giovedì 11 dicembre 2008

BUON NATALE

Egli si è mostrato. Egli personalmente.
E adesso è aperta la via verso di Lui.
La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto:
Egli si è mostrato.Ma questo non è un fatto cieco,ma un fatto che,esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv1,14)…
Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo;occorre l’umiltà dell’uomo che
risponde all’umilta di Dio.

Benedetto XVI

L’avvenimento di Cristo diventa presente “ora” in un fenomeno di umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita, qualcosa che aumenta la sua possibilità di certezza, di positività, disperanza e di utilità nel vivere e lo muove a seguire.
Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa, si cela,diventa presente, sotto la tenda, sotto l’aspetto di una umanità diversa . L’incontro, l’impatto,è con una umanità diversa, che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo , non ce lo saremmo mai sognato,era impossibile, non è reperibile altrove
.
Luigi Giussani


IL santo Natale ci aiuta a rendere ogni giorno piu' certi che la vera liberazione dell'uomo sta nel seguire Cristo.
Non una idea o un lontano ricordo ma tutti coloro che con la loro vita ci testimoniano che la vera letizia la si puo' sperimentare ubbidendo, seguendo cio' che un giorno ci ha stupito e pregando che questo stupore permanga e si rinnovi quotidianamente.


Lorenzo

COMBATTERE LA POVERTÀ, COSTRUIRE LA PACE


MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI PER LA CELEBRAZIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 1° GENNAIO 2009

1. Anche all'inizio di questo nuovo anno desidero far giungere a tutti il mio augurio di pace ed invitare, con questo mio Messaggio, a riflettere sul tema: Combattere la povertà, costruire la pace. Già il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1993, aveva sottolineato le ripercussioni negative che la situazione di povertà di intere popolazioni finisce per avere sulla pace. Di fatto, la povertà risulta sovente tra i fattori che favoriscono o aggravano i conflitti, anche armati. A loro volta, questi ultimi alimentano tragiche situazioni di povertà. « S'afferma... e diventa sempre più grave nel mondo – scriveva Giovanni Paolo II – un'altra seria minaccia per la pace: molte persone, anzi, intere popolazioni vivono oggi in condizioni di estrema povertà. La disparità tra ricchi e poveri s'è fatta più evidente, anche nelle nazioni economicamente più sviluppate. Si tratta di un problema che s'impone alla coscienza dell'umanità, giacché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali da offenderne la nativa dignità e da compromettere, conseguentemente, l'autentico ed armonico progresso della comunità mondiale » [1].

2. In questo contesto, combattere la povertà implica un'attenta considerazione del complesso fenomeno della globalizzazione. Tale considerazione è importante già dal punto di vista metodologico, perché suggerisce di utilizzare il frutto delle ricerche condotte dagli economisti e sociologi su tanti aspetti della povertà. Il richiamo alla globalizzazione dovrebbe, però, rivestire anche un significato spirituale e morale, sollecitando a guardare ai poveri nella consapevole prospettiva di essere tutti partecipi di un unico progetto divino, quello della vocazione a costituire un'unica famiglia in cui tutti – individui, popoli e nazioni – regolino i loro comportamenti improntandoli ai principi di fraternità e di responsabilità.

In tale prospettiva occorre avere, della povertà, una visione ampia ed articolata. Se la povertà fosse solo materiale, le scienze sociali che ci aiutano a misurare i fenomeni sulla base di dati di tipo soprattutto quantitativo, sarebbero sufficienti ad illuminarne le principali caratteristiche. Sappiamo, però, che esistono povertà immateriali, che non sono diretta e automatica conseguenza di carenze materiali. Ad esempio, nelle società ricche e progredite esistono fenomeni di emarginazione, povertà relazionale, morale e spirituale: si tratta di persone interiormente disorientate, che vivono diverse forme di disagio nonostante il benessere economico. Penso, da una parte, a quello che viene chiamato il « sottosviluppo morale » [2] e, dall'altra, alle conseguenze negative del « supersviluppo » [3]. Non dimentico poi che, nelle società cosiddette « povere », la crescita economica è spesso frenata da impedimenti culturali, che non consentono un adeguato utilizzo delle risorse. Resta comunque vero che ogni forma di povertà imposta ha alla propria radice il mancato rispetto della trascendente dignità della persona umana. Quando l'uomo non viene considerato nell'integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera « ecologia umana » [4], si scatenano anche le dinamiche perverse della povertà, com'è evidente in alcuni ambiti sui quali soffermerò brevemente la mia attenzione.

Povertà e implicazioni morali

3. La povertà viene spesso correlata, come a propria causa, allo sviluppo demografico. In conseguenza di ciò, sono in atto campagne di riduzione delle nascite, condotte a livello internazionale, anche con metodi non rispettosi né della dignità della donna né del diritto dei coniugi a scegliere responsabilmente il numero dei figli [5] e spesso, cosa anche più grave, non rispettosi neppure del diritto alla vita. Lo sterminio di milioni di bambini non nati, in nome della lotta alla povertà, costituisce in realtà l'eliminazione dei più poveri tra gli esseri umani. A fronte di ciò resta il fatto che, nel 1981, circa il 40% della popolazione mondiale era al di sotto della linea di povertà assoluta, mentre oggi tale percentuale è sostanzialmente dimezzata, e sono uscite dalla povertà popolazioni caratterizzate, peraltro, da un notevole incremento demografico. Il dato ora rilevato pone in evidenza che le risorse per risolvere il problema della povertà ci sarebbero, anche in presenza di una crescita della popolazione. Né va dimenticato che, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, la popolazione sulla terra è cresciuta di quattro miliardi e, in larga misura, tale fenomeno riguarda Paesi che di recente si sono affacciati sulla scena internazionale come nuove potenze economiche e hanno conosciuto un rapido sviluppo proprio grazie all'elevato numero dei loro abitanti. Inoltre, tra le Nazioni maggiormente sviluppate quelle con gli indici di natalità maggiori godono di migliori potenzialità di sviluppo. In altri termini, la popolazione sta confermandosi come una ricchezza e non come un fattore di povertà.

4. Un altro ambito di preoccupazione sono le malattie pandemiche quali, ad esempio, la malaria, la tubercolosi e l'AIDS, che, nella misura in cui colpiscono i settori produttivi della popolazione, influiscono grandemente sul peggioramento delle condizioni generali del Paese. I tentativi di frenare le conseguenze di queste malattie sulla popolazione non sempre raggiungono risultati significativi. Capita, inoltre, che i Paesi vittime di alcune di tali pandemie, per farvi fronte, debbano subire i ricatti di chi condiziona gli aiuti economici all'attuazione di politiche contrarie alla vita. È soprattutto difficile combattere l'AIDS, drammatica causa di povertà, se non si affrontano le problematiche morali con cui la diffusione del virus è collegata. Occorre innanzitutto farsi carico di campagne che educhino specialmente i giovani a una sessualità pienamente rispondente alla dignità della persona; iniziative poste in atto in tal senso hanno gia dato frutti significativi, facendo diminuire la diffusione dell'AIDS. Occorre poi mettere a disposizione anche dei popoli poveri le medicine e le cure necessarie; ciò suppone una decisa promozione della ricerca medica e delle innovazioni terapeutiche nonché, quando sia necessario, un'applicazione flessibile delle regole internazionali di protezione della proprietà intellettuale, così da garantire a tutti le cure sanitarie di base.

5. Un terzo ambito, oggetto di attenzione nei programmi di lotta alla povertà e che ne mostra l'intrinseca dimensione morale, è la povertà dei bambini. Quando la povertà colpisce una famiglia, i bambini ne risultano le vittime più vulnerabili: quasi la metà di coloro che vivono in povertà assoluta oggi è rappresentata da bambini. Considerare la povertà ponendosi dalla parte dei bambini induce a ritenere prioritari quegli obiettivi che li interessano più direttamente come, ad esempio, la cura delle madri, l'impegno educativo, l'accesso ai vaccini, alle cure mediche e all'acqua potabile, la salvaguardia dell'ambiente e, soprattutto, l'impegno a difesa della famiglia e della stabilità delle relazioni al suo interno. Quando la famiglia si indebolisce i danni ricadono inevitabilmente sui bambini. Ove non è tutelata la dignità della donna e della mamma, a risentirne sono ancora principalmente i figli.

6. Un quarto ambito che, dal punto di vista morale, merita particolare attenzione è la relazione esistente tra disarmo e sviluppo. Suscita preoccupazione l'attuale livello globale di spesa militare. Come ho già avuto modo di sottolineare, capita che « le ingenti risorse materiali e umane impiegate per le spese militari e per gli armamenti vengono di fatto distolte dai progetti di sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più poveri e bisognosi di aiuto. E questo va contro quanto afferma la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impegna la comunità internazionale, e gli Stati in particolare, a “promuovere lo stabilimento ed il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale col minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti” (art. 26) » [6].

Questo stato di cose non facilita, anzi ostacola seriamente il raggiungimento dei grandi obiettivi di sviluppo della comunità internazionale. Inoltre, un eccessivo accrescimento della spesa militare rischia di accelerare una corsa agli armamenti che provoca sacche di sottosviluppo e di disperazione, trasformandosi così paradossalmente in fattore di instabilità, di tensione e di conflitti. Come ha sapientemente affermato il mio venerato Predecessore Paolo VI, « lo sviluppo è il nuovo nome della pace » [7]. Gli Stati sono pertanto chiamati ad una seria riflessione sulle più profonde ragioni dei conflitti, spesso accesi dall'ingiustizia, e a provvedervi con una coraggiosa autocritica. Se si giungerà ad un miglioramento dei rapporti, ciò dovrebbe consentire una riduzione delle spese per gli armamenti. Le risorse risparmiate potranno essere destinate a progetti di sviluppo delle persone e dei popoli più poveri e bisognosi: l'impegno profuso in tal senso è un impegno per la pace all'interno della famiglia umana.

7. Un quinto ambito relativo alla lotta alla povertà materiale riguarda l'attuale crisi alimentare, che mette a repentaglio il soddisfacimento dei bisogni di base. Tale crisi è caratterizzata non tanto da insufficienza di cibo, quanto da difficoltà di accesso ad esso e da fenomeni speculativi e quindi da carenza di un assetto di istituzioni politiche ed economiche in grado di fronteggiare le necessità e le emergenze. La malnutrizione può anche provocare gravi danni psicofisici alle popolazioni, privando molte persone delle energie necessarie per uscire, senza speciali aiuti, dalla loro situazione di povertà. E questo contribuisce ad allargare la forbice delle disuguaglianze, provocando reazioni che rischiano di diventare violente. I dati sull'andamento della povertà relativa negli ultimi decenni indicano tutti un aumento del divario tra ricchi e poveri. Cause principali di tale fenomeno sono senza dubbio, da una parte, il cambiamento tecnologico, i cui benefici si concentrano nella fascia più alta della distribuzione del reddito e, dall'altra, la dinamica dei prezzi dei prodotti industriali, che crescono molto più velocemente dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime in possesso dei Paesi più poveri. Capita così che la maggior parte della popolazione dei Paesi più poveri soffra di una doppia marginalizzazione, in termini sia di redditi più bassi sia di prezzi più alti.

Lotta alla povertà e solidarietà globale

8. Una delle strade maestre per costruire la pace è una globalizzazione finalizzata agli interessi della grande famiglia umana [8]. Per governare la globalizzazione occorre però una forte solidarietà globale [9] tra Paesi ricchi e Paesi poveri, nonché all'interno dei singoli Paesi, anche se ricchi. È necessario un « codice etico comune » [10], le cui norme non abbiano solo un carattere convenzionale, ma siano radicate nella legge naturale inscritta dal Creatore nella coscienza di ogni essere umano (cfr Rm 2,14-15). Non avverte forse ciascuno di noi nell'intimo della coscienza l'appello a recare il proprio contributo al bene comune e alla pace sociale? La globalizzazione elimina certe barriere, ma ciò non significa che non ne possa costruire di nuove; avvicina i popoli, ma la vicinanza spaziale e temporale non crea di per sé le condizioni per una vera comunione e un'autentica pace. La marginalizzazione dei poveri del pianeta può trovare validi strumenti di riscatto nella globalizzazione solo se ogni uomo si sentirà personalmente ferito dalle ingiustizie esistenti nel mondo e dalle violazioni dei diritti umani ad esse connesse. La Chiesa, che è « segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano », [11] continuerà ad offrire il suo contributo affinché siano superate le ingiustizie e le incomprensioni e si giunga a costruire un mondo più pacifico e solidale.

9. Nel campo del commercio internazionale e delle transazioni finanziarie, sono oggi in atto processi che permettono di integrare positivamente le economie, contribuendo al miglioramento delle condizioni generali; ma ci sono anche processi di senso opposto, che dividono e marginalizzano i popoli, creando pericolose premesse per guerre e conflitti. Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, il commercio internazionale di beni e di servizi è cresciuto in modo straordinariamente rapido, con un dinamismo senza precedenti nella storia. Gran parte del commercio mondiale ha interessato i Paesi di antica industrializzazione, con la significativa aggiunta di molti Paesi emergenti, diventati rilevanti. Ci sono però altri Paesi a basso reddito, che risultano ancora gravemente marginalizzati rispetto ai flussi commerciali. La loro crescita ha risentito negativamente del rapido declino, registrato negli ultimi decenni, dei prezzi dei prodotti primari, che costituiscono la quasi totalità delle loro esportazioni. In questi Paesi, per la gran parte africani, la dipendenza dalle esportazioni di prodotti primari continua a costituire un potente fattore di rischio. Vorrei qui rinnovare un appello perché tutti i Paesi abbiano le stesse possibilità di accesso al mercato mondiale, evitando esclusioni e marginalizzazioni.

10. Una riflessione simile può essere fatta per la finanza, che concerne uno degli aspetti primari del fenomeno della globalizzazione, grazie allo sviluppo dell'elettronica e alle politiche di liberalizzazione dei flussi di denaro tra i diversi Paesi. La funzione oggettivamente più importante della finanza, quella cioè di sostenere nel lungo termine la possibilità di investimenti e quindi di sviluppo, si dimostra oggi quanto mai fragile: essa subisce i contraccolpi negativi di un sistema di scambi finanziari – a livello nazionale e globale - basati su una logica di brevissimo termine, che persegue l'incremento del valore delle attività finanziarie e si concentra nella gestione tecnica delle diverse forme di rischio. Anche la recente crisi dimostra come l'attività finanziaria sia a volte guidata da logiche puramente autoreferenziali e prive della considerazione, a lungo termine, del bene comune. L'appiattimento degli obiettivi degli operatori finanziari globali sul brevissimo termine riduce la capacità della finanza di svolgere la sua funzione di ponte tra il presente e il futuro, a sostegno della creazione di nuove opportunità di produzione e di lavoro nel lungo periodo. Una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine diviene pericolosa per tutti, anche per chi riesce a beneficiarne durante le fasi di euforia finanziaria [12].

11. Da tutto ciò emerge che la lotta alla povertà richiede una cooperazione sia sul piano economico che su quello giuridico che permetta alla comunità internazionale e in particolare ai Paesi poveri di individuare ed attuare soluzioni coordinate per affrontare i suddetti problemi realizzando un efficace quadro giuridico per l'economia. Richiede inoltre incentivi alla creazione di istituzioni efficienti e partecipate, come pure sostegni per lottare contro la criminalità e per promuovere una cultura della legalità. D'altra parte, non si può negare che le politiche marcatamente assistenzialiste siano all'origine di molti fallimenti nell'aiuto ai Paesi poveri. Investire nella formazione delle persone e sviluppare in modo integrato una specifica cultura dell'iniziativa sembra attualmente il vero progetto a medio e lungo termine. Se le attività economiche hanno bisogno, per svilupparsi, di un contesto favorevole, ciò non significa che l'attenzione debba essere distolta dai problemi del reddito. Sebbene si sia opportunamente sottolineato che l'aumento del reddito pro capite non può costituire in assoluto il fine dell'azione politico-economica, non si deve però dimenticare che esso rappresenta uno strumento importante per raggiungere l'obiettivo della lotta alla fame e alla povertà assoluta. Da questo punto di vista va sgomberato il campo dall'illusione che una politica di pura ridistribuzione della ricchezza esistente possa risolvere il problema in maniera definitiva. In un'economia moderna, infatti, il valore della ricchezza dipende in misura determinante dalla capacità di creare reddito presente e futuro. La creazione di valore risulta perciò un vincolo ineludibile, di cui si deve tener conto se si vuole lottare contro la povertà materiale in modo efficace e duraturo.

12. Mettere i poveri al primo posto comporta, infine, che si riservi uno spazio adeguato a una corretta logica economica da parte degli attori del mercato internazionale, ad una corretta logica politica da parte degli attori istituzionali e ad una corretta logica partecipativa capace di valorizzare la società civile locale e internazionale. Gli stessi organismi internazionali riconoscono oggi la preziosità e il vantaggio delle iniziative economiche della società civile o delle amministrazioni locali per la promozione del riscatto e dell'inclusione nella società di quelle fasce della popolazione che sono spesso al di sotto della soglia di povertà estrema e sono al tempo stesso difficilmente raggiungibili dagli aiuti ufficiali. La storia dello sviluppo economico del XX secolo insegna che buone politiche di sviluppo sono affidate alla responsabilità degli uomini e alla creazione di positive sinergie tra mercati, società civile e Stati. In particolare, la società civile assume un ruolo cruciale in ogni processo di sviluppo, poiché lo sviluppo è essenzialmente un fenomeno culturale e la cultura nasce e si sviluppa nei luoghi del civile [13].

13. Come ebbe ad affermare il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, la globalizzazione « si presenta con una spiccata caratteristica di ambivalenza » [14] e quindi va governata con oculata saggezza. Rientra in questa forma di saggezza il tenere primariamente in conto le esigenze dei poveri della terra, superando lo scandalo della sproporzione esistente tra i problemi della povertà e le misure che gli uomini predispongono per affrontarli. La sproporzione è di ordine sia culturale e politico che spirituale e morale. Ci si arresta infatti spesso alle cause superficiali e strumentali della povertà, senza raggiungere quelle che albergano nel cuore umano, come l'avidità e la ristrettezza di orizzonti. I problemi dello sviluppo, degli aiuti e della cooperazione internazionale vengono affrontati talora senza un vero coinvolgimento delle persone, ma come questioni tecniche, che si esauriscono nella predisposizione di strutture, nella messa a punto di accordi tariffari, nello stanziamento di anonimi finanziamenti. La lotta alla povertà ha invece bisogno di uomini e donne che vivano in profondità la fraternità e siano capaci di accompagnare persone, famiglie e comunità in percorsi di autentico sviluppo umano.

Conclusione

14. Nell'Enciclica Centesimus annus, Giovanni Paolo II ammoniva circa la necessità di « abbandonare la mentalità che considera i poveri – persone e popoli – come un fardello e come fastidiosi importuni, che pretendono di consumare quanto altri hanno prodotto ». « I poveri – egli scriveva - chiedono il diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un mondo più giusto e per tutti più prospero » [15]. Nell'attuale mondo globale è sempre più evidente che si costruisce la pace solo se si assicura a tutti la possibilità di una crescita ragionevole: le distorsioni di sistemi ingiusti, infatti, prima o poi, presentano il conto a tutti. Solo la stoltezza può quindi indurre a costruire una casa dorata, ma con attorno il deserto o il degrado. La globalizzazione da sola è incapace di costruire la pace e, in molti casi, anzi, crea divisioni e conflitti. Essa rivela piuttosto un bisogno: quello di essere orientata verso un obiettivo di profonda solidarietà che miri al bene di ognuno e di tutti. In questo senso, la globalizzazione va vista come un'occasione propizia per realizzare qualcosa di importante nella lotta alla povertà e per mettere a disposizione della giustizia e della pace risorse finora impensabili.

15. Da sempre la dottrina sociale della Chiesa si è interessata dei poveri. Ai tempi dell'Enciclica Rerum novarum essi erano costituiti soprattutto dagli operai della nuova società industriale; nel magistero sociale di Pio XI, di Pio XII, di Giovanni XXIII, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II sono state messe in luce nuove povertà man mano che l'orizzonte della questione sociale si allargava, fino ad assumere dimensioni mondiali [16]. Questo allargamento della questione sociale alla globalità va considerato nel senso non solo di un'estensione quantitativa, ma anche di un approfondimento qualitativo sull'uomo e sui bisogni della famiglia umana. Per questo la Chiesa, mentre segue con attenzione gli attuali fenomeni della globalizzazione e la loro incidenza sulle povertà umane, indica i nuovi aspetti della questione sociale, non solo in estensione, ma anche in profondità, in quanto concernenti l'identità dell'uomo e il suo rapporto con Dio. Sono principi di dottrina sociale che tendono a chiarire i nessi tra povertà e globalizzazione e ad orientare l'azione verso la costruzione della pace. Tra questi principi è il caso di ricordare qui, in modo particolare, l'« amore preferenziale per i poveri » [17], alla luce del primato della carità, testimoniato da tutta la tradizione cristiana, a cominciare da quella della Chiesa delle origini (cfr At 4,32-36; 1 Cor 16,1; 2 Cor 8-9; Gal 2,10).

« Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi », scriveva nel 1891 Leone XIII, aggiungendo: « Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l'opera sua » [18]. Questa consapevolezza accompagna anche oggi l'azione della Chiesa verso i poveri, nei quali vede Cristo [19], sentendo risuonare costantemente nel suo cuore il mandato del Principe della pace agli Apostoli: « Vos date illis manducare – date loro voi stessi da mangiare » (Lc 9,13). Fedele a quest'invito del suo Signore, la Comunità cristiana non mancherà pertanto di assicurare all'intera famiglia umana il proprio sostegno negli slanci di solidarietà creativa non solo per elargire il superfluo, ma soprattutto per cambiare « gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società » [20]. Ad ogni discepolo di Cristo, come anche ad ogni persona di buona volontà, rivolgo pertanto all'inizio di un nuovo anno il caldo invito ad allargare il cuore verso le necessità dei poveri e a fare quanto è concretamente possibile per venire in loro soccorso. Resta infatti incontestabilmente vero l'assioma secondo cui « combattere la povertà è costruire la pace ».

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2008

BENEDICTUS PP. XVI

martedì 9 dicembre 2008

Per essere autentico il dialogo deve evitare cedimenti al relativismo e al sincretismo ed essere animato da sincero rispetto per gli altri

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

Al Signor Card. Jean-Louis Tauran
Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso

e

all’Arcivescovo Gianfranco Ravasi
Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura

Desidero innanzitutto esprimere viva soddisfazione per l'iniziativa congiunta del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e del Pontificio Consiglio della Cultura, che hanno voluto organizzare una Giornata di Studio dedicata al tema: Culture e Religioni in dialogo, quale partecipazione della Santa Sede all'iniziativa dell'Unione Europea, approvata nel dicembre 2006, di dichiarare l'anno 2008 "Anno europeo del dialogo interculturale". Saluto cordialmente, insieme con i Presidenti dei Pontifici Consigli menzionati, i Signori Cardinali, i venerati Fratelli nell'Episcopato, gli Eccellentissimi Membri del Corpo Diplomatico accreditati presso la Santa Sede, nonché i Rappresentanti delle varie Religioni e tutti i partecipanti a questa significativo incontro.

Già da molti anni l'Europa ha preso coscienza della sua sostanziale unità culturale, nonostante la costellazione di culture nazionali che ne hanno modellato il volto. E’ bene sottolinearlo: l’Europa contemporanea, che si affaccia sul Terzo Millennio, è frutto di due millenni di civiltà.

Essa affonda le sue radici sia nell'ingente e antico patrimonio di Atene e di Roma sia, e soprattutto, nel fecondo terreno del Cristianesimo, che si è rivelato capace di creare nuovi patrimoni culturali pur recependo il contributo originale di ogni civiltà.

Il nuovo umanesimo, sorto dalla diffusione del messaggio evangelico, esalta tutti gli elementi degni della persona umana e della sua vocazione trascendente, purificandoli dalle scorie che offuscano l'autentico volto dell'uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio.
Così, l'Europa ci appare oggi come un prezioso tessuto, la cui trama è formata dai principi e dai valori scaturiti dal Vangelo, mentre le culture nazionali hanno saputo ricamare una immensa varietà di prospettive che manifestano le capacità religiose, intellettuali, tecniche, scientifiche e artistiche dell’Homo europeus.
In questo senso possiamo affermare che l'Europa ha avuto e ha tuttora un influsso culturale sull'insieme del genere umano, e non può fare a meno di sentirsi particolarmente responsabile non solo del suo futuro ma anche di quello dell'umanità intera.
Nel contesto odierno, in cui sempre più spesso i nostri contemporanei si pongono le domande essenziali sul senso della vita e sul suo valore, appare più che mai importante riflettere sulle antiche radici dalle quali è fluita linfa abbondante nel corso dei secoli. Il tema del dialogo interculturale e interreligioso, perciò, emerge come una priorità per l’Unione Europea e interessa in modo trasversale i settori della cultura e della comunicazione, dell'educazione e della scienza, delle migrazioni e delle minoranze, fino a raggiungere i settori della gioventù e del lavoro.
Una volta accolta la diversità come dato positivo, occorre fare in modo che le persone accettino non soltanto l'esistenza della cultura dell'altro, ma desiderino anche riceverne un arricchimento. Il mio Predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, indirizzandosi ai cattolici, enunciava in questi termini la sua profonda convinzione: "La Chiesa deve entrare in dialogo con il mondo in cui essa vive. La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa conversazione" (Enc. Ecclesiam suam, n. 67). Viviamo in quello che si suole chiamare un "mondo pluralistico", caratterizzato dalla rapidità delle comunicazioni, dalla mobilità dei popoli e dalla loro interdipendenza economica, politica e culturale. Proprio in quest’ora, talvolta drammatica, anche se purtroppo molti Europei sembrano ignorare le radici cristiane dell'Europa, esse sono vive, e dovrebbero tracciare il cammino e alimentare la speranza di milioni di cittadini che condividono i medesimi valori.

I credenti, dunque, siano sempre pronti a promuovere iniziative di dialogo interculturale e interreligioso, al fine di stimolare la collaborazione su temi di interesse reciproco, come la dignità della persona umana, la ricerca del bene comune, la costruzione della pace, lo sviluppo. A tale proposito, la Santa Sede ha voluto dare un rilievo particolare alla propria partecipazione al dialogo ad alto livello sulla comprensione fra le religioni e le culture e sulla cooperazione per la pace, nel quadro della 62a Assemblea Generale delle Nazioni Unite (4-5 ottobre 2007).

Per essere autentico, un tale dialogo deve evitare cedimenti al relativismo e al sincretismo ed essere animato da sincero rispetto per gli altri e da generoso spirito di riconciliazione e di fraternità.
Incoraggio quanti si dedicano alla costruzione di un'Europa accogliente, solidale e sempre più fedele alle sue radici e, in particolare, esorto i credenti affinché contribuiscano non solo a custodire gelosamente l'eredità culturale e spirituale che li contraddistingue e che fa parte integrante della loro storia, ma siano ancor più impegnati a ricercare vie nuove per affrontare in modo adeguato le grandi sfide che contrassegnano l'epoca post-moderna. Tra queste, mi limito a citare la difesa della vita dell'uomo in ogni sua fase, la tutela di tutti i diritti della persona e della famiglia, la costruzione di un mondo giusto e solidale, il rispetto del creato, il dialogo interculturale e interreligioso. In questa prospettiva, faccio voti per la buona riuscita della Giornata di Studio in programma ed invoco su tutti i partecipanti l’abbondanza delle benedizioni di Dio.

BENEDICTUS PP. XVI

Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana


08/12/2008 16:38 – VATICANO - Papa: affidiamo a Maria le rose e le “spine”, i mali della nostra società - Benedetto XVI chiede a tutti di esprimere solidarietà e condivisione verso bambini, anziani, immigrati, famiglie in difficoltà economiche, disoccupati. L’Immacolata concezione ci conferma che la “vittoria dell’amore è possibile” e che si può affrontare la realtà “con coraggio e responsabilità”.

lunedì 8 dicembre 2008

In Maria Immacolata, noi contempliamo il riflesso della Bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo



LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 08.12.2008

Cari fratelli e sorelle!

Il mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, che oggi solennemente celebriamo, ci ricorda due verità fondamentali della nostra fede: il peccato originale innanzitutto, e poi la vittoria su di esso della grazia di Cristo, vittoria che risplende in modo sublime in Maria Santissima.
L’esistenza di quello che la Chiesa chiama "peccato originale" è purtroppo di un’evidenza schiacciante, se solo guardiamo intorno a noi e prima di tutto dentro di noi. L’esperienza del male è infatti così consistente, da imporsi da sé e da suscitare in noi la domanda: da dove proviene? Specialmente per un credente, l’interrogativo è ancora più profondo: se Dio, che è Bontà assoluta, ha creato tutto, da dove viene il male? Le prime pagine della Bibbia (Gn 1-3) rispondono proprio a questa domanda fondamentale, che interpella ogni generazione umana, con il racconto della creazione e della caduta dei progenitori: Dio ha creato tutto per l’esistenza, in particolare ha creato l’essere umano a propria immagine; non ha creato la morte, ma questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo (cfr Sap 1,13-14; 2,23-24) il quale, ribellatosi a Dio, ha attirato nell’inganno anche gli uomini, inducendoli alla ribellione. E’ il dramma della libertà, che Dio accetta fino in fondo per amore, promettendo però che ci sarà un figlio di donna che schiaccerà la testa all’antico serpente (Gn 3,15).

Fin dal principio, dunque, "l’eterno consiglio" – come direbbe Dante – ha un "termine fisso" (Paradiso, XXXIII, 3): la Donna predestinata a diventare madre del Redentore, madre di Colui che si è umiliato fino all’estremo per ricondurre noi alla nostra originaria dignità. Questa Donna, agli occhi di Dio, ha da sempre un volto e un nome: "piena di grazia" (Lc 1,28), come la chiamò l’Angelo visitandola a Nazareth.
E’ la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo, destinata ad essere madre di tutti i redenti. Così scriveva sant’Andrea di Creta: "La Theotókos Maria, il comune rifugio di tutti i cristiani, è stata la prima ad essere liberata dalla primitiva caduta dei nostri progenitori" (Omelia IV sulla Natività, PG 97, 880 A). E la liturgia odierna afferma che Dio ha "preparato una degna dimora per il suo Figlio e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato" (Orazione Colletta).

Carissimi, in Maria Immacolata, noi contempliamo il riflesso della Bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo. In Maria questa bellezza è totalmente pura, umile, libera da ogni superbia e presunzione. Così la Vergine si è mostrata a santa Bernadette, 150 anni or sono, a Lourdes, e così è venerata in tanti santuari. Oggi pomeriggio, secondo la tradizione, anch’io Le renderò omaggio presso il monumento a Lei dedicato in Piazza di Spagna. Invochiamo ora con fiducia la Vergine Immacolata, riprendendo con l’Angelus le parole del Vangelo, che l’odierna liturgia propone alla nostra meditazione.

sabato 6 dicembre 2008

Macchè banche, c'è un banco che batte la crisi


Di Antonio Socci
Il Premio Nobel al "Banco alimentare"? L’idea è stata evocata dal professor Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica all`Università Cattolica di Milano (di cui è pro-rettore). Ecco le sue parole: «La Rete Banco alimentare è a mio avviso una straordinaria esperienza di innovazione sociale. Giustamente è stato assegnato a Yunus e al suo microcredito il premio Nobel per la Pace 2006. Quella della Rete Banco Alimentare in Italia, ma non solo in Italia, è un`esperienza così efficace, così straordinaria, così felice come intuizione che è sullo stesso piano del microcredito. lo non so se verrà mai dato il Premio Nobel alla Rete Banco Alimentare, ma certamente è un`iniziativa così innovativa e feconda che se lo merita». Vediamo cos`è. La Fondazione Banco Alimentare Onlus è un`associazione senza scopo di lucro, un ente non commerciale: riceve gratuitamente e gratuitamente dà. E’ una ideale e grandissima mensa dei poveri che va dalle Alpi alla Sicilia. In Italia nasce dall`incontro fra il grande cuore di don Giussani e quello di un altro brianzolo come lui, Danilo Fossati, fondatore di una importante industria alimentare.

La sorpresa
Gli italiani conoscono la principale iniziativa pubblica del Banco, la Colletta alimentare che, dal 1997, ogni anno, l`ultimo sabato di novembre, viene fatta davanti a tanti supermercati. E’ un giorno nel quale ciascuno, facendo la spesa per sé, può comprare e donare del cibo anche per chi ha più bisogno. Si pensava che la Colletta di sabato scorso, 29 novembre, con l`esplosione della crisi, andasse meno bene. Si credeva che la gente avrebbe donato di meno, visto che tutti stringono la cinghia e riducono i consumi (è previsto per Natale un miliardo di euro di regali in meno). Invece per la Colletta è accaduto l`imprevisto: davanti a quei 7500 supermercati sono state raccolte 9mila tonnellate di alimenti, circa 200 tonnellate in più dell`anno 2007 (per un valore economico stimato in 27 milioni di euro). Cosa significa? Perché 5 milioni di famiglie italiane - con la crisi e la paura si sono coinvolte ancor più degli anni precedenti con questo gesto semplice di condivisione, di fraternità umana, di carità popolare verso chi è più povero e in difficoltà? Perché questo Paese ha straordinarie risorse di umanità e non è quello rappresentato dai mass media. Tutti comprendono il linguaggio della condivisione e della fraternità cristiana e sono pronti a "parlarlo". E tutti intuiscono (più o meno chiaramente) una cosa preziosa: a vincere la crisi economica e farci rinascere non saranno le "ingegnose" ricette di quegli economisti d`oltreoceano - o di quei banchieri - che ci hanno già portati al disastro finanziario mondiale. Ma sarà ognuno di noi se darà il meglio di sé. Per questo la Colletta Alimentare è una grande scuola popolare di umanità e una rivelazione: ha indicato una strada e l`ha illuminata. Gli studiosi del resto hanno cominciato a studiare questa risorsa come la molla principale dello sviluppo: non è il petrolio, né la finanza, ma lo chiamano "capitale umano". L cuore, intelligenza, lavoro, creatività, condivisione.

Non solo collette
Ci tornerò, ma prima voglio dire che il Banco Alimentare tuttavia è molto più grande della Colletta di novembre che incide solo per il 15 per cento sul totale degli alimenti complessivamente raccolti ogni anno attraverso l`incontro e la collaborazione con circa 700 industrie agroalimentari della grande distribuzione e della ristorazione che donano le proprie eccedenze: quest`anno sono affluite al Banco 57 mila tonnellate di alimenti, che gratuitamente vengono poi destinati a 8250 enti convenzionati (mense per indigenti, centri di solidarietà, Caritas, strutture di accoglienza per anziani, minori, ragazze madri, comunità di recupero, cooperative sociali), che soc= corrono i più bisognosi. Nel 2007 le persone che hanno ricevuto così aiuto sono state 1 milione e 436 mila. Ma il Banco Alimentare non esiste solo in Italia. A giugno del 2009 si terrà l`assemblea dei Banchi europei: saranno presenti 18 paesi del nostro continente, circa 218 Banchi, che aiutano 26.225 associazioni assistenziali e di carità (dati 2007) e riescono a dare un aiuto alimentare a 4 milioni e 289 mila persone, avendo distribuito nel 2007 circa 300 mila tonnellate di alimenti. C`è poi la rete più grande dei Banchi alimentari, quella del Nord America, dove questa opera è nata.

La candidatura
Complessivamente si tratta probabilmente della più grande rete di solidarietà a livello planetario se si pensa che solo in Italia e soltanto la giornata della Colletta alimentare si avvale della collaborazione di circa 100 mila persone che donano il proprio tempo per raccogliere gli alimenti fuori dai supermercati e trasportarli, organizzando tutta la rete. Ecco perché un economista come Campiglio afferma che la Rete mondiale dei banchi alimentari meriterebbe il Nobel quanto l`iniziativa del microcredito di Yunus in Bangladesh (la sua Grameen Bank oggi ha circa 2 milioni e 100mila clienti, in 37 mila villaggi, ma la sua importanza è stata anzitutto educativa e culturale, precisamente come il Banco Alimentare). Torno sul Nobel - e spero che afferri al volo l`idea chi di dovere non per il premio in sé, ma per quanto contribuirebbe a far conoscere questa straordinaria iniziativa e incrementarla. L`intuizione del Banco Alimentare - che con le eccedenze, vale a dire con gli alimenti buoni che sarebbero Beneficenza record In tempi di recessione italiani più generosi All`ultima giornata di raccolta del Banco Alimentare superate le ci fre del 2007. Così si aiuta più di un milione di persone stati destinati alla distruzione - sfama milioni di persone, rappresenta anche un prezioso correttivo a un modello di sviluppo nel quale era normale distruggere derrate alimentari mentre milioni di essere umani non ne avevano a sufficienza (in Italia, secondo uno studio Istat del 2003, 803.781 nuclei familiari, il 3,6 per cento del totale pari a circa 2.330.970 persone, «spesso o qualche volta hanno avuto difficoltà a comprare cibo necessario al proprio sostentamento»).

Originalità italiana
D`altra parte, in questa rete mondiale il caso italiano spicca per originalità, incidenza culturale e forza perché qui l`iniziativa del Banco alimentare è nata dalla gente di Comunione e liberazione, dunque innestata nella straordinaria opera educativa di don Giussani. Marco Lucchini, uno dei responsabili del Banco, ci dice: «fare del bene fa parte dell`umanità universale, ma aver la coscienza di chi ti dona questo desiderio e perché, è un`altra cosa...». Per questo dal Banco alimentare qui stanno fiorendo altre iniziative come il Banco di solidarietà (già 150 associazioni sparse in tutta Italia) che vede stabilmente impegnate, ogni settimana, 4 mila persone, a portare aiuto diretto a 30 mila bisognosi. Si è compreso che «la solitudine e la fragilità dei legami familiari e sociali rendono le persone ancora più povere, in uno scenario economico allarmante». «Accendendo un fiammifero nel buio» col Banco alimentare non solo si sfama, ma si può vincere la paura e l`estraneità.

Cambia la vita
La Colletta alimentare e il Banco di solidarietà, ci spiega Andrea Franchi, «sono nati, più e prima ancora del raccogliere cibo, per dire a tutti che la carità cambia -la vita». Innanzitutto la vita di chi dona. E sono tantissimi gli incontri, stupendi, che mostrano come tante persone, sole o anziane o emarginate, o famiglie precipitate nell`indigenza, sentano il ` bisogno dell`amicizia, della fraternità quanto e più del bisogno del pacco di alimenti. E questo dono (l`amore), più prezioso del pane, non può venire dallo Stato, non può essere decretato da un ministro. Ecco dove si vede il senso e il valore immenso della sussidiarietà. Una buona società esiste solo se ci sono uomini buoni. La morale di tutta questa storia sta in un folgorante pensiero di don Giussani, particolarmente prezioso oggi che non si sa come ricostruire l`intero tessuto economico mondiale collassato: «Le forze che cambiano il mondo sono le stesse che cambiano il cuore dell`uomo». Ciò che accadde in altre epoche di crisi - come l`alto Medio evo - dimostra che è proprio vero.

(Pubblicato su Libero del 6 dicembre 2008)

venerdì 5 dicembre 2008

Campagna a sostegno Fondazione Banco Alimentare a mezzo sms


Sostieni con un semplice SMS Solidale al numero 48589 la nostra opera quotidiana contro lo spreco e la povertà in Italia. Inoltre coinvolgi i tuoi contatti inviando la cartolina digitale allegata.
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Grazie per tutto.”
Chi ha fame ha fame ora
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Proprio oggi abbiamo bisogno di realtà

Pigi Colognesi
venerdì 5 dicembre 2008


Il precetto assoluto e indiscutibile cui dovevano soggiacere i narratori sovietici era sintetizzato nello slogan «realismo socialista». Romanzi, racconti, novelle, poesie e pièces teatrali erano tenuti a parlare di una cosa sola: della realtà. Niente fumisterie romantiche, niente abbandoni ai sogni, alle introspezioni morbose, alle fantasticherie. Il difetto era che sul sostantivo «realismo» pesava come un macigno l’aggettivo «socialista». Ciò significava che la realtà non era quella che lo scrittore vedeva coi suoi occhi, constatava con la sua ragione, scopriva indagando i fatti. No, la realtà era quella indicata dall’interprete accreditato del divenire storico, cioè il partito. Anche se vedevi che il tuo vicino di casa tornava con la mano maciullata da una pressa, dovevi dire che le industrie sovietiche erano dei modelli ineguagliati di funzionamento. Anche se tua moglie veniva spedita in lager, dovevi raccontare che l’URSS era il paradiso realizzato in terra, la patria della giustizia e della libertà.

Resta il fatto che la lezione del «realismo» non è invecchiata. Anzi, proprio oggi abbiamo più che mai bisogno di guardare in faccia le cose come stanno. Proprio oggi quando la crisi economica ha svelato che dietro le parole altisonanti della finanza avanzata non c’era niente. Proprio oggi quando il virtuale si impone sul reale. Proprio oggi quando, come ha scritto Gluksmann, è finita la post-modernità, cioè l’epoca in cui si crede che una cosa esista solo perché se ne pronuncia il nome. Abbiamo bisogno di realtà.

Vasilij Grossman aveva fermamente creduto nel realismo socialista. È stata la sua fortuna. Era un ingegnere qualunque, destinato a qualche incarico nelle industrie della sua Ucraina, con la passione della scrittura. Il vate del realismo socialista sovietico, Maksim Gorkij, ne ha scoperto le doti narrative e ne ha fatto una stella del firmamento letterario sovietico. Durante la Seconda Guerra mondiale, Grossman sta con le truppe come inviato del giornale dell’armata rossa e partecipa all’epico scontro di Stalingrado, che deciderà in favore degli antinazisti le sorti della guerra sul fronte orientale. Subito dopo il conflitto, Grossman mette mano a un monumentale romanzo. Per la giusta causa, che ha per tema proprio quella battaglia. Un bell’esempio di realismo socialista.

Ma come diceva un altro grande scrittore russo, Michail Bulgakov, la realtà è testarda. E Grossman accetta di guardarla in faccia. Si accorge così che l’URSS non è quello che il partito vuol celebrare, che la guerra non è stata solo eroismo, ma anche viltà, che la giustizia socialista è tirannia, che l’uomo nuovo sovietico è una menzogna, che Stalin perseguita gli ebrei, come lui, allo stesso modo di Hitler, che la libertà di espressione è imbavagliata e i rapporti umani distrutti dal sospetto e dalla calunnia. Reagisce nell’unico modo che conosce: scrivere. E dalla sua penna esce uno dei capolavori mondiali della letteratura del secolo scorso: Vita e destino. Ora possiamo leggerlo in una nuova edizione, basata su un manoscritto più completo di quello usato per la precedente, e in una nuova traduzione, appena pubblicata da Adelphi.

La grandezza di questo straordinario affresco della seconda parte della battaglia di Stalingrado sta tutta nelle due parole del titolo. Il centro dello sguardo appassionato e simpatetico di Grossman è la vita nella sua semplicità, senza i fronzoli incatenanti dell’ideologia, senza le strettoie di interpretazioni precostituite. La vita dell’uomo così com’è ha un cuore pulsante e indistruttibile: lo struggente desiderio di vivere, cioè di essere felici, di amare, di essere buoni. Come quella vecchia che vede il nazista sconfitto riportare dal bunker, dove i tedeschi tenevano i prigionieri russi, il cadavere di un adolescente. Lei lancia un grido lacerante, si china a raccogliere per terra qualcosa e si avvicina al tedesco; tutti si aspettano che lo colpisca con un sasso. Ma lei gli offre un boccone di pane. Niente di più contrario alla logica amico/nemico del realismo socialista. Niente di più corrispondente alla legge del cuore umano.

La vita così guardata apre uno spiraglio sul destino, la seconda parola del titolo. Il destino non è un ingranaggio che tritura le vite, è qualcosa di misterioso, terribile e affascinante. I personaggi di Grossman ne sintetizzano la percezione in una domanda. Come quella che la protagonista del romanzo pone proprio nelle ultimissime pagine. Pensando ai figli e agli amici, si chiede: «Che ne sarà di loro?». E conclude che, in ogni caso, essi potranno, se vorranno, vivere da uomini. E così il loro destino si compirà. Grossman non era credente, eppure quando parla del destino mostra un’acutissima percezione religiosa. Il cuore della vita dell’uomo grida l’eternità del destino. Per questo, quando la madre dell’alter ego romanzesco di Grossman scrive al figlio l’ultima lettera dal ghetto ebreo prima di essere uccisa, la conclude così: «Vivi! Vivi per sempre!».

PERCHÉ CREDERE...NON È ROBA DA CRETINI

venerdì 5 dicembre 2008

VITTORIO MESSORI
LO SCRITTORE ITALIANO PIÙ LETTO NEL MONDO, PER LA PRIMA VOLTA RACCONTA LA SUA CONVERSIONE

di Giuseppe Stabile

Attraverso i suoi scritti milioni di persone in tutto il mondo hanno ricevuto doni inestimabili. Nel suo ultimo libro, appena uscito, Vittorio Messori ci regala, però, il suo tesoro più intimo: le ragioni della sua fede ed i retroscena della sua miracolosa conversione.
Dalla quale sgorga ancora l’inesauribile desiderio di aiutare altri ad incontrare quel Gesù a cui prima era assolutamente indifferente.

Dottor Messori, grazie perché ha voluto donarci se stesso in questo suo ultimo “Perché credo”.
«Non lo avrei mai scritto se non ci fosse stata la bravura e l’affettuosa insistenza di Andrea Tornielli che mi ha aiutato a trovare il coraggio di aprirmi in questo modo. Non sono uno che si confida, anzi mi devo fare forza per raccontare di me. Ecco perché ho aspettato la mia età avanzata per decidermi a scrivere un libro come questo».

Lei è una persona chiusa?«Sì, è una tendenza che si è sviluppata fin da bambino. Le abitudini che prendiamo da piccoli poi ci restano incrostate dentro».

Come era da bambino?
«Ero scontroso e solitario. In fondo non credo di essere mai stato davvero bambino.
Precocemente, appena ho imparato a leggere, mi piaceva soprattutto una cosa: ritirarmi in un angolo a leggere un libro ed a pensare. D’altro canto ero solo e mio fratello è nato quando avevo quasi dieci anni. Uno dei miei problemi è che la mia abitudine alla solitudine ha fatto sì che di fronte alle difficoltà mi debba far violenza per parlarne con qualcuno e confidarmi, farmi aiutare».

La sua difficoltà nelle relazioni personali ha influito anche sul suo percorso spirituale?

«Certo, a partire dalla mia prima confessione a 23 anni suonati, che è stata difficilissima.
Inoltre sento il desiderio e la necessità di un direttore spirituale, ma la mia chiusura mi è sempre stata di ostacolo a questa preziosa ed importantissima pratica».

Il suo carattere introverso ha le radici nella sua esperienza familiare?
«Credo di sì, perché non ho avuto una vita familiare felice. Ho stima e rispetto per i miei genitori, che sono deceduti da poco. So che, in buona fede, hanno fatto tutto quello che potevano fare; però c’erano tra loro delle difficoltà caratteriali che hanno fatto sì che per noi due figli la convivenza sia stata difficile e dolorosa.
Questa esperienza mi ha segnato. Nonostante tutto però, sono convinto che la prospettiva cattolica della famiglia indissolubile faccia parte del piano di Dio, mi schiero e parteggio per i diritti della famiglia e credo che vada riscoperta».

Oggi in Italia circa il 50% delle famiglie si separa e c’è il più basso tasso di natalità del mondo. Perché? Come intervenire?
«Non so cosa si dovrebbe fare, ma sono convinto della necessità di impegnarsi a partire dal livello personale ed individuale. Ciascuno si faccia la sua famiglia e cerchi di fare in modo che sia più cristiana possibile. Io, però, cerco di occuparmi di qualcosa che sta ancora prima; cioè della Fede, della possibilità di credere».

Qual è la sua esperienza coniugale?«Oggi sono felice, ma ho vissuto anni molto travagliati. Conobbi mia moglie Rosanna ad Assisi, alla fine di una Messa, pochi mesi dopo la mia e la sua conversione. Dopo un periodo di frequentazione, però, prendemmo strade diverse, pur restando sempre in contatto. Nel 1972 mi sposai con un’altra donna, ma ci rendemmo subito conto di non aver fatto la scelta giusta. Chiesi allora l’annullamento del matrimonio che fu accordato dopo ben ventidue anni! Solo a quel punto, nel 1996, potei coniugarmi con Rosanna e cominciare la mia nuova vita insieme con lei».

Le dispiace di non aver avuto figli?
«Mi sarebbe piaciuto avere dei bambini, ma ho accettato la mia vita così come è andata.
Apprezzo ed ammiro chi ha famiglie numerose, ma ognuno ha la sua vocazione: la mia era quella di fare “figli di carta” più che figli di carne. Credo che anche la paternità e maternità spirituale o intellettuale siano vocazioni importanti. Per me i miei libri sono come dei figli».

Quali messaggi ha affidato ai suoi “figli di carta”?
«Nei miei 22 libri ed in tutte le migliaia di articoli che ho scritto, non ho mai trattato di temi morali, né fatto prediche o lezioni di etica. La morale è importante, ma credo che, insieme all’impegno nella Carità, sia una conseguenza della Fede. Quello che oggi stiamo perdendo è la Fede, la consapevolezza che il Vangelo è vero».

Come iniziò la sua incredibile carriera di scrittore e divulgatore?
«Sono sempre stato molto pragmatico e concreto.
Ognuno dei miei libri ha uno scopo ben preciso: valutare se in quella lontana estate del 1964 la mia esperienza mistica di conversione non fosse stata solo un’illusione. Non riuscivo a trovare risposte alle mie domande e mi ritrovai a scrivere libri che avrei preferito leggere.
Nei miei testi ho cercato quale era il significato di quella Fede che mi era stata donata e le ragioni per le quali poteva essere accettata da un uomo moderno e razionale».

Pur consapevole, per esperienza diretta, dell’impossibilità di spiegare certi accadimenti, non posso non chiederle: cosa successe in quella fatidica estate del 1964?
«Avevo 23 anni, lavoravo come centralinista notturno e stavo per scrivere la mia tesi di Laurea in Scienze Politiche. Era un’estate molto calda ed ero in città da solo, dato che i miei genitori erano partiti con mio fratello per una vacanza un po’ più lunga del solito. Un giorno avvenne un evento inspiegabile ed inatteso che avrebbe trasformato la mia esistenza. Come racconto più approfonditamente in questo ultimo libro, feci una forte esperienza mistica: improvvisamente si aprì davanti ai miei occhi un immenso buco di luce ed il velo che oscura la realtà svanì. In quei giorni lessi per la prima volta i Vangeli ed oggi, dopo tanti anni, sono sempre più sicuro che in essi c’è la vera risposta per ogni essere umano. In seguito non ho avuto altre esperienze simili, né visioni o apparizioni, ma mi è stata donata una chiarezza intellettuale che non ho potuto più rinnegare».

Come cambiò la sua vita?
«Io ero un convinto laicista ed anticlericale ed all’improvviso crollò tutto! La conversione mentale fu istantanea, ma convertirsi interiormente è ben più difficile e so di non essere stato sempre coerente. All’inizio ero spaventato e non molto contento di quegli avvenimenti che imponevano uno sconvolgimento a tutti i miei piani umani e professionali, compreso l’addio alla mia bella carriera accademica già predestinata.
Le confido, inoltre, che mi misi a piangere pensando: “se divento cristiano cattolico, non posso più corteggiare ed amare le ragazze!”».

Come reagirono le persone che le erano vicine?
«All’inizio ho cercato di resistere per non diventare cristiano, anche perché un po’ mi vergognavo, per esempio nei confronti dei miei famosi professori, come Norberto Bobbio o Galante Garrone, che si sentivano traditi da un loro pupillo. Andavo a messa di nascosto: mia madre credeva che avessi avuto un esaurimento nervoso e voleva farmi visitare. I pochissimi amici, infine, erano sorpresi ed addolorati».

Alla fine, si arrese alla Fede?
«Mi resi conto che la Verità che cercavo non stava nel vicolo cieco del razionalismo e del laicismo che avevo seguito fino a quel momento, ma in una direzione che avevo sempre rifiutato.
Avevo condannato la Fede senza aver mai cercato di conoscerla e di capirla».

Qual è la sfida che vuole lanciare con questo suo ultimo libro “Perché credo”?

«Nel nostro tempo c’è un grande vuoto di cultura cattolica. Le librerie sono piene di libri che vogliono screditare e rendere ridicola la fede cristiana e cattolica in particolare. È necessario impegnarsi per rispondere con forza ai velenosi volumi di persone come Corrado Augias e Dan Brown o di astiosi ex seminaristi come Piergiorgio Odifreddi ed altri che vogliono far passare per stupido chiunque crede in Gesù, sostenendo che per una persona intelligente e moderna non ha senso credere nel Cristianesimo. Proprio per questo, nella quarta di copertina del mio ultimo libro c’è scritto: “Un cristiano, non un cretino”».

È possibile conciliare fede e ragione?
«Mi fanno tanto ridere quelli che dibattono se la ragione può coesistere con la Fede. La ragione è un dono di Dio che dobbiamo utilizzare al massimo e dopo decenni di ricerche ho potuto constatare che il vero libero pensatore è il credente; l’incredulo si pone delle barriere invalicabili, mentre il credente è libero di arrendersi ai fatti. La ragione ci porta fino alla soglia del mistero, mentre la Fede ci porta oltre».

Sbaglio o essere atei è quasi passato di moda?
«L’ateismo è una religione al contrario e la persona atea è sempre a rischio di conversione.
L’ateo prende sul serio la religione, ci si scaglia contro, svelando che per lui, in fondo, essa è importante. Molto più duro e subdolo è invece l’agnosticismo, oggi tanto in voga, che ritiene l’ateismo una cosa volgare: le persone di cultura si astengono dal giudizio perché la religione è irrilevante. Loro si sentono al di sopra, ritenendo sciocchi i credenti e volgari gli atei».

Cosa vuol dire oggi essere credenti?
«Essere cristiani e cattolici significa non essere passivi di fronte all’ideologia egemone, sfidando l’ipocrita e feroce sorriso del “politicamente corretto”, così come il conformismo del “Maurizio Costanzo pensiero”. Un cristiano oggi è chiamato a prendere delle posizioni, anche in campo etico, che provocano delle forti reazioni. L’unica strada è ritornare ad essere come i cristiani dei primi decenni dopo la Resurrezione di Gesù, accettando le stesse sfide di chi viveva prima dell’Imperatore Costantino. Occorre dare la testimonianza di una fede personale, supportata anche da una profonda formazione culturale, senza dover naturalmente diventare tutti degli intellettuali.
La sfida passa attraverso la coerenza e la limpidezza
delle nostre scelte quotidiane, consapevoli di essere sempre più in minoranza e chiamati all’anticonformismo».

Essere cattolico significa rinunciare alla propria libertà?
«Assolutamente no. So bene che, visto da fuori, il cattolicesimo può sembrare una gabbia dalla quale fuggire, piena di moralismo, dogmi e norme che tolgono la gioia di vivere. Ma accettare la Fede non vuol dire rinchiudersi in una trappola: la prigionia semmai è da parte di coloro che non credono.
Il mondo moderno si ritiene libero, ma ritengo che mai l’uomo sia stato così schiavo. Bisogna testimoniare che essere cristiani non significa essere cretini e che non si deve rinunciare a nulla, ma guadagnare tutto».

Come vive oggi la gente il rapporto con la religione?

«Negli ultimi decenni le chiese si sono sempre più svuotate e le vocazioni religiose sono continuamente diminuite. L’unica cosa che aumenta è il numero di pellegrinaggi, soprattutto nei santuari mariani che frequento spesso per motivi personali e di studio. È lì che incontro folle di persone di tutte le età e categorie sociali, gente che spesso non frequenta più la propria parrocchia ma è attratta dalla manifestazione della presenza materna della Madonna.
Oggi Maria è il simbolo della religione popolare, vissuta da tutte quelle persone alle quali la Chiesa dovrebbe sforzarsi di rivolgersi».

Con quale atteggiamento interiore possiamo vivere l’Avvento ed il Natale di Gesù?«Tutti vediamo come è stato ridotto il Natale.
Ma attenzione a non cadere nelle prediche e nel facile moralismo! Una delle virtù cristiane è il realismo e dunque dobbiamo renderci conto che abbiamo realizzato una società che si regge sul consumo. Non voglio certo difendere il consumismo, ma dobbiamo fare i conti con la cultura e la società che abbiamo attorno, magari scegliendo il regalo giusto. Ci sono molte persone che non hanno più bisogni economici ma sono assetati nello spirito: per loro il regalo più prezioso da ricevere potrebbe essere, per esempio, una bella lettera, oppure essere coinvolti in un confronto sulla persona di Gesù, il Messia che viene tra noi. Il Natale o ha un valore religioso oppure è soltanto la festa di Papà Inverno. Invece si chiama Natale perché qualcuno è nato ed era una persona con la P maiuscola».

Quale regalo chiede alla Vita?
«La sola cosa che mi interessi è aiutare a credere o, almeno, instillare il desiderio di farlo».


L’AMICIZIA CON BENEDETTO XVI

Vittorio Messori ha avuto un forte legame personale con gli ultimi due pontefici, ma in modo particolare con Benedetto XVI. «La mia amicizia con Lui risale a molti anni fa. Mi sono sempre ritrovato nella sua prospettiva di Fede ed è stato uno dei pochi uomini di Chiesa che mi ha sempre sorretto nel mio lavoro spesso difficile e solitario.
Per lui ho sempre avuto una stima profonda, come uomo, sacerdote e studioso. È una persona un po’ timida, buonissima, piena di rispetto per gli altri: insomma tutto il contrario di come è stato spesso dipinto».
Inoltre c’è un’altra cosa che ci lega: siamo nati entrambi il 16 Aprile, che è lo stesso giorno nel quale si festeggia Santa Bernadette, la giovinetta di Lourdes alla quale apparve Maria 15 anni fa».

LO SCRITTORE DEI DUE PAPI

Vittorio Messori è l’unico giornalista ad aver scritto libri con due Pontefici.
Con Karol Wojtyla scrisse “Varcare la soglia della speranza” (Mondadori, 2004) del quale è stata venduta l’incredibile cifra di circa trenta milioni di copie in più di cinquanta lingue. Nel 1985 pubblicò invece “Rapporto sulla Fede” intervistando l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, l’attuale Papa Benedetto XVI, che
nel suo ultimo libro ha dato a Messori l’onore di essere l’unico italiano vivente citato.

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giovedì 4 dicembre 2008

La Rosa Bianca, emblema di una lotta contro tutte le forme di totalitarismo

giovedì 4 dicembre 2008


L’enigma del Novecento, sul quale gli storici ancora oggi si interrogano, non sta solo nel comprendere come mai siano sorti sistemi di pensiero che predicavano la soppressione di intere popolazioni o classi sociali per la realizzazione di un programma politico. Quello che soprattutto sconcerta è come questi abbiano potuto conquistare l’approvazione e l’entusiastico consenso di milioni di cittadini, che intravidero una grande speranza in regimi che oggi sappiamo essere stati portatori solo di lutti e distruzione.

Negli anni tra le due guerre, la democrazia e il rispetto della dignità dell’uomo godettero di ben poca fortuna. Regimi dittatoriali o totalitari di opposto colore si affermarono in quasi tutti i paesi europei. La crisi del ’29 fece pensare a molti che il capitalismo e la liberaldemocrazia fossero condannati dalla storia. Solo la Francia e l’Inghilterra rimasero ancorate ai principi liberali, ma la rapida sconfitta della prima ad opera della Germania e il vasto consenso di cui godette il regime di Vichy mostrarono come anche nel paese della rivoluzione francese certi principi fossero assai indeboliti.

Ci sarebbe voluta una guerra mondiale e l’Olocausto per risvegliare bruscamente la coscienza europea. E risvegliarla solo in parte, perché il giudizio sul comunismo sovietico rimase per lungo tempo piegato alle esigenze della politica. Nel dopoguerra i movimenti di resistenza, sviluppatisi in alcuni paesi solo molto tardi nel corso della guerra, sarebbero diventati il mito fondativo su cui costruire una nuova identità democratica: la vasta adesione al fascismo e al nazismo furono in gran parte rimossi.

Il caso della Germania è in questo contesto particolare, come suggerisce la pubblicazione di una nuova ricostruzione delle vicende della “Rosa Bianca” pubblicata da Lindau (Annette Dumbach e Jud Newborn, Storia di Sophie Scholl e della Rosa Bianca, Lindau, 309 pagine, 22 euro). Nelle sue linee generali, la vicenda è nota. Noto è il tentativo di questo gruppo di studenti universitari di Monaco di dare vita a una forma di ribellione al governo tramite la diffusione di volantini e altri strumenti propagandistici nei quali si denunciavano la politica di Hilter e lo sterminio degli ebrei. Così come è nota la tragica fine a cui andarono incontro. Scoperti e processati dal Tribunale del popolo, furono tutti condannati alla pena capitale, che fu subito eseguita.

Ma quel che colpisce leggendo questa più recente pubblicazione è la constatazione di quanto il generoso e coraggioso moto di ribellione antinazista di questo sparuto gruppetto fosse isolato all’interno di un paese che non osava ribellarsi al nazismo anche quando questo lo portava verso il baratro. Un volantino o una scritta su un muro, furono così percepiti come gesti di rottura rivoluzionari, in un clima segnato dalla passività e dalla rassegnazione nel quale gran parte del paese era immerso.

Come ha raccontato in un bel libro di qualche anno fa lo storico Joachim Fest, tutta la storia della resistenza tedesca è infatti la storia di tentativi generosi quando disperati, compiuti da singoli o da piccoli gruppi senza alcuna reale possibilità di successo. Spesso circondati dall’incomprensione e dall’ostilità di parenti e vicini. In questo senso l’isolamento e la tragedia della “Rosa Bianca” sono lo specchio della tragedia di un intero paese.

Varie circostanze contribuirono a questa situazione, tra queste un forte nazionalismo che prescindeva dai connotati politici del governo e un senso dell’onore che additava il tradimento come il peggiore dei crimini. Da un certo momento in poi anche la constatazione che era comunque troppo tardi per tornare indietro.

L’Europa ha oggi in gran parte dimenticato tutto questo e per motivi in parte comprensibili la Germania è il paese che ha scelto assai più degli altri la via dell’oblio del proprio passato per tentare di guardare al futuro. In questo contesto, la ribellione degli studenti della “Rosa Bianca” assume ancor più valore, come testimonianza di una possibilità di riscatto del cuore dell’uomo che nessun potere può fino in fondo sopprimere.

Redazione
Il Sussidiario.net

Trascrizione della presentazione della mostra "La Rosa Bianca.Volti di un'amicizia."
Organizzata dal meeting di Rimini nel 2005
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LA ROSA BIANCA. VOLTI DI UN’AMICIZIA

Mercoledì, 24 agosto 2005, ore 19.00

Relatore:
Anneliese Knoop-Graf, sorella di Willi Graf

Moderatore:
Romano Christen, Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo.


Moderatore: Benvenuti alla presentazione della mostra “La Rosa Bianca. Volti di un’amicizia”. Uno dei membri della “Rosa bianca”, per presentare questo gruppo di suoi amici a sua sorella, ha scritto in una lettera: “Avresti una grande gioia a vedere questi volti”. Sono commosso al pensiero che questi volti, dai quali Hans Sholl era così colpito, questi bei volti dopo più di sessant’anni colpiscono anche voi come hanno colpito quelli che hanno curato la mostra. E’ sicuramente una cosa inimmaginabile per Hans Sholl.
Come sapete dal programma, doveva essere presente anche monsignor Rilko, che è il Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici. Siamo stati molto gratificati dal fatto che lui volesse venire a questo incontro. Ma la vita poi è sposso diversa da come uno la progetta. Monsignor Rilko è stato il responsabile ultimo della GMG a Colonia, questo grandissimo evento che si è concluso domenica ed è stato trattenuto per questo. Inoltre si è aggiunto un ulteriore impegno: Benedetto XVI ha voluto che Stanislao Dziwisz, il fedele segretario di Giovanni Paolo II, diventasse successore del cardinale Macharski a Cracovia. Prenderà possesso della diocesi di Cracovia sabato e Rilko, da amico, sarà lì.
Invece siamo lietissima che Anneliese Knoop-Graf sia qui tra di noi.
Penso che si possa dire che sia una delle persone più anziane qui presenti. Ha fatto un lungo cammino dalla Germania passando dalla Svizzera per essere oggi qui con noi. La ringrazio molto, perché è qui fresca come una rosa e già freme di potervi comunicare quello che vi dirà.
Lei è la sorella di Willi Graf, uno dei sei membri della “Rosa Bianca” che sono stati condannati a morte per aver distribuito i volantini all’università di Monaco e averli spediti per tutta la Germania. Ha abitato con lui per alcuni mesi a Monaco, il fratello l’ ha voluta con sé. Lei ha ricevuto l’incarico da sua fratello, poco prima che fosse decapitato, di mantenere viva la memoria di lui, Willi e anche degli altri amici della “Rosa Bianca”.
Per me la cosa bella è che dopo sessant’anni, anche nel rapporto di amicizia che lega i curatori della mostra con lei, si prosegue una storia. Non è solo un parlare di qualcosa, ma è un rapporto che prosegue. Prima di dare la parola alla signorina Anneliese Knoop-Graf, permettetemi di dire io due parole.
I tedeschi e tutti quelli che hanno preparato e curato la mostra sono molto fieri di averla portata qui al Meeting. La mostra è molto centrata col tema di quest’anno, che è quello della libertà. A sessant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che forse è stato il momento più tragico del XX secolo, una delle ore più buie, dopo sessant’anni è proprio dalla Germania che viene un contributo che riprende quei tempi senza riprenderne il buio, senza riprenderne la morte che c’era, proponendo volti luminosi, volti fioriti dentro quelle tragiche circostanze, la positività che ha colpito chi ha fatto la mostra e che chi l’ ha fatta vuole proporre a voi tutti.
“Rosa Bianca” è un gruppo di resistenza ma non è nato “contro” qualcuno: è nato da un gruppo di persone che erano per la vita, che erano per la libertà. Sono nomi di persone che si sono incontrate a volte casualmente e tra le quali è nato un rapporto in cui si è messo in gioco ciò che è la vita. Sono quindi i rapporti tra Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf, Hans Sholl e la sorella Sophie Sholl, il professor Huber e altri. L’amicizia ha avuto fin dall’inizio un’appassionante carica umana. Chi ha già visto la mostra lo può testimoniare, un’ abbraccio della vita in tutti i suoi aspetti. Le testimonianze che ci sono giunte, di lettere, di persone che li hanno conosciuti, testimoniano questa passione per il bello, per l’arte, il gusto di andare a sciare insieme d’inverno, di fare scalate d’estate sulle montagne bavaresi, di andare a concerti e di riprendere insieme le cose ascoltate, di leggere i libri assieme, parlarne, discuterne e porsi domande esistenziali che altri a quei tempi non osavano porsi e anche di esprimere una passione per il popolo tedesco, per la sua storia, per la sua tradizione. Avevano molto a cuore proprio il popolo tedesco, pur dentro quelle circostanze drammatiche e tragiche, che per primi loro stessi condannavano e rifiutavano. Erano dunque per la vita e per la libertà. A un certo punto hanno capito che non si può essere solamente per la vita, per la libertà, per l’arte, a parole o come un’esperienza estetica, ma che bisognava veramente mettersi in gioco. Loro si sono messi in gioco, hanno cominciato a giudicare la situazione in cui vivevano, la situazione politica, a mettere a fuoco qual è veramente la chiave di volta di questa ideologia e dove e perché essa è disumana e poi anche di decidere di esprimere questo giudizio pubblicamente, ma di nascosto per salvare la vita, inviando lettere in varie città della Germania e anche distribuendo volantini in università. Hanno rischiato un giudizio. In quel tempo in cui molti forse vedevano o intuivano che era disumano il modo in cui vivevano e non avevano il coraggio di esprimersi, loro l’ hanno fatto. E così sono nati questi volantini. Ne distribuiscono cinque, di nascosto, e alla distribuzione del sesto volantino, il 18 febbraio del ’43, Sophie e Hans Sholl vengono scoperti all’Università di Monaco. Un bidello li vede e va a fare la spia. Li ha visti ed ha detto “Andate a catturarli”. Ha messo in gioco la sua libertà. Vengono catturati e condannati a morte il 22 febbraio assieme a Christoph Probst, un ragazzo di ventitre anni, già papà di tre bambini, dei quali la figlia più giovane ha un mese (Christoph Probst verrà battezzato proprio prima di essere decapitato). Più tardi verranno giustiziati anche Willi Graf, il fratello della signora Knoop-Graf, Alexander Schmorell e poi tutti gli altri. Sui muri dell’università, alcuni di questi ragazzi hanno scritto a grandi lettere di notte, di nascosto, “Freiheit”. Sul retro del capo d’accusa di Sophie Sholl, la sorella giovanissima di Hans Sholl, ventun’anni, c’era scritto più di una volta e in diversi caratteri, la parola “Freiheit”. Hans Sholl, prima di essere ghigliottinato, grida ad alta voce “è viva la libertà!”. “Freiheit”, libertà. Questo è ciò che aveva colpito chi ha fatto la mostra. Il progetto è nato del tutto casualmente. Abbiamo proposto come “libro del mese”, come si usa in CL, una raccolta di lettere e testimonianze di membri della “Rosa Bianca”, proprio per valorizzare un pezzo di storia nostra. Questa ha colpito molto chi l’ ha letta e alcuni si sono messi in gioco dicendo: ma questa cosa va approfondita, è troppo bella, colpisce troppo, è affascinante, diamogli spazio. Così hanno fatto delle ricerche, hanno cercato chi ancora è sopravvissuto, come la signora Knoop-Graf, che ancora poteva raccontare qualcosa di questi eventi. Hanno letto i testi, le lettere, le testimonianze. Ispirati dal Meeting, questi amici tedeschi si sono detti “ma perché non fare anche noi una mostra?”. Sembrava un’impresa un po’ grande, perché tutti abbiamo tantissimi impegni. Però la passione e il desiderio di comunicare questi volti e queste esperienze ha mosso le persone a mettersi assieme e a ideare questa mostra, che adesso, dopo essere stata presentata a Friburgo e a Monaco, il posto in cui Hans e Sophie Sholl sono stati catturati e dopo essere stata presentata alla Giornata Mondiale dei Giovani, la settimana scorsa a Colonia, oggi è qui.
Vorrei dare la parola alla signora Knoop-Graf, che dopo questa mia piccola introduzione può veramente renderci partecipi dello spirito di questi amici che si sono dati il nome di “Rosa Bianca” e che hanno vissuto in quelle circostanze così tremende, offrendo una testimonianza di vita, d’amicizia, di libertà.

Anneliese Knoop-Graf: Carissimi, questa mostra è stata organizzata per ricordare i membri del gruppo “Rosa Bianca”. E’ dedicata a loro, che si sono opposti al sistema terroristico del nazional-socialismo in Germania e che per questo stesso regime sono dovuti morire. La loro resistenza oggi significa quindi eredità, memoria ed impegno.
Questa eredità ci impegna ovviamente ad un costante ricordo, perché va detto che dimenticare comporta sventura e disgrazia, mentre ricordo e memoria significano redenzione. Significa che oggi noi dobbiamo comprendere e capire bene il nostro presente, soprattutto se il passato continua a vivere nel nostro presente, se pur con dolore, con sofferenza e con vergogna.
Il motto di questa mostra rappresenta il contenuto dell’esposizione stessa e deve servire al visitatore proprio da guida. Il 12 gennaio 1942 Hans Sholl scrive a un suo amico, a proposito della cerchia che lui aveva fondato: “se tu potessi vedere la gioia su questi volti, se tu riuscissi a vedere tutta l’energia, tutta la forza che viene utilizzata e che ritorna tutta intera all’interno della propria anima!”
Come sorella di Willi Graf, sono una delle poche sopravvissute ad aver conosciuto di persona questa cerchia di persone ed io cerco ovviamente di dare il mio contributo nonostante la notevole distanza temporale.
Per me non è facile colmare questa distanza, fare questo passo indietro nel tempo, perché il tempo con la sua energia che cambia e modifica gli eventi riguarda anche me, quindi non è escluso che la memoria degli eventi d’allora faccia qualche scherzo e li modifichi in qualche modo.
Ci ricordiamo bene che la “Rosa Bianca” era una cerchia libera, di persone che condividevano gli stessi ideali, però senza una struttura organizzativa chiara e senza una adesione ben strutturata e anche senza delle istruzioni ben programmatiche, fisse. Un gruppo di amici, se vogliamo, la cui dinamica aveva portato anche contatti con l’esterno.
Dopo tutto queste giovani persone erano isolate all’interno del proprio popolo, con poca esperienza nel campo di agitazione politiche ma sapevano molto di libri e di studi. Sicuramente non conoscevano le strategie della cospirazione. Cosa avrebbero mai potuto fare questi giovani se non una ribellione umana contro la disumanità?
Nel semestre invernale dell’anno 1942-1943 accolsi volentieri l’invito di mio fratello di trasferirmi da lui a Monaco per studiare e abitare con lui.
Il 12 novembre 1943 scrive così nel suo diario: “Annelise vuole finalmente venire da me a Monaco e questo apre nuove prospettive. Sarà importante, tra l’altro, che Annelise riesca ad incontrare nuove presone. Anche di questo sono emozionato. Vediamo che cosa ne uscirà.”
Quindi mi introdusse nella cerchia di amici della “Rosa Bianca” e questo in un momento in cui questo gruppo aveva già iniziato le azioni di volantinaggio. Nessuna delle persone del gruppo era un temerario, non erano persone che si buttavano, tanto meno dei fanatici, degli esaltati o dei sognatori. L’aspirazione al martirio era lungi da loro, non ci pensavano affatto, anche l’eroismo non interessava a loro. E non erano nemmeno degli entusiasti che avessero perso il contatto con la realtà. Erano invece persone molto dotate, persone molto aperte al mondo, che amavano la vita e che riuscivano a portare avanti delle discussioni anche critiche all’interno del loro ambiente e soprattutto fra loro stessi.
Questo vale allo stesso modo per la cerchia del “Grauen Orden”, quella dell’ “Ordine grigio”, di cui mio fratello aveva fatto parte negli anni Trenta. All’epoca, gli incontri di questo gruppo erano stati per Willi e i suoi amici l’unica sorta di energia, di forza dall’esterno che aveva agito sulla loro personalità. Decisiva era stata poi la necessità, da tutti fortemente sentita, di realizzarsi e di farsi valere come individui, anziché farsi assorbire dalla massa ed è chiaro che, all’epoca, concretamente, la “massa” significava l’onnipresente gioventù hitleriana.
Quando all’interno della “Compagnia studentesca” universitaria di Monaco, Willi Graf prese contatto con Hans Sholl, subito i due si sono capiti benissimo, si sono intesi alla perfezione. Quando Hans Sholl lo conobbe ancor meglio, comprese subito che Willi era uno di loro. Questo scrisse Inge Sholl successivamente.
Quanto importanti, quanto liberanti debbono essere stati questi incontri, queste discussioni dopo mesi durante i quali Willi non aveva potuto parlare a nessuno all’interno di questa cerchia. Questo è dimostrato dagli appunti del diario e dalle lettere che risalgono all’epoca. Lì si era esaudito uno dei desideri di Willi, perché in una lettera del giugno del 1941, che lui mi aveva scritto, diceva: “questo è veramente l’essenziale, che può dare a tutte le nostre azioni senso e valore, perché queste della cerchia sono persone con le quali si può convivere bene, perché condividiamo un ideale e una visione”.
Se si dà un’occhiata a tutte le lettere che sono rimaste, ai disegni all’interno dei diari e si va ad approfondire questa documentazione della cerchia, si ha subito l’impressione che questi giovani abbiano trascorso la prima parte della loro vita dedicandola alla formazione, all’istruzione, alla gioia e all’amicizia.

Anche i loro percorsi di vita, come si può vedere dalla mostra stessa, erano stati molto simili, nel senso che tutti provenivano da famiglie borghesi, da nuclei familiari molto religiosi e, fin dalla loro infanzia, erano persone abituate a pensare, a provare delle emozioni, erano persone compassionevoli, quindi abituate a riconoscersi e considerarsi in questo modo.
Oltre a ciò erano tutti accomunati da una preparazione molto simile e condividevano più o meno gli stessi interessi. Tutti i documenti, tutti i reperti testimoniano di una grande cultura e di una sensibilità artistica ben superiore alla media.
Nella loro essenza invece erano diversi: coinvolgenti, timidi, coraggiosi, audaci, avveduti o pieni di fantasia che rimuginavano tra di sé. Ognuno aveva questi ingredienti a suo modo. Inoltre condividevano l’amore per la musica, per la poesia e per la lingua. Erano tutti anche molto interessati alla storia, alla teologia e alla filosofia. Comunque si distanziavano dal fatto di riconoscere il “padre-Stato” come maestro e avevano un rapporto critico con la Madre Chiesa. Erano elitisti, mai arroganti. Decisi e risoluti e sicuri di sé, ma al contempo anche umili. Fin da subito quindi non sono stati sorpresi dalle conseguenze che avrebbe avuto ciò che loro stavano per fare.
Va detto quindi che l’immagine che viene data da molte pubblicazioni, come un gruppo assolutamente omogeneo, non corrisponde a realtà. Voglio sottolineare con gratitudine e riconoscenza che in questa mostra ogni singola personalità viene caratterizzata con le sue particolarità e non avviene in questo modo una generalizzazione, una omologazione che non corrisponde al vero. A prescindere quindi da un accordo, da un’armonia sulle questioni fondamentali, soprattutto nel rifiuto senza compromessi nei confronti del regime, è chiaro che all’interno di questa cerchia c’erano delle nature umane assolutamente autonome, indipendenti. Individuale era quindi anche il loro modo di vivere, il loro approccio spirituale, le loro premesse famigliari. Individuale era il profilo umano che ha portato ognuno a strade diverse, a sistemi di valore, a pensieri diversi, come pure l’orientamento politico e il loro percorso verso la fede.
Durante le frequenti ed approfondite discussioni portate avanti insieme, si giunse alla decisione di non stare più a guardare senza fare niente, di non essere contrari solo in teoria, bensì di trarne le conseguenze e di fare qualcosa di concreto.
I loro colloqui si incentrarono sempre di più sulla questione di quale fosse la forma più efficace della resistenza e sempre di più prese piede il piano che prevedeva di creare una serie di resistenze locali: persone che condividevano quell’ideale, che andavano a lavorare per questo obiettivo nelle varie città e nelle varie università, le quali andavano ovviamente formate e fatte partecipare a questa azione.
Aldilà degli impulsi diversi, individuali, si delineano dei motivi trasversali che strutturavano la loro azione comune. Fin dall’inizio era chiaro a tutti che la guerra non sarebbe stata vinta ed era anzi già perduta. Quali sforzi spirituali ed etici sarà costato a queste persone, provenienti da famiglie che pensavano ancora in termini nazionali, per amore della patria, dover portare avanti la sconfitta della Germania!
A tutti era comune una profonda convinzione cristiana, che per loro era consolazione indispensabile per l’azione, ma non per un’attesa inoperosa. Questo atteggiamento risoluto non va separato dalla decisione dell’opposizione politica. La fede cristiana era per loro una sfida, ma al contempo un aiuto e una promessa nel senso più alto della parola.
Fra il novembre del 1942 e il febbraio 1943 ho partecipato assieme a mio fratello ad alcune delle riunioni e delle letture della “Rosa Bianca”. Durante questi incontri avevo notato il rigore morale ma anche l’inconsueta vivacità intellettuale e la tensione con la quale Hans Sholl particolarmente discuteva e argomentava. In virtù della sua posizione e della sua forza di convincimento, svolgeva il ruolo principale e coinvolgente in questo gruppo. Era colui che pianificava, mentre noi altri, anche Sophie e mio fratello, piuttosto assennato, piuttosto timido, rimanevamo un po’ più sullo sfondo, come ascoltatori silenziosi o partner riflessivi.
Andavamo insieme a concerti, andavamo fuori a mangiare insieme, ci incontravamo per delle discussioni o per un tè che Sophie preparava con un samovar. Seguivamo insieme le lezioni del professor Huber, ci incontravamo anche per delle serate di lettura nell’ atelier “Eickmeier”. Non sempre discutevamo solo e unicamente di cose serie.
I temi dei quali ci occupavamo erano in genere di natura letteraria, temi che mio fratello ha descritto in modo appropriato nel suo diario con le seguenti parole: “Parliamo di libri e persone”. La lettura era un aiuto, direi un aiuto alla sopravvivenza.
In mia presenza, in questa cerchia, non si parlava mai del “piano” o della “costruzione”. Nel suo diario mio fratello usava questi due termini, nomi in codice, come perifrasi per descrivere le attività di resistenza. Ma io capivo sempre più chiaramente che questa cerchia viveva una vita scissa, separata, divisa tra il terrorismo di stato e l’ebbrezza collettiva da un lato e la vita politicamente vigile, permanentemente in pericolo all’interno di questa cerchia d’amici.
Quando poi il 18 febbraio 1943 vennero distribuiti i volantini presso l’università di Monaco, mi ricordai dei discorsi e anche delle considerazioni espresse in modo non velato, relative alla necessità di una protesta chiara e visibile contro il regime. Sebbene non sapessi nulla di concreto, intuì chi fosse l’autore di questi volantini.
Dopo che avevano catturato Hans e Sophie, anche Willi ed io fummo arrestati nell’appartamento in cui vivevamo insieme. Accompagnati da due funzionari della Gestapo, in fondo a un’auto della polizia, ci tenevamo per mano silenziosi.
Poco prima della sua morte, Willi ha dettato al parroco del carcere delle parole rivolte a me. Letteralmente diceva: “Tu sei destinata a tener viva la mia memoria e la mia volontà. Dì a tutti i miei amici che questo è il mio ultimo saluto, anche loro devono portare avanti ciò che abbiamo iniziato”.
Questo sentimento, già negli anni Trenta, aveva una rilevanza politica. La parola leale dell’amico si contrapponeva alla menzogna pubblica generale. La reciproca fiducia si contrapponeva alla sfiducia generalizzata. La libera decisione di operare l’uno per l’altro come valore si contrapponeva al cameratismo che veniva imposto dall’alto.
All’inizio questi amici non miravano a un’opposizione aperta contro il regime, ma in virtù della loro indole erano degli oppositori e si differenziavano dalla generale omologazione dell’apparato di Stato. Decisiva fu la domanda “Cosa dobbiamo fare?”. Ebbe inizio così un’evoluzione, un percorso da uomini prima apolitici, attraverso uomini inconsciamente politici, fino alla fine diventare persone che agivano coscientemente in termini politici.
Bene, ora ci chiediamo: cosa ci attira tanto oggi quando ci occupiamo della Resistenza? Non è forse anche l’integrità di queste persone che agivano e che in quella fusione tra volere e agire davano espressione alla verità?
Va detto che il coraggio della Resistenza non è innato. La Resistenza si sviluppa praticandola. Questo è un processo in cui emergono più chiaramente le peculiarità degli individui, molto più chiaramente che non in situazioni normali.
Ma i posteri possono capire cosa significava in quel periodo dire di no, tra tutta quella moltitudine di gente che diceva solo sì?
Chi vive in una democrazia, come noi oggi, in cui tutte le opinioni sono consentite, ha difficoltà a capire cosa significava opporsi allo strapotere di un apparato dominante. Un apparato tanto dominante, tanto potente, tanto prepotente da indurre molti a tacere per apatia o in base ad una presunta ragione oppure a causa di quella forma di ragionevolezza rassegnata che offre sempre i migliori argomenti per il non agire, il non parlare, il non reagire.
Eppure la storia della “Rosa Bianca” non è un epos eroico. Allo stesso modo questa mostra non va vista semplicemente all’interno di una tutela dei monumenti. Non dobbiamo avere l’impressione che si tratti di modelli irraggiungibili. Questo sarebbe un cliché, tenendo conto dell’atteggiamento interiore di queste persone. Loro stesse non avrebbero gradito il pathos dell’ammirazione, non avrebbero gradito essere considerate alla stregua di eroi.
Con tutte le loro imperfezioni indiscutibili, con tutte le loro valutazioni errate, con tute le loro omissioni o l’impulsività impaziente, addirittura anche con il loro fallimento, questi esponenti della Resistenza assumono un profilo a-temporale. Proprio in virtù di ciò che abbiamo detto, questi amici della “Rosa Bianca” appaiono come persone con tutti i loro pregi e le loro debolezze. Non si irrigidiscono in figure storiche o eroiche. Diventano più vicine a noi, concrete, più umane. Quello che deve rimanere è il ricordo e la memoria viva.
E’ proprio questo che la mostra vuole: essere all’altezza di questo compito, del mantenere viva la memoria e sono i volti di un’amicizia che potrete apprezzare anche voi. Io mi auguro, e auguro anche a voi, che la forza che ne emana rifluisca per intero nel vostro animo. Io vorrei che queste persone vi rimanessero vicine come conoscenti, come parenti, come amici.

Moderatore: Ringrazio la signora Knoop-Graf, che aveva all’inizio un po’ un timore. Prima mi diceva che a lei piace parlare alla gente, ma che se c’è la traduzione tutto è appesantito, perché il dialogo non può essere diretto.
Ci avete testimoniato che invece lei è riuscita a parlare anche a voi e ai vostri cuori e che la lingua non è stato un ostacolo.
Prima di finire aggiungo due cose, la prima è di carattere più tecnico.
Il materiale raccolto da chi ha curato la mostra è molto e per l’edizione italiana i testi dei pannelli sono stati ridotti, per renderli più leggibili e accessibili. Nel catalogo invece sono contenuti tutti i testi raccolti e le testimonianze bellissime della “Rosa Bianca” Il catalogo è uno strumento preziosissimo.
In secondo luogo, sottolineo che se la signora Knoop-Graf ha finito con l’augurio che i membri della “Rosa Bianca” possano rimanere in noi come persone che stimiamo, che conosciamo, anzi come amici. Io posso confermarle la mostra in Germania e alla Giornata Mondiale dei Giovani è stata recepita così. Molte persone sono rimaste molto commosse, perché le testimonianze dei membri della “Rosa Bianca” toccano il cuore. Uno sente che è vero, che dall’esperienza di allora ci separa il tempo non il cuore. Il cuore è lo stesso. La verità è affascinante oggi come allora.
Se leggerete quella citazione terribile di Hitler, in cui spiega come lui voleva che venissero educate le persone, secondo un ideale di uomo in cui ogni bisogno sarebbe stato soddisfatto eccetto quello della libertà, capirete che questo è un modo di guardare l’uomo che c’è ancora oggi, che c’è sempre nelle ideologie. Permettetemi di finire con una citazione di Rovan, che è un lontano parente di Christoph Probst, in un’occasione in cui anche lui raccontava dei membri della “Rosa Bianca”: “La testimonianza di questi ragazzi non deve impedirci di essere lieti né di pensare con gioia a coloro che hanno sacrificato la loro vita. Molti di essi l’hanno fatto, come Chris, i fratelli Sholl, Willi Graf e così via. Hanno dato la vita. Non si va mai incontro alla morte con gioia, ma si può andare incontro alla morte con la percezione di aver compiuto ciò a cui si è chiamati. Posso solo augurare a ognuno di voi, quando la sera penserete alla giornata trascorsa, di avere la percezione di aver fatto ciò a cui siete stati chiamati”.

La notte del male non è invincibile . Più forte è la luce di Cristo


Cristo oppone "un fiume di luce" al "fiume sporco del male" che avvelena la storia umana. Lo ha ricordato Benedetto XVI all'udienza generale di mercoledì 3 dicembre, nell'Aula Paolo vi. Il Papa ha dedicato la catechesi alla dottrina sul peccato originale in san Paolo.
La fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere

Cari fratelli e sorelle,

nell'odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della Lettera ai Romani (5,12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale.
In verità, già nella prima Lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: “Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Cor 15,22.45). Con Rm 5,12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo.

Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull'umanità. La ripetizione del “molto più” riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull'umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: “Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rm 5,20).
Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.

D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l'incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che “a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (Rm 5,12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.

Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina?
Molti pensano che, alla luce della storia dell'evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento. Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua Lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: «C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.

Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana.
Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una «seconda natura», che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona.

Questa “seconda natura” fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita: «questo è umano» ha un duplice significato. «Questo è umano» può voler dire: quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma «questo è umano» può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura.

Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.

Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l'essere stesso è contraddittorio, porta in sè sia il bene sia il male. Nell'antichità questa idea implicava l'opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall'origine dell'essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire. Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la visione dell'essere è monistica, si suppone che l'essere come tale dall'inizio porti in se il male e il bene. L'essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l'evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell'essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell'essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della Lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce.

Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere.

Questo è il lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.

Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell'evoluzionismo, non possono dire che l'uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è sanabile. E il Libro della Sapienza dice: “Hai creato sanabili le nazioni” (1, 14 volg).

E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.
Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell'Avvento con l'antico popolo di Dio: «Rorate caeli desuper». E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l'ignoranza di Dio, la violenza, l'ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!

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