendo e sono certa che tutto quel che mi
succede viene da Lui, però…

Come si collega la prima parte della domanda con la seconda? Perché, diciamo così: da una parte, 
abbiamo bisogno di vederLo ora, come tu vedi i gesti di tuo marito, ma tu Cristo presente qui e ora 
Lo vedi nel reale. E questo ti aiuta a capire di più, ti sostiene in questo tuo collaborare che 
domandi? Perché tutta la questione sta qui. Il vedere i segni di affezione di tuo marito ti aiuta e ti 
sostiene nella collaborazione, in quel che tu intendi fare. Lo stesso capita qui. Il problema è che noi 
facciamo fatica, facendo il paragone col marito, perché in fondo Cristo poi non lo vediamo, e allora 
il cristianesimo che cos’è? Alla fine a che cosa viene ridotto? A etica, a qualcosa che devo fare, non 
a quella compagnia che io tocco costantemente nel reale, che vedo accadere. Ditemi se leggendo 
questo capitolo, con tutte le cose che stiamo dicendo, Cristo non è presente! Neanche leggendo il 7 

capitolo ce ne rendiamo conto. Che uno abbia scritto questo, che tante persone comincino a capire 
questo, non è il segno della presenza di Cristo? Perché altrimenti noi saremmo già ridotti alla 
grande! Ma tanti di questi segni li abbiamo in continuazione. Non è che Cristo, come pensa la 
stragrande maggioranza, sia venuto, abbia detto quello che dobbiamo fare, se ne sia andato e tornerà 
alla fine del mondo, e carnalmente quel che resta è solo il marito! No, no, no. Questo è il canone del 
nostro modo di pensare. No, no! Il problema nostro, come vedete, è quello della premessa: che noi 
non intercettiamo la risposta, come non l’abbiamo intercettata per tutto il capitolo ottavo. Perché 
quando io ripetevo la domanda: «Ma chi è Gesù? L’avete riconosciuto? Questo capitolo è servito 
per riconoscere Gesù?», siccome questa domanda noi non ce la poniamo perché non siamo capaci di 
riconoscerLo, è molto più facile leggere tutto il capitolo in senso moralistico perché siamo abituati 
così; siamo quasi tutti kantiani, perché il cristianesimo di cui parliamo è Kant, e questo ci viene 
facile. E la riduzione che operiamo testimonia la nostra difficoltà. La riduzione vuol dire che io non 
riesco a vedere quel che c’è. E questo è il nostro problema. E così, poiché non lo vediamo nel 
capitolo, che è un festival della Sua presenza, figuratevi nella realtà che è piena di segni. Che cosa 
occorre perché tu intercetti i segni di tuo marito? Questa apertura, questa semplicità, questa capacità 
di stare ai tanti modi in cui vengono oltrepassati i limiti dell’umana natura; altri neanche vedono 
questo. Il problema non è che non ci siano i segni, è che noi non li vediamo. Per questo se noi non 
ci educhiamo a questa genialità umana, per usare la parola del capitolo ottavo, non è che non 
succedano fatti, ne succedono mille – mille! –, ma noi non li vediamo e quindi non sentiamo tutta la 
potenza della compagnia di Cristo che costantemente ci ridesta e ci rilancia a questa collaborazione. 
E ci ritroviamo a dire: ma che cosa posso fare di più? Ma è esaltante per l’uomo cominciare a 
scoprire il desiderio di mettere le mani in pasta per collaborare! Il segno che L’abbiamo 
riconosciuto è il desiderio di collaborare! Non, come tutti, di non fare un bel niente e di andare in 
pensione quanto prima! Questo dice fino a che punto la presenza di Cristo non ci spalanca più, non 
ci lancia, non sostiene la voglia di alzarci al mattino, per vedere dove Lo scopriremo. Non c’è 
questa misteriosità (di cui parlava il ragazzo citato nel primo intervento di stasera) di andare a 
vedere questa mattina dove Lo scoprirò, come mi verrà incontro. Per noi spesso il problema è: che 
cosa devo fare? Invece la domanda è: dove apparirà? Dove mi si farà incontro? Dove mi ridesterà? 
«Ehi, ti rendi conto che Io sono qui e non sei solo con il tuo niente?». 

Ho una domanda da porti. Può sembrare teorica, ma spero si capisca l’urgenza per me quotidiana.
La Scuola di comunità dice, nel capitolo nove, al punto tre: «Il mistero dell’Incarnazione stabilisce
il metodo che Dio ha creduto opportuno scegliere per aiutare l’uomo ad andare da Lui […]. Dio
salva l’uomo attraverso l’uomo» E dice: «Risponde magnificamente [questo metodo]: alla natura
dell’uomo, che è carica di esigenza di sensibilità» (p. 132). Io nelle mie giornate cerco il Suo volto,
cioè quell’amore su di me che mi corrisponde totalmente e che mi permette di essere me stessa e
quindi di vivere da protagonista, non sulla difensiva. Questa ricerca sta diventando sempre più
impellente, aspira a una concretezza e carnalità sempre maggiori. Ciò si esplicita in una grande
aspettativa sulla compagnia: cerco testimoni, persone con cui condividere la vita, a cui chiedere
senza mezzi termini: «Cosa ti è successo?», o: «Come la Scuola di comunità ha inciso oggi?», cioè
il cammino che ci fai fare. Non mi basta il giorno della Scuola di comunità o della caritativa per
tirar fuori questo. Mi accorgo però spesso come questa ricerca di una compagnia vera si scontri
con il mio limite (per esempio, non ho il coraggio di tirar fuori completamente le questioni che mi
stanno a cuore e il limite degli altri, a volte si sta insieme, ma non ci si guarda in faccia, si è
superficiali), lasciandomi una ferita che mi spinge a rinunciare a questo livello di rapporto. Questo
mi appare come un di meno nell’incontro quotidiano con Lui. Allora, come posso scorgere il
Signore senza continuamente riscoprirmi appoggiata a qualcuno o a qualcosa che mai sarà
completamente corrispondente? E come posso io rimanere libera dal modo umano con cui Lui mi
raggiunge nel concreto delle mie giornate?

Ti risponde il prossimo intervento. 
 8

La domanda: «Chi è Gesù?», che ormai ci stai ponendo costantemente in questi ultimi mesi, mi ha
molto provocato, soprattutto nell’interrogarmi sulla verità della mia esperienza, chiedendomi in
che punti mi trovo effettivamente cresciuta, dove ho fatto dei passi scoprendo meglio chi sono io. Il
mese scorso sono andata a un convegno con un mio professore e due amiche, una non del
movimento. Una sera siamo andati a cena da dei nostri amici che sono in quella città, che sono del
movimento, e io ero un po’ preoccupata perché c’era questa ragazza e non sapevo bene cosa fare,
sinceramente. A un certo punto, la discussione a cena si è spostata sull’aborto. La mia compagna
di corso non del movimento non aveva la stessa mia opinione e degli altri, ma quel che mi ha
colpito è che non mi sono ritrovata a difendere la mia posizione, come spesso mi capita, ma a
portare ciò che è vero per me realmente, partendo da un giudizio chiaro su un bene che ho visto
nella mia vita e che mi porta ad affermare che la vita per me è sacra per il semplice fatto che non
me la dò io. La sera dopo siamo andati a bere di nuovo una birra con questi nostri amici; a un
certo punto, stavamo chiacchierando e questa ragazza mi dice: «Ma lo sai che io quasi non vorrei
tornare a casa dai miei amici? Come siete amici voi mi colpisce». Io da quella sera sono uscita
piena di questa domanda: ma cosa mi sta prendendo? Cosa sta afferrando la mia vita tanto da
rendermi così audace, io che non lo sono? Mi sono ritrovata a darmi questa risposta: che quella
sera ho ripreso coscienza che in ultima analisi quello che mi costituisce è il rapporto con Cristo.
Mi colpiva molto questa cosa, perché mi ha proprio fatto ripercorrere tutto quel che è stato per me
quest’anno fino adesso. Mi rendo conto che io tante volte ho detto di sì a tante cose che mi sono
state proposte, ma perché io vedevo un fascino nelle persone che me le proponevano, vedevo che
questi erano felici e io volevo essere felice. Però tante volte mi fermavo a questo sentimento, senza
andare oltre, e poi non bastava più. Invece io desideravo essere come loro e questo mi ha portato a
domandarmi sempre più insistentemente cosa e chi li rende così. E per me questa cosa è stata
impressionante, perché per me è iniziato un rapporto, un rapporto con una Presenza vera nella
vita, nella realtà, che se interpellata risponde, e risponde nei modi più impensati, come per esempio
attraverso questa mia compagna di corso. Però questa cosa mi ha colpito un sacco, perché io tante
volte entro nella giornata con l’idea che Cristo mi deve prendere qui, qui, qui, qui; e invece mi
prende nei modi più inaspettati. Non è che la realtà sia cambiata, la realtà è sempre quella, il
problema è un problema di coscienza di dove poggio i piedi io.

Leggendo il capitolo nono mi sono sentita addosso tutte le obiezioni e tutte le resistenze che lì
descrive. Sono contenta di questo, perché con il lavoro che ci fai fare mi accorgo di dare meno per
scontato quel che ci diciamo; con gli amici del gruppetto di Scuola di comunità in questi anni non
si è cercato di tappare con la risposta giusta quel che si viveva, ma ci si chiede continuamente di
non dare per scontato quel che abbiamo davanti e di personalizzare ciò che c’è. Avevo già letto
questo capitolo tante volte, eppure ricordo nettamente in passato la sensazione di sentirmi fuori
dalle obiezioni che vengono descritte lì, mi sentivo a posto. Adesso invece sento tutta la mia
resistenza, mi sono fermata al titolo perché mi sono chiesta: cos’è la pretesa? È Dio che è, di fatto,
al centro della mia vita. Ma mentre lo dico l’istintiva resistenza mi viene su, senza che io possa
farci qualcosa. Finalmente però la vedo e la guardo. Una domanda che mi preme è questa: quando
si dice: «Il suo operare prodigi rispondeva a un’urgenza etica, costituiva un richiamo morale,
realizzava una educazione ideale» (pp. 127-128) cosa significa? Significa forse che il Suo operare
miracoli risponde alla nostra natura, ci dice che noi siamo Suoi, che non possiamo fare niente
senza di Lui? In questo senso capisco di più il capitolo ottavo: qual è la nostra natura se non di
essere Suoi? Sto vedendo in effetti che il miracolo è la realtà che man mano diventa Sua e per
questo sempre più mia. Per esempio, nei rapporti con i ragazzi che mi trovo in classe spesso la
lezione diventa una possibilità, per chi lo vuole, di aprirsi e di confidare i pesi che ognuno ha nella
vita. Ed è sempre più chiaro per me che se non prendiamo in considerazione almeno come ipotesi
che siamo Suoi, la vita è un vero inferno.

Finiamo collegando questi tre interventi. «Come posso rimanere libera dal modo umano con cui Lui 
mi raggiunge nel concreto delle giornate?» Vedete? Tante volte cerchiamo una concretezza carnale, 9 

storica, ma questa concretezza a volte non basta, allora uno vuole qualcosa in più e pensa che la 
questione sia come liberarsi dal modo umano con cui Lui lo raggiunge. Amica, non è possibile, 
perché ci raggiunge sempre attraverso un modo umano! Il problema è quel che diceva la nostra 
amica a proposito della compagna non del movimento, cioè che uno non si fermi a quel modo 
umano dipendendo soltanto dal modo umano, ma ogni modo umano introduca a quel rapporto. 
Perché? Perché questo è quel che ci siamo sentiti dire come la concezione vera del seguire: seguire 
– è quello che abbiamo imparato – è fare l’esperienza che vediamo fare ad altri, che diventa sempre 
più nostra. Non lo puoi fare senza il rapporto con qualcuno, come non puoi imparare matematica 
senza il rapporto con qualcuno, ma poi le cose diventano sempre più tue; e non è che a un certo 
momento non abbiamo più bisogno del rapporto, sempre ne avremo bisogno, perché, come vedete, 
la possibilità che abbiamo di ridurre Cristo secondo la mentalità comune è spaventosa, per questo 
avremo sempre questo bisogno. Infatti – lo abbiamo detto in altre occasioni – sempre avremo 
bisogno del Papa, di un punto storico, nella storia, che ci assicuri la verità, altrimenti saremmo nella 
confusione come tutti. Questo ci consente di fare un’esperienza vera di sequela, è un inizio di un 
rapporto con una Presenza che risponde sempre di più a tutti i richiami. E come risponde? Come 
diceva l’ultimissimo intervento: attraverso il miracolo, attraverso quella bellezza che Lui mette 
davanti a noi, perché quando uno incontra una persona, un testimone, per usare la parola che avete 
usato, che è un prodigio, un richiamo, ci viene da dire: ma io voglio vivere come lui! Il miracolo più 
grande che qual è? Vedere una creatura nuova nel reale, non soltanto che uno veda guarita la sua 
gamba: una creatura nuova che in mezzo a tutto il caos, a tutta la confusione, a ogni riduzione, 
testimonia la vittoria di Cristo nella sua umanità. È questo il richiamo più grande che ci può fare 
Cristo. E questo è il metodo dell’Incarnazione di cui parla tutto il capitolo nono. Cristo ci viene 
incontro attraverso il metodo più adeguato a noi: una presenza umana qui e ora, a cui uno non può 
sottrarsi se non vuole perdere il meglio di quel che è capitato. Noi perché siamo qui? Perché siamo 
qui, quando tanti hanno perso la voglia, l’interesse a essere cristiani? Soltanto perché abbiamo 
trovato una personalità, una “creatura nuova” – possiamo dire con le parole di san Paolo – che ci ha 
affascinato, che si chiama don Giussani, attraverso cui ci è venuta una voglia matta di non perderci 
ciò che abbiamo visto in lui; è stato il richiamo più potente che abbiamo ricevuto nella nostra vita. 
Non è un richiamo prima di tutto moralistico, è un’attrattiva a cui non abbiamo potuto resistere. E 
questo sarà sempre il cristianesimo, dall’inizio fino alla fine del mondo. 


La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 30 aprile alle ore 21,30. Riprenderemo il testo 
dell’Introduzione dei prossimi Esercizi della Fraternità. 

Gli Esercizi della Fraternità sono un gesto e quindi, oltre alle lezioni e all’assemblea, sono anche 
silenzio, canto, preghiera, attenzione all’altro. Partecipando a un gesto come questo, possiamo 
ridurlo, come riduciamo la Scuola di comunità: ciascuno sceglie, a discrezione del proprio criterio, 
a che cosa partecipare o che cosa seguire di tutto il pacchetto! E quando qualcosa del pacchetto non 
ci conviene, decidiamo di fare altro. Un gesto di questo calibro è possibile sostenerlo soltanto, come 
dico sempre, con la collaborazione di tutti. Ma è di più della “gestione” di un gesto grande, è la 
consapevolezza con cui andiamo. Se non andiamo come mendicanti e non cominciamo già da ora a 
pregare – a pregare! – per gli Esercizi, per la disposizione di ciascuno, perché possiamo essere 
aperti alla modalità con cui il Signore ci chiamerà, perché dia a me che devo predicarli la luce per 
parlare nel modo più adeguato ai vostri bisogni, se non ci sosteniamo a vicenda, che gesto è? Non è 
un’organizzazione per cui si fa uno speech e tutto funziona. Sarebbe negare la complessità della 
vicenda umana che abbiamo visto descritta nel capitolo ottavo, come se bastasse la solita 
organizzazione ciellina. Neanche un po’! Non è che alla fine Cristo si sia sbagliato: avendo potuto 
fare una buona organizzazione, gli è sfuggito qualcosa e ha dovuto morire in croce. A chi è sfuggito 
qualcosa? A lui o a noi, per questa riduzione a banalità del dramma del vivere? Se a un gesto come 10 

questo non andiamo con la consapevolezza del nostro bisogno e di che cosa andiamo a domandare, 
a mendicare, a supplicare, noi non potremo fare tesoro di tutto quanto il Signore ci potrà dare. 
Perciò disponiamoci a viverlo nella sua totalità perché diventi incisivo nella nostra vita. 

Documento di CL per le Elezioni europee. Avete a disposizione nel sito il quartino intitolato: «È 
possibile un nuovo inizio?» che abbiamo preparato, come CL, in vista delle Elezioni europee, 
perché ci sembrano una occasione preziosa per dire a tutti – non solo in Italia, infatti lo offriremo 
anche a tutti i nostri amici nelle nazioni europee in cui è presente il movimento – dove poggia la 
nostra speranza per un’azione civile e cosa sostiene la fatica di una ricostruzione. 

È a disposizione il Volantone di Pasqua, che riproduce una bellissima immagine dagli affreschi di 
Giotto della Cappella degli Scrovegni e con due testi, uno di papa Francesco e l’altro di don 
Giussani. 
«“Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per 
illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”. Quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non 
significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È 
il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad 
ascoltare. È l’annuncio che risponde all’anelito d’infinito che c’è in ogni cuore umano. Tale 
convinzione, tuttavia, si sostiene con l’esperienza personale, costantemente rinnovata, di gustare la 
sua amicizia e il suo messaggio, convinti, in virtù della propria esperienza, che non è la stessa cosa 
aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a 
tentoni. Sappiamo bene che la vita con Gesù diventa molto più piena e che con Lui è più facile 
trovare il senso di ogni cosa». (Papa Francesco) 
«Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero 
profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza 
presente [riprende il concetto di esperienza del Papa], confermata da essa, utile a rispondere alle sue 
esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e 
dice l’opposto. Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi – questo “quindi” 
è importante per me –, dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di 
razionalità. Dire che la fede esalta la razionalità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze 
fondamentali e originali del cuore di ogni uomo. Per questo dare ragione della fede significa 
descrivere sempre di più, sempre più ampiamente, sempre più densamente [attenzione perché se no 
noi non Lo riconosciamo nel reale], gli effetti della presenza di Cristo nella vita della Chiesa nella 
sua autenticità, quella la cui “sentinella” è il Papa di Roma.» (Luigi Giussani) 
Come sappiamo, il Volantone non è soltanto da mettere nella nostra stanzetta, ma è per un gesto 
missionario, perché sono tanti coloro che aspettano di toccare il lembo del mantello. 

Veni Sancte Spiritus