giovedì 31 ottobre 2013

L’APPARENZA DEL BUIO . Il Papa e il cammino della fede



« 
Chi di noi non ha sperimentato in­sicurezze, smarrimenti e perfino dubbi nel cammino della fede? Tutti lo ab­biamo sperimentato, anch’io. Fa parte del cammino della fede, fa parte della nostra vita». Parlando della comunione dei san­ti, di quell’unità che comprende in sé quanti appartengono a Cristo, il Papa con semplicità si è raccontato uomo e cristia­no come gli altri, come noi. Ammissione che non dovrebbe turbare, se si pensa che il pescatore Pietro, chiamato da Gesù a camminare sulle acque del lago di Gene­sareth, dopo appena due passi, dubitando, cominciò a affondare.
  Che ogni cristiano abbia i suoi personali e­sili e attraversi coni d’ombra, sopraffatto dalla forza di persuasione del mondo, op­pure messo al muro dal dolore, è natura­le. Che il Papa lo dica apertamente di sé, fa parte di quel modo di porsi cui Jorge Mario Bergoglio ci sta educando. Un mo­do schietto: così come si parla a tavola, la sera, in famiglia.
  C’è una gran forza, dentro a questa sem­plicità; c’è, al fondo, una fede che non te­me di mostrarsi nella sua verità, nemme­no nei momenti di fatica e dubbio. Perché non è un supereroe, un cavaliere invitto e senza macchia, il cristiano secondo Fran­cesco, come non lo è mai nel racconto e­vangelico. Anzi, quel racconto testimonia spesso come gli apostoli fossero uomini come gli altri: ambiziosi, paurosi, e nell’o­ra cruciale addormentati, o infedeli. Il pun­to nella sequela di Cristo non è mai in un merito personale, ma invece nel doman­dare, mendicare Cristo, perché sia in noi. E camminando e mendicando accade, il tempo del vuoto, o l’ora in cui ci si sente folli, a giocarsi la vita su un Altro che non si vede, non si misura, non si tocca. Il cuo­re della sfida cristiana è anche in questo misurarsi quotidianamente con un Dio che, pure sempre accanto, pure presente dentro a un pezzo di pane, non si lascia possedere, né algebricamente dimostrare. Ha detto Francesco nella sua intervista a 'Civiltà Cattolica' che incontrare Dio non è un eureka empirico: lo si incontra inve­ce, come il profeta Elia, in una «brezza leggera». E, ha aggiunto, «in questo cer­care e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve es­serci. (..) Si deve lasciare spazio al Signo­re, non alle nostre certezze; bisogna es­sere umili». Metteva in guardia, France­sco, dal cercare «solamente un dio a no­stra misura». E indicava invece la strada di Agostino: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre.
  In un pellegrinaggio costantemente teso più oltre, e mai definitivamente appaga­to. Mentre nei corsi e ricorsi della nostra vi­ta di uomini e donne si affacciano la scon­fitta, la sofferenza, la morte, e possono al­largare il loro buio fino, anche noi come Pietro, a farci quasi affondare; oppure, quando tutto va bene, la distrazione ci go­verna, e Dio? Dio, diventa una variabile non fondamentale.
  Accade, di cercare Dio a tentoni, nell’om­bra; di attenderlo lungamente, di restare sospesi in una sua apparente eclisse. Per qualcuno è il dubbio, per altri quell’ora si allarga in un buio che sembra infinito, co­me testimoniano i mistici, da Teresa di Li­sieux a Teresa di Calcutta. (E si direbbe quasi, a leggere gli scritti di quest’ultima, che il buio sia tanto più denso quanto più assoluta è la domanda.) Ma, tornando a noi cristiani 'normali', quante volte davanti al dolore innocente sospettiamo di Dio, e non gli perdoniamo che lasci che certe cose accadano. Lo scan­dalo del male genera dubbio, e ci si ricon­cilia poi a fatica solo ammettendo che al­tre sono le vie di Dio dalle nostre, altri i pensieri.
  Davvero, come dice Francesco, la fede è andare, camminare, fare, cercare, vede­re…: «Entrare nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e la­sciarsi incontrare da Dio». Umana avventu­ra, prestar fede all’annuncio di Betlemme, e interrogarsi, tentennare, dubitare, rialzar­si. Ogni volta sapendo un po’ di più, sapen­do nella carne, che il buio è una apparenza,
 e che la promessa è vera. 

Buona festa di tutti i Santi!



Buona festa di tutti i Santi!
Happy All Saints day!
Buena Fiesta de los Santos!
Celebriamo la festa di tutti i Santi per lodare e ringraziare il Signore di averci donato queste persone come esempio da seguire;per festeggiare in questo giorno anche quei Santi che non conosciamo;per chiedere a tutti i Santi di pregare il Signore per noi e per le persone a noi care.

«Siamo testimoni dell'amore»


Julián Carrón questa sera al Centro Congressi di Bergamo in occasione dei 40 anni di Cl nella città lombarda. «Tutti vogliono avvicinarsi al Papa: vuol dire che gli riconoscono un modo adeguato di vivere la fede». L'intervista all'"Eco di Bergamo"

La parola che Julián Carrón - il capo di Comunione e Liberazione da quando, nel febbraio del 2005, è morto don Giussani - ripete più spesso è «bellezza». Con il suo eloquio ispanizzante, le doppie che gli scivolano in bocca, la voce un po’ monotona, Carrón nel carattere non ha niente del fare burbero, ficcante, anche provocatorio del fondatore brianzolo di Cl. Non usa punti esclamativi. Nella sostanza, invece, dice le sue stesse cose con la fedeltà di un figlio, adattandole e riscoprendole in una situazione storica che sta anche rapidamente cambiando.
Questa sera Carrón arriva a Bergamo, al Centro Congressi Giovanni XXIII, per festeggiare i 40 anni del movimento in questa terra che è rimasta cattolica in modo molto radicato, un po’ tradizionalista, ma che si è anche sempre dimostrata aperta ai fermenti nuovi del mondo cattolico, che non a caso sono passati spesso di qui.

Don Carrón, cosa c’è da festeggiare?
Per noi questo momento vuol dire festeggiare la fedeltà di Dio, il suo amore sconfinato per il nostro niente che neppure il nostro tradimento ha bloccato. Come dice il profeta Isaia, «anche se tuo padre e tua madre ti abbandonassero, io non ti abbandonerò mai». Questo è ciò che ci sentiamo addosso. Noi non possiamo festeggiare niente senza ricordare un famoso invito di don Giussani del ‘94 e che è rimasto un punto fermo per noi: «Man mano che maturiamo, siamo a noi stessi spettacolo e, Dio lo voglia, anche agli altri. Spettacolo, cioè, di limite e di tradimento, e perciò di umiliazione, e nello stesso tempo di sicurezza inesauribile nella grazia che ci viene donata e rinnovata ogni mattino». Questa festa è dunque il ringraziamento per la fedeltà di Dio e la domanda che non abbandoni il suo popolo.

A cosa serve un movimento nella Chiesa? Non bastano già le parrocchie? Qual è, secondo lei, il contributo che CL ha dato in questi anni e che può dare all’interno della vita della Chiesa?
Un carisma, come dice la parola stessa, è un dono dello Spirito che rende la fede più persuasiva, più attraente, come diceva Giovanni Paolo II. Un modo con cui Dio continua il dialogo con gli uomini, continua a prendere iniziativa secondo una modalità assolutamente nuova, sempre sorprendente anche per noi stessi che vi partecipiamo. In questo momento Papa Francesco sta invitando tutti noi cattolici ad andare alle "periferie esistenziali" del mondo, ad andare incontro agli uomini. Noi abbiamo questa preoccupazione nel nostro dna: abbiamo sempre desiderato di vivere la fede nei diversi ambienti in cui si svolge la vita di tutti. Il Papa sta spingendo i cristiani a rendersi presenti ovunque, non soltanto nell’ambito, già di per sé bello e utile, delle parrocchie, ma in tutti gli ambienti. I nostri contemporanei purtroppo spesso non si avvicinano nemmeno alle parrocchie: se noi, qualunque sia la modalità con cui viviamo la fede - movimento, parrocchia, un’associazione di qualsiasi tipo - non siamo presenti lì, questi uomini non avranno la possibilità di incontrare Cristo oggi.

Papa Francesco è il primo che non parla alla ristretta cerchia delle sue pecore... 
Eh sì. Questo mi pare il grande richiamo che, con il suo personale modo di fare, sta rivolgendo a tutta la Chiesa. Che tutti gli uomini meritano di essere raggiunti dalla bellezza e dalla tenerezza di Dio, che noi siamo fortunati di aver incontrato. E questo il Papa lo testimonia in ogni modo, nella modalità con cui guarda a ciascuno quando è circondato da decine di migliaia di persone. Se tutti desiderano avvicinarsi a lui vuol dire che c’è qualcosa nella sua modalità di vivere la fede che la gente sta riconoscendo come adeguata al bisogno che ha.

Lei ha parlato di un’«attrattiva» che suscita Gesù. Forse oggi anche tanti non cristiani la avvertono, ma quando poi si tratta di sottomettersi a tutte le indicazioni della Chiesa... 
A noi quello che ci ha conquistato è proprio quest’attrattiva, non abbiamo fatto altro che lasciarci trascinare per non perdere quello che ci attrae nell’incontro con Cristo. La pretesa che ha la Chiesa non è altro che la pretesa di Cristo che questa bellezza sia rilevante per la totalità dell’esistenza e non solo per alcuni suoi aspetti. Che possa illuminare, rendere intenso e profondo perfino l’istante più banale della vita. Che tutto diventi pieno di senso, traboccante di bellezza e di gusto, come in una storia d’amore. Don Giussani ci ha sempre ripetuto una famosa frase di Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore, tutto ciò
che accade diventa un avvenimento nel suo ambito». Quale uomo non desidera questo?

All’uomo di oggi il Cristianesimo appare come una religione un po’ vecchia, superata. Ce ne sono di più appetibili (il Buddismo, la New age...). Non si sente un po’ inadatto ai tempi? 
Ogni uomo deve fare il proprio cammino, andare fino in fondo a quella che è la propria strada: solo così potrà verificare fino in fondo la capacità che essa ha di rispondere a tutte le sue esigenze. Oggi il Cristianesimo entra nell’agone di questa diversità religiosa. Non ha nessuna priorità. Questo, in fondo, è il fascino del nostro tempo: il Cristianesimo deve mostrare in mezzo a questa pluralità di forme in cui viviamo la sua ragionevolezza. Così gli uomini potranno fare il paragone tra l’esperienza che hanno scelto loro e quello che vedono testimoniato dai cristiani.

Giovanni Paolo II gridava: «Non abbiate paura» di rivolgervi a Cristo. Oggi forse Papa Francesco dice un «non abbiate paura» anche ai suoi: non abbiate paura in un mondo in cui siete, ormai, in minoranza. 
Certo. Per questo è importantissimo per il cristiano che possa vivere un’esperienza, come ci ha insegnato sempre don Giussani. Che la fede sia un’esperienza presente, dove io trovi la conferma della sua rilevanza. Altrimenti non potrà resistere in un mondo in cui tutto dice il contrario. La sfida e la bellezza drammatica di questo momento storico è questa: che noi cristiani non abbiamo
nessun altro sostegno, nessun altro vantaggio e punto d’appoggio che l’esperienza di bellezza che facciamo nella fede, insieme ai nostri fratelli.

Questo afflato generale per Papa Francesco è una moda esteriore o tocca in qualche modo la fede in Cristo?
Mi sembra che più che una moda sia un segno del bisogno che noi, credenti e non credenti - come dimostra ad esempio il dialogo tra Papa Bergoglio ed Eugenio Scalfari - abbiamo di essere raggiunti dalla misericordia e dalla tenerezza di Dio attraverso un volto, uno sguardo umano, che ti renda Dio talmente vicino che sia facile riconoscerlo. In questo senso c’entra già con la fede, che non è altro se non il riconoscimento di una presenza che risponde all’attesa dell’uomo. Che cos’è il Cristianesimo se non il Verbo che è diventato carne, è diventato palpabile, e attraverso questa carnalità rende vicine agli uomini la tenerezza e la misericordia di Dio? Gli uomini di oggi, anche quelli apparentemente più lontani dal punto di vista culturale o anche religioso, mi sembra che lo avvertano in questo Papa.

Come dovrebbe comportarsi il cristiano in un mondo in cui è nettamente in minoranza? Cercando di sfruttare al meglio le sue rendite di posizione? 
Prima di tutto dovrebbe accorgersi che questa strategia dell’egemonia, se mai abbiamo pensato che fosse quella giusta, si è dimostrata completamente fallimentare. Anche se si fossero raggiunti tanti posti e tanti luoghi di potere. Il cristiano ha solo una chance, perché la sua potenza non è tenere in mano nessun tipo di potere ma essere testimone della novità di Cristo che è entrata nella storia proprio per affascinare e conquistare il cuore degli uomini. Non perché siamo di meno la luce brilla meno: la luce non brilla meno nel buio. La gente rimane stupita quando incontra persone, oggi, che rendono trasparente questa vita che per loro è sconosciuta. Non c’è - e speriamo di averlo imparato per sempre noi cristiani - un’altra modalità che non sia la testimonianza, cioè il trasparire della bellezza di Cristo. Non c’è altro metodo.

Non è un po’ complicato essere cristiani oggi? Troppo impegnativo. 
Ma questo perché quello che si chiama Cristianesimo a volte non è altro che una sua riduzione etica. Se invece, come il Papa - e anche Benedetto XVI e Giovanni Paolo II - ci testimonia è una bellezza che attira, è una cosa facile: basta lasciarsi conquistare. Persino Scalfari è contento che il Papa gli scriva o lo incontri. È andato di corsa a trovarlo quando Bergoglio lo ha chiamato. Questo non toglie il dramma di ciascuno di assecondare o non assecondare quello che gli è capitato. Ma di per sé è facilissimo.
 Carlo Dignola

(da L'eco di Bergamo, 31 ottobre 2013)

Papa Francesco ha celebrato questa mattina la Messa nella Basilica di San Pietro presso l’altare dove è custodita la tomba del Beato Giovanni Paolo II. Erano presenti oltre un centinaio di sacerdoti e vari fedeli. Il Papa ha commentato le letture del giorno: la lettera di San Paolo ai Romani in cui l’apostolo delle Genti parla del suo amore per Cristo e il passo del Vangelo di San Luca in cui Gesù piange su Gerusalemme che non ha capito di essere amata da lui. 



 il testo integrale dell'omelia del Papa:

In queste letture ci sono due cose che colpiscono. Prima, la sicurezza di Paolo: “Nessuno può allontanarmi dall’amore di Cristo”. Ma tanto amava il Signore - perché lo aveva visto, lo aveva trovato, il Signore gli aveva cambiato la vita - tanto lo amava che diceva che nessuna cosa poteva allontanarlo da Lui. Proprio questo amore del Signore era il centro, proprio il centro della vita di Paolo. Nelle persecuzioni, nelle malattie, nei tradimenti, ma, tutto quello che lui ha vissuto, tutte queste cose che gli sono accadute nella sua vita, niente di questo ha potuto allontanarlo dall’amore di Cristo. Era il centro proprio della sua vita, il riferimento: l’amore di Cristo. E senza l’amore di Cristo, senza vivere di questo amore, riconoscerlo, nutrirci di quell’amore, non si può essere cristiano: il cristiano, quello che si sente guardato dal Signore, con quello sguardo tanto bello, amato dal Signore e amato sino alla fine. Sente... Il cristiano sente che la sua vita è stata salvata per il sangue di Cristo. E questo fa l’amore: questo rapporto d’amore. Quello è il primo che a me colpisce tanto. L’altra cosa che mi colpisce è questa tristezza di Gesù, quando guarda Gerusalemme. “Ma tu, Gerusalemme, che non hai capito l’amore”. Non ha capito la tenerezza di Dio, con quell’immagine tanto bella, che dice Gesù. Non capire l’amore di Dio: il contrario di quello che sentiva Paolo. Ma sì, Dio mi ama, Dio ci ama, ma è una cosa astratta, è una cosa che non mi tocca il cuore ed io mi arrangio nella vita come posso. Non c’è fedeltà lì. E il pianto del cuore di Gesù verso Gerusalemme è questo: “Gerusalemme, tu non sei fedele; tu non ti sei lasciata amare; e tu ti sei affidata a tanti idoli, che ti promettevano tutto, ti dicevano di darti tutto, poi ti hanno abbandonata”. Il cuore di Gesù, la sofferenza dell’amore di Gesù: un amore non accettato, non ricevuto. Queste due icone oggi: quella di Paolo che resta fedele fino alla fine all’amore di Gesù, di là trova la forza per andare avanti, per sopportare tutto. Lui si sente debole, si sente peccatore, ma ha la forza in quell’amore di Dio, in quell’incontro che ha avuto con Gesù Cristo. Dall’altra parte, la città e il popolo infedele, non fedele, che non accetta l’amore di Gesù, o peggio ancora, eh? Che vive quest’amore ma a metà: un po’ sì, un po’ no, secondo le proprie convenienze. Guardiamo Paolo con il suo coraggio che viene da questo amore, e guardiamo Gesù che piange su quella città, che non è fedele. Guardiamo la fedeltà di Paolo e l’infedeltà di Gerusalemme e al centro guardiamo Gesù, il suo cuore, che ci ama tanto. Che possiamo farcene? La domanda: io somiglio più a Paolo o a Gerusalemme? Il mio amore a Dio è tanto forte come quello di Paolo o il mio cuore è un cuore tiepido come quello di Gerusalemme? Il Signore, per intercessione del Beato Giovanni Paolo II, ci aiuti a rispondere a questa domanda. Così sia!
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mercoledì 30 ottobre 2013

Udienza generale. Il Papa: essere in comunione con Dio e tra noi ci aiuta a superare dubbi e insicurezze












“Essere uniti fra noi ci conduce ad essere uniti con Dio”: è uno dei passaggi forti della catechesi di Papa Francesco all’udienza generale in Piazza San Pietro, incentrata sulla comunione dei santi. Tutti, ha detto il Papa, abbiamo sperimentato limiti e insicurezze, anche dubbi nel cammino della fede. E tuttavia, ha ammonito, non dobbiamo spaventarci ma sempre confidare in Dio e nell’aiuto del prossimo. 

Index
 



PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 30 ottobre 2013
 
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!     
Oggi vorrei parlare di una realtà molto bella della nostra fede, cioè della “comunione dei santi”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci ricorda che con questa espressione si intendono due realtà: la comunione alle cose sante e la comunione tra le persone sante (n. 948). Mi soffermo sul secondo significato: si tratta di una verità tra le più consolanti della nostra fede, poiché ci ricorda che non siamo soli ma esiste una comunione di vita tra tutti coloro che appartengono a Cristo. Una comunione che nasce dalla fede; infatti, il termine “santi” si riferisce a coloro che credono nel Signore Gesù e sono incorporati a Lui nella Chiesa mediante il Battesimo. Per questo i primi cristiani erano chiamati anche “i santi” (cfr At 9,13.32.41; Rm 8,27; 1 Cor 6,1).
1. Il Vangelo di Giovanni attesta che, prima della sua Passione, Gesù pregò il Padre per la comunione tra i discepoli, con queste parole: «Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (17,21). La Chiesa, nella sua verità più profonda, è comunione con Dio, familiarità con Dio, comunione di amore con Cristo e con il Padre nello Spirito Santo, che si prolunga in una comunione fraterna. Questa relazione tra Gesù e il Padre è la “matrice” del legame tra noi cristiani: se siamo intimamente inseriti in questa “matrice”, in questa fornace ardente di amore, allora possiamo diventare veramente un cuore solo e un’anima sola tra di noi, perché l’amore di Dio brucia i nostri egoismi, i nostri pregiudizi, le nostre divisioni interiori ed esterne. L’amore di Dio brucia anche i nostri peccati.
2. Se c’è questo radicamento nella sorgente dell’Amore, che è Dio, allora si verifica anche il movimento reciproco: dai fratelli a Dio; l’esperienza della comunione fraterna mi conduce alla comunione con Dio. Essere uniti fra noi ci conduce ad essere uniti con Dio, ci conduce a questo legame con Dio che è nostro Padre. Questo è il secondo aspetto della comunione dei santi che vorrei sottolineare: la nostra fede ha bisogno del sostegno degli altri, specialmente nei momenti difficili. Se noi siamo uniti la fede diventa forte. Quanto è bello sostenerci gli uni gli altri nell’avventura meravigliosa della fede! Dico questo perché la tendenza a chiudersi nel privato ha influenzato anche l’ambito religioso, così che molte volte si fa fatica a chiedere l’aiuto spirituale di quanti condividono con noi l’esperienza cristiana. Chi di noi tutti non ha sperimentato insicurezze, smarrimenti e perfino dubbi nel cammino della fede? Tutti abbiamo sperimentato questo, anch’io: fa parte del cammino della fede, fa parte della nostra vita. Tutto ciò non deve stupirci, perché siamo esseri umani, segnati da fragilità e limiti; tutti siamo fragili, tutti abbiamo limiti. Tuttavia, in questi momenti difficoltosi è necessario confidare nell’aiuto di Dio, mediante la preghiera filiale, e, al tempo stesso, è importante trovare il coraggio e l’umiltà di aprirsi agli altri, per chiedere aiuto, per chiedere di darci una mano. Quante volte abbiamo fatto questo e poi siamo riusciti a venirne fuori dal problema e trovare Dio un’altra volta! In questa comunione – comunione vuol dire comune-unione – siamo una grande famiglia, dove tutti i componenti si aiutano e si sostengono fra loro.
3. E veniamo a un altro aspetto: la comunione dei santi va al di là della vita terrena, va oltre la morte e dura per sempre. Questa unione fra noi, va al di là e continua nell’altra vita; è una unione spirituale che nasce dal Battesimo e non viene spezzata dalla morte, ma, grazie a Cristo risorto, è destinata a trovare la sua pienezza nella vita eterna. C’è un legame profondo e indissolubile tra quanti sono ancora pellegrini in questo mondo – fra noi –  e coloro che hanno varcato la soglia della morte per entrare nell’eternità. Tutti i battezzati quaggiù sulla terra, le anime del Purgatorio e tutti i beati che sono già in Paradiso formano una sola grande Famiglia. Questa comunione tra terra e cielo si realizza specialmente nella preghiera di intercessione.
Cari amici, abbiamo questa bellezza!  È una realtà nostra, di tutti, che ci fa fratelli, che ci accompagna nel cammino della vita e ci fa trovare un’altra volta lassù in cielo. Andiamo per questo cammino con fiducia, con gioia. Un cristiano deve essere gioioso, con la gioia di avere tanti fratelli battezzati che camminano con lui; sostenuto dall’aiuto dei fratelli e delle sorelle che fanno questa stessa strada per andare al cielo; e anche con l’aiuto dei fratelli e delle sorelle che sono in cielo e pregano Gesù per noi. Avanti per questa strada con gioia!

Saluti:
Je salue cordialement les francophones présents, en particulier les servants de Messe de l’archidiocèse de Paris – quels bons garçons!‑, accompagnés par Mgr Éric de Moulins-Beaufort, les pèlerins de l’archidiocèse de Rennes, accompagnés par Mgr Pierre d’Ornellas, les jeunes du diocèse de Bayeux-Lisieux, ainsi que les pèlerins venus de Suisse et de Belgique. Laissez-vous embraser par l’amour de Dieu, afin de changer le visage de vos familles, de vos paroisses et du monde. Bonne fête de Tous les Saints, et confiez toujours vos défunts à la miséricorde de Dieu !
[Saluto cordialmente i pellegrini presenti di lingua francese, in particolare i ministranti dell’Arcidiocesi di Parigi, – ecco, bravi ragazzi! – accompagnati da Mons. Éric de Moulins-Beaufort, i pellegrini dell’Arcidiocesi di Rennes, accompagnati da Mons. Pierre d’Ornellas, i giovani della Diocesi di Bayeux-Lisieux, come anche i fedeli venuti dalla Svizzera e dal Belgio. Lasciatevi abbracciare dall’amore di Dio, per cambiare il volto delle vostre famiglie, delle vostre parrocchie e del mondo. Buona festa di Tutti i Santi, e affidate sempre i vostri defunti alla misericordia di Dio!]
I greet all the English-speaking pilgrims present at today’s Audience, including those from England, Wales, Ireland, Denmark, the Netherlands, the Philippines, Vietnam and the United States.  Upon all of you, and your families, I invoke God’s blessings of joy and peace! 
[Saluto tutti i pellegrini di lingua inglese presenti a questa Udienza, specialmente quelli provenienti da Inghilterra, Galles, Irlanda, Danimarca, Paesi Bassi, Filippine, Vietnam e Stati Uniti.  Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore!]      
Ein herzliches Willkommen allen Pilgern deutscher Sprache. Besonders grüße ich die jungen Sänger des Kölner Domchors mit ihren Eltern sowie das Landeskomitee der Katholiken in Bayern. Liebe Freunde, entdecken wir immer mehr die Schönheit des Glaubens durch die Gemeinschaft der Heiligen! Gott segne euch alle.
[Un cordiale benvenuto a tutti i pellegrini di lingua tedesca. In particolare saluto i giovani cantanti del Kölner Domchor con i loro genitori nonché il Landes-Komitee dei cattolici di Baviera. Cari amici, riscopriamo sempre più la bellezza della fede mediante la comunione dei santi! Dio vi benedica tutti.]
Saludo a los peregrinos de lengua española, en particular a los grupos provenientes de España, Argentina, El Salvador, México y los demás países latinoamericanos. Invito a todos a redescubrir la belleza de la fe en esta unión común de todos los santos. Una realidad que nos concierne mientras somos peregrinos en el tiempo, y en la cual, con la gracia de Dios, vamos a vivir para siempre en el cielo. Muchas gracias.
Queridos peregrinos de Portugal, de Timor Leste e do Brasil: sede bem-vindos! Daqui alguns dias, celebraremos a solenidade de Todos-os-Santos e a comemoração dos Fiéis Defuntos. Possa a fé na comunhão dos santos vos animar a encomendar a Deus, sobretudo na Eucaristia, os vossos familiares, amigos e conhecidos falecidos, sentindo a proximidade deles na grande companhia espiritual da Igreja. Que Deus vos abençoe!
[Cari pellegrini del Portogallo, di Timor Est e del Brasile: benvenuti! Fra qualche giorno celebreremo la solennità di Tutti i Santi e la commemorazione dei fedeli defunti. La fede nella comunione dei santi vi stimoli ad affidare a Dio, specialmente nell’Eucaristia, i vostri familiari, amici e conoscenti deceduti, sentendoli vicini nella grande compagnia spirituale della Chiesa. Dio vi benedica a tutti!]
أتوجَّه ُ بتحيةٍ حارة إلى الحجّاج الناطقينَ باللغةِ العربية، لا سيما القادمين من العراق. عندما تشعرون بعدم الأمان والضياع وحتى بالشكّ في مسيرة الإيمان حاولوا أن تتكلوا على معونة الله، من خلال الصلاة البَنَويَّة، وفي الوقت عينه، تحلّوا بالشجاعة والتواضع لكي تتمكّنوا من الإنفتاح على الآخرين. ماأجمل أن نعضد بعضنا بعضاً في مغامرة الإيمان الرائعة. ليبارككم الرب جميعاً!
[Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua araba, in particolare a quelli provenienti dall’Iraq. Quando sperimentate insicurezze, smarrimenti e perfino dubbi nel cammino della fede cercate di confidare nell’aiuto di Dio, mediante la preghiera filiale, e, al tempo stesso, di trovare il coraggio e l’umiltà di aprirsi agli altri. Quanto è bello sostenerci gli uni gli altri nell’avventura meravigliosa della fede! Il Signore vi benedica!]
Pozdrawiam wszystkich Polaków. Moi drodzy, wszyscy ochrzczeni żyjący tu na ziemi oraz wszystkie dusze w Czyśćcu i święci w Niebie tworzą jedną wielką rodzinę. Ta komunia między ziemią a niebem realizuje się szczególnie w modlitwie wstawienniczej, która jest najbardziej wzniosłą formą solidarności, i która także stanowi podstawę uroczystości liturgicznej Wszystkich Świętych oraz Wspomnienia wiernych zmarłych, które będziemy przeżywali w najbliższych dniach. Dziękujmy Bogu za dar i pragnienie świętości, które nas jednoczy. Niech Bóg wam błogosław!
[Saluto tutti i polacchi! Carissimi, tutti i battezzati quaggiù sulla terra, le anime del Purgatorio e tutti i beati che sono in Paradiso formano una sola grande famiglia. Questa comunione tra terra e cielo si realizza specialmente nella preghiera di intercessione, che è la più alta forma di solidarietà, ed è anche alla base della celebrazione liturgica di Tutti i Santi e della Commemorazione dei fedeli defunti, che vivremo nei prossimi giorni. Ringraziamo Dio per il dono e per il desiderio della santità che ci unisce! Dio vi benedica!]

APPELLO

Al termine dell’Udienza saluterò una delegazione di sovraintendenze irachene, con rappresentanti dei diversi gruppi religiosi, che costituiscono la ricchezza del Paese, accompagnata dal Card. Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Vi invito a pregare per la cara nazione irachena purtroppo colpita quotidianamente da tragici episodi di violenza, perché trovi la strada della riconciliazione, della pace, dell’unità e della stabilità.
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i fedeli di Porto Santo Stefano, accompagnati dal loro Vescovo, Mons. Borghetti, e quelli di Árdara, venuti alla Sede di Pietro in occasione dell’Anno della fede. Saluto le associazioni e i gruppi presenti, specialmente i Maestri del Lavoro di Rimini; il Movimento Apostolico Ciechi di Treviso e l’Associazione italiana Ciechi di guerra; i Dirigenti e Soci della Banca di Credito Cooperativo Sangro Teatina, sorta ad opera di un gruppo di cattolici, capeggiati da quattro sacerdoti animati dall’ideale francescano. La visita alle tombe degli Apostoli confermi in tutti l’adesione a Cristo e il senso di appartenenza alla Chiesa!
Saluto infine i malati, gli sposi novelli e i giovani, con un pensiero speciale agli studenti dei Collegi Universitari provenienti da tutta Italia. Venerdì prossimo celebreremo la Solennità di Tutti i Santi. La loro testimonianza di fede rafforzi in ciascuno di voi, cari giovani, la certezza che Dio vi accompagna nel cammino della vita; sostenga voi, cari ammalati, alleviando la vostra quotidiana sofferenza; e sia di aiuto a voi, cari sposi novelli, nel costruire la vostra famiglia sulla fede in Dio.


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Fede, ragione e vera felicità La scommessa di Giussani

Nella cupa Italia delle ideologie, insegnava a valorizzare la persona e tornare alle radici del cristianesimo.
«Fin dalla prima volta che lo vidi mi stupì il suo carisma: emanava un'energia che potevi toccare con la mano. Non ho mai provato con nessuno quella strana sensazione del vibrare del corpo insieme con la voce. Avevo sentito tanti oratori straordinari – per esempio, Togliatti o Terracini, Vittorini o Fortini -, ma nessuno di loro può essere paragonato a Giussani».Il poeta Franco Loi, ateo e marxista razionalista, incontrò più volte don Luigi Giussani nei primi anni '60. Non ne condivideva le idee e, anzi, trovava «troppo enfatico il modo di esporre la religione e, in generale, il suo pensiero». Eppure rimase a lungo affascinato: «Ti invitava dentro di sé e ti faceva vibrare a tua volta». Esistono persone toccate dalla grazia. Che portano in loro qualcosa di più grande. Persone che quando entrano in una stanza, in un'aula, un posto qualsiasi, imprimono un'accelerazione al corso delle cose. Affascinando. Scompaginando. Don Giussani era dotato di una personalità travolgente ma sensibile. Impetuosa e lucida ad un tempo. Contagiosa, eppure rispettosa della libertà altrui. «Diceva già allora», ricorda Loi, «che non si capisce Dio se non si capisce fino in fondo cos'è l'uomo». A più di otto anni dalla morte, mentre è in corso il processo di beatificazione, ce lo restituisce più che mai vivido la ciclopica biografia prodotta da Alberto Savorana che ha avuto il privilegio di vivere a lungo a fianco del fondatore di Comunione e Liberazione. A lettura completata, un po' della gratitudine nei confronti del don Gius che tracima in quest'opera risale dal lettore verso l'autore. Quello scelto da Savorana era l'unico modo di scrivere la Vita di don Giussani (Rizzoli, 1354 pagine, euro 25). Cercare tutto; raccogliere e, per quanto possibile, ordinare tutto: testimonianze, scritti, appunti, fotografie, nastri e video, registri delle scuole elementari, carteggi con compagni, teologi, cardinali, qualche papa, giudizi dei professori del seminario, taccuini e libri sottolineati, cartoline spedite agli amici. L'unico modo per consegnare al presente e al futuro, preservandolo da riduzioni e interpretazioni, la ricchezza di una figura così. Teologo, predicatore, poeta, filosofo, educatore perché amante dell'uomo. Soprattutto testimone di quell'amore a Cristo di cui il suo cuore vibrava: «È la vita della mia vita, Cristo».
Ma leggendo e rileggendo le testimonianze dei seguaci del movimento e dei tanti che lo hanno incrociato, alla fine non si trova incipit più illuminante la sua esistenza di quello pronunciato il giorno del funerale nel Duomo di Milano dall'allora cardinale Ratzinger: «Don Giussani era cresciuto in una casa povera di pane, ma ricca di musica, e così sin dall'inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza». La madre Angelina è di educazione cristiana, mentre il padre Beniamino, di cultura socialista, gli trasmette la passione per l'opera lirica, Beethoven, Donizetti, il Preludio n.15 di Chopin altrimenti conosciuto come La goccia. Dopo averlo sentito decine di volte, coglie all'improvviso quella nota nascosta e martellante sotto la melodia in primo piano. «Così è la vita!». L'uomo è percosso dalle cose che lo attraggono istintivamente e che gli piacciono. Ma il cuore di tutto sta in quella nota profonda che diventa una fissazione: il desiderio della felicità, comune a ogni essere. Sgorga da qui il personalismo cristiano di Giussani. Dostoevskij, Pavese, Pasolini, Peguy, Pascoli, Claudel, certi cantautori, i grandi teologi von Balthasar e De Lubac diventano compagni di strada in una ricerca tanto intensa quanto entusiasmante. Attraversato da una profonda nostalgia del bello, Leopardi è il più intimo (Giussani mantenne il proposito giovanile di ripetere ogni giorno qualcuna delle sue poesie): «Di qua dove son gli anni infausti e brevi/ Questo d'ignoto amante inno ricevi», recita il verso finale di Alla sua donna. Questo inno, questo grido trova risposta nel primo capitolo del vangelo di Giovanni, spiegato in seminario dal professor Gaetano Corti: «Il verbo di Dio, ovvero ciò di cui tutto consiste, si è fatto carne. Perciò “la bellezza s'è fatta carne, la verità s'è fatta carne...”». Giussani ha quindici anni, ma quello è il suo «bel giorno», l'inizio di tutto. «L'istante, da allora, non fu più banalità per me», commenterà in seguito. La razionalità della fede, il nesso diretto, senza soluzione di continuità, tra il bisogno dell'uomo e l'iniziativa di Dio, la concavità dell'essere umano e la convessità del Padre che viene a riempirla facendosi uno di noi: tutto diventa chiaro. E tutto sarà uno sviluppo del senso religioso, testo sacro del personalismo cristiano del don Gius. Il quale, continuava Ratzinger in quell'omelìa, «non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale, cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita; così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia».
Negli anni Sessanta, mentre il Paese è galvanizzato dal boom economico e la Chiesa è ferma a divieti e prescrizioni, un prete brianzolo parla di Gesù Cristo partendo da Leopardi e Chopin. Il fascino è irresistibile anche per coloro che non lo seguiranno, da Massimo Fini a Claudia Mori, da Gherardo Colombo a Giuliano Pisapia, da Aldo Moro a Claudio Risè solo per citarne alcuni. Ma per tanti lo è anche quello dell'ideologia. La contestazione esplode proprio dalla Cattolica. E il nascente movimento patisce la difficoltà «di abbordare un problema dal punto di vista di Cristo». Se ne vanno molti, attirati dalla rivoluzione. E Giussani annoterà la differenza: il cristiano è un soggetto «rivoluzionato in principio», non si muove partendo da un progetto, ma «da una rivoluzione che è accaduta dentro di lui e che anima e suggerisce i suoi progetti». Cioè, «Gesù Cristo è qualcosa che vien prima, non nasce dalle nostre operazioni». Al cristiano tocca solo testimoniarlo, riverberarlo come può partecipando di una compagnia che lo educa, la Chiesa, perché vive di Lui. «Noi siamo nati non per rispondere alle emergenze», osserva nel 1994: «Siamo nati per dire che è venuto Cristo. Pensavo a questo andando al Berchet la prima mattina», nel lontano 1954. E più tardi, pochi mesi prima di morire, riflettendo su ciò che scaturì dall'intuizione di quei giorni, in una lettera scritta a Giovanni Paolo II scriverà: «Non solo non ho mai inteso “fondare” niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l'urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta».
Così oggi, se il primo sentimento è di gratitudine, il secondo possibile è la nostalgia, un che di rimpianto per non aver sfruttato al meglio l'opportunità di una vicinanza così feconda. Tanto più se si riflette sul fatto che, negli anni, l'opera successiva dei suoi, soprattutto nell'atto di affacciarsi all'impegno civile e alla politica, è parsa a volte ben meno limpida e travolgente della sua. Tuttavia, è certo che il ripiegamento e la rinuncia non sarebbero una risposta che lui approverebbe. Ma la certificazione che la sua educazione non s'è completata. Perché il campo, l'agone dell'essere è la vita stessa con tutte le sfide del presente. Incontrandolo di recente, Juliàn Carron, suo successore alla guida di CL, si è sentito dire da papa Francesco che l'aver conosciuto il movimento a Buenos Aires negli anni '90 fu per lui «aria fresca» tanto da portarlo a leggere i testi di don Giussani perché «vi trovava quello che serviva alla sua vita cristiana».
Nei versi del poeta di Recanati (1798–1837), Giussani trovava quelle eterne domande a cui il Vangelo offre risposta
Al compositore Ludwig van Beethoven (1770–1827), don Giussani ha dedicato numerosi scritti
Il tormentato romanziere Fëdor Dostoevskij (1821-1881) è al centro della riflessione di don Giussani
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martedì 29 ottobre 2013

Olivetti, una storia italiana da capire e ricominciare

 Adriano Olivetti
LE RADICI, L’INTUIZIONE, LA LEZIONE ATTUALE DELL’«IMPRESA CIVILE» 
All’Italia manca da troppo tempo un codice simbolico e ideale condiviso capace di ricostituire un’unità civile, ideale e spirituale, sulla quale poi fondare anche nuovo sviluppo, anche economico. Da troppo tempo le storie collettive, e quindi anche quelle politiche, che raccontiamo non ci convincono più; sono troppo fragili, superficiali, di corto respiro, scariche simbolicamente perché senza uno soffio vitale capace di rianimare le ossa che popolano le tante moderne valli inaridite della nostra vita civile ed economica. Eppure storie, narrative, miti capaci di futuro, perché grandi, popolari, carichi di simboli vitali (che sono gli aggettivi di tutte le storie capaci di generare risurrezioni), all’Italia non mancano. L’avventura umana, economica, spirituale e industriale di Adriano Olivetti (alla quale Rai1 dedica, tra ieri e oggi, una fiction in due parti) è una di queste storie. Olivetti non è una gloriosa eccezione in una storia economica italiana diversa, né un eroe o un cavaliere solitario. È stato invece una espressione del migliore genio italiano. Ci ha mostrato che l’impresa può essere a un tempo solidale, sulla frontiera dell’innovazione tecnologica, leader mondiale e radicata in un territorio e in una comunità, basata sulle persone e di grandi dimensioni, laboratorio intellettuale e parlare in dialetto, includere i poveri e generare molti profitti. La tradizione economica italiana, quella che alcuni chiamiamo Economia civile, è stata eccellente e faro per il mondo intero quando ha saputo coniugare questi elementi che invece il capitalismo attuale, anche quello nostrano, tende sistematicamente e scientemente a contrapporre. Negli ultimi decenni abbiamo infatti dato vita a un sistema economico e sociale dicotomico e separato cioè letteralmente dia-bolico. Così oggi abbiamo la grande impresa che vede i territori e le loro istanze come una minaccia alla propria efficienza (e quindi delocalizza), mentre l’economia sociale è relegata, e spesso segregata, nel mondo del 'piccolo è bello'. Nelle grandi imprese non si parla più né il dialetto né l’inglese vero né l’italiano, perché si sono perse le lingue vitali antiche, quelle dell’economia contadina e artigiana, e non si ha la cultura e il tempo per impararne (bene) altre.
  E, infine, ma potremmo continuare a lungo, chi opera (e ce ne sono tanti anche in Italia) nei settori della grande innovazione tecnologica non ha alcun contatto con chi opera nel sociale e ha a che fare con la povertà. Tutto ciò è esattamente l’opposto di quanto ha fatto, pensato, vissuto e sognato Adriano Olivetti assieme agli altri imprenditori civili della sua generazione, che l’Italia del dopoguerra, uscita da grandi ferite, era stata capace di generare.
  Le ragioni del tradimento che l’economia italiana ha operato nei confronti del paradigma di Olivetti sono molte e complesse (e ancora poco esplorate). Un ruolo l’hanno avuto le infelici sorti dell’impresa Olivetti dopo Adriano; ma soprattutto all’Italia dei decenni passati, e a quella di oggi, è mancata una capacità culturale e di pensiero per immaginare e ricostruire una via civile all’impresa e all’economia. Le ideologie di destra e di sinistra erano culturalmente incapaci di capire che dietro all’esperimento di Adriano Olivetti si nascondeva qualcosa di estremamente importante per l’Italia: la possibilità di concepire, e di praticare, un’economia di mercato che non fosse quella capitalistica che si stava affermando negli Usa,
 né quella collettivistica russa, né quelle svedese, giapponese o tedesca. Quella di Olivetti era semplicemente l’economia italiana, cioè l’erede dell’economia dei Comuni, dell’Umanesimo civile, degli artigiani artisti, dei cooperatori... La 'terza via' di Olivetti era troppo italiana per poter essere riconosciuta dagli italiani, perché metteva a reddito, in piena post-modernità, i tratti tipici e migliori della nostra vocazione: creatività, intelligenza, comunità, relazioni, territori. Uno 'spirito del capitalismo' italiano, ed europeo, quindi diverso da quello americano che stava già dominando il mondo, dove il sociale inizia quando si esce dai cancelli dell’impresa e l’imprenditore crea la fondazione filantropica 'per' i poveri. Il capitalismo di Olivetti si occupava del sociale e dei poveri durante l’attività d’impresa. È l’inclusione 
 produttiva

  è una delle parole­chiave dell’umanesimo olivettiano, una parola ancora oggi tutta da esplorare.
  E così il capitalismo italiano post­olivettiano si è smarrito. Una parte di esso si è appropriato dell’anima
 sociale e solidaristica (quella che oggi chiamiamo appunto economia non-profit, terzo settore: tutte espressioni aliene dalla nostra storia), e gli imprenditori industriali sono diventati troppo spesso pallide imitazioni, a volte caricature, dei loro colleghi d’oltreoceano, perché mancanti di quelle virtù calviniste essenziali per far funzionare, a modo suo, quel capitalismo diverso. Forse sono passati ormai troppi anni dalla morte, prematura, di Adriano in un ormai lontano 1960. Troppi anni per pensare di riprendere, oggi, le fila di un discorso economico-civile interrotto, e che dai mercanti medioevali era giunto, vivo nei secoli, fino a Ivrea. La nostra storia è ormai quella che conosciamo, e non è quella immaginata e realizzata da Adriano. Ma un popolo può uscire dal deserto se sa fare memoria, se sa ricordare, e prima riconoscere, l’esistenza e l’insegnamento dei suoi patriarchi. E anche se la storia non torna indietro, possiamo sempre correggere, o invertire, la rotta. 
LUIGINO BRUNI 

domenica 27 ottobre 2013

I Santi: uomini che non portano maschere

Candele per i defunti
In vista della festa di Tutti i Santi e della commemorazione dei defunti, riportiamo il testo integrale della lettera scritta ai propri fedeli dai sacerdoti del Decanato di Valceresio, Arcidiocesi di Milano. La lettera, non solo spiega il senso delle festività di inizio novembre, ma mette in guardia dalla festa pagana di Halloween, il cui reale significato è la celebrazione del dio della morte. E durante la quale le sette sataniche ne approfittano per reclutare adepti.  



Carissimi amici,
come ogni anno la Chiesa si appresta a vivere la festa di Tutti i Santi e il giorno in cui si commemorano i nostri cari defunti che già godono della visione di Dio. L’occasione di questa grande festa ci richiama al destino che ci attende: la vita in Cristo. Gesù, infatti, con la sua morte e risurrezione, ha impedito che la parola “fine” tirasse il sipario sulla nostra vita. Il tratto di strada, più o meno lungo, che percorriamo sulla terra è un pellegrinaggio verso la vera patria che è il Cielo, popolato da coloro che la Chiesa ha posto come modelli per tutti, i Santi, e da coloro che ci hanno preceduto nel raggiungimento della méta, i nostri cari defunti.
Così, persino il momento più drammatico per la vita di un uomo, com’è la morte, viene raggiunto dalla luce della fede che ci consente di guardare con speranza al momento del nostro tornare alla casa del Padre. A questo proposito conviene riascoltare le parole che nel 2007 Papa Benedetto XVI ha scritto nell’Enciclica Spe Salvi: «Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la “vita”? E che cosa significa veramente “eternità”? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la “vita” vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo “vita”, in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – “la vita beata”, la vita che è semplicemente vita, semplicemente “felicità”. Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta... Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa “vera vita”; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti» (n. 11).
Mossi da questa grande speranza nei prossimi giorni visiteremo i cimiteri dove riposano le persone che abbiamo amato in attesa della risurrezione dell’ultimo giorno quando, al ritorno di Cristo, la morte verrà definitivamente distrutta e tutti potremo vivere della Sua stessa vita sotto “cieli nuovi” e in una “terra nuova”, travolti dallo stupore per la bellezza di tutto. Il tempo sfocerà nell’eterno e l’uomo non potrà più scegliere “per” o “contro” il Signore. Avverrà, infatti, il giudizio “dei vivi e dei morti”, cioè di tutta l’umanità. Verrà così smascherato il tentativo degli uomini di vivere “come se Dio non ci fosse” e tutto (noi, gli altri e il mondo) apparirà nella sua nuda verità. Il giudizio sarà: “particolare” al momento della morte di ciascun uomo e “universale” al momento del ritorno di Cristo alla fine dei tempi.
Paradiso e Inferno, che non sono due luoghi ma due condizioni umane, sono le possibilità che stanno davanti a noi in base a come si è giocata la nostra libertà di fronte a Dio. Poiché nel morire la decisione definitiva di una persona può essere incerta, la Chiesa afferma la possibilità del Purgatorio, come estrema occasione di purificazione e salvezza grazie alle preghiere di Gesù e Maria e all’intercessione della Chiesa mediante la celebrazione della santa Messa per i defunti, l’Indulgenza, l’offerta della sofferenza e delle opere di carità, la preghiera quotidiana.
Vista la grandezza del destino che ci attende, vista la forza che queste realtà ci danno per vivere con più intensità il reale, riteniamo veramente assurdo e pericoloso il proliferare di un modo pagano di festeggiare queste ricorrenze, a scapito del grande tesoro della fede che vogliamo custodire e trasmettere con gratitudine.
Uno dei modi più confusi e deviati è la festa di Halloween. La fede ha realtà molto più interessanti e ragionevoli da consegnarci rispetto alle zucche vuote, ai bambini (e anche adulti!) travestiti da streghe, fantasmi, vampiri e diavoli, al girovagare di casa in casa con la domanda sulle labbra: «Dolcetto o scherzetto?», che è l’ingenua traduzione di una formula dell’antico cerimoniale pagano, e al dilagare di discutibili feste serali e notturne dei ragazzi più grandi storditi dal volume della “musica” (se così si può chiamare) e ambigui divertimenti.
Preoccupati per il moltiplicarsi ingenuo di feste come questa, vi proponiamo tre criteri di giudizio per educare il nostro modo di guardare la realtà a partire dalla fede:
1. Il cuore di ogni uomo è pieno di domande grandi sul senso di tutto. La vita e la morte sono, forse, i nodi più scoperti. Usiamo del tempo che abbiamo per andare a fondo delle questioni più decisive, verificando se in noi la fede regge davanti alle sfide del vivere o se, quello di Cristo, è diventato solo un nome.
2. Halloween è una festa nata in ambito pagano, che non ha nulla a che vedere con la fede cristiana. Celebra il dio della morte (Samhain) ed è intrisa di esoterismo e magia, finendo talvolta per percorrere sentieri che sanno di diabolico. C’è un’evidente contraddizione per chi è battezzato, anche se l’intenzione con cui festeggiamo non è cattiva, né tantomeno contro la fede in Cristo.
3. Secondo uno studio della comunità “Giovanni XXIII”, fondata da don Oreste Benzi, il 16% dei ragazzi che partecipano a sette occulte ed esoteriche, dove avvengono le cose più cruente come i sacrifici offerti al Diavolo e la profanazione dell’Eucaristia, viene adescato proprio in questa occasione. Occorre, dunque, essere molto vigilanti senza inoltrarsi in luoghi e compagnie che potrebbero risultare molto pericolosi.
Il cardinale Scola, nella sua Lettera pastorale Il campo è il mondo. Vie da percorrere incontro all’umano, ci invita, tra le altre cose, a ritrovare il vero senso della festa che troppo spesso finisce per “esaurire l’io anziché ricaricarlo” (pag. 33). Custodiamo il gusto per le cose belle, vere, buone e giuste. I Santi che festeggiamo sono uomini e donne che hanno vissuto senza maschere, pieni di passione per Cristo e per il fratello, perché erano certi che «la fede non abita nel buio, ed è luce per le nostre tenebre» (Papa Francesco, Lumen Fidei, 4).
Con grande affetto, in Cristo!
I sacerdoti del Decanato

Le due luci di Paolo un ritratto della Chiesa


Siamo a un passo dalla chiusura dell’Anno della Fede. E di fede abbiamo molto bisogno di fronte alle problematiche emergenti che vanno dai grandi problemi etici ai naufragi dei profughi che si avventurano per il Mediterraneo, fino al problema mai risolto delle carceri trasformate per troppi in disumani luoghi di tortura. Amnistia? Abolizione del reato di clandestinità? Percepiamo tutti che tali cose non risolvono il problema, ma che occorre una riflessione più profonda sugli eventi. E che bisogna fare un bilancio per poi ripartire. Non a caso l’inizio dell’enciclica Lumen fidei iniziata da Papa Benedetto, completata, fatta propria e firmata da papa Francesco, ci spinge a una sorta di bilancio della fede. La fede che è descritta e vissuta da tanti come antinomia della luce e che finisce «per essere associata al buio», la fede che è luce che rischiara. Il dialogo di papa Francesco con i laici del nostro tempo induce tutti noi a prendere sul serio le sfide di coloro che – seguendo il dettato dei filosofi del Novecento – percepiscono la fede in opposizione alla ricerca esistenziale dell’uomo.
  Se dovessi fotografare la Chiesa in questo momento storico preciso userei un dipinto bellissimo di Rembrandt che ritrae san Paolo nel suo domicilio coatto di Roma. Un Paolo in carcere, in attesa di giudizio, un Paolo reduce da viaggi in cui ha sperimentato di tutto: fame, privazioni, naufragi, percosse. Un’immagine di Chiesa profondamente coinvolta nei drammi dell’uomo comune. Come è la nostra, oggi.
  L’Apostolo, ritratto da Rembrandt, si trova fra due luci, le stesse di cui parla il Papa nella
 Lumen fidei. Una luce, a sinistra, viene dall’alto: è la luce di una lampada necessaria per scrivere, dato che Paolo è colto mentre è seduto davanti allo scrittoio. L’altra luce invece è radente e calda e sembra provenire dalla finestra di un abbaino. È la luce del tramonto che getta gli ultimi bagliori infuocati sul carteggio di Paolo rivolto alle Chiese. Le lettere di Paolo ai 'suoi' cristiani si trovano in ombra. Un’ombra che sembra simboleggiare tutte la difficoltà che quelle Chiese incontrano dentro a un mondo pagano. Per lo sforzo immane di tali sfide, Paolo sembra sul punto di cedere: la luce di sinistra ci rivela una mano che ha abbandonato la penna e cade inerte. L’Apostolo ha già detto tutto, ora non gli resta che essere sciolto dalle catene di questo mondo e congiungersi a Cristo. Ma è l’altra luce che inaspettatamente rivela la mano sinistra di Paolo, quella che con vigore si appoggia al desco sulle nocche, come sogliono fare gli anziani e, raccolte tutte le forze, decide di avanzare ancora, di giocare l’ultima carta fino a che il popolo di Dio sia formato nella misura della maturità di Cristo. Vedo i nostri due Papi in queste mani: la mano abbandonata di Benedetto che ha scelto la via del nascondimento e della preghiera, tanto necessaria all’uomo d’oggi, e la mano indomita di Francesco che, pur consapevole della croce cui va incontro, è deciso a raccogliere le forze e affrontare tutte le sfide. E noi siamo lì, nel cono d’ombra che avvolge il carteggio, sollecitati dall’una e dall’altra luce, sopraffatti dal buio di molti interrogativi insoluti. Accettiamo questa oscurità, fa parte della fede, ma afferriamo una delle due mani, quella con cui lo Spirito ci spinge, e rimaniamo uniti.
  Sorgerà un’alba nuova, la stessa sorta all’indomani del sacrificio dell’Apostolo delle genti. La luce di una nuova visione cristiana del mondo e della storia.
  
MARIA GLORIA RIVA

SAPERSI NON SOLI . Lezione sul matrimonio


 Ha parlato in una piazza gremita di fa­miglie credenti, colma di bambini e di coppie con trenta o quaranta anni di matrimonio alle spalle; di facce sorri­denti, in un giorno di festa. Ma, a sentire il Papa ieri in San Pietro, si sarebbe detto che avesse in mente anche tutte le altre famiglie: quelle che mai andrebbero alla Giornata della famiglia, quelle in cui non ci si parla più, o sofferenti, divise, sole. Guardava, Francesco, la gran folla, pen­soso, e sorridente a tratti a un bambinet­to che gli volteggiava tenacemente attor­no. «La vita – ha detto poi, prendendo la parola – spesso è faticosa, talvolta anche tragica; lavorare è faticoso, cercare lavo­ro è faticoso, trovare lavoro è faticoso. Ma ciò che pesa di più nella vita è la man­canza di amore. Senza amore, la fatica è intollerabile».
  Senza qualcuno che ti abbracci alla sera è troppo dura, la giornata, e tutti sappiamo come il trovare o no una faccia cara ad a­spettarci modifichi del tutto l’orizzonte. Ma il nucleo fondante dello stare insieme, la famiglia, è oggi intaccato «da quella cul­tura del provvisorio che ci taglia la vita a pezzi», ha detto il Papa: solo per una vol­ta alzando la voce, ed esortando a non la­sciarsene determinare.
  Ma, in che modo? In San Pietro c’erano, anche, i volti di tutti i dolori: profughi si­riani, africani approdati a Lampedusa, ma anche la giovane coppia che si sposerà a primavera, e non sa come pagherà l’affit­to. Dentro la durezza della vita come si fa a resistere alla «cultura del provvisorio», come si fa a volersi bene per sempre?
  E qui il Papa con semplicità ha rispiega­to la grazia del Sacramento. Quel fattore della Grazia, che ormai quasi solo i vec­chi sposi ricordano; quando molti ne so­no dimentichi, oppure – trattandosi di cosa che non si tocca e non si misura – pensano che sia qualcosa di inconsi­stente. Mentre il matrimonio, ha spiega­to il Papa, non è la bella festa di un gior­no, ma è soprattutto «la grazia del Sacra­mento che ci fa forti nella vita, che ci fa andare avanti». Quel Terzo, insomma, preso a testimone e garante di una pro­messa che umanamente è arduo mante­nere. Quell’Altro, fra i due, che non è un pio ricordo, ma, vivo, dà nel suo nome a­more e forza. Colui, ha detto il Papa, che solo è «fonte inesauribile» di amore.
  Ciò che potrebbe interrogare molti di noi. Il cuore della famiglia non è in una ben di­sposta batteria di buoni principi morali o di seri propositi, ma invece in Cristo, nel­la sua persona presente. Il solo che ac­compagna in tutte le povertà e le miserie. E veniva in mente, guardando certi sposi di lungo corso nella folla, che forse questo era il loro cemento: il sapersi non soli, la certezza di un Dio che quel giorno aveva aggiunto, al loro sì, la sua promessa.
  Perchè sposarsi, ha detto il Papa, è un po’ come «il mettersi in cammino di Abramo», senza sapere quali terre si attraverseran­no. Chi si affida a se stesso, facilmente de­siste; la cultura dominante ordina di co­gliere l’attimo fuggente, e di non fermarsi accanto a chi resta indietro. E abbandoni e tradimenti non sono perdonabili, se la promessa è solo in un 'sì' romantico, ne­gli anni lievi della giovinezza. Mentre cer­te facce di vecchi in San Pietro, con quat­tro figli e dieci nipoti alle spalle, pur se­gnate dalla fatica, erano coriacee nel rea­lismo dei cristiani: che contano su quel Terzo paziente, che consente ogni sera la fatica del perdono - di tutte forse la più grande.
  Alla folla di famiglie Francesco ha ricor­dato il motore primo, il fattore primo di u­na Grazia fondante. Come un maestro che ricominci dall’alfabeto, sapendo che ciò che è antico può aver bisogno di parole fresche, per essere compreso. E che tutto, e oggi più che mai, a ogni generazione va annunciato di nuovo: come quel segno della croce che il Papa ha chiesto ai bam­bini in piazza, guardando la folla attenta­mente, seguendo il gesto esitante delle mani destre; come un semplice prete al­l’oratorio, che sa bene che nemmeno quel
 segno ormai a tutti è tramandato. MARINA CORRADI

Il Papa alle famiglie: rimanete unite a Gesù, perché se non c'è l'amore non c'è la gioia

Famiglie da tutto il mondo hanno incontrato il Papa (LaPresse/Ap Photo)

Index
 



DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLE FAMIGLIE IN PELLEGRINAGGIO A ROMA NELL' ANNO DELLA FEDE
Piazza San Pietro
Sabato, 26 ottobre 2013

Care famiglie!        
Buonasera e benvenute a Roma!
Siete venute pellegrine da tante parti del mondo per professare la vostra fede davanti al sepolcro di San Pietro. Questa piazza vi accoglie e vi abbraccia: siamo un solo popolo, con un’anima sola, convocati dal Signore che ci ama e ci sostiene. Saluto anche tutte le famiglie che sono collegate mediante la televisione e internet: una piazza che si allarga senza confini!
Avete voluto chiamare questo momento “Famiglia, vivi la gioia della fede!”. Mi piace, questo titolo. Ho ascoltato le vostre esperienze, le storie che avete raccontato. Ho visto tanti bambini, tanti nonni… Ho sentito il dolore delle famiglie che vivono in situazione di povertà e di guerra. Ho ascoltato i giovani che vogliono sposarsi seppure tra mille difficoltà. E allora ci domandiamo: come è possibile vivere la gioia della fede, oggi, in famiglia? Ma io vi domando anche: E’ possibile vivere questa gioia o non è possibile?
1. C’è una parola di Gesù, nel Vangelo di Matteo, che ci viene incontro: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). La vita spesso è faticosa, tante volte anche tragica! Abbiamo sentito recentemente… Lavorare è fatica; cercare lavoro è fatica. E trovare lavoro oggi chiede tanta fatica! Ma quello che pesa di più nella vita non è questo: quello che pesa di più di tutte queste cose è la mancanza di amore. Pesa non ricevere un sorriso, non essere accolti. Pesano certi silenzi, a volte anche in famiglia, tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli. Senza amore la fatica diventa più pesante, intollerabile. Penso agli anziani soli, alle famiglie che fanno fatica perché non sono aiutate a sostenere chi in casa ha bisogno di attenzioni speciali e di cure. «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi», dice Gesù.
Care famiglie, il Signore conosce le nostre fatiche: le conosce! E conosce i pesi della nostra vita. Ma il Signore conosce anche il nostro profondo desiderio di trovare la gioia del ristoro! Ricordate? Gesù ha detto: «La vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Gesù vuole che la nostra gioia sia piena! Lo ha detto agli Apostoli e lo ripete oggi a noi. Allora questa è la prima cosa che stasera voglio condividere con voi, ed è una parola di Gesù: Venite a me, famiglie di tutto il mondo - dice Gesù -  e io vi darò ristoro, affinché la vostra gioia sia piena. E questa Parola di Gesù portatela a casa, portatela nel cuore, condividetela in famiglia. Ci invita ad andare da Lui per darci, per dare a tutti la gioia.
2. La seconda parola la prendo dal rito del Matrimonio. Chi si sposa nel Sacramento dice: «Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita». Gli sposi in quel momento non sanno cosa accadrà, non sanno quali gioie e quali dolori li attendono. Partono, come Abramo, si mettono in cammino insieme. E questo è il matrimonio! Partire e camminare insieme, mano nella mano, affidandosi alla grande mano del Signore. Mano nella mano, sempre e per tutta la vita! E non fare caso a questa cultura del provvisorio, che ci taglia la vita a pezzi!
Con questa fiducia nella fedeltà di Dio si affronta tutto, senza paura, con responsabilità. Gli sposi cristiani non sono ingenui, conoscono i problemi e i pericoli della vita. Ma non hanno paura di assumersi la loro responsabilità, davanti a Dio e alla società. Senza scappare, senza isolarsi, senza rinunciare alla missione di formare una famiglia e di mettere al mondo dei figli. - Ma oggi, Padre, è difficile… -. Certo, è difficile. Per questo ci vuole la grazia, la grazia che ci dà il Sacramento! I Sacramenti non servono a decorare la vita - ma che bel matrimonio, che bella cerimonia, che bella festa!… - Ma quello non è il Sacramento, quella non è la grazia del Sacramento. Quella è una decorazione! E la grazia non è per decorare la vita, è per farci forti nella vita, per farci coraggiosi, per poter andare avanti! Senza isolarsi, sempre insieme. I cristiani si sposano nel Sacramento perché sono consapevoli di averne bisogno! Ne hanno bisogno per essere uniti tra loro e per compiere la missione di genitori. “Nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia”. Così dicono gli sposi nel Sacramento e nel loro Matrimonio pregano insieme e con la comunità. Perché? Perché si usa fare così? No! Lo fanno perché ne hanno bisogno, per il lungo viaggio che devono fare insieme: un lungo viaggio che non è a pezzi, dura tutta la vita! E hanno bisogno dell’aiuto di Gesù, per camminare insieme con fiducia, per accogliersi l’un l’altro ogni giorno, e perdonarsi ogni giorno! E questo è importante! Nelle famiglie sapersi perdonare, perché tutti noi abbiamo difetti, tutti! Talvolta facciamo cose che non sono buone e fanno male agli altri. Avere il coraggio di chiedere scusa, quando in famiglia sbagliamo…
Alcune settimane fa, in questa piazza, ho detto che per portare avanti una famiglia è necessario usare tre parole. Voglio ripeterlo. Tre parole: permesso, grazie, scusa. Tre parole chiave! Chiediamo permesso per non essere invadenti in famiglia. “Posso fare questo? Ti piace che faccia questo?”. Col linguaggio del chiedere permesso. Diciamo grazie, grazie per l’amore! Ma dimmi, quante volte al giorno tu dici grazie a tua moglie, e tu a tuo marito? Quanti giorni passano senza dire questa parola, grazie! E l’ultima: scusa. Tutti sbagliamo e alle volte qualcuno si offende nella famiglia e nel matrimonio, e alcune volte - io dico - volano i piatti, si dicono parole forti, ma sentite questo consiglio: non finire la giornata senza fare la pace. La pace si rifà ogni giorno in famiglia! “Scusatemi”, ecco, e si rincomincia di nuovo. Permesso, grazie, scusa! Lo diciamo insieme? (rispondono: “Sì!”) Permesso, grazie e scusa! Facciamo queste tre parole in famiglia! Perdonarsi ogni giorno!
Nella vita la famiglia sperimenta tanti momenti belli: il riposo, il pranzo insieme, l’uscita nel parco o in campagna, la visita ai nonni, la visita a una persona malata… Ma se manca l’amore manca la gioia, manca la festa, e l’amore ce lo dona sempre Gesù: Lui è la fonte inesauribile. Lì Lui, nel Sacramento, ci dà la sua Parola e ci dà il Pane della vita, perché la nostra gioia sia piena.
3. E per finire, qui davanti a noi, questa icona della Presentazione di Gesù al Tempio. È un’icona davvero bella e importante. Contempliamola e facciamoci aiutare da questa immagine. Come tutti voi, anche i protagonisti della scena hanno il loro cammino: Maria e Giuseppe si sono mesi in marcia, pellegrini a Gerusalemme, in obbedienza alla Legge del Signore; anche il vecchio Simeone e la profetessa Anna, pure molto anziana, giungono al Tempio spinti dallo Spirito Santo. La scena ci mostra questo intreccio di tre generazioni, l’intreccio di tre generazioni: Simeone tiene in braccio il bambino Gesù, nel quale riconosce il Messia, e Anna è ritratta nel gesto di lodare Dio e annunciare la salvezza a chi aspettava la redenzione d’Israele. Questi due anziani rappresentano la fede come memoria. Ma vi domando: “Voi ascoltate i nonni? Voi aprite il vostro cuore alla memoria che ci danno i nonni? I nonni sono la saggezza della famiglia, sono la saggezza di un popolo. E un popolo che non ascolta i nonni, è un popolo che muore! Ascoltare i nonni! Maria e Giuseppe sono la Famiglia santificata dalla presenza di Gesù, che è il compimento di tutte le promesse. Ogni famiglia, come quella di Nazareth, è inserita nella storia di un popolo e non può esistere senza le generazioni precedenti. E perciò oggi abbiamo qui i nonni e i bambini. I bambini imparano dai nonni, dalla generazione precedente.
Care famiglie, anche voi siete parte del popolo di Dio. Camminate con gioia insieme a questo popolo. Rimanete sempre unite a Gesù e portatelo a tutti con la vostra testimonianza. Vi ringrazio di essere venute. Insieme, facciamo nostre le parole di san Pietro, che ci danno forza e ci daranno forza nei momenti difficili: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Con la grazia di Cristo, vivete la gioia della fede! Il Signore vi benedica e Maria, nostra Madre, vi custodisca e vi accompagni. Grazie!


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Il Papa: le famiglie che pregano insieme portano a tutti la gioia di Dio: SANTA MESSA PER LA GIORNATA DELLA FAMIGLIA, IN OCCASIONE DELL' ANNO DELLA FEDE OMELIA


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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Sagrato della Basilica Vaticana
Domenica, 27 ottobre 2013

Le Letture di questa domenica ci invitano a meditare su alcune caratteristiche fondamentali della famiglia cristiana.
1. La prima: la famiglia che prega. Il brano del Vangelo mette in evidenza due modi di pregare, uno falso – quello del fariseo – e l’altro autentico – quello del pubblicano. Il fariseo incarna un atteggiamento che non esprime il rendimento di grazie a Dio per i suoi benefici e la sua misericordia, ma piuttosto soddisfazione di sé. Il fariseo si sente giusto, si sente a posto, si pavoneggia di questo e giudica gli altri dall’alto del suo piedestallo. Il pubblicano, al contrario, non moltiplica le parole. La sua preghiera è umile, sobria, pervasa dalla consapevolezza della propria indegnità, delle proprie miserie: quest’uomo davvero si riconosce bisognoso del perdono di Dio, della misericordia di Dio.
Quella del pubblicano è la preghiera del povero, è la preghiera gradita a Dio che, come dice la prima Lettura, «arriva fino alle nubi» (Sir 35,20), mentre quella del fariseo è appesantita dalla zavorra della vanità.
Alla luce di questa Parola, vorrei chiedere a voi, care famiglie: pregate qualche volta in famiglia? Qualcuno sì, lo so. Ma tanti mi dicono: ma come si fa? Ma, si fa come il pubblicano, è chiaro: umilmente, davanti a Dio. Ognuno con umiltà si lascia guardare dal Signore e chiede la sua bontà, che venga a noi. Ma, in famiglia, come si fa? Perché sembra che la preghiera è sia una cosa personale, e poi non c’è mai un momento adatto, tranquillo, in famiglia … Sì, è vero, ma è anche questione di umiltà, di riconoscere che abbiamo bisogno di Dio, come il pubblicano! E tutte le famiglie, abbiamo bisogno di Dio: tutti, tutti! Bisogno del suo aiuto, della sua forza, della sua benedizione, della sua misericordia, del suo perdono. E ci vuole semplicità: per pregare in famiglia, ci vuole semplicità! Pregare insieme il “Padre nostro”, intorno alla tavola, non è una cosa straordinaria: è facile. E pregare insieme il Rosario, in famiglia, è molto bello, dà tanta forza! E anche pregare l’uno per l’altro: il marito per la moglie, la moglie per il marito, ambedue per i figli, i figli per i genitori, per i nonni … Pregare l’uno per l’altro. Questo è pregare in famiglia, e questo fa forte la famiglia: la preghiera.
2. La seconda Lettura ci suggerisce un altro spunto: la famiglia custodisce la fede. L’apostolo Paolo, al tramonto della sua vita, fa un bilancio fondamentale, e dice: «Ho conservato la fede» (2 Tm 4,7). Ma come l’ha conservata? Non in una cassaforte! Non l’ha nascosta sottoterra, come quel servo un po’ pigro. San Paolo paragona la sua vita a una battaglia e a una corsa. Ha conservato la fede perché non si è limitato a difenderla, ma l’ha annunciata, irradiata, l’ha portata lontano. Si è opposto decisamente a quanti volevano conservare, “imbalsamare” il messaggio di Cristo nei confini della Palestina. Per questo ha fatto scelte coraggiose, è andato in territori ostili, si è lasciato provocare dai lontani, da culture diverse, ha parlato francamente senza paura. San Paolo ha conservato la fede perché, come l’aveva ricevuta, l’ha donata, spingendosi nelle periferie, senza arroccarsi su posizioni difensive.
Anche qui, possiamo chiedere: in che modo noi, in famiglia, custodiamo la nostra fede? La teniamo per noi, nella nostra famiglia, come un bene privato, come un conto in banca, o sappiamo condividerla con la testimonianza, con l’accoglienza, con l’apertura agli altri? Tutti sappiamo che le famiglie, specialmente quelle giovani, sono spesso “di corsa”, molto affaccendate; ma qualche volta ci pensate che questa “corsa” può essere anche la corsa della fede? Le famiglie cristiane sono famiglie missionarie. Ma, ieri abbiamo sentito, qui in piazza, la testimonianza di famiglie missionarie. Sono missionarie anche nella vita di ogni giorno, facendo le cose di tutti i giorni, mettendo in tutto il sale e il lievito della fede! Conservare la fede in famiglia e mettere il sale e il lievito della fede nelle cose di tutti i giorni.
3. E un ultimo aspetto ricaviamo dalla Parola di Dio: la famiglia che vive la gioia. Nel Salmo responsoriale si trova questa espressione: «i poveri ascoltino e si rallegrino» (33/34,3). Tutto questo Salmo è un inno al Signore, sorgente di gioia e di pace. E qual è il motivo di questo rallegrarsi? E’ questo: il Signore è vicino, ascolta il grido degli umili e li libera dal male. Lo scriveva ancora san Paolo: «Siate sempre lieti … il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Eh … a me piacerebbe fare una domanda, oggi. Ma, ognuno la porta nel suo cuore, a casa sua, eh?, come un compito da fare. E si risponde da solo. Come va la gioia, a casa tua? Come va la gioia nella tua famiglia? Eh,date voi la risposta.
Care famiglie, voi lo sapete bene: la gioia vera che si gusta nella famiglia non è qualcosa di superficiale, non viene dalle cose, dalle circostanze favorevoli… La gioia vera viene da un’armonia profonda tra le persone, che tutti sentono nel cuore, e che ci fa sentire la bellezza di essere insieme, di sostenerci a vicenda nel cammino della vita. Ma alla base di questo sentimento di gioia profonda c’è la presenza di Dio, la presenza di Dio nella famiglia, c’è il suo amore accogliente, misericordioso, rispettoso verso tutti. E soprattutto, un amore paziente: la pazienza è una virtù di Dio e ci insegna, in famiglia, ad avere questo amore paziente, l’uno con l’altro. Avere pazienza tra di noi. Amore paziente.  Solo Dio sa creare l’armonia delle differenze. Se manca l’amore di Dio, anche la famiglia perde l’armonia, prevalgono gli individualismi, e si spegne la gioia. Invece la famiglia che vive la gioia della fede la comunica spontaneamente, è sale della terra e luce del mondo, è lievito per tutta la società.
Care famiglie, vivete sempre con fede e semplicità, come la santa Famiglia di Nazaret. La gioia e la pace del Signore siano sempre con voi!

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