martedì 31 marzo 2015

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 25 marzo 2015

Luigi Giussani, Perché la Chiesa
Testo di riferimento: L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2014, pp. 35-75.
 •Inno delle scolte di Assisi
• Negra sombra
Tanti anni fa, in un giorno come oggi, è cominciata quella irruzione nella storia che rende possibile all’uomo essere unito. Occorre la semplicità di cuore della Madonna per poter vedere che questo è possibile, che tutto diventa pieno della Sua presenza. Angelus Ci eravamo dati come testo di lavoro il terzo capitolo di Perché la Chiesa, dove don Giussani ci aiuta a capire qual è l’origine della nostra fatica a comprendere il significato delle parole cristiane, offrendoci un’ipotesi. Come mai facciamo questa fatica? Come mai sentiamo tante volte questa estraneità? L’origine è una «mancanza di sintonia originale» (p. 35) con ciò che vogliamo conoscere. E fa l’esempio degli alpinisti che sono già stanchi prima di iniziare la scalata. Per questo, per il fatto di essere nati in una situazione storica così, che pazienza ci vuole per accettare di fare una strada che ci consenta di non gettare la spugna dicendo: «Non è possibile»! Nel frattempo c’è stato l’evento di Roma, l’incontro con papa Francesco, al quale tutti noi abbiamo partecipato, in un modo o in un altro – la maggioranza di noi era presente in piazza –. Avendovi partecipato, avendone fatto esperienza, ciascuno ha la possibilità di vedere che cosa è successo. Un gesto così non ci distoglie dalla Scuola di comunità, anzi, diventa un test per capire in che modo ci ha fatto vincere l’estraneità di cui parla don Giussani. Non è che da una parte vada la Scuola di comunità e dall’altra il gesto di Roma, come se niente fosse. Cominciamo il nostro lavoro. Mi si è reso un po’ più chiaro cosa vuol dire il crollo delle evidenze, nel senso che per me questa espressione assume quotidianamente il significato di perdere di vista la verità delle cose, perdere di vista il punto. Di fronte a quel che mi succede ogni giorno, corro un po’ il rischio di far prevalere una mia interpretazione dei fatti filtrata dal sentimento, dall’umore, da ciò che penso, al punto tale di non sapere più tanto distinguere la verità delle cose nella loro concretezza dalla mia interpretazione. Com’è che mi accorgo di questo caos? Il più delle volte non sono contenta, le cose non mi tornano. Allora, il mio interesse non è avere ragione o avere una conferma di ciò che penso, ma è trovare qualcosa che mi salvi, perché le cose, come le vedo io, non sono abbastanza. A questo proposito, mi tornava alla mente la canzone di Chieffo: «Ma che amarezza, amore mio, / vedere le cose come vedo io». Cioè: non bastano. Quindi la mia domanda è: come si può uscire da questo equivoco? Perché io non posso certo rinunciare a quel contraccolpo che le cose suscitano inevitabilmente in me, però mi accorgo che il più delle volte il mio giudizio è limitato e non tiene conto di tutto. Il gesto di Roma ti ha dato qualche contributo, qualche suggerimento, hai fatto una qualche esperienza che ti ha aiutato a capire che cosa ti fa uscire da questo equivoco? Sì: che ci sia un punto oggettivo che posso tornare a guardare. E qual è il punto oggettivo a cui poter guardare per non restare intrappolata di nuovo nella valanga delle interpretazioni? Nel caso di Roma è stato evidente, perché eravamo di fronte al Papa che ci ha indicato… Ma non basta, perché tanti hanno partecipato e ciascuno ha pensato la sua. Se neanche un gesto così importante ci salva dalle interpretazioni, che cosa occorre? Tu guarda che cosa ti è successo, perché questo è ciò che ci aiuta a capire. 2 Io ho riletto il capitolo della Scuola di comunità con una domanda forse un po’ diversa. È un capitolo che conosco abbastanza bene, per avervi attinto tante volte per la comprensione del nostro contesto culturale; ma in queste settimane l’ho riletto con una domanda più personale, che esprimerei così: ho cercato di capire dove e come si insinua in me quella emarginazione di Dio dalla vita che segna il passaggio dal medioevo – dice il capitolo: Dio c’entra con tutto – all’epoca moderna, caratterizzata dalla difficoltà di considerare il religioso determinante di tutto. La domanda è: dove la vedo questa alternativa in me e in noi, che magari andiamo a messa tutti i giorni, che iniziamo i pasti con un segno della croce eccetera, che abbiamo mille richiami? Mi pare che esistenzialmente nella mia vita si insinui un vero e proprio ateismo pratico, mai teorizzato, quando il mio rapporto con la realtà e con le persone è governato da una mia progettualità, anziché essere vissuto come una risposta a qualche cosa che accade. Vedo proprio un’alternativa netta nella mia vita tra pensare al mio tempo e alla mia azione come progetto o come risposta. È il progetto che tende a elidere completamente il Mistero, perché in fin dei conti sovrappone alla realtà, e soprattutto alle persone, qualcosa che nelle mie intenzioni può essere anche buono, ma che forza i dati del reale (si sente una stonatura) e la libertà delle persone. Questo per me è il sintomo forse più grande della mia lontananza dal Mistero, che rivela una concezione di me autosufficiente, presuntuosa, tesa alla riuscita e al successo non soltanto negli ambiti professionali o di relazione, ma persino, paradossalmente, nell’ambito religioso. Tante volte ho sorpreso in me che questo progetto arriva fino al paradosso di cercare di immaginare come fare accadere il miracolo o qualcosa che salvi qualcuno che mi sta a cuore. Questo progetto è inevitabilmente e inesorabilmente, nella mia vita, la fonte più grande di amarezza e di risentimento, o almeno di delusione. Quando vedo una alternativa completamente diversa, noto sempre che sono giornate o momenti tesi a cogliere e ad assecondare i segni di ciò che accade, a seguirli, magari con entusiasmo, slancio, anche con una certa audacia. È seguire qualche cosa che è accaduto prima. In fondo, quando è così mi rendo conto che domina uno sguardo teso a cogliere una Presenza che so che c’è. E questa alternativa tra il progetto e la risposta, tra progetto e segno, non è solo dei momenti grandi della vita, io mi accorgo che si insinua proprio in tutte le pieghe del quotidiano, nel lavoro, nei rapporti in famiglia, con gli amici, come pensi alle vacanze, come prendi una decisione anche banale; e vedo che in questa alternativa si gioca tutta la possibilità di letizia e di fecondità. Mi pare che forse l’alleato più grande nel richiamarmi a quella posizione che so più promettente è, paradossalmente, ciò che mai vorrei percepire, cioè una coscienza bruciante del mio limite e oso dire anche – lo oso dire perché l’ha detto il Papa – del mio male. Perché? Perché mi riporta in me stessa, mi riporta a uno sguardo reale su di me, e non a una proiezione o un’immagine che io inseguo di me stessa; perché nel mio vero io c’è questa esperienza del limite e del male. Come ti ha aiutato questo a vivere il gesto di Roma? Questo è stato per me il punto assolutamente decisivo. Perché devo dire che sono arrivata con dentro proprio la percezione di un’inadeguatezza particolarmente acuta. E a fronte di questo, sentire il Papa parlare come ha parlato della misericordia e del peccato – se non sbaglio ha detto: luogo privilegiato dell’incontro – è stata una cosa che mi ha letteralmente rispalancata a un desiderio ampio e riaperta a tendere e a cercare quel che lì ho trovato come particolarmente corrispondente. Ti ho scritto perché ne ho sentito veramente il bisogno, e lo sento ancora davvero tanto. E questo è già un punto che per me non è scontato, perché ultimamente, potrei dire da dopo Natale, mi sento molto bloccato sulle cose e dalle cose, da ciò che faccio e da ciò che mi capita. Mi sembra di non avere più esigenze, più sete, più fame, di vivere insipidamente una vita che di per sé insipida non è, ma di non sentire la necessità del sale. Il mio stare di fronte alla realtà lo sento mancante, non è fruttuoso, a volte non è vero. O è violento, cioè cerca di prendersi quanto più con tutti i mezzi, 3 oppure è vuoto. Mi sembra che nulla riesca più a commuovermi. Nel terzo capitolo, al terzo paragrafo, terzo punto, si parla dell’umanista e della sua concezione di un Dio che non c’entra più con la totalità del reale. Cito: «L’interesse per cui vale la pena vivere non ha più a che fare con Dio, poiché non è [più in Lui] […] che sono unificati desideri e giudizi» (p. 48). Quando ho letto questo ho sussultato perché è esattamente quel che sto diventando. E questa è la posizione che fa subentrare la parzialità del reale, con la conseguente disarticolazione e l’astrazione di Dio. Posso quindi affermare che è decisamente la mia descrizione. Io arrivavo carico di ciò che era stato per me il Natale, con i gesti a cui avevo preso parte, le cose che avevo fatto, e vivere in maniera grande e viva l’Incarnazione mi aveva reso davvero pieno e grato. Poi però tutto questo è come scemato. Mi accorgevo che quella pienezza così vera e grande non si ripercuoteva più. Di tutte le cose che vivevo non trattenevo più nulla, sia nel bene che nel male, mi lasciavo vivere dalle cose che facevo, mi lascio vivere ancora dalle cose che faccio. Poi l’altro giorno stavo parlando con un sacerdote che mi diceva: «Guarda che tutto questo è riconducibile al fatto che tu hai perduto il punto focale, il centro, hai perduto l’amore inteso come oggetto dell’amare». È vero, io non ho più un centro, un qualcosa per cui valga la pena vivere le cose che faccio. E ho scoperto, soprattutto dopo Natale, che il fare le cose per qualcuno è la chiave per godersi veramente le cose. E questa mancanza mi manda fuori carreggiata. Perciò la domanda radicale che voglio farti è questa: come faccio io, debole come sono, a rimettermi al punto? Come posso ritornare a dire: per me vivere è Cristo? Sono arciconvinto che in questo modo si viva meglio e con il centuplo in tasca. Ma questo mio “umanesimo” di cui parla la Scuola di comunità non mi abbandona, oppure sono io che non lo voglio abbandonare. E tu hai qualcosa nella tua esperienza che ti dà qualche suggerimento per rispondere alla tua domanda? Ci sono stati tanti momenti, davvero tantissimi, in cui ero più come a Natale, ero pieno, ero grato. E mi dicevo: ho trovato quel che cercavo, anzi, ho trovato quel che cerco. Però era una cosa, non dico passeggera… A volte, poi, andavo fuori carreggiata perché ero in me e pensavo a me. E questo che cosa ti fa capire di te? Che io ho bisogno sempre di un punto. È questo che ci stupisce! Perché tante volte pensiamo che l’incontro cristiano sistemi tutto una volta per tutte, e poi uno si trova davanti, di nuovo – come dici –, a un insieme di pezzi che non riesce a comporre in unità. Esatto. Perché accade questa scomposizione? Succede per una mancanza di impegno con il reale. E prendo un pezzo che mi ha sorpreso leggendo il capitolo: «L’origine di quell’affievolimento di una mentalità organica per quanto riguarda il problema religioso pesca in una possibilità permanente dell’animo umano, in una possibilità triste di mancanza di impegno autentico, di interesse e di curiosità al reale totale» (p. 44). E poco prima diceva: «La vita è una trama di avvenimenti e di incontri che provocano la coscienza producendovi in varia misura problemi. Il problema è l’espressione dinamica di una reazione di fronte agli incontri provocanti. E il significato della vita – o delle cose pertinenti e importanti della vita – è un traguardo possibile solo per chi sia impegnato con la problematica totale della vita stessa» (p. 43). Quindi è proprio una mancanza di impegno con il reale. E questo è ciò che sorprendo – primo – nel mio agire, nella realtà. Ma è ciò che sorprendo, incredibilmente, soprattutto con la caritativa che facciamo – aiutiamo le persone a trovare lavoro –, perché una persona che perde il lavoro, prima ancora della drammaticità gigante che è la mancanza dello stipendio, perde questo nesso con il reale, questo impegno con il reale. E questo non lo fa più muovere, tant’è che il primo aiuto è rimetterlo in nesso con il reale, a lavorare piuttosto gratis mezza giornata. Abbiamo incontrato un ragazzo (ventuno anni), un mesetto fa, disoccupato da sei mesi. Era bloccato, fermo. Io gli dico: «Guarda, dobbiamo ritornare a impegnarci con la realtà, perché se non ci impegniamo non ci muoviamo più». E mi dice: «Hai ragione! Perché io ho una 4 passione incredibile per la musica, compongo e suono la musica, ma da quando sono disoccupato, e ho tutto il tempo a mia disposizione, non compongo e non suono più». Ci siamo risentiti dopo tre settimane, l’ho richiamato per sapere come stava, e mi ha detto: «Ho trovato lavoro. Ho ripreso a suonare». Tu mi avevi raccontato anche di quel muratore che non poteva non lavorare. Era successo un putiferio nella ditta, per cui i lavoratori non venivano pagati, e allora mentre tutti gli altri facevano sciopero c’era uno che, dopo quel che gli era capitato incontrando voi, continuava a lavorare. E così per giorni. Finché arriva a un punto del lavoro per il quale non aveva le competenze tecniche, allora va da un suo collega esperto (che scioperava insieme a tutti gli altri) per chiedere consiglio. E questo gli dice: «Fammi capire, ma tu perché lavori?». «A me è successo qualcosa per cui non posso più non lavorare, non posso star qui senza fare un cavolo. Tu mi puoi aiutare a risolvere questa questione tecnica?». Il dialogo finisce lì. Il giorno dopo il muratore arriva a lavorare come al solito, e trova questo suo collega esperto che comincia a lavorare con lui dicendo: «Mai in quarant’anni sono venuto a lavorare così contento!». Che cosa unisce e ridesta così un io? Non uno sforzo titanico, ma quel che ci ha detto il Papa a Roma – di cui dobbiamo fare tesoro per cominciare a capire ciò che succede –: la morale non è frutto di uno sforzo, ma la risposta commossa a qualcosa che succede. Immaginate: che cosa ha scatenato nel collega che non lavorava questo impegno curioso con la realtà? Vedere uno che lavorava. Immaginate che lotta interiore tutti quei giorni, davanti a uno che lavorava malgrado lo sciopero: «E questo qua?», «E questo qua?», «E questo qua?». È questo impegno curioso con il reale che, a un certo punto, gli ha fatto dire: «Ma spiegami una cosa: come mai tu continui a lavorare?». E l’altro non può non dirgli che cosa gli è capitato nell’incontro con Cristo, per farlo risvegliare e poterlo accompagnare in quell’impegno con il reale totale, affinché la vita possa diventare così piena. Questa unità nasce proprio a questo livello. Perciò occorre aver presente tutti i fattori per poter scoprire davanti ai nostri occhi da dove viene questa possibilità di unità dell’io che tutti vogliamo. Allora, veramente, possiamo cominciare a capire, perché questo è un desiderio di tutti, non occorre, come a volte pensiamo, forzare le persone. Mi scriveva una persona che, a volte, le viene voglia, quando qualcuno non percepisce come lei la verità delle cose, di piegare la libertà dell’altro: «La libertà dell’altro a volte non l’amo, vorrei piegarla davanti a ciò che percepisco come vero. Come si può amare l’altro per quel che è anche quando non riconosce come vero ciò che è vero per me e amare la verità tutta intera?». Come si può sfidare la libertà dell’altro senza piegarla? Ho in mente un ragazzo del primo anno che studia nella mia stessa università, viene dalla Sicilia come me, io sono al quarto anno qui a Milano. Mentre studiavamo insieme mi ha un po’ raccontato come stava vivendo; in particolare, faceva fatica perché ha tutti i familiari e gli amici giù in Sicilia, e abita in un appartamento con altri ragazzi; non si parlano, con uno hanno litigato. Nel rapporto con noi – abbiamo studiato, abbiamo mangiato, siamo stati insieme – piano piano ha incominciato a cambiare: si sorprendeva di tutto, si sorprendeva di come noi mangiamo, di come studiamo, di come stiamo insieme. Allora, dopo un po’, io gli ho detto: «Vuoi venire a Roma con noi dal Papa?». Subito mi ha risposto di sì. Mentre eravamo in viaggio in pullman mi ha detto: «Guarda, ti devo raccontare una cosa che mi è successa ieri [l’avevo invitato ed era venuto alla Scuola di comunità]. Io per come vi ho visto vivere in questo periodo, per come mi sono gustato l’esame stando con voi… Io conosco bene solo te, però è come se tutti mi volessero bene, mi sento accolto come in una famiglia, mai ho visto una cosa così. Per come ho visto stare insieme voi, il giorno dopo la Scuola di comunità, la sera, sono tornato a casa e ho aspettato il tizio con cui avevo litigato per chiedergli come stava. Nel frigorifero ciascuno ha il proprio compartimento con le cose proprie. Avevo un pezzo di salmone che stava scadendo, allora mi sono detto: quasi quasi lo condivido con lui». E si sono messi a mangiare insieme uno di fronte all’altro, per la prima volta. Quando siamo arrivati in piazza, prima ancora che parlasse il Papa, quando nel video il Gius ha parlato di Andrea che torna a casa, mi sono messo a piangere perché vedendo questo amico ho pensato: la stessa cosa che è successa duemila anni fa è successa a me e a lui. Quando il Gius ha 5 detto: «Senza troppe sottigliezze questo è accaduto», mi è tornato alla mente l’episodio che ti ho appena raccontato: la stessa casa, gli stessi ragazzi, però lui è tornato talmente pieno dalla Scuola di comunità che si è rimesso a parlare con il suo compagno di appartamento con cui era quasi venuto alle mani. Dopo Roma sono andato a Napoli; sono tornato a Milano dopo tre giorni, e tutti i miei compagni di corso mi chiedevano: «Come è andata a Roma?». Ma come? Io mai ne avevo parlato se non con quel nuovo amico. Ed era proprio lui che ne aveva parlato già a tutti in quei due giorni! E appena mi ha visto mi ha chiesto il Tracce. L’altro ieri stavamo pranzando con i nostri compagni di corso; si avvicinava l’ora dell’Angelus e pensavo: adesso come faccio a dire agli altri miei compagni che vado a pregare? A un certo punto, quel ragazzo si alza, si gira verso di loro e dice: «Ragazzi, io vado a dire una preghiera insieme a lui, voi venite?». Parlando del crollo delle evidenze, quando guardo questo nuovo amico mi riaccorgo di tutte le evidenze che io do per scontate. E secondo te perché questo ragazzo ha potuto identificare così chiaramente quella diversità che vivevate voi? Perché in ogni cosa che viviamo facciamo tutti la verifica di quel che stiamo leggendo in questi capitoli. Che cosa gli ha consentito di riconoscere quella vita che è la Chiesa attraverso la modalità con cui voi mangiavate, studiavate, vivevate? Secondo me – se penso anche a me –, il fatto che aveva bisogno. Il bisogno! Tale e quale, letteralmente, afferma Giussani. Non è che questo amico abbia pensato al bisogno, ma proprio il bisogno gli ha fatto intercettare la vita! Per il bisogno che aveva, ha subito identificato la risposta. E in che cosa si vede? In quel che è cambiato in lui, che non è stato l’esito di un allenamento, di uno sforzo – ecco, di nuovo, qual è l’origine della morale –. È questo che adesso dobbiamo cercare di riconoscere nell’esperienza: quali fatti succedono tra di noi che ci aiutano a capire le parole che il Papa ci ha detto, non come un discorso astratto, ma come stupore di fronte a quel che succede. Perché che a un ragazzo, dopo mesi che non parla con uno con cui vive, all’improvviso venga una voglia matta di aspettarlo e di cenare insieme, da dove nasce questo desiderio se non dalla risposta commossa a ciò che gli è capitato? E così via. Questa unità, che non è solo unità dell’io, ma anche unità con gli altri, da dove nasce? È uno sforzo? È qualcosa che generiamo noi mettendoci d’accordo? Anche noi ci troviamo con lo stesso tipo di esperienza che fanno i due apostoli che, allontanandosi da Lui, “si salutano senza salutarsi” perché “hanno” la stessa cosa. È questo che ci consente di capire. Tornato da Roma, mi stavo perdendo in mille analisi di ciò che avevo capito o meno del discorso del Papa. E che cosa ti ha salvato dalla valanga delle analisi, dal razionalismo delle interpretazioni? Che una persona non del movimento, che abbiamo invitato a venire a Roma con noi, qualche giorno dopo mi ha scritto questo messaggio: «Strana la vita. Uno si barcamena come può e poi finisce a Roma con persone vere e ne riceve una carica di pile al litio. E poi torna a casa e questa carica non si esaurisce. È la prima volta per me. Di solito era come un’iniezione di antibiotico che attenuava il dolore, ma la malattia era cronica e poi scattava la recidiva. Grazie». Questa cosa, oltre a commuovermi, mi ha fatto capire meglio anche il passaggio che il Papa fa verso l’inizio: «Tutto, nella nostra vita, oggi come al tempo di Gesù, incomincia con un incontro». Un incontro che non è semplicemente qualcosa che attenua il dolore. Per questo quando tra di noi cerchiamo soltanto il palliativo, questo è troppo poco. La questione è trovare una pienezza che non si perda più. Studio all’università, e volevo raccontarti la scoperta che ho fatto grazie all’incontro di Roma. Io non sono stata a Roma perché i miei genitori non hanno voluto che andassi. Quando i miei amici mi hanno fatto la proposta, mi sono domandata molto perché dovessi andarci, se ne valesse veramente la pena, perché non mi sembrava giusto partire senza esserne sicura. Una volta letta la tua lettera e dopo essermi confrontata con amici, ho capito che sarebbe stato veramente importante per me andare ed essere presente all’udienza, in quanto rappresentava in maniera totalizzante 6 l’incontro che ho fatto con il movimento in università. Certa delle mie motivazioni, decido di proporlo ai miei genitori i quali, senza ascoltare e prendere sul serio le mie parole, mi proibiscono di andare. Nonostante insistessi, le giustificazioni poste da mio padre erano: «Hai troppi impegni. Non puoi fare sempre tutto. Devi fare delle scelte. Stai troppo poco a casa. Non esiste solo il movimento». Triste e delusa, passo il periodo seguente fino al giorno dell’incontro soffocando in questo clima, non riuscendo a convincere i miei genitori e vedendo tutti i miei amici che si preparavano per andare a Roma. Il mattino stesso dell’incontro, dovendo uscire di casa, chiedo a mio padre se poteva videoregistrare l’evento. Torno a casa e lo trovo davanti alla televisione che ancora trasmetteva l’ultima parte dell’udienza. Poco dopo mi si avvicina e mi dice: «Sai, mi sono un po’ pentito di averti proibito di andare». Stupita dell’affermazione, dopo un momento di imbarazzo, gli chiedo il motivo e mi risponde: «Ho visto l’incontro in televisione. Il Papa ha detto delle cose proprio belle. Mi sarebbe piaciuto che mia figlia fosse stata lì presente. Volevo chiederti scusa. Mi dispiace molto». Mi ha così spiazzato e sono rimasta così colpita che non sono riuscita a dirgli una sola parola! Perché mai mi era capitato che mio padre si scusasse di una scelta fatta su di me, rendendosi così tanto conto dell’importanza di quel gesto da riuscire a diventare vero e umano fino in fondo nei miei confronti. Più tardi, poi, ho visto la registrazione dell’incontro e mio padre l’ha voluta rivedere e commentare con me. Un momento per me molto significativo, perché mi ha fatto accorgere del valore dell’udienza con il Papa anche non essendoci andata. Per me quindi, paradossalmente e inaspettatamente, Roma è stato compiere quel passo fondamentale a casa nel rapporto con mio padre che già vedo crescere sotto i miei occhi. Grazie. È impressionante perché anche una cosa che, apparentemente, può sembrare contro di noi diventa parte dell’avvenimento, perché, come dice il capitolo terzo, «non casca foglia che Dio non voglia» (p. 37). Non sappiamo a priori come Dio potrà usare anche di questa circostanza (non poter compiere un nostro desiderio) per accadere diversamente da come immaginiamo. E questa è la modalità attraverso cui noi vediamo chi è Dio, scoprendone la pertinenza a tutti gli aspetti del vivere. Se noi vogliamo buttare qualcosa fuori dal reale, dalle circostanze del vivere, allora ci blocchiamo costantemente, perché non siamo disponibili alla modalità con cui Dio potrà farci sorprendere di Chi è. Siamo sciocchi, perché quando non vediamo che Dio può usare una certa circostanza, allora la vogliamo escludere perché pensiamo che non c’entri; poi, a un certo momento, scopriamo che c’entra, eccome! Amica, questa è la modalità con cui il Mistero ti ha ridonato quel che pensavi ti avesse tolto. Sono venuto insieme a te dal Papa mendicante della grande Presenza, concreta, così concreta come un figlio che incontra il padre. E, da un certo punto di vista, sono stato aiutato in questo perché ho un problema serio in questo periodo, e quindi andare a fare un incontro di massa celebrativo non mi bastava. Neanche a me! D’altra parte, ho visto come a te interessava andare dal Papa, quindi mi sono fidato. Adesso non voglio voltare la pagina, come dire: torniamo alla Scuola di comunità, chiudiamo lì Roma, come una parentesi. Non voglio perdere proprio il contraccolpo delle parole che il Papa ci ha detto. Per questo ho fatto un po’ una rilettura anche senza farmi sconti e senza farti sconti. Volevo sapere cosa tu hai capito quando il Papa ci ha detto di decentrare il carisma e centrarci su Cristo, e come questa cosa non contraddice quel che noi ci diciamo sempre: immedesimarci col carisma. Perché nella mia vita il carisma del Gius, che continua nella compagnia del movimento e con te, è la mano di Gesù che mi tocca personalmente. Sinceramente io non ho un’altra via più diretta per arrivare a Gesù, se non immedesimarmi col carisma. Non so se tu ce l’hai, o se c’è contraddizione. Rispondendo a questa domanda, posso sintetizzare quel che abbiamo vissuto insieme. Siamo andati a Roma per porre al Papa una domanda: come non perdere la freschezza del carisma? Era la domanda che papa Francesco aveva fatto all’incontro coi Movimenti, ed è l’urgenza più grande. E come ha risposto il Papa a questa nostra richiesta? Per me – visto che mi chiedi che cosa è capitato a me – non ha risposto solo con le parole: Cristo ci ha risposto attraverso quel che ha fatto accadere. E 7 ciascuno deve guardare che cosa è accaduto lì, perché non eravamo in piazza da soli, no, eravamo presenti ciascuno personalmente e insieme, partecipando a un gesto. Allora: che cosa è successo? Lì ciascuno di noi ha fatto la verifica. Prima un intervento raccontava di quel ragazzo che ha potuto riconoscere ciò che gli era successo attraverso la natura del bisogno che aveva. A San Pietro ciascuno di noi ha potuto sorprendersi riconoscendo con quale bisogno è andato (non l’immagine del bisogno che uno aveva, ma il bisogno reale, con la disponibilità del cuore!); e ha potuto vedere che cosa è successo. Infatti, possiamo partecipare a un gesto e non vedere niente. Che è esattamente ciò che sta scritto all’inizio di Perché la Chiesa. Non basta vedere una vita come la Chiesa per riconoscerla; la difficoltà che abbiamo – dice Giussani – è che se manca un’apertura, il senso religioso, noi non capiamo, non riusciamo a cogliere quel che succede. Dunque, davanti a un gesto come l’udienza, tutti ci siamo trovati a sorprendere l’uno o l’altro dei tre atteggiamenti che abbiamo studiato nel secondo capitolo della SdC. C’è chi è rimasto intrappolato nella valanga delle opinioni, cioè non ha vissuto qualcosa di veramente significativo che si sia imposto sulle interpretazioni. C’è chi ha percepito un calore sentimentale, che però è stato messo a rischio appena i giornali hanno dato le loro interpretazioni –, come mi dicevano alcuni amici quando sono stato in Brasile: il giorno dopo, vedendo i giornali, malgrado l’esperienza che avevano fatto, pensavano che l’unico modo per conservare quell’intimismo caldo fosse rifiutarsi di leggerli! –. E infine c’è chi ha partecipato a un evento integralmente umano, per cui è stato liberato dal proprio razionalismo, dalla propria misura, dalla propria interpretazione, e niente ha potuto togliere il contraccolpo di quel che è capitato, tanto che dura ancora oggi. Ciascuno di noi ha fatto un’esperienza a Roma, e la verifica di quell’esperienza è ciò che è successo dopo, anche nel modo di affrontare le diverse interpretazioni degli uni e degli altri, di quelli “di dentro” come di quelli “di fuori” (perché non c’è differenza, non c’è “dentro” e “fuori”, in un certo modo). Il cieco nato ha vissuto un evento, e non è che Gesù sia rimasto con lui dopo il miracolo: «Adesso resto con te perché così possiamo affrontare insieme la lotta contro i farisei che verranno qui a martellarti con le loro interpretazioni». No, Gesù lo ha guarito, gli ha fatto vivere un’esperienza grazie alla quale poteva non rimanere intrappolato nelle interpretazioni o nella conservazione intimistica del calore provato; lo ha lanciato nella mischia, è andato via: «Tu hai tutto quanto ti serve per affrontare tutto». Ciascuno di noi deve guardare che cosa è successo: se è rimasto confuso, se è rimasto intrappolato, oppure se, come il cieco nato, tutte le difficoltà, tutte le sfide che ha dovuto affrontare, l’hanno veramente convinto di più di che cosa gli era capitato: «Io non bisogno di altro oltre quello che mi è capitato». Al cieco nato è bastata una lealtà semplice con ciò che gli ha fatto quell’Uomo: «Io prima non vedevo, adesso ci vedo». E niente è riuscito a spostarlo da questa evidenza. Allora, quando ciascuno è sfidato dal lavoro piuttosto che da problemi vari, da una interpretazione piuttosto che dalle difficoltà del vivere, deve vedere se gli è accaduto come al cieco nato. Verifichiamo che cosa veramente è successo a Roma, non solo riandando all’esperienza vissuta lì, ma anche in tutto quel che succede dopo, che ci fa capire ancor di più cosa è successo. È tutto un processo di comprensione di quel che è successo a Roma che ci porterà nei prossimi tempi a poterlo cogliere in tutta la sua profondità. Perché quando uno ha chiaro il bisogno, non si confonde su che cosa è importante. Personalmente, solo il fatto di aver sentito di nuovo parlare di Cristo come ha fatto il Papa, di averLo visto riaccadere in me rispetto al mio bisogno, rispetto al mio male, rispetto alla mia insufficienza, mi ha reso così grato, così lieto che è stato proprio il riaccadere di quella liberazione – è l’incontro che ci libera – dalle mie preoccupazioni o dal mio razionalismo o dal mio modo di guardare me e la realtà. Dall’altra parte, c’è chi, un istante dopo la fine del gesto, già era intrappolato nelle interpretazioni. Come possiamo capire che cosa è successo? Basta che ciascuno faccia il paragone di quel che ha vissuto con il paradigma dell’incontro. E qual è il paradigma dell’incontro che don Giussani ci ha messo sempre davanti agli occhi (come ha fatto anche il Papa il 7 marzo)? Leggiamo: «Immaginate quei due che lo stanno a sentire alcune ore e poi dopo devono andare a casa. Lui li congeda e se ne tornano zitti [primo segno che tutti possono verificare: che cosa fa rimanere zitti?]. Zitti perché invasi dall’impressione avuta del mistero sentito, presentito, sentito [invasi: secondo segno]. E poi si dividono: ognuno dei due va a casa sua [come noi, cominciamo a salutarci gli uni gli altri, 8 prendiamo il treno per tornare a casa]. Non si salutano, non perché non si salutino, ma si salutano in un altro modo, si salutano senza salutarsi, perché sono pieni della stessa cosa [terzo segno], sono una cosa sola loro due, tanto sono pieni della stessa cosa [non perché stanno insieme; ciascuno si divide, va a casa sua, ma non possono andare a casa senza essere pieni della stessa cosa, rimangono insieme anche se ciascuno va a casa sua perché condividono la cosa più cara]. E Andrea entra in casa sua e mette giù il mantello, e la moglie gli dice: “Ma, Andrea, che hai? Sei diverso [quarto segno], che ti è successo? [Come il nostro nuovo amico: “Cosa ti è successo? Siamo quasi venuti alle mani, non ci parliamo da un mese… Perché mi hai aspettato per cenare insieme a me e per chiedermi come sto?”]”. Immaginate lui che scoppiasse in pianto abbracciandola, e lei che, sconvolta da questo, continuasse a domandargli: “Ma che hai?”. E lui a stringere sua moglie, che non si è mai sentita stretta così in vita sua: era un altro [quinto segno]. Era un altro! Era lui, ma era un altro. Se gli avessero domandato: “Chi sei?”, avrebbe detto: “Capisco che son diventato un altro”» (L. Giussani, Il tempo e il tempio. Dio e l’uomo, Bur, Milano 2014, p. 48). Ciascuno può vedere cosa è successo. Questo è il termine di paragone. Questo è il carisma! A Roma è successo di nuovo il carisma? Come è successo? Perché ciascuno, qualsiasi sia la modalità con cui è arrivato, se è stato disponibile, è stato decentrato dalle preoccupazioni che aveva, dai garbugli, dalle trappole, ed è stato preso di nuovo da Cristo. Allora è con questo negli occhi che dobbiamo rileggere il testo del Papa per capire che cosa significa «decentrarsi», come ci ha insegnato sempre la Scuola di comunità, come ci siamo detti sempre: «In manibus nostris sunt codices, in oculis nostris facta» (sant’Agostino, Sermo sancti Augustini cum pagani ingrederentur), nei nostri occhi i fatti, nelle nostre mani i codici, cioè i testi. Rileggiamo così quel che ci ha detto il Papa, per poterlo capire, per non mettere in contrasto cose che non sono assolutamente in contrasto, perché Cristo ha fatto accadere prima ciò di cui poi dobbiamo veramente renderci conto. Capite che se non riaccade questo, noi non ci decentriamo? Occorre che riaccada costantemente. Che è esattamente ciò che ha fatto sempre Giussani con noi, perché tante volte noi, pur vivendo il carisma – non perché ce ne fossimo andati, ma vivendo il carisma! –, ci spostavamo. Diceva nel 1982: «L’altra sera, in un raduno a Milano [l’avevo citato già agli Esercizi della Fraternità del 2013], osservavo che, in questi anni, da una quindicina circa [non da due giorni prima!] […] tutto lo sforzo di attività associativa, operativa, caritativa, culturale [eccetera] […] ha […] avuto come scopo quello di mobilitare noi stessi e le cose [e questo ha preso il sopravvento] […]. Ma, all’inizio […] non fu così [e tutti eravamo lì a vivere il carisma, ma don Giussani ci dice: “All’inizio non fu così”] […] all’inizio […] non si costruì sui valori che Cristo ci aveva portati, ma si costruì su Cristo, ingenuamente fin quando volete [si costruiva sul] […] fatto di Cristo, e perciò il fatto del Suo corpo […], della Chiesa. All’inizio si costruiva, si cercava di costruire su qualcosa che stava accadendo […] [e] questa era una posizione pura. […] Per averla come abbandonata, essendoci attestati su una posizione che è stata innanzitutto, starei per dire, una “traduzione culturale” piuttosto che l’entusiasmo per una Presenza, noi [proprio perché ci siamo spostati] non conosciamo […] Cristo» (L’opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Cinisello BalsamoMi 2002, pp. 100-101). Meno male che Giussani, facendolo accadere davanti a noi – e Giussani mi sembra che capisse qualcosa del carisma! –, non ci ha consentito di perdere il carisma per la strada (il Papa è stato fin troppo tenero rispetto a Giussani, capite?). Ci ha aiutato a rifare esperienza del carisma, facendolo accadere secondo la sua natura, che è l’avvenimento cristiano. A questo Giussani ci ha introdotto costantemente, e costantemente ci ha aiutato a non staccarci da questo, a decentrarci da tutto quel che prevaleva, come ha fatto Gesù fin dall’inizio. Quando Gesù manda i discepoli a fare la missione (non a rubare) ed essi tornano tutti contenti di quello che hanno fatto, dice loro: «Non rallegratevi di questo, perché questo non serve per vivere. Rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nel Cielo». Gesù li decentra costantemente, e poi possiamo leggere tutta la vita di Gesù con i discepoli come un decentramento costante, fino al foto-finish, quando già sta per finire il Vangelo: «Pietro, Mi ami?», «Sì», «Allora seguimi». Comincia a seguirLo, e all’ultimo minuto Pietro dice: «E di questo Giovanni che ci viene dietro che cosa facciamo?», «Smettila, decentrati e seguiMi!». È questo che abbiamo davanti a noi adesso per poter scoprire, non 9 semplicemente ragionando ma attraverso la testimonianza reciproca, quel che succede, quel che ci colpisce, quel che Egli continua a operare in mezzo a noi per aiutarci a capire. È un’ipotesi di lavoro da verificare, una sorpresa da scoprire, personalmente e insieme. Poi ci ritorneremo agli Esercizi della Fraternità. La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 20 maggio alle ore 21,30. Saltiamo il mese di aprile perché ci saranno gli Esercizi della Fraternità. Inizieremo a lavorare sull’Introduzione insieme. Fino agli Esercizi della Fraternità continuiamo a lavorare sul terzo capitolo della Scuola di comunità. Non sono due cose staccate. Abbiamo visto come il gesto con il Papa sia servito a capire la Scuola di comunità e come la Scuola di comunità ci aiuta a capire il gesto con il Papa. Quartino con il testo di Papa Francesco. Come avete visto, abbiamo realizzato un quartino con il testo del discorso di papa Francesco all’udienza del 7 marzo. Siamo andati a Roma a chiedere al Papa come non perdere la freschezza del carisma e il Papa ci ha risposto. «Roma locuta, causa finita est» (Roma ha parlato, la causa è definitivamente chiusa). La prima questione non è aggiungere altre parole, ma prendere sul serio la proposta fatta e cominciare a viverla come ipotesi di lavoro. Solo così potremo vedere come le parole che il Papa ci ha detto illuminano la vita. Questo lavoro ci aiuterà anche a prepararci agli Esercizi della Fraternità. Se qualcuno vuole inviare contributi sull’esperienza fatta oppure domande emerse in questo lavoro, che possono servire agli Esercizi, può mandarli all’indirizzo predisposto per questa Scuola di comunità: sdccarron@comunioneliberazione.org, indicando nell’oggetto “Esercizi Fraternità”. Volantone di Pasqua. Il testo del Volantone di Pasqua è un brano del discorso del 7 marzo. Poteva essere diversamente, dopo quello che il Papa ci ha detto? «Tutto, nella nostra vita, oggi come al tempo di Gesù, incomincia con un incontro. Un incontro con quest’Uomo, il falegname di Nazaret, un uomo come tutti e allo stesso tempo diverso. Pensiamo al Vangelo di Giovanni, là dove racconta del primo incontro dei discepoli con Gesù (cfr 1,35-42). Andrea, Giovanni, Simone: si sentirono guardati fin nel profondo, conosciuti intimamente, e questo generò in loro una sorpresa, uno stupore che, immediatamente, li fece sentire legati a Lui... Parlando dell’incontro mi viene in mente “La vocazione di Matteo”, quel Caravaggio davanti al quale mi fermavo a lungo in San Luigi dei Francesi, ogni volta che venivo a Roma. Nessuno di quelli che stavano lì, compreso Matteo avido di denaro, poteva credere al messaggio di quel dito che lo indicava, al messaggio di quegli occhi che lo guardavano con misericordia e lo sceglievano per la sequela. Sentiva quello stupore dell’incontro. Il luogo privilegiato dell’incontro è la carezza della misericordia di Gesù Cristo. (Papa Francesco)». È un testo da tenere davanti agli occhi per poter avere un’immagine piena dello stupore di una Presenza. È impossibile guardare la faccia di Matteo senza vedere dentro di essa tutto lo sguardo di cui è oggetto. Il Libro del mese per aprile e maggio sarà Un’attrattiva che muove. La proposta inesauribile della vita di don Giussani, (Bur), una raccolta di interventi di personalità che hanno presentato la Vita di don Giussani. La prossima Settimana Santa che ci affrettiamo a cominciare ci metta in questo atteggiamento: immedesimarci con Cristo che è venuto proprio perché la nostra vita non sia a pezzi. Per questo sosteniamoci e chiediamolo gli uni per gli altri. Buona Pasqua a tutti! Gloria Veni Sancte Spiritus

"In Comunione e Liberazione imparare dai nostri errori"

Julián CarrónJULIÁN CARRÓN
È uno dei movimenti più importanti della Chiesa cattolica. Nacque nel 1954 grazie all’intuizione di don Luigi Giussani (1922-2005), giovane sacerdote e professore di religione in un liceo milanese. Da allora è in costante crescita e oggi la sua presenza è arrivata in 90 paesi. Si tratta di Comunione e Liberazione. Ma nella sua sorprendente crescita ci sono state anche polemiche e scandali.

A 10 anni della morte del fondatore, Papa Francesco ha concesso un’udienza ai membri del movimento in Piazza San Pietro, lo scorso 7 marzo, nella quale ha riflettuto sulle tentazioni e sulle sfide che il movimento deve affrontare. Julián Carrón, il successore di don Giussani, ne parla in questa intervista con Notimex

In questi due anni di pontificato, Papa Francesco ha stupito con il suo messaggio innovatore, di radicalità evangelica, ma creativo. Ha sorpreso anche CL?

«Papa Francesco ci ha sorpreso per la semplicità con la quale si è rivolto a tutti fin dal primo istante, con un linguaggio accessibile ad ognuno: dalle persone con un livello culturale più alto fino alla gente più semplice. La potenza dei suoi gesti, che dicono più di mille parole, la fiducia che nutre nella potenza inerme della verità evangelica (perché lui crede nella bellezza disarmata della verità) e l’irruzione di una figura come la sua hanno un significato stimolante per tutti e anche per noi. La sua persona e i suoi gesti costituiscono una provocazione in quanto riflettono una maniera di vivere il cristianesimo nelle circostanze storiche attuali, come se Cristo ci avesse dato un modo di vivere il cristianesimo nei nostri tempi che, quando lo si vive così come lo vive il Papa, ci rende capaci - diversamente da quanto pensiamo tante volte - di entrare in dialogo con chiunque e con tutte le culture».

Nonostante le difficoltà, il movimento è arrivato in tanti paesi e realtà diverse. Come vivete questa diffusione?

«Siamo stupiti del fatto che una realtà di origine italiana abbia suscitato quest’interesse in latitudini, culture e situazioni umane così diverse. Questo costituisce una conferma della validità di quanto ci ha comunicato Giussani in un contesto culturale come quello di oggi, globale, e lo viviamo con tutto il senso di responsabilità che implica. Vedere delle persone della Nuova Zelanda, della Russia, dell’Argentina, degli Stati Uniti o dell’Uganda interessate alla nostra esperienza, è per noi la conferma che il cuore dell’uomo attende un cristianesimo che possa rispondere a tutte le esigenze del proprio essere, nonostante le condizioni umane nelle quali si trova a vivere».

La diffusione del movimento presenta alcune sfide. Esso, in tanti ambiti, rappresenta il “volto visibile” della Chiesa. Come vivete questa responsabilità?

«Con umiltà. Sappiamo perfettamente quanto siamo piccoli, conosciamo tutti i nostri limiti e tutta la nostra sproporzione. Allo stesso tempo viviamo gioiosi vedendo che il Signore, con il nostro piccolo “sì”, fa delle cose che ci meravigliano e che ci danno la certezza della fede. In questo momento storico, nel quale tutto si frantuma, vedere che la certezza della fede in Gesù Cristo cresce (non perché ce lo immaginiamo, ma perché vediamo le persone che Lo incontrano vivono meglio, sono più contente, più in grado di affrontare le sfide della vita), ecco questo ci riempie di gioia e gratitudine».

Papa Francesco vi ha messo in guardia da certe tentazioni come l’«autoriferenzialità» e il «cattolicesimo da etichette». Cosa pensate di questi richiami?

«Per noi sono molto salutari perché ci sentiamo richiamati alla verità del nostro carisma. Don Giussani ci ha invitati sempre a uscire e riconoscere il valore in tutto ciò che incontriamo, in qualsiasi persona che conosciamo e circostanza che viviamo. Per questo, il richiamo a non rimanere rinchiusi corrisponde a quello che lui ci ha indicato per non perderci tutto il buono, il bello, il meraviglioso che possiamo trovare nel rapporto con le persone e le circostanze».

Il Papa vi ha anche chiesto di non perdere «la freschezza del carisma». Come affrontate le critiche che emergono quando il movimento si trova sotto lo sguardo severo dell’opinione pubblica?

«Noi siamo andati a Roma, all’udienza con il Papa, non per avere semplicemente un momento per celebrare un anniversario, ma con il desiderio di imparare, di chiedergli sinceramente come possiamo – a dieci anni della morte di don Giussani – preservare la freschezza del carisma. Il Papa ci ha risposto molto chiaramente: la chiave è mettere costantemente Cristo al centro, e non l’ha detto solo con parole, ma l’ha fatto accadere: in Piazza San Pietro abbiamo sentito parlare del cristianesimo come ce lo testimoniava anche don Giussani. Il Pontefice ha fatto rinascere in noi la freschezza del carisma; per questo sentiamo così urgente farla permanere».

Ma ci sono state anche molte difficoltà in questi anni, non è vero?

«Evidentemente, quando si parla di una realtà sociale delle dimensioni del movimento, ci troviamo sempre sotto i riflettori. A volte, questo ci permette di offrire agli altri un contributo; a volte, invece, è motivo di umiliazione, perché anche noi abbiamo dei limiti, come succede anche alla Chiesa nel suo insieme. Noi lo viviamo con il desiderio costante di tenere sempre in considerazione le osservazioni di valore che ci vengono fatte, lasciando perdere gli aspetti di esagerazione, di polemica giornalistica strumentale, che lasciamo passare, perché a noi interessa imparare anche dai nostri limiti».

lunedì 30 marzo 2015

Fidarci e affidarci: questa è la vita


L’aereo schiantato e la nostra quotidiana realtà
Che quel comando sia stato dato deliberatamente, su un aereo di linea, e da un ufficiale addestrato dalla compagnia tedesca che si vanta di avere «i piloti migliori del mondo», è qualcosa che ci ha lasciato attoniti forse più di un attentato. La tragedia del volo Germanwings ha prodotto qualcosa di simile a una sottile incrinatura nel pavimento su cui camminiamo, e che siamo abituati a considerare stabile. Il settimanale tedesco Spiegel ieri attaccava il mito della efficienza tedesca, sotto al titolo: «Senza il terreno sotto ai piedi». Un pavimento incrinato, appunto. La questione però non riguarda solo una compagnia aerea. Riguarda noi.

Quel pavimento, è la fiducia collettiva e diremmo innata che siamo abituati, fin da bambini, ad avere nel prossimo. E non solo in chi ci vuole bene. Ogni gesto, dai più elementari che compiamo ogni mattina, è possibile solo dentro a questa fiducia nell’altro: come potremmo bere l’acqua del rubinetto di casa, se pensassimo che qualcuno la ha avvelenata, o mangiare, se covassimo il dubbio che il cibo è intossicato? O salire su un treno, se non dando per ovvio che il macchinista si fermerà, a un semaforo rosso? La nostra vita è fondata su una tacita, profonda fiducia: che tutti, benché diversi o magari divisi e avversari, si tenda a un bene comune – si tenda a vivere, e non a morire. Per questo quel pulsante di discesa premuto coscientemente ci sconvolge: mentre il terrorismo è l’atto di un dichiarato nemico, questa volta invece avvertiamo qualcosa di più profondo, come un comune codice violato. 

Cosa dovremmo fare allora, su questo pavimento impercettibilmente incrinato? Una incrinatura in realtà c’è davvero: il cemento che tiene insieme la reciproca fiducia è anche in un vivere non individualistico, ma dentro legami forti e duraturi, per cui l’eventuale istante di disperazione, o di odio, è frenato da un pensiero: no, non posso, ho dei figli, ho chi mi vuol bene. (L’altro giorno su un volo Germanwings da Amburgo a Colonia il pilota ha detto ai passeggeri: «Signori, vi assicuro che io voglio tornare a casa, stasera. Mi aspettano». E i passeggeri hanno applaudito – come per un patto rinnovato). Quel patto, lo sappiamo, oggi è intaccato. Si vive sempre di più come monadi. È in una assoluta solitudine interiore che maturano narcisismi estremi, e fallimenti avvertiti come intollerabili, come va emergendo dalla biografia di Andreas Lubitz. 

Eppure, non possiamo smettere di fidarci. È nel nostro Dna il mettere la vita nelle mani del prossimo, ogni giorno, che sia un ferroviere, o l’ignoto tecnico di un’industria alimentare. Smettere di fidarsi, è come smettere di respirare. Abbiamo questa legge scritta dentro: è già nel riflesso naturale, con cui il neonato serra forte il dito che gli viene porto. Ma, potrebbe obiettare qualcuno, nessuno ci garantisce contro la possibilità che il prossimo folle tocchi a noi. Vero: nessuno peraltro ci garantisce, senza bisogno di volare, di non essere noi, all’incrocio sbagliato, mentre arriva un pirata della strada ubriaco. Peggio: nessuno ci garantisce che a quell’incrocio non ci sia nostro figlio. 

C’è chi non ci pensa, c’è chi trova ogni modo di distrarsi, chi confida nella fortuna, chi legge gli oroscopi. I cristiani sanno che occorre, oltre che fidarsi dell’altro, affidarsi. Sanno che nemmeno la prossima mattina ci è garantita, e che ci è stato detto: nessuno conosce il giorno, e l’ora. E tuttavia non vivono nella paura: certi di non essere atomi smarriti, cose da nulla, ma figli. Lo erano anche i liceali tedeschi dell’aereo schiantato, e quel quattordicenne morto in auto, domenica scorsa, a Monza, a un incrocio, mentre, contento, andava a giocare a calcio. 
Perché per quei ragazzi sia andata così, è per noi un mistero straziante, davanti a cui taciamo e preghiamo. Tuttavia continuiamo a dire nel Padre Nostro, ogni giorno: «Sia fatta la tua volontà». 

Che è una frase che, se ci pensi, fa tremare. E però poggia, come su un’architrave, sulla certezza di un Dio buono: che ci conosce tutti, per nome, e uno per uno.Marina Corradi

Umiltà è la via di Dio: Francesco nella Domenica delle Palme


Non esiste umiltà senza umiliazione. Papa Francesco, nella Domenica delle Palme che apre alla Settimana Santa, ricorda che “Dio si umilia per camminare con il suo popolo” e sottolinea “l’umiliazione di quanti, per il loro comportamento fedele al Vangelo sono discriminati”. Questa  è la via per seguire Gesù e per vivere la Settimana Santa.
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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
XXX Giornata Mondiale della Gioventù
Domenica, 29 marzo 201
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Al centro di questa celebrazione, che appare tanto festosa, c’è la parola che abbiamo ascoltato nell’inno della Lettera ai Filippesi: «Umiliò sé stesso» (2,8). L’umiliazione di Gesù.
Questa parola ci svela lo stile di Dio e, di conseguenza, quello che deve essere del cristiano: l’umiltà. Uno stile che non finirà mai di sorprenderci e di metterci in crisi: a un Dio umile non ci si abitua mai!
Umiliarsi è prima di tutto lo stile di Dio: Dio si umilia per camminare con il suo popolo, per sopportare le sue infedeltà. Lo si vede bene leggendo la storia dell’Esodo: che umiliazione per il Signore ascoltare tutte quelle mormorazioni, quelle lamentele! Erano rivolte contro Mosè, ma in fondo andavano contro di Lui, il loro Padre, che li aveva fatti uscire dalla condizione di schiavitù e li guidava nel cammino attraverso il deserto fino alla terra della libertà.
In questa Settimana, la Settimana Santa, che ci conduce alla Pasqua, noi andremo su questa strada dell’umiliazione di Gesù. E solo così sarà “santa” anche per noi!
Sentiremo il disprezzo dei capi del suo popolo e i loro inganni per farlo cadere. Assisteremo al tradimento di Giuda, uno dei Dodici, che lo venderà per trenta denari. Vedremo il Signore arrestato e portato via come un malfattore; abbandonato dai discepoli; trascinato davanti al sinedrio, condannato a morte, percosso e oltraggiato. Sentiremo che Pietro, la “roccia” dei discepoli, lo rinnegherà per tre volte. Sentiremo le urla della folla, sobillata dai capi, che chiede libero Barabba, e Lui crocifisso. Lo vedremo schernito dai soldati, coperto con un mantello di porpora, coronato di spine. E poi, lungo la via dolorosa e sotto la croce, sentiremo gli insulti della gente e dei capi, che deridono il suo essere Re e Figlio di Dio.
Questa è la via di Dio, la via dell’umiltà. E’ la strada di Gesù, non ce n’è un’altra. E non esiste umiltà senza umiliazione.
Percorrendo fino in fondo questa strada, il Figlio di Dio ha assunto la “forma di servo” (cfr Fil 2,7). In effetti, umiltà vuol dire ancheservizio, vuol dire lasciare spazio a Dio spogliandosi di sé stessi, “svuotandosi”, come dice la Scrittura (v. 7). Questa - svuotarsi - è l’umiliazione più grande.
C’è una strada contraria a quella di Cristo: la mondanità. La mondanità ci offre la via della vanità, dell’orgoglio, del successo… E’ l’altra via. Il maligno l’ha proposta anche a Gesù, durante i quaranta giorni nel deserto. Ma Gesù l’ha respinta senza esitazione. E con Lui, con la sua grazia soltanto, col suo aiuto, anche noi possiamo vincere questa tentazione della vanità, della mondanità, non solo nelle grandi occasioni, ma nelle comuni circostanze della vita.
Ci aiuta e ci conforta in questo l’esempio di tanti uomini e donne che, nel silenzio e nel nascondimento, ogni giorno rinunciano a sé stessi per servire gli altri: un parente malato, un anziano solo, una persona disabile, un senzatetto…
Pensiamo anche all’umiliazione di quanti per il loro comportamento fedele al Vangelo sono discriminati e pagano di persona. E pensiamo ai nostri fratelli e sorelle perseguitati perché cristiani, i martiri di oggi – ce ne sono tanti – non rinnegano Gesù e sopportano con dignità insulti e oltraggi. Lo seguono sulla sua via. Possiamo parlare in verità di “un nugolo di testimoni”: i martiri di oggi (cfr Eb 12,1).
Durante questa Settimana, mettiamoci anche noi decisamente su questa strada dell’umiltà, con tanto amore per Lui, il nostro Signore e Salvatore. Sarà l’amore a guidarci e a darci forza. E dove è Lui, saremo anche noi (cfr Gv 12,26).



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mercoledì 25 marzo 2015

Aforisma di martedì 24 marzo 2015


"Non giudicare le persone dai loro errori, ma dalla loro voglia di rimediare."

La Chiesa non abbandona la famiglia anche se nel peccato




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PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 25 marzo 2015




Preghiera per il Sinodo sulla famiglia
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nel nostro cammino di catechesi sulla famiglia, oggi è una tappa un po’ speciale: sarà una sosta di preghiera.
Il 25 marzo infatti nella Chiesa celebriamo solennemente l’Annunciazione, inizio del mistero dell’Incarnazione. L’Arcangelo Gabriele visita l’umile ragazza di Nazaret e le annuncia che concepirà e partorirà il Figlio di Dio. Con questo Annuncio il Signore illumina e rafforza la fede di Maria, come poi farà anche per il suo sposo Giuseppe, affinché Gesù possa nascere in una famiglia umana. Questo è molto bello: ci mostra quanto profondamente il mistero dell’Incarnazione, così come Dio l’ha voluto, comprenda non soltanto il concepimento nel grembo della madre, ma anche l’accoglienza in una vera famiglia. Oggi vorrei contemplare con voi la bellezza di questo legame, la bellezza di questa condiscendenza di Dio; e possiamo farlo recitando insieme l’Ave Maria, che nella prima parte riprende proprio le parole che l’Angelo, quelle che rivolse alla Vergine. Vi invito a pregare insieme:
«Ave, Maria, piena di grazia,
il Signore è con te.
Tu sei benedetta fra le donne,
e benedetto il frutto del seno tuo, Gesù.
Santa Maria, Madre di Dio,
Prega per noi peccatori
Adesso e nell’ora della nostra morte.
Amen»
Ed ora un secondo aspetto: il 25 marzo, solennità dell’Annunciazione, in molti Paesi si celebra la Giornata per la Vita. Per questo, vent’anni fa, san Giovanni Paolo II in questa data firmò l’Enciclica Evangelium vitae. Per ricordare tale anniversario oggi sono presenti in Piazza molti aderenti al Movimento per la Vita. Nella Evangelium vitae la famiglia occupa un posto centrale, in quanto è il grembo della vita umana. La parola del mio venerato Predecessore ci ricorda che la coppia umana è stata benedetta da Dio fin dal principio per formare una comunità di amore e di vita, a cui è affidata la missione della procreazione. Gli sposi cristiani, celebrando il sacramento del Matrimonio, si rendono disponibili ad onorare questa benedizione, con la grazia di Cristo, per tutta la vita. La Chiesa, da parte sua, si impegna solennemente a prendersi cura della famiglia che ne nasce, come dono di Dio per la sua stessa vita, nella buona e nella cattiva sorte: il legame tra Chiesa e famiglia è sacro ed inviolabile. La Chiesa, come madre, non abbandona mai la famiglia, anche quando essa è avvilita, ferita e in tanti modi mortificata. Neppure quando cade nel peccato, oppure si allontana dalla Chiesa; sempre farà di tutto per cercare di curarla e di guarirla, di invitarla a conversione e di riconciliarla con il Signore.
Ebbene, se questo è il compito, appare chiaro di quanta preghiera abbia bisogno la Chiesa per essere in grado, in ogni tempo, di compiere questa missione! Una preghiera piena di amore per la famiglia e per la vita. Una preghiera che sa gioire con chi gioisce e soffrire con chi soffre.
Ecco allora quello che, insieme con i miei collaboratori, abbiamo pensato di proporre oggi: rinnovare la preghiera per il Sinodo dei Vescovi sulla famiglia. Rilanciamo questo impegno fino al prossimo ottobre, quando avrà luogo l’Assemblea sinodale ordinaria dedicata alla famiglia. Vorrei che questa preghiera, come tutto il cammino sinodale, sia animata dalla compassione del Buon Pastore per il suo gregge, specialmente per le persone e le famiglie che per diversi motivi sono «stanche e sfinite, come pecore che non hanno pastore» (Mt 9,36). Così, sostenuta e animata dalla grazia di Dio, la Chiesa potrà essere ancora più impegnata, e ancora più unita, nella testimonianza della verità dell’amore di Dio e della sua misericordia per le famiglie del mondo, nessuna esclusa, sia dentro che fuori l’ovile.
Vi chiedo per favore di non far mancare la vostra preghiera. Tutti – Papa, Cardinali, Vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, fedeli laici – tutti siamo chiamati a pregare per il Sinodo. Di questo c’è bisogno, non di chiacchiere! Invito a pregare anche quanti si sentono lontani, o che non sono più abituati a farlo. Questa preghiera per il Sinodo sulla famiglia è per il bene di tutti. So che stamattina vi è stata data su un’immaginetta, e che l’avete tra le mani. Vi invito a conservarla e a portarla con voi, così che nei prossimi mesi possiate recitarla spesso, con santa insistenza, come ci ha chiesto Gesù. Ora la recitiamo insieme:
Gesù, Maria e Giuseppe,
in voi contempliamo
lo splendore dell’amore vero,
a voi con fiducia ci rivolgiamo.
Santa Famiglia di Nazareth,
rendi anche le nostre famiglie
luoghi di comunione e cenacoli di preghiera,
autentiche scuole del Vangelo
e piccole Chiese domestiche.
Santa Famiglia di Nazareth,
mai più nelle famiglie si faccia esperienza
di violenza, chiusura e divisione:
chiunque è stato ferito o scandalizzato
conosca presto consolazione e guarigione.
Santa Famiglia di Nazareth,
il prossimo Sinodo dei Vescovi
possa ridestare in tutti la consapevolezza
del carattere sacro e inviolabile della famiglia,
la sua bellezza nel progetto di Dio.
Gesù, Maria e Giuseppe,
ascoltate, esaudite la nostra supplica. Amen.



Saluti:
Je salue cordialement les pèlerins francophones, en particulier les jeunes. Je vous invite à prier pour les familles et pour le synode, afin que tous puissent prendre une conscience plus grande du caractère sacré et inviolable de la famille! Que Dieu vous bénisse !
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i giovani. Vi invito a pregare per le famiglie e per il Sinodo, affinché tutti siano sempre più consapevoli del carattere sacro e inviolabile della famiglia. Dio vi benedica!]
I greet the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, including those from England, the Channel Islands, Denmark, Germany, Malta, Qatar, Indonesia, Australia and the United States of America. I greet in particular the representatives of the Hindu Community of Kerala. Upon all of you, and your families, I invoke an abundance of joy and peace in the Lord. God bless you all!
[Saluto i pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente quelli provenienti da Inghilterra, Isole del Canale, Danimarca, Germania, Malta, Qatar, Indonesia, Australia e Stati Uniti d’America. Rivolgo un saluto particolare ai rappresentanti della Comunità Hindu di Kerala. Su tutti voi, e sulle vostre famiglie, invoco la gioia e la pace nel Signore. Dio vi benedica!]
Herzlich heiße ich die Pilger aus den Ländern deutscher Sprache willkommen. Besonders grüße ich die Gruppe des Gymnasiums Essen-Werden und danke dem Chor und Orchester der Schule für die Musik, die sie uns gespielt haben. Alle lade ich erneut dazu ein, die Familiensynode im Gebet zu begleiten. Das Gebet ist eine wichtige Aufgabe zum Wohl aller. Von Herzen segne ich euch und eure Lieben.
[Un cordiale benvenuto ai pellegrini provenienti dai paesi di lingua tedesca. Saluto in particolare il gruppo del liceo di Essen-Werden e ringrazio il coro e l’orchestra della scuola per la musica che ci hanno fatto ascoltare. Rinnovo a tutti l’invito ad accompagnare il Sinodo sulla famiglia con la preghiera. È un importante impegno per il bene di tutti. Di cuore vi benedico voi e i vostri cari.]
Saludo a los peregrinos de lengua española, en especial a los grupos provenientes de España, Uruguay, Colombia, Argentina, México y otros países latinoamericanos. Les pido, por favor, que no falten las oraciones de todos por el Sínodo. Necesitamos oraciones, no chismes. Que recen también los que se sienten alejados o no están habituados a rezar. Muchas gracias.
Saúdo os peregrinos de língua portuguesa, particularmente os fiéis do Outeiro da Cortiçada e da Diocese de Taubaté. Nesta última etapa quaresmal, faço votos de que a vossa peregrinação a Roma fortaleça em todos a fé e consolide, no amor divino, os vínculos de cada um com a sua família, com a comunidade eclesial e com a sociedade. Que Nossa Senhora vos acompanhe e proteja!
[Saluto i pellegrini di lingua portoghese, in particolare i fedeli di Outeiro da Cortiçada e della Diocesi di Taubaté. In quest’ ultima tappa quaresimale, auguro che il vostro pellegrinaggio a Roma fortifichi in tutti la fede e rafforzi, nell’amore divino, i vincoli di ciascuno con la sua famiglia, con la comunità ecclesiale e con la società. La Madonna vi accompagni e protegga.]
أُرحّبُ بالحجّاجِ الناطقينَ باللغةِ العربية، وخاصةً بالقادمينَ منالشّرق الأوسط. أيّها الإخوةُ والأخواتُ الأعزّاء، لنكلْ إلى العذراء مريم جميع المتزوّجين والعائلات، ولتساعدنا أمّ الله على تعزيز وتشجيع العائلة في المجتمع وإزاء تحدّيات زمننا. ليمنحكم الربّ نعمته وسلامه!
[Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua araba, in particolare a quelli provenienti dal Medio Oriente! Cari fratelli e sorelle, affidiamo alla protezione della Vergine Maria tutti gli sposi e tutte le famiglie. La Madre di Dio ci aiuti a favorire e promuovere la famiglia nella società e di fronte alle sfide del nostro tempo. Il Signore vi doni la sua grazia e la sua pace!]
Pozdrawiam pielgrzymów polskich. Dzisiejsza Uroczystość przypomina nam, że Syn Boży dla naszego zbawienia przyjął ludzką naturę, stał się człowiekiem. Przyszedł na świat w konkretnej rodzinie, jest z nami, prowadzi nas przez życie. Umiejmy dostrzec Jego obecność w każdym małżeństwie, w każdej rodzinie. Niech Jego bliskość opromienia i wspiera wasze życie, pomaga pokonywać trudności, rodzi w sercach prawdziwą radość. Niech będzie pochwalony Jezus Chrystus.
[Saluto i pellegrini polacchi. L’odierna solennità ci ricorda che per la nostra salvezza il Figlio di Dio, assumendo la nostra natura, si è fatto uomo. È venuto al mondo in una famiglia, è con noi e ci guida nella nostra vita. Cerchiamo di scorgere la sua presenza in ogni coppia di sposi, in ogni famiglia. La sua vicinanza faccia splendere e sostenga la vostra vita, aiuti a superare le difficoltà, sia fonte di vera gioia nei vostri cuori. Sia lodato Gesù Cristo.]
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto il Movimento per la Vita, le associazioni “Difendere la Vita con Maria” e Donum Vitae, il Movimento Arcobaleno Santa Maria Addolorata, il coro del duomo di Cittadella (Padova), i rappresentanti del club “I borghi più belli d’Italia” e i Circoli Universitari Italiani.
Saluto con speciale affetto i lavoratori della Provincia di Vibo Valentia, che stanno vivendo una grave situazione economica. Desidero unirmi agli interventi del loro Vescovo, Mons. Luigi Renzo, esprimendo la mia preoccupazione e vicinanza ai loro assillanti problemi. Rivolgo un accorato appello, affinché non prevalga la logica del profitto, ma quella della solidarietà e della giustizia. Al centro di ogni questione, specialmente di quella lavorativa, va sempre posta la persona e la sua dignità: per questo avere lavoro è una questione di giustizia, ed è una ingiustizia non avere lavoro! Quando non si guadagna il pane, si perde la dignità! E questo è il dramma del nostro tempo, specialmente per i giovani, i quali, senza il lavoro, non hanno prospettive per il futuro e possono diventare facile preda delle organizzazioni malavitose. Per favore, lottiamo per questo: la giustizia del lavoro.
Saluto, infine, i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli. Vi accolgo con gioia nel giorno in cui la Chiesa celebra la solennità dell’Annunciazione del Signore. In questo mistero scorgiamo il disegno col quale Dio ci ha reso partecipi della sua vita immortale ed anche la generosa disponibilità di Maria, che ha accolto con fede l’annuncio dell’Angelo. Auguro di cuore a voi giovani, alle persone che soffrono ed ai novelli sposi qui presenti di crescere nella generosa disponibilità nei confronti del Signore, seguendo l’esempio della Vergine Santa.



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martedì 24 marzo 2015

Chi ci salverà dal male che opprime la nostra società? di Luigi Negri*


Incidente stradale di Monza
Pochi minuti di un telegiornale, l’altra sera. Dapprima il dolore terribile, aspro, inconsolabile degli amici e dei parenti di coloro che sono stati uccisi a Tunisi, colpevoli soltanto di essersi giustamente concessi una piccola vacanza dopo anni e anni di lavoro. Un dolore che gridava a Dio più attraverso il silenzio che non con le parole. Uno sconcerto totale, una sensazione di essere abbandonati anche in casa propria.
Fotogramma successivo: la fotografia del ragazzo di 15 anni che è stato ammazzato da un “pirata” della strada, come si dice benevolmente: lo ha ammazzato – con la madre in gravissime condizioni - provocando un contorcimento di lamiere di 5 macchine. Dopo 24 ore si è finalmente consegnato, ma mancando finora il reato di omicidio stradale che è stato invocato a gran voce dalla gente perbene e che è stato promesso dai politici non perbene, tutto si ridurrà a una condanna di qualche mese di detenzione, e probabilmente lui, come i suoi emuli del passato non metterà neanche piede nelle patrie galere.
Sullo sfondo c’è il disastro di una società che vive minacciata quotidianamente e che non sa a chi guardare perché possa difenderla. Gli italiani dovranno guardare bene la fotografia di quel galantuomo ammazzato a Tunisi, la cui faccia buona, benevola e onesta è quella della stragrande maggioranza dei cittadini italiani, e su cui campeggiava una scritta sanguinosa: «Abbiamo schiacciato un crociato».
Gli italiani sono di fronte a queste cose, non sanno più cosa fare e cosa dire. Certo una cosa che non convince nessuno è questa valanga di retorica che da tutte le parti - politiche, culturali, ideologiche, religiose - si riversa su questo corpo. Non trova la via del cuore, e se qualche volta trova la via del cuore non trova la via dell’intelligenza e della ragione. E un popolo vive di intelligenza e di ragione.
Come ci insegna la testimonianza dei pastori nel passato grande della Chiesa cattolica, non ci rimane altro che affidare di nuovo, sempre di nuovo, la vita al Signore Gesù Cristo, perché la salvezza dell’uomo oggi come sempre è nel riconoscimento che Egli è presente. Abita in mezzo a noi nel suo popolo; e se Lo seguiamo, nel suo popolo avviene la trasformazione dell’intelligenza e del cuore.
Ma subito dopo il riconoscimento di Cristo, il nostro popolo da secoli ha pregato Sua Madre perché Sua Madre è l’unica che può aiutare Chiesa e società a non essere travolta dalla valanga del male che in certi momenti sembra indomabile.
* Arcivescovo di Ferrara-Comacchio

domenica 22 marzo 2015

La tenerezza è la medicina migliore per i gentori anziani




Un papa molto provato fisicamente ha concluso la sua visita parlando delle parole, dei gesti e dei silenzi di Dio. Silenzi che si possono capire, come nel caso dei bambini che soffrono, solo guardando al Cristo crocifisso ed abbandonato sulla croce. Ma Bergoglio ha parlato anche di eutanasia e della teoria del gender: "Uno sbaglio della mente umana", ha detto Bergoglio, che "crea tanta confusione"

«Scusate se sono seduto, ma davvero sono stanco!». Fisicamente provato, ma sempre sorridente, papa Francesco ha concluso la sua visita napoletana sul lungomare, con un panorama mozzafiato alle spalle e un vento traditore che gelava i presenti: circa 100mila persone accorse per salutarlo prima del suo ritorno a Roma in elicottero.
Alla Rotonda Diaz Francesco ha incontrato i giovani, gli anziani, le famiglie. Alla domanda di una ragazza, che gli chiedeva come si possano coniugare i valori cristiani e la gioia dell'annuncio del Vangelo con gli orrori che si vivono nel quotidiano, il papa ha risposto che: «Il nostro Dio è un Dio delle parole, dei gesti, dei silenzi». Le parole sono quelle contenute nella Bibbia. I gesti sono quelli contenuti delle parabole, come quella del buon pastore che sempre ci perdona, ci aspetta, ci capisce.
Poi ci sono i silenzi di Dio«Il più grande silenzio di Dio - ha spiegato - è stato la croce. Gesù ha sentito il silenzio del Padre fino a chiamarlo abbandono. Padre, perché mi hai abbandonato? Poi è successo quel miracolo di Dio, quel gesto grandioso che è stato la Resurrezione». Ma ci sono dei silenzi di Dio, ha continuato il papa, «che non si possono spiegare se non si guarda la croce. Per esempio, perché soffrono i bambini? - si è chiesto Francesco in una terra dove, a causa degli sversamenti dei rifiuti, i reparti di oncologia pediatrica sono pieni -. Dove trovi una parola di Dio che spieghi perché soffrono i bambini? È uno dei grandi silenzi. Non dico che si può capire, possiamo solo avvicinarci ai silenzi di Dio guardando il Cristo crocifisso, il Cristo abbandonato fino alla croce. Questi sono i silenzi. "Ma padre- si dirà - Dio ci ha creato per essere felici." È vero, ma lui tante volte tace e questa è la verità e io non posso ingannarti dicendo: andrà tutto bene, sarai felice. Il nostro Dio è il Dio delle parole, dei gesti, dei silenzi. Queste tre cose bisogna unire».
Francesco ha poi sottolineato, rispondendo alla signora Erminia, una giovanile signora di 95 anni, come sia necessario andare contro la cultura del mondo che vuole "scartare" gli anziani. «Questa società butta quello che non è utile. I bambini non sono utili. Perché avere bambini? Con un cagnolino o con un gatto io mi arrangio. Si scartano i bambini, si scartano gli anziani perché si lasciano da soli. La gente forse scarta noi anziani per i nostri acciacchi. C'è anche l'abitudine - ha sottolineato il papa - di lasciarli morire. Come a noi piace tanto usare eufemismi diciamo una parola tecnica: eutanasia. Ma non solo l'eutanasia che ti danno una puntura che ti manda dall'altra parte». C'è anche una eutanasia nascosta, che consiste nel «non darti le medicine, non darti le cure. Farti una vita triste e così si muore». La vicinanza, l'amicizia la tenerezza sono la migliore medicina per gli anziani. Anziani di cui i figli devono prendersi cura e, se proprio non possono tenerli in casa, devono almeno andarli a trovare spesso. "Quello che si semina si raccoglie", ha ricordato Francesco, invitando i figli a dare abbracci, tenerezza, carezze, affetto ai propri genitori.
Papa Francesco ha anche parlato dei problemi che affliggono, oggi, le famiglie. Difficoltà per le quali non ha una soluzione e per cui, ha spiegato, il Signore ha ispirato il Sinodo sulla famiglia. Il suo consiglio agli sposi, ancora una volta, è stato quello di litigare pure, ma di non finire mai la giornata senza fare la pace, perché il "rancore freddo" dei giorni precedenti nuoce tanto alla famiglia. Non è poi mancato un accenno alla teoria del gender: "uno sbaglio della mente umana" che "crea tanta confusione".
Infine, il papa ha affermato che, per avere un futuro, dobbiamo avere cura dei giovani cercando loro un lavoro, una strada di uscita dalla crisi, un'educazione. Ma bisogna anche prendersi cura degli anziani, che custodiscono la memoria e la saggezza della vita.
 «Vi auguro il meglio - ha concluso Francesco , aggiungendo con il suo napoletano dolce: - e c'a Maronn v'accumpagna
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