giovedì 23 agosto 2012

«Dal Meeting voglio l’Infinito»

Intervista al successore di don Giussani: «Viviamo il titolo di quest’anno come autocoscienza, non come slogan. Il Papa ci ha fatto capire l’alternativa tra una realtà vissuta come disturbo e una percepita come compimento della nostra vocazione» di Giacomo Moccetti Ieri non è stato solo il giorno dell’incontro sul titolo del Meeting tenuto da Javier Prades Lopez. È stato anche il giorno della visita a Rimini di Julián Carrón, presidente della fraternità di Comunione e Liberazione, che il “Quotidiano Meeting” ha intercettato per realizzare l’intervista che state leggendo. Giunto in fiera al mattino e accompagnato dal presidente della fondazione Meeting Emilia Guarnieri, Carrón ha fatto un giro per i padiglioni e gli stand, come accaduto nella scorsa edizione. Le mostre (Koyasan, Dostoevskij, giovani rock), il pranzo con i responsabili del Meeting, l’incontro delle 17, quello sul titolo della manifestazione tenuto da Javier Prades, amico di una vita e docente (come lo era Carrón prima di essere chiamato in Italia da don Luigi Giussani) all’Istituto teologico San Damaso. Per il leader di Cl, una giornata di Meeting come uno delle migliaia di visitatori. Prima tappa alla mostra sul Koyasan, «la montagna sacra del Buddhismo Shingon Mikkyo che don Giussani ha tanto amato». Qui ha avuto una guida di eccezione, lo stesso Shodo Habukawa, abate del Muryoko-in Temple, che ha ricordato la feconda amicizia con don Giussani. Un blitz alla mostra sui giovani, “L’imprevedibile istante”, inaugurata tre giorni fa dal presidente del Consiglio Mario Monti, prima di concedersi ai microfoni del Tg Meeting, ai quali Carrón ha detto tra l’altro di essere colpito, in riferimento a questi giorni, da una cosa: «che il messaggio che il Meeting ha posto al centro della sua preoccupazione comincia a diventare per tutti. Gli altri cominciano ad accorgersi che questa non è una questione spiritualistica per gli “addetti ai lavori” o le persone pie, ma è una questione decisiva per l’uomo, per ogni uomo che desidera vivere il reale». Alla Taberna Spagnola l’incontro con Sua Eminenza il cardinale Antonio Rouco Varela, arcivescovo di Madrid, la città in cui Carrón ha insegnato teologia e sacre scritture per tanti anni. Il “Quotidiano Meeting” lo ha incontrato prima dell’incontro di don Prades. Don Julián, che cosa le sta maggiormente a cuore venga trasmesso attraverso questo Meeting? «Quello che voglio venga capito è il titolo, non come slogan ma dal punto di vista esistenziale. Che cosa vuole dire nello svegliarsi, nel lavorare, nello studiare che la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito. Non come parola d’ordine, ma come autocoscienza da avere». Come si può evitare il rischio che parlare dell’infinito diventi un’astrazione, come qualcuno ha sostenuto in questi giorni? «Questo rischio si evita con la realtà: attraverso tutte le attività che facciamo al Meeting viene fuori che non è un’astrazione, ma una cosa concretissima che riguarda il modo in cui ognuno si rapporta al reale: dalla morosa ai soldi, dal lavoro al riposo. Se non capiamo che il senso religioso c’entra con tutto, riduciamo la religiosità a un mondo virtuale che non c’entra nulla con il reale, e allora poi ci dicono che non è concreto. Ma è la cosa più concreta che ci sia!». Che cosa ha significato per lei, personalmente, la lettera autografa che Benedetto XVI ha mandato al Meeting? Che cosa ha provato quando l’ha letta? «Una consolazione indicibile. Perché è come riconoscere ancora una volta qual è la mia natura di uomo: che io sono fatto per l’infinito e che quindi, se non c’è questa apertura in qualsiasi attività, io soffoco. Nel messaggio che ho mandato ai volontari che lavorano al Meeting, immedesimandomi in loro mi è venuto da pensare che sollievo sarebbe vivere ogni aspetto con questo orizzonte d’infinito. È come se uno vivesse l’alternativa tra un nascondiglio, dove si dimena, e un panorama di montagna con un’apertura totale: tutti sappiamo che cosa vuol dire questa differenza, non è astratto». E quali indicazioni sente per sé e per il movimento in questa lettera? «A ciascuno di noi la lettera di Benedetto XVI offre ogni circostanza come occasione per questa apertura, e uno può pulire il Meeting come la mamma pulisce il bambino; può essere chiuso rispetto a quello che fa o può essere lì con questa consapevolezza di apertura all’infinito. È quello che Giussani chiamava vivere la vita come vocazione. Attraverso ogni particolare ciascuno di noi è chiamato a questa apertura. Come quando sei chiamato dalla tua morosa, e questo ti apre a un mondo dove il tuo “io” si compie. Tu puoi vivere questa chiamata come un disturbo da cui difenderti, oppure percepirla come l’occasione del tuo compimento, e allora pensi: “Meno male che ci sei!”». Il Meeting di quest’anno ha luogo in un momento particolare, anche dopo la lettera che lei ha scritto a “Repubblica” lo scorso 1° maggio. Una lettera che ha segnato una svolta storica per il Movimento. Alla luce delle conseguenze che ha avuto, la scriverebbe ancora? «Sì. La mia lettera è una chiamata a vivere in questa prospettiva che ci siamo detti. Il Papa ha usato una sua modalità di dirci quello che intendevo: non soccombere ai “falsi infiniti” che ci imprigionano e non ci fanno respirare. La mia lettera era un grido a liberarci da questi “falsi infiniti” per vivere con tutto il respiro per cui siamo stati fatti. E che nessun male può cancellare». mercoledì 22 agosto 2012

domenica 19 agosto 2012

MEETING 2012/ Il saluto di don Julián Carrón agli organizzatori e ai partecipanti

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Il saluto di don Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, agli organizzatori e ai partecipanti del Meeting per l'Amicizia fra i popoli che apre oggi a Rimini la sua XXXIII edizione. Cari amici, che conforto mi ha invaso questa mattina, pensando a ciascuno di voi impegnati nella frenetica attività del Meeting, nel leggere il commovente messaggio autografo del Papa! Benedetto XVI ha compiuto ancora una volta un gesto pieno di tenerezza nei nostri confronti, indicandoci il punto fondamentale a cui guardare per non perdere la bussola in questa settimana piena di impegni: siamo «fatti per l’infinito». Avete in esso il calore e la luce per affrontarli. Che gratitudine sconfinata potersi guardare ogni mattina con la consapevolezza che «la grandezza e la dignità suprema dell’uomo» consistono nel rapporto con l’infinito, che quella sete che investe «ogni fibra della mia carne» e che nessun peccato può eliminare trova risposta nella «gioiosa scoperta di essere figli di Dio»! Solo con questa autocoscienza possiamo vivere «la vita come vocazione». E tutte le sfide che dovremo affrontare lungo le giornate (dal caldo del parcheggio o in cucina all’umile impegno delle pulizie fino a quelle più appariscenti sul palco) ci sono date proprio per incrementare questa autocoscienza. «Nulla allora è banale o insignificante nel cammino della vita e del mondo», ci ha ricordato il Papa. Anzi, «ogni cosa, ogni rapporto, ogni gioia, come anche ogni difficoltà, trova la sua ragione ultima nell’essere occasione di rapporto con l’Infinito, voce di Dio che continuamente ci chiama e ci invita ad alzare lo sguardo, a scoprire nell’adesione a Lui la realizzazione piena della nostra umanità». Mostriamoci amici gli uni agli altri, sostenendoci in questo cammino di purificazione da qualsiasi «falso infinito», per poter testimoniare a tutti quanti ci incontreranno durante questa settimana che cosa rende «la vita veramente libera e piena», che «il punto fondamentale, quindi, non è eliminare la dipendenza, che è costitutiva dell’uomo, ma indirizzarla verso Colui che solo può rendere veramente liberi». Grato della testimonianza che mi date con il vostro sacrificio per gridare a tutti la speranza che portiamo nella nostra fragilità, vi auguro un felice Meeting. Vostro Julián Carrón 19 agosto 2012

sabato 18 agosto 2012

MEETING/ Una natura senza pace

Il Meeting è un dito. Il Meeting da oltre trent’anni punta al cuore del nostro tempo. Lo legge senza perdere il segno, nessun segno. Il Meeting non è un’idea. È un dito fatto di migliaia di persone diverse, di esperienze, di opere, di sensibilità molto varie. Punta a toccare un nodo della nostra epoca, cioè della nostra vita. Lo fa non solo con le parole, ma con esperienze, fatti. E il dito-Meeting 2102 ha puntato su una questione scomoda per gli intelligenti di oggi. Siamo fatti per l’infinito. E senza infinito i conti non tornano. La nostra natura umana lo desidera. Non lo dicono quasi mai i giornali, i professori, anzi spesso lo negano. Ma la nostra natura, cellule e pensiero, e gusto, il nostro amore, il respiro, sesso, cervello, il nostro io, desidera l’infinito. È il vero grande tremendo spettacolo dell’umano. Non ne parlano ma è così chiaro. E poiché non è possibile desiderare qualcosa se non la si conosce almeno un poco, vediamo come la vita smania e si protende, come brama a ri-conoscere il sapore dell’infinito che abbiamo toccato una volta o mille negli occhi di nostro figlio, o di lei, o in una toccata di Bach, in un grido rock, in una fusione dei corpi, in un gesto di gratuità assoluta, in una avventura della mente che scopre e procede. Abbiamo conosciuto ciò che non ha misura, che non si può valutare, che non ha prezzo. Perciò lo desideriamo. Comunque e ovunque. Il dito del Meeting sottolinea: vorrebbero farcelo dimenticare, ma noi siamo fatti così. È il grande nodo culturale di un’epoca che subisce modelli di umanità “calcolabile”, componibile da pezzi “finiti” di cellule, di reazioni, di soldi, o dalla de-finizione di diritti. Come se la nostra natura potesse finalmente trovare pace in qualcosa che ci possiamo dare da soli, finito come noi: una carriera, una lotta politica, uno stile di vita, una coppia, un bene rifugio, una scelta. Ma l’abisso invoca l’abisso, scrive la Bibbia. La natura umana è un abisso senza fondo, senza coperchio. Nulla se non un abisso può corrisponderle. Non lo dicono i professori, i direttori di giornale. Non ce lo diciamo tra di noi, quasi mai. Lo fanno a volte gli innamorati (a voi, amanti, chiediamo di noi –diceva Rilke) lo fanno quasi sempre i poeti e i veri geniacci. Lo fanno sempre i santi, noti e oscuri. Nell’epoca che viviamo quando si parla di infinito, lo si fa in modo astratto. Come se fosse un sogno. Un’illusione. Una proiezione della mente, un gioco di specchi. Quando pure si ammette che l’uomo è fatto per l’infinito, è come se si dicesse: per una illusione. Una congettura. Lo urlava Pasolini, che leggeva Eliade, ma lo diceva ben prima Péguy: male della nostra epoca è l’astrazione. Han reso astratto l’infinito, hanno reso astratto un’illusione. Accade per qualsiasi organismo o dispositivo: se ne ignori il senso, la destinazione, non ne comprendi la natura e le reali necessità. Se non conoscessi una bottiglia, il cavatappi risulterebbe largamente incomprensibile... Si pensa dunque che la fama, lo scientismo, il sesso, la bontà, giovinezza, il sistema dell’arte, il valore delle istituzioni, i valori condivisi –tutte malacopie, maschere, “scimmie” dell’infinito − bastino alla vita di un uomo. I soloni di oggi negano l’esistenza dell’originale e stupiscono poi che tutti, giovani e vecchi, ci si butti addosso con voracità sgarbata e furiosa a quelle malacopie. Segni baciati da ciechi. In tale contesto un’esperienza religiosa che riduca l’infinito a sogno disincarnato, è la migliore alleata dell’ateismo idiota. Il dito-Meeting – che a differenza d’altre dita non sceglie il gesto banale dell’intolleranza rabbiosa − indica che l’infinito non è un gioco di specchi. È un fattore operante, la cosa più concreta che ci sia in momenti della vita di tanti. Anche di chi non lo chiama Dio, ma in nome di una infinita gratuità, o di un incalcolabile valore intende e spende la vita. Per questo intorno all’infinito si può costruire la convivenza, come ha fatto l’uomo di ogni epoca eccetto la nostra slabbratissima allorché nella piazza della città sorgeva il segno del rapporto con l’infinito (fosse tempio o cattedrale o luogo del sacro), in faccia e in collegamento ai luoghi della politica e degli affari Davide Rondoni sabato 18 agosto 2012 w.ilsussidiario.net

domenica 5 agosto 2012

“La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”

“La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”, questo è il tema della XXXIII edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli che si apre il prossimo 19 agosto a Rimini. È un’affermazione di don Luigi Giussani, che certamente non può essere ridotta alla banale constatazione che nell’uomo c’è l’esigenza di un progresso all’infinito, affermazione che certamente troverebbe un consenso più ampio. Si tratta, invece, del riconoscimento di una drammatica verità: l’uomo è costituito dal rapporto con l’infinito, una realtà che può abbracciare e amare come fonte del proprio essere, oppure bestemmiare come faceva il Capaneo dantesco, questo gigante incatenato nell’inferno. Una realtà che comunque non può fare a meno di desiderare. L’uomo è costituito dal desiderio di Dio. Questa è la convinzione della coscienza cristiana fondata sulla rivelazione e sull’esperienza umana. Questo desiderio è la firma dell’autore nella natura umana, l’impronta del Creatore, il principio della grandezza di questa creatura rispetto a tutte le altre. Si tratta dell’esigenza di “ciò che vale e permane sempre”, come ci ricorda la Lettera Apostolica con la quale Benedetto XVI ha indetto l’Anno della Fede (Porta Fidei, n. 10). Uno scrittore siciliano, Gesualdo Bufalino, in una sorta di autobiografia romanzata, che ha pubblicato sotto il titolo di Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, fa gridare ad uno dei suoi personaggi, un certo Iaccarino, in un momento di verità che il vino aveva favorito, come suonando “verso i quattro canti del cielo il suo debole corno di postiglione”, in una sorta di dialogo con Dio nel quale “supplicava e sacramentava”: “Ehi tu, t’ho visto, non fare il furbo, non fingere di non esistere!, Dio esisti, ti prego! Esisti, te lo ordino!”. Anche se fino alla fine si è dichiarato agnostico, questa esigenza che Dio ci sia, è quella che egli ha affermato in ogni sua opera, insieme al desiderio di conoscerne il volto. Questa ineludibile necessità che “costringe” l’uomo a stare dentro il rapporto con l’infinito è documentata anche dalla forma particolare che ha assunto l’ateismo moderno. Esso – ha scritto il Papa nella Spe salvi – è caratterizzato dalla “protesta contro Dio”. Una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale: “Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. È in nome della morale che bisogna contestare questo Dio” (Spe salvi, n. 42). Anche quando l’uomo contesta Dio, dunque, esprime quella inestirpabile esigenza di verità e di giustizia che nasce dall’essere fatto per Lui. È la stessa esigenza che porta a riconoscere come nell’annuncio cristiano del Verbo fatto carne si realizza in modo impensabile e gratuito quello che nella coscienza dell’uomo emerge talora come presentimento o profezia. Cristo morto risorto conclama che tutto nella storia è redimibile, che non si perde nulla nel vortice degli eventi, che si può vivere, pertanto, senza nulla dimenticare e rinnegare. In occasione della sua recente visita pastorale alla città di Milano, Benedetto XVI, dopo il grandioso concerto della IX Sinfonia di Beethoven, si è rivolto al pubblico e, facendo riferimento al terremoto che aveva distrutto tanti paesi dell’Italia centrale, ha audacemente corretto le parole dell’“Inno alla gioia” di Schiller: “Non proviamo affatto le scintille divine dell’Elisio. Non siamo ebbri di fuoco, ma piuttosto paralizzati dal dolore per così tanta e incomprensibile distruzione che è costata vite umane, che ha tolto casa e dimora a tanti. Anche l’ipotesi che sopra il cielo stellato deve abitare un buon padre, ci pare discutibile. Il buon padre è solo sopra il cielo stellato? La sua bontà non arriva giù fino a noi? Noi cerchiamo un Dio che non troneggia a distanza, ma entra nella nostra vita e nella nostra sofferenza”. Solo nel volto di Gesù crocifisso si manifesta, infatti, in modo accettabile il destino dell’uomo e della storia. La ragione che ha portato Benedetto XVI ad indire un “Anno della Fede” è quella dichiarata all’inizio del suo ministero come Successore di Pietro, cioè “mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo” (Porta Fidei, n. 2). Sapranno i cristiani essere oggi il luogo in cui splende la gioia e il rinnovarsi dell’entusiasmo di questo incontro in cui soltanto è possibile all’uomo sostenere il rapporto con l’infinito? È la sfida del Meeting di Rimini! Esso si lega così alle intenzioni profonde di questo pontificato. EDITORIALE SU "L'OSSERVATORE ROMANO" SUL TEMA DEL MEETING DI RIMINI E SULLE RAGIONI DELL'ANNO DELLA FEDE Francesco Ventorino

venerdì 3 agosto 2012

I SANTI NECESSARI- Uomini all'altezza dei desideri

LA NATURA DELL’UOMO È RAPPORTO CON L’INFINITO
La natura sta ad indicare ciò per cui un essere è nato, il suo destino. E la sua grandezza. Nonostante l’innegabile fragilità, l’uomo svetta perché la sua natura è definita dal rapporto con l’infinito; come risulta dall’esperienza struggente del desiderio umano, da quell’intima ins...aziabilità che lo rinvia di cosa in cosa nella speranza di una soddisfazione totale, orizzonte irraggiungibile e tuttavia incapace di tramontare. Nel Convivio, dove si misurava per la prima volta con i grandi plessi concettuali della filosofia, Dante aveva espresso così questa dialettica inarrestabile del desiderio: «Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare un augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose [l’anima] trova quella che va cercando, e credela trovare più oltre». Ma quell’oltre, l’«ultimo desiderabile» è solo Dio. Mille testimonianze si potrebbero ancora addurre per documentare la tensione all’infinito che costituisce la struttura del cuore umano. Ma per ciascuno di noi, la prova più convincente si trova “dentro”, nell’esperienza della tristezza. Anche la più grande gioia ne è improvvisamente sorpresa. Eppure, la tristezza può rilanciare la ricerca; così come può, al contrario, consigliare una rassegnazione disperata. Tutto dipende dal credito che si dà alla promessa implicata nel nostro stesso desiderio. Non può essere un desiderio inutile quello che ci costituisce, saremmo inutili noi stessi, “di troppo”, come qualcuno ha detto, ma allora non si spiegherebbe il fatto che esistiamo. La disperazione è la conclusione più irragionevole cui possiamo pervenire. Ma non è a furia di ragionare che se ne esce, e anche di questo abbiamo amara esperienza. Per quanto l’uomo voglia permanere sulla soglia vertiginosa dell’infinito, non riesce a sottrarsi alla tentazione dell’idolatria, cioè della soddisfazione “realisticamente” possibile. A meno che non abbia la fortuna di un incontro che lo confermi nella promessa originaria e nella speranza; quella di poter vivere sempre all’altezza dei propri desideri. Il cuore dell’uomo è fatto di esigenze fondamentali o ideali – diceva don Giussani ‒ ed è spinto verso il futuro nella direzione impressa da queste esigenze e dal desiderio che esse si compiano. Quando questo desiderio diventa certezza? C’è una promessa costitutiva del desiderio stesso; ma la certezza del suo compimento si acquista “fermamente” quando si riconosce la presenza nella storia di Cristo Risorto. Le esigenze del cuore dicono, infatti, che l’oggetto c’è. E che non può rimanere indisponibile. L’uomo dunque è destinato ad essere felice, giusto e vero. E tuttavia, la certezza che questo accadrà non può essere sostenuta dal nostro cuore, può derivare soltanto da quella Presenza che la fede riconosce. Solo una simile Presenza può dar ragione di una certezza nel futuro. Perciò «la dinamica della speranza è un desiderio che non potrebbe resistere nel tempo, sarebbe sempre amaramente deluso, se non fosse sorretto, retto come ragione dalla fede, dalla certezza nel potere della grande Presenza». Per don Giussani, il punto di partenza non è stato mai un appello al “senso religioso”, all’aspirazione all’infinito; ma il riconoscimento della grazia dell’incontro cristiano, nel quale il senso religioso dell’uomo trova risposta gratuita e alimento perenne. “Non si può parlare della vita umana in modo così pieno di pace e di esaltazione, pieno di certezza, di speranza e di gratuità, se non essendo stati investiti dall’avvenimento da cui siamo stati investiti, se non per la grazia dell’incontro con la presenza di Cristo”. La conclusione che egli traeva era la necessità dei santi: uomini all’altezza dei desideri umani. Esistono anche oggi, i santi. La forza del Meeting di Rimini è tutta nella documentazione di un fatto attuale, la presenza della santità nel cristianesimo. EDITORIALE DI "TEMPI" NUMERO SPECIALE PER IL MEETING DI RIMINI di Francesco Ventorini