martedì 1 ottobre 2013

Il nostro compito nella crisi

C’è un test inesorabile delle azioni che si compiono: le conseguenze. Non si può vivere di calcoli, ovvio. Ma a volte gli effetti negativi di certe scelte sono così chiari, e netti, e prevedibili anche prima, che dovrebbero mostrarne di colpo l’irragionevolezza, e suggerire di battere altre strade.

È anche per questo che lascia stupiti e addolorati la leggerezza con cui il Pdl, uno dei pilastri del governo di larghe intese e dell’intera politica italiana, si sta avventurando nel tunnel di una crisi. Si reclama giustizia per Silvio Berlusconi, si parla di «eversione» e di «lesione della democrazia», si scambiano accuse con gli alleati-avversari del Pd, ma si fa tutto questo evitando di fare i conti davvero con una domanda capitale: e dopo?

Eppure non ci vuole molta fantasia per vedere il dopo. Nuove elezioni, con una legge elettorale che sembra fatta apposta per impedire di governare. O una nuova, imprevedibile maggioranza, messa insieme in qualche modo dagli sforzi di Giorgio Napolitano ma sicuramente più debole di quella che c'era. Oppure, alla peggio, le dimissioni di Napolitano stesso e l’avvitamento totale del sistema nel buio. Il tutto senza evitare il tramonto della stagione di Berlusconi, qualsiasi sia il giudizio che se ne dà, e anzi avviandola verso la fine peggiore che si possa immaginare. Perché lascerebbe solo macerie. Anni di sacrifici e sforzi buttati via. La crisi che torna a picchiare durissimo sui mercati e nelle case degli italiani. E il riaccendersi di colpo di un clima da "tutti contro tutti" che non può rallegrare nessuno, perché semina dolore e fatiche ovunque.

Ecco, basterebbe questo, per giudicare dell'irragionevolezza di quello che sta accadendo e della debolezza di una posizione puramente reattiva che per difendere un proprio tornaconto, prescinde da tutto e mette a repentaglio il bene di tutti. Però accade. E lascia senza fiato, perché sembra di dovervi assistere impotenti. Che cosa possiamo fare noi per evitarlo? Che cosa posso fare io?

Si parla e scrive molto in queste ore – a ragione – di «irresponsabilità». Come se le cose si potessero decidere o fare senzarispondere a chi, in qualche modo, ti ha affidato le sue speranze, le attese, i bisogni. In chi si fida di te perché tu faccia le scelte che servono per affrontare i problemi di un popolo, perché la politica è questo. Governare è questo.

Non sappiamo che cosa succederà al governo e al Parlamento, se ci sarà un sussulto di ragionevolezza o se il Paese dovrà scontare fino in fondo l'ennesima tempesta. Però possiamo scoprire che cosa spetta a noi, a ognuno di noi. Rispondere al nostro compito, là dove siamo. Prendere sul serio la responsabilità di quello che abbiamo per le mani. Sul lavoro - o sulla ricerca del lavoro -, a casa, nell'educare i figli. Rispondere a quello che c'è. Sembra poco, ma è tutto. Perché passa tutto da lì. Anche la speranza passa da lì. L'unica, vera Speranza entra nel mondo bussando lì: nelle nostre vite, nelle nostre fatiche, nella nostra giornata.

Questa situazione interroga tutti. Ma a noi cristiani pone una domanda in più: che aiuto può dare la fede per affrontarla? Come può aiutarci a leggerla, a giudicarla, a viverla? Insomma, che contributo possiamo dare noi ai nostri fratelli uomini, anche in una circostanza di questo tipo? Dobbiamo rassegnarci ad essere in balìa degli eventi, schieramento tra gli schieramenti che si rimescolano in un gioco di poteri sempre più sterile, o abbiamo qualcosa di nuovo da offrire?

È una domanda aperta da tempo, perché la realtà degli ultimi mesi ci sta obbligando a farci i conti. Ma adesso è ancora più acuta, drammatica. Facciamo più fatica a ridurne la portata. E forse per certi versi è un bene, anche se suona strano dirlo: non ci può bastare parlare del cristianesimo, appellarci fatalisticamente a una fede astratta, che non incida sugli interessi e i problemi della vita. Possiamo solo vedere, strada facendo, se è qualcosa di reale, che regge agli urti delle tempeste.

Saranno una prova per tutti, questi giorni. Per chi è in Parlamento o sugli scranni del governo, ed è impegnato a cercare vie d’uscita a questa impasse, e per noi, per chiunque di noi, ovunque siamo. E la sfida è identica. Potremo vedere tutti se quello che diciamo e facciamo nasce soltanto da una reazione verso qualcuno («i politici», «loro», «gli altri…») o avrà dentro qualcosa di nuovo. Una prospettiva per cui il bene comune torni davvero a contare più dell’interesse personale. O per cui, come diceva don Giussani, in virtù dell’esperienza che si vive, si possa «guardare con simpatia» l’altro anche se «antipatico» - anche se lontano -, perché solo questo «introduce qualcosa di nuovo nel mondo» e permette di generare, di tornare a costruire. Non basta parlarne, appunto. Ma se lo vedremo accadere in noi, potremo offrirlo a tutti. Pure in questo tempo di crisi. Soprattutto in questo tempo di crisi.

http://www.tracce.it/default.asp?id=376&Pagina=1&id_n=37076

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