lunedì 30 novembre 2009

Il genio femminile e il suo irrinunciabile apporto alla vita della società di oggi: libertà, semplicità, creatività.Intervista al card. Scola



In occasione dell’uscita del libro “Maria, la donna. I misteri della sua vita” (pp. 118, Cantagalli Editore, 2009), la scrittrice e giornalista Alessandra Borghese ha realizzato un’intervista al card. Scola pubblicata sui quotidiani La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno.Il Patriarca spiega perché dedicare un libro a “Maria, la donna”

Tra le sue numerose pubblicazioni ve ne sono alcune di carattere più strettamente teologico e altre più divulgative, in che modo definirebbe questo suo ultimo libro edito da Cantagalli, intitolato “Maria, la donna: i misteri della sua vita”?

Il libro vuole offrire degli spunti di riflessione, un aiuto a contemplare le più importanti tappe della vita di quella che è forse la donna più conosciuta e venerata del mondo (non dimentichiamo che il culto della Madre di Cristo, più che millenario, non appartiene solo al cristianesimo, ma anche ai diversi islam), con la sorpresa di scoprire in lei i tratti più originali e profondi della femminilità. Mi sembra un testo alla portata di tutti.

Da dove è nata questa sua esigenza di dedicare un libro alla figura di Maria?

Avevo circa trent’anni quando un grande sacerdote mi insegnò ad affidare alla Madonna, con un’Ave Maria ogni sera prima di dormire, la vita. Per imparare a viverla come una relazione personale con Dio e nello stesso tempo per essere fedele al celibato cui sono stato chiamato. Ora lo raccomando sempre, soprattutto ai giovani. L’affidamento a Maria è un’autentica consolazione d’amore. Dopo ogni giornata è conforto e speranza. Mi è venuto il desiderio di dirlo a tutti, ed è nato questo libro.

Lei scrive: “Maria è il paradigma della donna: in lei il “genio femminile” ha trovato piena realizzazione”. Anche Giovanni Paolo II aveva affrontato questo argomento, in che cosa consiste per lei il “genio femminile” da un punto di vista teologico e sociale?

La donna, era solito ripetere il grande von Balthasar, è l’altro per eccellenza. In questo senso indica il cammino verso Dio. Qui sta il segreto della differenza sessuale, una dimensione insuperabile di ogni singola persona. Giovanni Paolo II parlando del “genio profetico della donna” ne cita due caratteri fondamentali: il primato dell’ordine dell’amore e lo speciale affidamento di ogni essere umano che Dio le fa.

Lei ha molte collaboratrici, le Memores Domini, del cui prezioso aiuto si avvale anche il Santo Padre. Che sostegno trova nell’affrontare e condividere con loro i problemi a cui è chiamato come Patriarca di Venezia?

Un grande sostegno alla mia persona e alla mia missione, sia per l’apporto della loro sensibilità femminile, sia per quello decisivo del carisma da cui sono generate. Sono la mia famiglia.

Quale è stato il rapporto con sua madre e quali altre donne hanno lasciato un segno e un ricordo nella sua vita?

Mia madre, con la sua fede granitica e la sua forte personalità, ha avuto per me un ruolo decisivo. Il rapporto con lei è stato a tratti drammatico, ma sempre molto costruttivo. Nella mia vita, poi, ho conosciuto e stretto amicizia con altre donne da cui continuo ad imparare molto.

Che cosa vuol dire secondo lei essere donna oggi? Ritiene che Maria possa essere ancora un esempio da seguire per le giovani donne delle nuove generazioni?

Il coraggio di non far mancare alla società del Terzo millennio, caratterizzata da rapidissime e spesso altrettanto dolorose trasformazioni, l’apporto oggi più che mai determinante del genio femminile: libertà, semplicità, creatività. Proprio in questo senso Maria di Nazareth è un punto di riferimento attualissimo, insostituibile. Il mio libro tenta di offrirne prove convincenti.

Nel suo libro presenta Maria non solo come la Santa Madre di Dio ma prima di tutto come una donna in carne e ossa la cui esperienza straordinaria è comunque vestita di umanità e quotidianità. Qual è il messaggio insito in questo mistero?

Lo stesso di tutti i fondamentali misteri del cristianesimo: vivere la fede in Cristo Signore significa vivere la pienezza dell’umano. La vita eterna non è un’astrazione ma già si anticipa come “centuplo quaggiù”. Maria ci mostra che conviene verificarlo di persona.
Essere madri oggi spaventa, è un compito impegnativo reso ancora più difficile dalla crisi attuale del concetto stesso di famiglia. Che esperienza ha avuto come sacerdote su questo fronte?

È un compito impegnativo, certo, ma esaltante. Nei miei quarant’anni di sacerdozio ne ho avuto tantissime prove. Per esempio incontrando molte madri che, nel silenzio e nella fedeltà, hanno vissuto per decenni una dedizione ai figli o al marito gravemente ammalati che ha dell’eroico. Davvero uno spettacolo di gratuità e di letizia nel dolore che, durante la Visita pastorale, mi si ripropone di continuo.
Stiamo vivendo da tempo ormai una fase di “emergenza educativa”, i giovani mancano di punti di riferimento chiari, di fiducia e spesso questo li porta a temere il futuro. Come si può affrontare con serenità questo problema?

Anzitutto riconoscendo che la prima emergenza è quella degli educatori, cioè dei padri e delle madri, degli insegnanti … insomma degli adulti. Si tratta di essere autentici con la propria vita: questa è la prima condizione per essere testimoni credibili e seguibili. Io ripeto sempre ai genitori che non si può essere padri e madri se non si è figli. Se non lo si è oggi, non solo se lo si è stati nel passato. Anche in questo Maria, la Vergine madre figlia del suo Figlio, ha molto da insegnarci.

Nel libro lei parla approfonditamente dell’importanza della relazione tra madre e figlio per la crescita del bambino e per la sua coscienza di sé e del mondo, in che modo questo rapporto d’amore dà inizio alla vita?

La relazione io-tu è all’origine di ogni persona. L’uomo non è una monade autosufficiente. Da un altro ha origine, di un altro ha bisogno per compiersi. Le più recenti ed autorevoli acquisizioni delle scienze umane ci dicono che lo sviluppo equilibrato e sereno di un bambino dipende anche dalla sua vita prenatale, addirittura da come è stato voluto, pensato, atteso prima del concepimento …I santuari mariani, penso soprattutto a Lourdes, sono sempre più affollati dai pellegrini, mentre spesso le chiese sono vuote. Come spiega questo slancio devozionale verso la Madonna, ancora così vivo malgrado tutto?

“Qualcuno, da qualche parte mi ama? Chi mi as-sicura?” Sono queste le domande più urgenti che albergano nel cuore di ogni uomo, credente o non credente. I milioni di pellegrini che affollano i santuari mariani, più o meno consapevolmente, sanno di poter trovare nella Madre la risposta ai loro più brucianti interrogativi. A lei affidano il fardello delle loro sofferenze e la speranza delle loro gioie, certi di essere ascoltati, fiduciosi nella sua intercessione, sicuri della sua misericordia.
In San Marco a Venezia è custodita un’immagine di Maria da sempre molto cara ai Patriarchi, in che modo si pone nei confronti di questa icona?

È l’antichissima icona della Nicopeia, parola greca che significa apportatrice di vittoria. Oggi più che mai abbiamo bisogno di Qualcuno che vinca il nostro male. Ai piedi della Nicopeia io pongo le domande di tutto il popolo a me affidato e quelle dei milioni di turisti che ogni anno, da ogni parte del mondo, vengono a Venezia, attirati dalla struggente, incantevole bellezza di questa che è una città dell’umanità. Un tesoro inestimabile, eppure fragilissimo, come il cuore dell’uomo del nostro tempo

giovedì 26 novembre 2009

Volantone Natale 2 0 0 9


La fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo? … perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere . Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l’uomo.
Joseph Ratzinger


Ora con questi muscoli che non tengono, con questa stanchezza, con questa facilità alla malinconia, con questo masochismo strano che la vita di oggi tende a favorire o con questa indifferenza e questo cinismo che la vita di oggi rende, come rimedio necessario per non subire una fatica eccessiva e non voluta, come si fa ad accettare sé e gli altri in nome di un discorso? Non si può rimanere nell’amore a se stessi senza che Cristo sia una presenza come è una presenza una madre per il bambino. Senza che Cristo sia una presenza ora – ora! – io non posso amarmi ora e non posso amare te ora.
Luigi Giussani



COMUNIONE E LIBERAZIONE

La fede, esperienza di una conoscenza




La frattura tra sapere e credere. Il rapporto tra la ragione e il dato. E un'evidenza imponente. Qualche giorno fa Marco Bersanelli è intervenuto alla Giornata di inizio anno di Madrid. Toccando un tema che ci riguarda tutti. Ecco il suo intervento

Marco Bersanelli.Questo tema della «divisione tra sapere e credere», che Nacho ha accennato, molti di voi l’hanno sentita quando Carrón l’ha menzionata agli Esercizi della Fraternità. Ed è interessante che questa formula «divisione fra il sapere e il credere» viene fuori da un dialogo tra alcuni dei più grandi scienziati del secolo scorso, un dialogo tra Heisenberg, Planck, Einstein e Pauli. Quattro dei più grandi uomini di scienza della storia. Heisenberg sintetizza così la questione, dice: «Le scienze naturali sono in un certo senso il modo con cui andiamo incontro al lato oggettivo della realtà. La fede religiosa, viceversa, è l’espressione di una decisione soggettiva, con la quale stabiliamo quali debbano essere i nostri valori di riferimento nella vita». Heisenberg subito aggiunge: «Devo ammettere che non mi trovo a mio agio con questa separazione, dubito che alla lunga delle comunità umane possano convivere con questa netta scissione tra sapere e credere». Quando Carrón ha citato questo episodio, mi ha colpito anche perché riguarda gente di scienza, ma soprattutto perché questa formula «separazione tra sapere e credere» dice bene di noi. Dice bene del nostro modo di sentire la realtà, di usare la nostra ragione. Sapere, perciò la conoscenza (si pensa) riguarda ciò che noi possiamo conoscere con il metodo scientifico. Quello che conosciamo è affidabile nella misura in cui il metodo con cui lo conosciamo si avvicina al metodo scientifico. La fede è invece, il regno, appunto, dei valori, di quello che il soggetto decide essere importante per sé in base a qualche sua opinione o sensibilità. Questa divisione non è solo una questione filosofica, riguarda il modo che noi abbiamo di trattare quello che abbiamo di più caro nella vita, cioè il modo in cui noi concepiamo e giudichiamo i rapporti ai quali siamo più legati: le persone a cui vogliamo bene, il lavoro, ciò che succede nel mondo, il giudizio su ciò che accade nella nostra vita. Riguarda anche il modo che noi abbiamo di trattare quell’incontro che, in qualche modo, ci fa essere qui oggi. Per molti di noi, per tutti noi in qualche modo, al di sopra di tutti gli interessi della vita, ci sta quell’incontro che ha reso grande la prospettiva della nostra esistenza. Ma questa separazione tra sapere e credere, questo indebolimento del nostro modo di conoscere ci mette in difficoltà anche con questo, con ciò che abbiamo di più caro nella nostra vita.

La prima cosa che vorrei dire, a questo riguardo, è che questa impostazione, per cui sapere e credere sono due mondi separati, non tiene. E non tiene neppure come descrizione della dinamica della ricerca scientifica. Anche nella scienza, per sapere, bisogna credere. Non basta raccogliere dei dati. Noi come prima cerchiamo di raccogliere dei dati della realtà, ma non basta registrare dei numeri, occorre dare un giudizio su ciò che questi numeri ci indicano. Il nostro satellite Planck, che Nacho prima menzionava, si trova adesso nel punto della sua orbita che era stato stabilito, a 1 milione e mezzo di km dalla terra, ed ogni secondo, ogni minuto che noi siamo qui a chiacchierare, invia verso la terra una grande quantità di dati, valanghe di dati che arrivano dallo spazio, che riguardano la intensità della luce primordiale del cosmo, che ci mostrano com’era l’universo appena nato, 14 miliardi di anni fa. Ma questi dati cosa sono per noi? Sono dei segni che indicano qualcosa in cui noi dobbiamo entrare, che dobbiamo leggere. Non c’è un automatismo fra dati e conoscenza. La conoscenza scientifica implica un soggetto umano che prende coscienza di un dato che ha davanti. Ci vuole un io che giudica. Anche quando un risultato è stato ottenuto, io devo crederlo.

Nel 1989 mi trovavo in Antartide, nel Polo sud, anche allora stavamo cercando di fare delle misure di questa luce primordiale, in un modo diverso da come li stiamo facendo adesso dallo spazio. Avevamo fatto delle osservazioni e raccolto dei dati, abbiamo fatto l’analisi di questi dati e il risultato che ci è venuto aveva un margine de incertezza molto piccolo. Questo era sorprendente perché ci aspettavamo un errore più grande. Quindi era una buona notizia, ma si trattava di capire se per caso non avessimo fatto qualche errore nella valutazione dell’incertezza. Abbiamo rifatto l’analisi in modi diversi e veniva fuori sempre questo risultato. Allora si trattava di decidere se eravamo pronti a pubblicare quello che avevamo trovato. Sono andato da George Smoot, il leader del nostro gruppo a Berkeley (un paio di anni fa vinse il Premio Nobel ed è venuto al Meeting di Rimini dove alcuni di voi l’hanno conosciuto). Gli ho mostrato l’analisi e gli ho detto: «Guarda, mi continua a venire questo risultato», e lui mi dice: «Adesso c’è una sola cosa che ti devi chiedere prima di pubblicare questi risultati: “Do you believe it?” Ci credi?». Perché nel nostro metodo noi continuamente sottomettiamo la ragione al dato, a quello che abbiamo davanti, ma alla fine sei tu che devi dire che cosa significa quel dato, c’è un uomo che deve dire questo. Il grande fisico, chimico e filosofo Michael Polanyi scrive: «Qualunque tentativo di rendere conto della scienza che non la descriva esplicitamente come qualcosa in cui crediamo è incompleto ed è una falsa pretesa. Sarebbe equivalente a pretendere che la scienza sia essenzialmente diversa da tutte le altre conoscenze umane e che sia superiore ad esse, e questo è falso. Le conoscenze scientifiche si pongono con validità universale per loro propria natura. Perciò, si devono adottare con la dovuta considerazione delle prove sperimentali, ma in fin dei conti, esse sono adesioni ultime sottoposte al nostro personale giudizio. Ad un certo punto a tutti gli scrupoli ulteriori dobbiamo rispondere, in ultima analisi, «perché credo che è così».

Quello che volevo dire quindi come prima cosa è che la conoscenza, anche la conoscenza scientifica, è un atto dell’io, è un atto della persona, è un incontro tra un soggetto e l’oggetto.
Questo è vero per la conoscenza scientifica, ed è vero a maggior ragione, o è vero allo stesso modo, per ogni conoscenza umana. È evidente che la scienza è un metodo di conoscenza potente, nel suo campo di azione, è «un grande dono che non comprendiamo né meritiamo - diceva Paul Wigner - il fatto che noi possiamo conoscere attraverso la scienza». Ma la scienza da sola, non è in grado di dire niente a riguardo e ciò che più attiene all’umano, è muta riguardo al senso ultimo, al destino, né può dire niente sul valore della singola persona. Di fatto uno può vivere benissimo senza aver studiato la scienza. Mia madre non ha studiato la scienza e può vivere benissimo, ma non si può vivere con la statura della vocazione dell’uomo senza cercare il senso della vita.

In questa mentalità per cui sapere e credere, conoscenza e fede, sono divise, separate, il credere è ridotto ad un atto irrazionale. A un puro sentimento, a uno sforzo di volontà, a un autoconvincimento riguardo a qualcosa. L’evidenza più chiara di questo è che spesso si parla di «credere» senza neanche domandarsi «a che cosa» si crede. In campo religioso si dice «sono credente», ma resta un modo di dire. Io me ne sono reso conto recentemente in una sessione di lavoro sul satellite Planck. Un mio collega, che aveva saputo qualcosa di me, ma mi conosce poco, superficialmente, si avvicina e mi dice: «Ma è vero che tu credi?». Sono rimasto un attimo sorpreso, e gli ho domandato: «A che cosa?». Allora lui era più sorpreso di me, e mi dice: «Sì, insomma, sei credente?». E io: «Credente in che?». Allora lui imbarazzatissimo dice la parola scandalosa: «Mah… in Dio?». E io gli dico: «Tu cosa intendi dire quando dici “Dio”?». A quel punto non sapeva più cosa dire, allora gli ho detto: «Pensaci e la prossima volta mi dici cosa volevi chiedermi». Cioè, si dice «credere» come se ciò in cui si crede non fosse reale. Se prima il rischio era affermare il dato senza il giudizio (pretesa del metodo scientifico di poter fare a meno del soggetto umano) qui è ancor peggio: si vuole «dare un giudizio senza il dato», si dice che si crede in qualche cosa, ma non si ha neanche la domanda di quale sia l’oggetto di questo credere. Prima dicevo che il dato senza il giudizio non è conoscenza (neanche in ambito scientifico). Adesso dico che c’è un modo di giudicare senza prendere in considerazione qual è il dato che si sta giudicando. È come uno che dice: «È una bella giornata, ma non ho neanche guardato fuori dalla finestra». Tra queste due posizioni, la seconda mi sembra quasi più assurda.

Ecco, quello che l’incontro con don Giussani ha introdotto nella mia vita è proprio questa evidenza, questa assoluta novità, sconvolgente novità. Cioè, che la fede appartiene alla categoria della conoscenza, non dell’irrazionale, e che la fede è un fattore decisivo del conoscere. L’inizio della fede è un fatto, qualcosa che io conosco nell’esperienza di un incontro. La fede è l’esperienza di una conoscenza. Giovanni e Andrea hanno fatto conoscenza con una persona che hanno visto davanti a loro, con una presenza eccezionale. Questo modo di accorgersi di quello che la fede è, cambia la vita.
La fede in questo senso, è il culmine della ragione, richiede tutto il nostro senso critico, tutta la nostra apertura razionale e affettiva, e questo è ciò a cui Carrón così insistentemente ci invita, ci sfida, con carità di padre. Perché non c’è carità più grande di quella di essere interpellati per poter entrare in rapporto con il nostro destino.

Voglio solo dire che per la mia esperienza conoscere vuol dire innanzitutto osservare qualcosa, raccogliere dei dati su una realtà fuori di noi, mettere alla prova un fenomeno o accogliere un dato imprevisto. A volte noi ci accorgiamo di cose che non cercavamo. Ciò che noi studiamo, il fondo cosmico di microonde, la luce che proviene dal fondo dell’universo, da oltre le galassie più distanti, è stata scoperta per caso. I due che l’avevano scoperta stavano cercando tutt’altro. A volte la realtà entra “a gamba tesa”, si fa vedere quando noi non la cercavamo. Ma conoscere non è soltanto raccogliere dati, richiede il nostro giudizio su ciò che abbiamo provato, su ciò che abbiamo visto. La conoscenza è sempre un incontro tra un soggetto e un oggetto, è sempre un avvenimento. Questo oggetto che noi abbiamo davanti è qualcosa di reale, è qualcosa di contemporaneo in qualche modo. Lo scorso agosto mi trovavo a Darmstadt, in Germania, stavamo analizzando i primi dati del satellite Planck. Dopo che è stato lanciato abbiamo fatto la calibrazione degli strumenti che è il momento più delicato di tutta la vicenda. C’erano tante cose che dovevamo capire, in tempi rapidi, perché il tempo stringe in quei casi. Mi ricordo che a un certo punto, quando era sorta una difficoltà ad interpretare alcuni dati, mi è capitato di avere una buona idea (e capita raramente! È vero!). Improvvisamente, con questa nuova idea, che adesso non è certo il caso di dettagliare, questa situazione di confusione aveva preso una forma diversa, era diventata semplice. Ero contentissimo, non riuscivo a dormire da quanto ero contento, ero soddisfatto, ero grato di questa piccola scoperta. Ma questo è ciò che l’esperienza ci indica: toccare un punto nuovo della realtà, un punto vero della realtà genera una soddisfazione. Ma quello di cui mi sono accorto è che questa gratitudine, questa percezione di me in quel momento assomigliava moltissimo, anzi era la stessa percezione di me che si genera quando, stando con voi o sentendo parlare don Giussani, sentendo parlare Carrón, sento parlare qualcuno che mi dice il vero su di me, sulla mia vita. Noi veramente scopriamo una presenza reale quando parliamo di Cristo. Accade come una continua scoperta. L’io è potenziato, diventa più se stesso. La realtà si semplifica, non perché i problemi sono cancellati, ma perché noi li possiamo vedere da un punto di vista più vero. Questo mi ha fatto pensare: «Ma guarda come è evidente che quella Presenza umana, quella grande Presenza che Giovanni e Andrea hanno conosciuto incontrandolo duemila anni fa, è reale, è contemporanea; altrimenti, come potrei dar ragione di questa continua novità che vedo, di questa continua scoperta, di questa realtà umana che tocco?».

La conoscenza vera cambia il soggetto che conosce, c’è qualcosa di me che non è più come prima. E se questo è vero per le cose piccole, per i particolari della scienza, figuriamoci per le cose che riguardano il destino. In ogni suo aspetto la conoscenza, approfondisce e rende più familiare l’oggetto che ho davanti, le galassie piuttosto che l’acqua, piuttosto che l’uomo. Cosa vuol dire che lo rende più familiare? Vuol dire che chiarisce, approfondisce, il nesso che quell’oggetto ha con la totalità, con il significato ultimo, e quindi attraverso quella cosa che ho visto, attraverso quel tramonto più bello che ho ammirato, io conosco qualcosa del Mistero ultimo.

Torniamo al caso citato. Noi riceviamo una valanga di dati dal nostro satellite e questi vengono raccolti in un computer che li immagazzina, a questo punto si pone la domanda: che cosa significano questi dati? Allora per poterli sintetizzare vengono analizzati, e costruiamo delle mappe dell’universo appena nato. Che cosa ci dicono queste mappe? Si può fare un’analisi statistica e cercare di estrarre i parametri fondamentali che governano, niente meno, che l’espansione dell’universo e ci possono dire qualcosa di chiaro a riguardo all’evoluzione dell’universo che dura da 14 miliardi di anni. Noi possiamo vedere quello che accadeva 14 miliardi di anni fa quando l’universo era ancora informe, iniziava a diversificarsi, a formare le strutture, le galassie; e via via che si capisce qualcosa, che si vede questo dispiegarsi del disegno cosmico, nasce un’ammirazione per quello che hai davanti, uno stupore per la bellezza, per l’ordine, per la fecondità dell’universo, per l’unità e per la varietà di quello che costituisce il tessuto del reale. Questo inizia a muovere qualcosa in te, uomo, che guardi, incomincia a cambiarti e nasce una domanda nuova di fronte a questo: «Da dove viene tutto questo?». Questa è una domanda della ragione: «Chi sei tu che fai tutto questo?». Così il percorso della conoscenza da qualunque parte cominci, se uno è fedele al cammino, s’imbatte in questa soglia del Mistero.

A volte mi sorprendo ad accorgermi di come spesso noi trattiamo il dato, i fatti eccezionali che abbiamo davanti, i «dati umani» che registriamo intorno a noi: trattiamo i testimoni che sono tra di noi, che ci indicano qualcosa, ci mostrano qualcosa di notevole, ed è come se guardassimo i dati di un esperimento senza domandarci il senso di quello che abbiamo trovato. Cioè, registriamo qualche cosa che ci colpisce, ma ci fermiamo lì. Carrón lo diceva quest’estate, e anche Nacho prima: «Il testimone non basta». Conoscere persone come Cleuza e Marcos Zerbini, conoscere tanti fra di noi che ci colpiscono (ci colpiscono vuol dire che c’è un dato notevole, che richiede una spiegazione, per la verità della loro umanità), questo ci commuove, comincia a muovere qualcosa. Ma quando veramente ti cambia? Quando noi non arrestiamo il cammino della conoscenza davanti a questi testimoni e ne seguiamo tutto lo sviluppo naturale fino in fondo. E questo quando avviene? Quando ci chiediamo da dove viene, che cosa fa sì che l’umanità di questa persona che conosco, che è un poveretto come me, sia così, che cosa rende ragione del suo cambiamento, che cosa rende ragione ultimamente del miracolo che ho davanti, dell’umano cambiato. E ancora in modo più radicale, elementare: che cosa rende ragione del mio esserci? Diceva Carrón: «Per don Giussani dire “io sono” con tutta la consapevolezza significa dire “io sono fatto”. Allora non dico “io sono” consapevolmente secondo la totalità della mia struttura di uomo, se non identificandolo con “io sono fatto”».

Non c’è niente di più evidente, e di più grande, di questa percezione di me per cui io non mi do da solo, io sono fatto da altro. Ma che cos’è questo io nell’universo? È quel punto dell’universo in cui l’universo diventa cosciente di sé. Quindi l’io di ciascuno di noi è il punto in cui il cosmo diventa coscienza di sé, è l’autocoscienza del cosmo. Quando un uomo dice coscientemente «io sono fatto, io sono tu che mi fai», quando un uomo dice così, questa è la voce dell’intera creazione che dice «io sono tu che mi fai».
di Marco Bersanelli - TRACCE

Aldo Trento: La vita nuova di Blanca- La bimba venduta dal padre per dieci litri di vino che ha trovato un abbraccio in mezzo al deserto



26 Novembre 2009

Blanca oggi è una ragazza di ventidue anni. È arrivata alla clinica Divina Providencia non perché malata fisicamente, ma per stare vicina a Don Lucio, suo attuale compagno di vita e malato terminale di cancro.
La loro storia è quella di due vite disperate, e in queste ultime settimane è diventata drammatica ma al tempo stesso si è colmata di pace. Assieme al compagno Lucio, molto più anziano di lei, Blanca ha avuto due bambini. Da due settimane hanno deciso di sposarsi qui, nella clinica. Il motivo: «Padre, desideriamo stare in pace con il Signore. Padre, voglio morire in pace e lasciare alla mia donna la certezza di morire in grazia di Dio».
Nel paradiso che è la clinica, questo è un ritornello ripetuto da molti pazienti terminali: «Vogliamo sposarci in Chiesa per morire in grazia di Dio». Una prova chiara del fatto che non esiste un amore, una relazione autentica e di conseguenza capace di dare la pace, l’allegria al cuore, che non sia anche relazione con l’Infinito. Sono pazienti analfabeti, che vengono dalla strada, vite spese per lo più seguendo l’istinto di sopravvivenza. Che però, quando hanno incontrato lo sguardo di qualcuno, con la piena coscienza che “Io sono Tu che mi fai”, come per osmosi hanno percepito che solo nella relazione con l’Infinito l’uomo incontra la vera pace.
Del resto, cos’è l’amore umano se non un grido dell’eterno, un segno dell’Infinito che l’uomo cerca? Ciò che affermava Cesare Pavese, che «anche nei piaceri più a buon mercato ciò che l’uomo cerca è l’eterno», qui tra i nostri infermi terminali è un’evidenza che si impone. Don Lucio incontrò Blanca in un momento disperato della vita di lei. Fin da piccola era stata oggetto di qualsiasi violenza sessuale da parte del padre. La “madre”, come molte donne paraguaiane, ridotta a oggetto, viveva come ipnotizzata e impotente anche solo a reagire verbalmente davanti alla bestia che era suo marito. Un giorno un vicino a cui piaceva la ragazza si avvicinò alla “famiglia” offrendosi di comprarla. Al “padre” non sembrò vero, e per soddisfare il suo alcolismo la vendette per dieci litri di vino
Da quel momento per Blanca si spalancarono le porte dell’inferno. Visse con un’altra bestia per qualche anno, vittima di ogni tipo di violenza e oltraggi, avendo da lui anche dei figli. Però una notte, disperata per la tortura cui era sottoposta, approfittando dell’ubriachezza dell’uomo, riuscì a fuggire portandosi via le sue creature. Camminarono per alcuni giorni nel cosiddetto inferno verde: il Chaco paraguaiano, un deserto pieno di cactus, serpenti e belve feroci. Stanchi, affamati e assetati cercavano un rifugio. È così che Blanca e i suoi figli sono giunti all’umile casa di Don Lucio, che aveva quarant’anni più di lei. L’uomo, molto povero e molto solo, la accolse con affetto in casa sua. La verità è che nell’inferno del mondo, e anche nelle circostanze più avverse, Dio ci mette sempre davanti una perla preziosa: qualcuno col cuore di carne, segno e rifugio per i disperati.

La Divina Providencia

Don Lucio subito la protesse, le diede una casa e l’affetto, quell’affetto umano che nasce da una ragione che nonostante tutto vive aperta al Mistero, sostenuta da un’umile religiosità contadina, frutto della prima evangelizzazione. La vita di Blanca e dei suoi figli cambiò. Gli anni della violenza rimasero alle sue spalle. Un volto finalmente umano le aveva restituito la speranza e il desiderio di vivere, di lottare. Si affidò totalmente a questa nuova opportunità, dedicandosi al nuovo compagno e ai suoi figli. Nel bel mezzo del Chaco, un deserto terribile che soltanto le rare volte che piove diventa verde e per questo è chiamato inferno verde, una novità umana, la comunità di una famiglia naturale che non aveva mai visto una chiesa, un prete, però aveva la coscienza originale che l’essere umano per sua natura è relazione con Tupa, il nome con il quale i paraguaiani definiscono Dio, il Mistero (“Tu” in guaranì ha lo stesso significato di “stupore, meraviglia”; “pa” vuol dire: chi ha fatto questa cosa bella?).
Purtroppo la convivenza durò solo pochi anni, perché repentinamente Don Lucio si ammalò di cancro. Per alcuni mesi sopportarono la disgrazia, però il dolore crescente e la povertà vinsero la resistenza di entrambi, e dopo aver peregrinato inutilmente per diversi centri ospedalieri arrivarono alla nostra clinica.
Per loro fu come giungere in un hotel a cinque stelle, essere accolti con il grande calore umano del quale entrambi avevano bisogno, dopo anni di solitudine e mancanza di compagnia umana. Blanca rimase giorno e notte accanto a Don Lucio e cominciò a conoscere Cristo.
Fu per entrambi l’occasione di scoprire una vita nuova, e in poco tempo chiesero di ricevere i sacramenti, coscienti che in questo modo la loro relazione non si sarebbe mai interrotta, nemmeno di fronte alla morte.

«Non ti abbandoneremo»

Dopo questo momento il cammino di Lucio arrivò alla sua tappa finale, e in pochi giorni morì. Il dolore di Blanca fu grande, perdeva quello che era stato il suo appoggio, l’àncora di salvezza della sua vita. Chi non la conosceva o non aveva conosciuto la sua storia non riusciva a comprendere il motivo di tanto dolore. Una volta ancora si era trovata sola con due creature in un mondo che da sempre le era stato nemico, egoista, cieco e sordo al suo dolore. Io la guardavo abbracciandola, e l’unica cosa che riuscii a dirle fu: «Non ti preoccupare, Blanca, noi non ti abbandoneremo. Cercheremo una casa per te e per i tuoi figli, in modo che possano continuare a vivere con dignità».
Durante i lunghi giorni che aveva passato al fianco del suo compagno, a chi le domandava, sorpreso dalla differenza di età, il perché di un affetto così grande, Blanca rispondeva: «Lui è stato l’unico che mi ha amato senza chiedere niente in cambio, quando persino i miei genitori mi hanno venduto per dieci litri di vino».
Davvero: solo l’incontro con un’umanità nuova carica di gratuità permette a qualsiasi essere umano – non importa cos’ha passato – di scoprire che uno non è mai esclusivamente frutto dei suoi antecedenti, del suo passato, ma relazione con l’Infinito. E quando scopre quest’ontologia del suo essere, la libertà torna ad essere il respiro pieno di speranza della vita. Nemmeno il fatto di essere stata venduta per dieci litri di vino ha potuto impedire a Blanca di formare un giudizio, e di poter dire adesso “io”, con la certezza di appartenere a un Mistero più grande di quella vita di miserie che si porta dietro. Mentre da un lato le femministe frustrate rivendicano il “diritto” all’aborto, mentre il maschio pretende di vedere riconosciuto il suo “diritto” all’omosessualità, ed entrambi pretendono anche il “diritto” di adottare figli, dall’altra parte una ragazza, nel pieno secolo XXI, viene venduta dai suoi genitori. Mentre da un lato la scienza, col suo smisurato orgoglio, vuole dominare la vita decidendo quali siano le sue origini e il suo destino finale, e mentre l’uomo, novello Prometeo, vuole sfidare il cielo, qui in questa piccola aiuola che ci rende tanto, tanto feroci, come scriveva Dante Alighieri, una ragazza di quindici anni viene venduta dai suoi genitori per dieci litri di vino.
Quanto più è esaltata l’idolatria dei diritti umani, tanto meno è riconosciuto il valore della persona umana. E questo vale per tutti gli ambiti della vita quotidiana. Pensiamo, ad esempio, a ciò che accade coi malati e i deboli nel nostro sistema sanitario, con i bambini nelle case e nelle strade, con tutti quei figli di Dio che non essendo utili allo Stato sociale sono “niente” per la società! E perché, in pieno XXI secolo, mentre l’uomo si illude di conquistare l’universo, qui su questa terra la maggior parte delle persone è ancora ridotta in schiavitù?

Una aiuola di libertà

Scriveva molti decenni fa lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij: «Se Dio non esiste, tutto è possibile». Vale a dire, come diceva sant’Ambrogio: «Osserva quanti hanno abbandonato Dio, di quanti ami sono schiavi».
La schiavitù non è mai stata così diffusa nel mondo come lo è oggi. La nostra amica, venduta per dieci litri di vino, e per di più dai suoi stessi genitori, è un’evidenza drammatica. Una ragazza vale quanto valgono dieci litri di vino. È esattamente quello che succede con l’aborto o con l’eutanasia: la vita umana non vale niente. Ma dentro queste tenebre il Mistero dell’Incarnazione, che vive nella carità della nostra comunità, continua ad essere una certezza, la grande vittoria sulla cultura cieca e orgogliosa del niente. Visitando la clinica San Riccardo Pampuri si impara che mentre la schiavitù è padrona del mondo, esiste una piccola aiuola verde di libertà, la libertà di morire col sorriso sulle labbra. È il miracolo dell’Incarnazione e Resurrezione di Cristo, che vive nella Chiesa e, concretamente, in questa compagnia.
padretrento@rieder.net.py

mercoledì 25 novembre 2009

Giornata Nazionale della Colletta Alimentare.



La confusione e lo smarrimento, in questo tempo di crisi, sembrano diventati lo stato d'animo più diffuso tra la gente.
Imbattersi, però, in volti lieti e grati, per la sorpresa di essere voluti bene, scatena un desiderio e un interesse che trascinano fuori dal cinismo e dalla disperazione.
Per questo anche quest'anno proponiamo di partecipare alla Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, perché anche un solo gesto di carità cristiana, come condividere la spesa con i più poveri, introduce nella società un soggetto nuovo, capace di vera solidarietà e condivisione del destino dei nostri fratelli uomini".


Giornata Nazionale della Colletta Alimentare. Condividere i bisogni per condividere il senso della vita.Sabato 28 Novembre si svolgerà la XIII edizione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, presso tutte le principali catene dei supermercati italiani. Nasce come un gesto di condivisione dei bisogni a livel......lo popolare: i volontari invitano le persone che stanno per fare la spesa al supermercato ad acquistare alcuni generi alimentari di prima necessità per offrirli a chi ne ha bisogno. Chiunque può contribuire al gesto della colletta aiutando come volontario nella raccolta dei generi alimentari nei diversi supermercati oppure recandosi in un supermercato e donando una parte della propria spesa.

lunedì 23 novembre 2009

Ora la cultura scelga la via della vita




Tutti riconoscono che nell’incontro fra il Papa e gli artisti e gli uomini di cultura è accaduto un evento di straordinaria importanza. Infatti il Papa ha saputo tessere una lezione magistrale in cui si sono sintetizzati la sua grande fede, la sua indubbia capacità teologica, la vastità della sua cultura e quel caratteristico impegno educativo che esprime in tutti i suoi interventi. Ma vorrei che ci chiedessimo tutti come può continuare questo evento, perché il Papa ha messo anche in guardia sui pericoli di una cattiva arte, di una cattiva cultura e nessuno può negare che anche molti fra quelli che ascoltavano il Santo Padre sono stati responsabili, in questi anni, della cattiva cultura, della cattiva arte, del fenomeno di espropriazione, al popolo, della sua fede e della sua tradizione. Sono stati responsabili di quella sistematica e programmata distruzione dei valori fondamentali della vita. Da chi i nostri giovani hanno imparato, se non dalla cattiva arte e dalla cattiva cultura collegati all’impero mass- mediatico, da chi hanno imparato che il divorzio e l’aborto erano fatti fondamentali di civiltà, da chi hanno imparato che l’unica norma morale è il proprio istinto, che omosessualità ed eterosessualità sono sostanzialmente la stessa cosa, da chi hanno imparato che la demolizione dell’autorità è condizione del cammino umano. Questi sono guasti irreparabili che conviene cominciare a guardare con occhi spassionati per vedere come si possano superare. La Chiesa tende la mano alla cultura e all’arte ma la cultura e l’arte tendono la mano alla Chiesa? Non si può certo lasciar parlare Benedetto XVI nel modo in cui ha parlato e credere che basti dirsi contenti; saremmo nell’ambito di quell’emotivismo senza ragioni e senza verità che il Papa depreca nella Caritas in Veritate come fonte di azioni che non hanno nessuna capacità di intervento nella storia. Non noi cristiani abbiamo fatto le mostre in cui figure blasfeme sono state equiparate a fatti artistici di rilievo, in cui la blasfemia delle parole, degli scritti, degli atteggiamenti è diventata pretesa di cultura. Tutto questo deve essere rivissuto e rivisitato; è necessario che anche su tutte queste cose si faccia una purificazione della memoria. Se si deve ripartire si deve ripartire anche con la consapevolezza critica dei limiti e delle responsabilità che un certo mondo culturale ed artistico laicista si è assunto nello spingere questo popolo verso quel nichilismo gaio di cui parlava il grande Augusto Del Noce o verso quella omologazione radicale sul nulla di cui parlava, qualche anno prima della sua improvvisa e tragica morte, Pier Paolo Pasolini. Io credo questo: sono convinto che per riaprire il dialogo fra Chiesa ed arte che è stato così significativamente testimoniato ed indicato dal Magistero di Giovanni Paolo II, occorra uno scatto di novità nella coscienza e nel cuore di tanti uomini di cultura che riprendano, dignitosamente la strada della ricerca del senso della vita e capiscano che è nel dialogo libero, impegnato, spregiudicato fra le varie opzioni culturali e religiose che sta la ripresa d’importanza del fenomeno culturale e del fenomeno artistico come strumenti fondamentali di educazione. Ma forse anche il popolo cattolico, anche la cristianità italiana devono fare una purificazione della memoria; non abbiamo estromesso troppo facilmente dalla vita delle nostre comunità l’elemento culturale ed artistico consegnandolo sbrigativamente alla cultura dominante? Tutte le nostre grandi sale cinematografiche e teatrali impietosamente deserte o affittate alle istituzioni in cui passano circuiti culturali e artistici, o decisamente avversi alla posizione della Chiesa o neutrali. Anche qui il Papa ci chiede di fare un salto, ci chiede di recuperare che l’arte e la cultura sono espressione della bellezza della fede cristiana e strumenti di educazione a questa bellezza e a questa verità. Solo a queste condizioni, questo grande evento non si concluderà semplicemente come una emozione di un momento, ma diventerà una possibilità di cammino e di comprensione comune di dialogo e di collaborazione.

Pennabilli, 22 Novembre 2009

+Luigi Negri
Vescovo di San Marino-Montefeltro

La tua opera è un bene per tutti -di Julián Carrón dall’intervento all’Assemblea generale della Compagnia delle Opere. Assago, 22 novembre 2009



1. Forse mai come in questi tempi di crisi ci rendiamo conto della verità del motto che avete scelto come tema del vostro incontro annuale: «La tua opera è un bene per tutti». E meglio di tutti lo possono capire coloro che sono più colpiti dalla crisi, le loro famiglie, i loro figli.
Ma cercare di tenere in piedi un’opera in questi tempi è veramente una cosa ardua. Voi lo sapete bene, voi che vi dibattete tra continuare a costruire questo bene o gettare la spugna, chiudendo i battenti. La tentazione dell’individualismo è sempre in agguato. L’insidia del si-salvi-chi-può è più forte che mai.
Per tanti di voi sarebbe più comodo. Vi risparmiereste non poche preoccupazioni. Eppure non vi siete chiusi in voi stessi, dimenticando gli altri. In questo modo avete vinto l’individualismo di cui parlava Bernhard Scholz. Ma siccome la tentazione permane, per potere resistere occorre avere delle ragioni che ce lo consentano. Questo vuole essere lo scopo del mio contributo. Paradossalmente, la crisi può diventare un’occasione per mettere delle fondamenta più salde all’opera che state costruendo, guadagnando più consapevolezza delle ragioni sottese.

2. L’individualismo è un tentativo di risolvere i problemi vecchio come l’uomo, implicando il rapporto tra il proprio bene e il bene altrui, la tensione tra io e comunità. Il fatto di non vivere da soli, bensì di essere sempre all’interno di una comunità, ci costringe a decidere in continuazione il modo di affrontare questo paradosso.
Noi siamo chiamati a vivere questa sfida in un contesto culturale in cui la risposta a questa tensione sembra palese: l’individualismo. Detto con una frase: io raggiungo meglio il mio bene se prescindo dagli altri. Di più: l’individualista vede nell’altro una minaccia per raggiungere lo scopo della propria felicità. È quanto si può riassumere nello slogan che definisce l’atteggiamento proprio di questa mentalità: homo homini lupus.
Ma dicendo così la modernità si mostra incapace di dare una risposta esauriente, vale a dire che contempli tutti i fattori in gioco. Infatti la concezione individualista risolve il problema cancellando uno dei poli della tensione. E una soluzione che deve eliminare uno dei fattori in gioco, semplicemente, non è una vera soluzione.
Fino a quale punto questa impostazione è sbagliata si vede dal fatto, emerso clamorosamente, della sempre più urgentemente sentita richiesta di regole. Quanto più l’altro è concepito come un potenziale nemico, tanto più viene a galla la necessità d’un intervento dall’esterno per gestire i conflitti. Questo è il paradosso della modernità: più incoraggia l’individualismo, più è costretta a moltiplicare le regole per mettere sotto controllo il “lupo” che ognuno di noi si rivela potenzialmente essere. Il clamoroso fallimento di questa impostazione è oggi davanti a tutti, malgrado i tentativi di nasconderlo. Non ci saranno mai abbastanza regole per ammaestrare i lupi.
Questo è l’esito tremendo quando si punta tutto sull’etica invece che sull’educazione, cioè su un adeguato rapporto tra l’io e gli altri.
Ma non è tanto l’incapacità delle regole a costituire il problema. La vera questione è che l’individualismo è fondato su un errore madornale: pensare che la felicità corrisponda all’accumulo. In questo la modernità dimostra ancora una volta la mancanza di conoscenza dell’autentica natura dell’uomo, di quella sproporzione strutturale di leopardiana memoria. Per questo l’individualismo, ancor più che sbagliato, è inutile per risolvere il dramma dell’uomo.
Inoltre occorrerebbe aggiungere anche un ulteriore inganno, proclamato dal potere dominante: che si possa essere felici a prescindere dagli altri.

3. Per rispondere adeguatamente al nostro problema, il punto di partenza è l’esperienza elementare, che ciascuno di noi può lealmente rintracciare in sé: «Ogni uomo di buona volontà, di fronte al dolore e al bisogno, immediatamente si mette in azione, si mostra capace di generosità» (L. Giussani, L’avvenimento cristiano, Bur, Milano 2003, p. 81).
Ma questo naturale sentimento di generosità non ha possibilità di durata senza ragioni adeguate: «La solidarietà è una caratteristica istintiva della natura dell’uomo (poco o tanto); essa tuttavia non fa storia, non crea opera fin tanto che rimane un’emozione o una risposta reattiva a un’emozione; e un’emozione non costruisce» (Ibidem, pp. 82-83).

Come sostenere questa esperienza elementare davanti al bisogno? È la domanda che si faceva anni fa don Luigi Giussani in un’assemblea come quella di oggi: «Come è possibile che l’uomo sostenga questo “cuore” di fronte al cosmo e, soprattutto, di fronte alla società? Come può fare l’uomo a sostenersi in una positività e in un ultimo ottimismo (perché senza ottimismo non si può agire)? La risposta è: non da solo, ma coinvolgendo con sé altri. Stabilendo un’amicizia operativa (convivenza o compagnia o movimento): cioè una più copiosa associazione di energie basata su un riconoscimento reciproco. Questa compagnia è tanto più consistente quanto più il motivo per cui nasce è permanente e stabile. Un’amicizia che nasca da un cointeresse economico ha la durata del giudizio circa la sua utilità. Invece una compagnia, un movimento, che sorga dall’intuizione che lo scopo di un’impresa eccede i termini dell’impresa stessa, e che essa è tentativo di rispondere a qualche cosa di molto più grande; insomma, un movimento che nasca dalla percezione di quel cuore che abbiamo in comune e che ci definisce come uomini, stabilisce una “appartenenza”» (Ibidem, pp. 88-89).
Questa esperienza elementare mostra che l’altro è percepito come un bene, tanto è vero che si mette in moto la solidarietà, fino al punto di generare un popolo che risponda al bisogno. Per questo sentiamo il bisogno di metterci insieme per essere sostenuti nel nostro impeto iniziale. Questa posizione ha permesso a molti di tenere, più di tanti proclami vuoti.
L’appartenenza nell’aiuto all’esperienza elementare è anche metodo per correggere l’inevitabile e continua riduzione della stessa esperienza elementare nel vivere e nell’azione. Non siamo ingenui o utopisticamente ottimisti alla Rousseau. Conosciamo bene il nostro limite, il peccato personale e sociale, per questo - come dice don Giussani nel discorso di Assago del 1987 (in L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, pp. 165-170) - l’appartenenza a movimenti corregge continuamente chi vi partecipa da questa caduta educando continuamente al bello, al vero, al giusto. Invece dello stato di polizia, l’educazione in un’appartenenza.
Ma in tempo di crisi neanche questa tensione ideale e amicizia operativa possono resistere alla tentazione dell’individualismo, se non trovano una ragione adeguata. Dobbiamo, infatti, avere sempre chiaro l’equivoco nel quale troppo spesso incorriamo: quello di sostituire un’amicizia, nata per sostenere il cammino dell’io, con un progetto di successo egemonico che passa attraverso il potere politico-sociale. Questo non è in grado di tenere davanti alle bufere della vita.
Perciò la situazione attuale si trasforma in una occasione privilegiata per maturare la coscienza del perché stare insieme. Per chiarire la ragione che possa resistere a qualsiasi tsunami.

4. Senza ragione adeguata, non c’è possibilità di resistere e, quindi, di costruire qualcosa con prospettiva di durata. Solo qualcosa che è più consistente di qualsiasi eventualità può essere fondamento adeguato per costruire. Quale?
Per rispondere a questa domanda, permettetemi una confidenza personale. Ogni anno devo parlare con coloro che, dopo anni di noviziato, chiedono l’ammissione definitiva alla associazione Memores Domini. In quest’occasione, mi viene da domandarmi: tra tanti particolari di cui è fatta la vita, che cosa devo guardare per aiutarli a capire se è ragionevole o meno fare questo passo così decisivo nella loro vita? Siccome non so come il Mistero li porterà al destino, per quali situazioni o circostanze il Signore li farà passare, l’unica garanzia che consentirà loro di affrontare qualsiasi eventualità è che ciascuno abbia fatto un’esperienza che, capiti quel che capiti, non possano togliersela di dosso. Un’esperienza che possa sostenere la vita tutta, appunto. E mi viene alla mente una frase di san Tommaso, familiare a tanti di voi, che esprime sinteticamente la chiave della questione: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione» (Summa Theologiae, II-II, q. 179, a. 1). Soltanto un affetto in cui uno abbia trovato la più grande soddisfazione può sostenere la vita tutta.
Può esistere un affetto così? C’è un affetto che corrisponda così tanto alla nostra attesa da potere diventare fondamento in grado di resistere in qualsiasi battaglia? O, espresso con altre parole più puntuali per questa occasione di oggi: c’è un affetto più soddisfacente di qualsiasi individualismo?
Siccome l’uomo è esigenza di totalità, soltanto qualcosa di totale può corrispondere a tale esigenza. Solo un uomo nella storia ha avuto tale pretesa: Gesù di Nazareth, il Mistero diventato carne. Solo chi ha avuto la grazia d’incontrare un dono così, può capire cos’è quella soddisfazione che consente di sostenere tutta la vita. Diventa possibile non cedere all’individualismo, soltanto se abbiamo ricevuto un bene così incommensurabile.
Questo è il realismo cristiano: «Se Dio, infatti, non fosse diventato uomo, nessuno avrebbe potuto impostare la propria vita secondo questa gratuità, nessuno di noi avrebbe osato guardare la propria vita secondo questa generosità» (L. Giussani, L’io, il potere, le opere, op. cit., p. 132).
Così si capisce bene l’inizio della recente enciclica del Papa: «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 1).
Perché? Perché «dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza» (Ibidem, 2).
È questa carità sterminata di Dio nei nostri confronti, più soddisfacente che nessuna ipotesi di individualismo, che ci rende a nostra volta soggetti di carità: «Destinatari dell’amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità» (Ibidem, 5).
Dalla sovrabbondanza della carità, dalla pienezza dell’amore di cui siamo stati oggetto, può scaturire la gratuità. Non da una mancanza, bensì da una sovrabbondanza!
«È la verità originaria dell’amore di Dio, grazia a noi donata, che apre la nostra vita al dono e rende possibile sperare in uno “sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”, in un passaggio “da condizioni meno umane a condizioni più umane”, ottenuto vincendo le difficoltà che inevitabilmente si incontrano lungo il cammino» (Ibidem, 8).
Senza questo non possiamo continuare a costruire a lungo. Don Giussani, venticinque anni fa, a un gruppo di universitari diceva che «noi non possiamo continuare a essere così attivi e produrre quello che abbiamo prodotto in questi anni feroci senza la comunione, ma la comunione senza Cristo non sta in piedi, la ragione della comunione è Cristo, e infatti è solo il pensiero di Cristo, il rapporto con Cristo che genera quella condizione per la quale posso rimanere nella compagnia senza sentirmi alienato, cioè l’amore a me stesso, l’amore agli altri come riverbero dell’amore a me stesso. Così dico che non si può rimanere nell’amore a se stessi senza che Cristo sia una presenza come è una presenza una madre per il bambino [...], se Lui non è presenza, se non ha vinto la morte, cioè se non è risorto, e perciò se non è il dominatore della storia – per cui il tempo non lo ferma, lo spazio e il tempo non lo delimitano –, se non ha in mano la storia, se non è il Signore del tempo e dello spazio, se non è il Signore della storia, se non è mio come lo fu di Giovanni duemila anni fa, se Tu non sei presenza reale a me, o Cristo, io torno a essere niente. Perciò, il riconoscimento della Tua presenza, il riconoscimento continuo della Tua presenza, questo è il cambiamento che mi occorre. La conversione è come uno che va, come se io stessi andando con tanti bei pensieri dedotti da Lui e a un certo punto mi voltassi (conversio) e Lo vedessi presente. È tutto diverso, il cammino diventa tutto diverso. La giustizia è questa fede e la fede è riconoscimento di questa Presenza. Cristo è risorto, cioè Cristo è contemporaneo al tempo, è contemporaneo alla storia. Ora, il cambiamento profondo che implica il nuovo soggetto, la creatura nuova, è questo: è la fede in Cristo crocifisso e risorto, dove il “crocifisso” è la condizione per essere risorto. Perciò io non potrò scandalizzarmi se la condizione per vivere la gioia che Lui mi ha promesso è la croce, anzi, qui sarà la dimostrazione affascinante che perfino il dolore e la croce e la morte diventano gioia. Come dice san Paolo, “io sono pieno di gioia, sovrabbondo di gioia nella mia tribolazione”: è inconcepibile umanamente, cioè è un altro essere, è un altro mondo che è presente e che dobbiamo, nella nostra povertà, riconoscere, riconoscere sempre più fortemente, così che diventi sempre più abituale, familiare, perché la nostra presenza nel mondo sia sempre più redentiva, cioè sia sempre più umanizzante noi stessi e gli altri» (L. Giussani, Qui e ora (1984-1985), Bur, Milano 2009, pp. 76-78).
Detto in altro modo, «per potere amare se stessi, per potere operare tanto, bisogna essere insieme; per potere essere insieme bisogna riconoscere un amore a sé che permetta di amare anche gli altri, e quindi che operi il cambiamento grande che è l’amore alla gente e a se stessi considerati come rapporto al destino; ma questo non è possibile se non per una Presenza, non è possibile se Cristo [...] non è risorto, cioè non è contemporaneo. Allora, riconoscere questo contemporaneo, questa presenza al mio gesto, questa compagnia al mio cammino, è il primo fondamentale gesto di libertà che permette tutti gli altri, anzi, che permette e incita tutti gli altri» (Ibidem, pp. 82-83).
Un’esperienza così può superare definitivamente l’individualismo: il noi entra nella definizione dell’io.
È per questo che, allora, possiamo imitare Dio. Non perché siamo bravi, ma perché siamo da Lui preferiti: «Nei nostri propositi e nei nostri progetti noi teniamo conto di tutto quello che occorre per realizzarli, realisticamente. Ma, oltre questo, noi dobbiamo realizzare, o cercare di realizzare, a imitazione del Signore, una emozione che non rientra nei calcoli per sistemare le cose, ma che direttamente nasce e si rivolge al compagno uomo, in amicizia, gratuitamente. Si chiama carità. Gratuitamente aiutare il proprio vicino, un uomo, a risolvere e a rispondere al bisogno che ha, di qualunque natura esso sia: da quello del pane fino a quello dell’anima. Risolvere, o aiutare a risolvere, il bisogno per il quale un uomo piange e soffre. Tener presente questa carità è giudicato una follia da chi ci sta attorno nel mondo di oggi. Dicono: “Sì, questo è idealismo”, il che è uguale, nel loro linguaggio, a dire: “È una pazzia. Sei fuori di te. Guarda piuttosto quello che devi fare! Lascia stare questa sovrabbondanza che può alterare l’esito del tuo operato”. Se siete qui, è perché nel vostro impegno di lavoro, nel vostro impegno organizzativo, nella vostra realtà di conoscenza e nella vostra compagnia avete trovato motivo d’azione, al di là di quello che dovete fare e realizzare, in una gratuità che non può essere calcolata e non dà luogo a calcolo. Solo Dio è al di là di ogni possibilità di calcolo. Perciò, il vostro lavoro è e deve tendere a essere imitazione di Dio o, meglio, imitazione di Cristo» (L. Giussani, L’avvenimento cristiano, op. cit., p. 120).
Questa imitazione di Dio non è qualcosa che possiamo fare con le nostre energie. C’è la possibilità di imitare Dio perché Lui stesso ci dona quella carità con cui possiamo imitarLo. Per questo «la carità è un fattore che contesta e penetra tutti gli altri fattori, la carità è più grande di tutto. Essa genera un popolo che non può sorgere se non da qualcosa di gratuito. Calcoli ben fatti non possono erigere il fenomeno più alto dell’espressione umana che è la realtà di un popolo. […] Tra di noi è nato un popolo per una gratuità che imita, che cerca di imitare la sovrabbondanza e la grazia con cui Cristo è venuto ed è rimasto tra di noi. L’estrema convenienza della vita, infatti, è la gratuità fatta penetrare negli interstizi dei nostri calcoli» (Ibidem, p. 121).
Che la gratuità penetri negli interstizi dei nostri calcoli deve essere sempre davanti a noi come ideale, come tensione da avere. Perché noi, essendo tutti peccatori, non siamo per niente esenti dal decadere della gratuità e finire nel puro calcolo, pensando che siamo preservati solo perché apparteniamo a una amicizia come la nostra. Il rischio, e non solo, di arroccarsi in una difesa corporativa di ciò che facciamo, magari con dentro un progetto di egemonia politica, è sempre in agguato. Che la gratuità sia l’estrema convenienza significa una gara nel cercare il bene che passa per il rispetto delle leggi, ma che fa di questa gratuità affezione, costruzione per il bene comune, correzione senza reticenze di fronte alla continua caduta.
Allora si richiarisce ancora una volta il nostro autentico scopo: non crescere in dimensione e potere, bensì che le vostre opere siano esempi di una diversità che la gente vede e da cui è colpita, perché questa diversità testimonia Qualcun altro. Questa è la risposta al degenerare continuo della vita pubblica. Questa è la moralità di cui il nostro Paese ha bisogno.

Radicali, cinici, giacobini Il grande filosofo A. Del Noce previde l’arrivo dei comunisti 2.0


Augusto Del Noce quasi si vergognava della sua intelligenza, aveva pudore della sua profondità e la nascondeva sotto il velo affabile della sua cortesia. Quando parlava in pubblico non aveva un eloquio fluente, ma tormentato: partecipavi al travaglio di un parto, ma eri ammesso a vedere il lavorìo della sua intelligenza mentre forgiava i suoi pensieri e li sfornava davanti a te, caldi e ancora contorti. La sua scrittura era invece limpida ed efficace, nonostante non concedesse nulla ai tempi e alle vanità del filosofo. Del Noce morì alla fine dell’89, giusto vent’anni fa, e vide appena la caduta del Muro ma previde più di ogni altro l’esito mondiale e italiano del comunismo. Il passaggio dal comunismo al consumismo, e dal Pci al partito radicale di massa, fu descritto perfettamente da uno che poi non lo vide. Se n’è parlato nel fine settimana tra Roma e Cassino in un bel convegno a lui dedicato dal Cnr, con molte voci, da suo figlio Fabrizio a Buttiglione, dai delnociani della Fondazione a lui dedicata a Perfetti, de Mattei e altri, me compreso. Tutto nel silenzio assordante dei media. Eppure Del Noce l’inattuale ha compreso la nostra attualità più del suo amico e antagonista Bobbio o delle vulgate radicali, marxiste e neoazioniste. Provo a dire in quattro parole le ragioni della sua solitudine e della sua attualità. Mentre la cultura italiana definiva provinciale tutto ciò che nasceva in Italia e considerava, già prima dell’avvento di Berlusconi, il caso italiano come l’anomalia di un Paese che non era entrato nella modernità perché aveva avuto la Controriforma senza aver avuto la Riforma protestante, e perciò aveva avuto il fascismo, Del Noce considerava al contrario il nostro Paese come il paradigma dell’Occidente, il laboratorio in cui si sperimentò il difficile rapporto con la modernità, il marxismo, il fascismo. E, sul piano politico, mentre la cultura ufficiale del nostro Paese considerava il fascismo, con più indulgenza il comunismo e infine la Democrazia cristiana come tre cause di ritardo della modernità, tre resistenze al progresso, Del Noce, al contrario, ravvisava nel fascismo, nel comunismo e nella stessa Dc tre processi, assai differenti, di scristianizzazione del nostro Paese. Il fascismo combatteva molti degli avversari della cristianità ma restava prigioniero del suo attivismo irrazionale, della sua volontà di potenza e del culto della guerra e della violenza. L’italocomunismo, nella sua versione gramsciana, portava l’ateismo alle masse e concorreva allo sradicamento civile e religioso. Del Noce individuava nell’intreccio tra sinistra e poteri economici e ne la Repubblica di Scalfari i luoghi di passaggio dal comunismo, con il suo afflato religioso e la sua impronta popolare, ad un laicismo radical, cinico e neo borghese, di tipo liberal o giacobino. E la Dc, a cui pure Del Noce era vicino, lasciava che il comune sentire degli italiani, la cultura e il senso religioso, scivolassero dolcemente verso la scristianizzazione della società opulenta.
Con una diagnosi del genere, Del Noce si situava agli antipodi delle culture egemoni del nostro Paese, in totale solitudine. Accolto solo dal piccolo mondo della destra colta. E più solo si ritrovava Del Noce, antifascista ai tempi del fascismo, quando sosteneva che l’antifascismo sopravvissuto al fascismo era un fenomeno negativo e dissolutivo. L’antifascismo per Del Noce non poteva costituire la religione civile degli italiani. Il Risorgimento, invece, sì. E qui Del Noce si separava anche dai cattolici reazionari e antirisorgimentali ritenendo che l’idea stessa di Risorgimento, come resurrezione, fosse rimasta incompiuta e fosse necessario saldare l’idea di nazione a quella di tradizione, civile e religiosa. Pur cattolico, Del Noce non era clericale; coltivava una visione dantesca dell’Italia e non solo giobertiana. Con un’espressione da lui non usata, ho sostenuto che Del Noce sia stato il filosofo che ha pensato la religione civile per il nostro Paese. Religione civile da non confondere né con le religioni secolari e politiche che vogliono sostituire la religione con un’ideologia salvifica e con l’attesa di un paradiso in terra; né con la teocrazia medievale o di tipo islamico che uccide la libertà nella coincidenza forzata di fede e cittadinanza. Del Noce non scioglie la politica nella religione, né la religione nella politica, ma neanche le separa come farebbe un cattolico liberale; ma afferma la necessità di attingere alla tradizione religiosa per fondare i valori condivisi di un popolo. La religione civile di Del Noce è la rilettura nel nostro tempo della teologia civile di Vico. Sposare Libertà e Verità, persona e comunità, fu il cuore della sua ricerca. In questa luce, Del Noce è stato il filosofo politico e civile del pontificato di Papa Wojtyla, mentre Ratzinger ne era il teologo e il dottrinario. Con il Papa Del Noce condivise la critica al comunismo e la lettura del dopo comunismo, l’avvento di una società permissiva e nichilista, sazia e disperata. E con il Papa condivise la necessità di correlare l’idea di nazione al senso religioso, verità e libertà, diritti dei popoli e diritti della persona. L’anno in cui salì al soglio pontificio Wojtyla, Del Noce scrisse Il suicidio della rivoluzione, che prefigurava la fine del comunismo, di cui quel Papa sarebbe stato il primo ispiratore.
Fui molto vicino negli ultimi anni a Del Noce, ebbi un sodalizio di pensieri e di incontri, di riviste e fondazioni, di cui c’è traccia anche nei suoi taccuini. Fu Del Noce ad aprirmi le porte al settimanale vicino a Cl, Il Sabato, e ad andare di persona da Gianni Letta, allora direttore de Il Tempo, per proporre un mio articolo culturale che gli era piaciuto, da cui scaturì la mia collaborazione alla pagina culturale del quotidiano romano. Lo vidi una settimana prima che morisse a casa sua, perché mi consegnò l’introduzione autografa ad un mio libro, che sarebbe stato il suo ultimo scritto. Accolse l’idea di un libro dialogo sul profilo ideologico del Novecento, che avremmo realizzato a conclusione del suo Gentile, poi rimasto incompiuto. Disse con una punta di civetteria che avrebbe voluto rivalutare Togliatti e pure Stalin rispetto alla nuova sinistra. Anche quella sera del 22 dicembre fu affabile ma affaticato, reduce già da un infarto; mi apparve disfatto come un uccello senza piume. Ci scambiammo gli auguri per il Santo Natale e per il Nuovo Anno, ma per lui valsero solo i primi.
Marcello Veneziani

LA CHIESA E L’ARTE NON TEORIA MA UN’OFFERTA DI AMICIZIA


I l Papa ha parlato agli artisti che da tutto il mondo hanno accet­tato il suo invito. Lo ha fatto in un modo fortissimo. Ha detto: «La bel­lezza ferisce». Ha ripetuto che tra arte e fede c’è «affinità». E che nul­la del genio di un artista è tolto o mortificato dalla fede. È stata una cosa intensa. E sobria. Alta e sobria. Sì, è vero c’era lo sfarzo magnifico della Cappella Sistina. C’era la de­licata, violenta bellezza della infi­nita serie di sale dei musei vatica­ni. C’era l’aria bambinesca di tan­ti di noi che ci aggiravamo tra quei tesori. C’era il cantore in veste di pizzo che dice all’amico: «Ahò, ma c’è Venditti! » C’erano il buffet e quelli che si complimentavano per l’opera dell’altro. E c’erano quelli che dicevano d’essersi visti l’ulti­ma volta negli anni Settanta. In­somma, c’era tutto quel che non può non esserci in ogni genere di ri­trovo tra artisti. Ma soprattutto c’è stato l’invito sobrio e alto di papa Benedetto. L’invito ribadito a una «amicizia», cioè a tendere insieme alla bellezza. E alla visione. A ser­vire con l’opera dell’artista non la «seducente», «ipocrita», «vana» bel­lezza che viene spacciata per tale e che alimenta solo la «brama». Ma quella che rivela i tesori dello spi­rito, che lancia segnali e ponti tra l’umano che siamo e l’infinito a cui tendiamo.
L’invito essenziale, potente del Pa­pa, calibrato su tanti testi prece­denti, su citazioni dei suoi prede­cessori Paolo VI e Giovanni Paolo II e alcuni pensatori tra cui Von Balthasar, è stato rivolto a una pla­tea di artisti di ogni genere. Nomi più o meno noti al grande pubbli­co. Protagonisti d’ogni genere di ar­te: dalla danza alla poesia, dall’ar­chitettura alla musica. Si era lì in tanti eppure in un numero neces­sariamente esiguo ma, per così di­re, era l’occasione d’ascoltare una parola in realtà rivolta a tutti colo­ro che lo desiderano. E il Papa non ha voluto cavarsela con qualche frase di circostanza. Ha affrontato il cuore del proble­ma dell’arte. Che si chiama «bel­lezza ». Nonostante il pensiero del­la nostra epoca, ha ricordato Be­nedetto, sia spesso guidato o in­fluenzato da persone che alla pa­rola reagiscono con un 'sorrisetto' di compatimento, il problema del­­l’artista riguarda il significato del­la parola bellezza e la sua espe­rienza. Più volte il Papa ha richia­mato che questo gesto di artisti sta­va avvenendo nella cornice di una sala che è luogo privilegiato del­l’arte e della storia della Chiesa. Lì si eleggono i papi, e di quei dipin­ti Giovanni Paolo II ha detto che in un certo senso la Bibbia attendeva Michelangelo per farsi visibile. U­na sintesi di arte e fede.
Benedetto non ha perso tempo a delineare una «teoria sull’arte». Ha ripetuto quel che gli artisti per e­sperienza sanno: l’arte è una fine­stra sul mistero della vita. Nem­meno ha dato qualche consiglio morale agli artisti. Ha chiesto solo di stare dalla parte della speranza, che è vera figlia della bellezza. E ha fatto vedere la storia d’arte che la Chiesa ha mosso e ospitato nei se­coli, invitando a farne parte. Tutti, fedeli o no, santi o peccatori. Lon­tani che si credono vicini, o vicini che si credono lontani. Non ha chiesto di aderire a una teoria, ha offerto un’amicizia. E oggi, tra i tan­ti che sull’arte speculano, chiac­chierano, tessono inganni, o muli­nano aria fritta, chi davvero offre una cosa chiamata amicizia agli ar­tisti e al loro lavoro? Per questo in tanti, di ogni genere, abbiamo accettato l’invito di Papa Benedetto.
DAVIDE RONDONI - Avvenire

sabato 21 novembre 2009

una traccia sintetica dell’intervento del card. Scola.Qualsiasi cosa vi dica, fatela” in pellegrinaggio alla Madonna della Salute


Tocca a te.

1. «Non posso star fuori dal gioco./ Fuori dal gioco non esiste felicità» (Hans Scholl).

Per questo sei (siamo) qui. «Sono costretto a fare una scelta» (Hans Scholl).

Tocca a te (I ragazzi della Rosa Bianca come te. Si prova vergogna della nostra superficialità. Se poi uno ha la mia età…).

Stare al gioco, lo percepiamo, è star dentro tutta la realtà. È la strada per compiere il desiderio di felicità che hai nel cuore.

2. Come si fa a non stare fuori dal gioco?

Vivere rapporti buoni per conoscere e fare il bene, per attuare ovunque una vita buona. Di questo ha bisogno ognuno di noi, tutti i nostri amici, tutti i nostri ambienti. Gesù lo dice al giovane che gli chiede come essere felice. “Vivi un rapporto con me: seguimi”. Il cuore dell’uomo, il tuo cuore è fatto per il bello, il vero, il bene e ne gioisce quando vi si imbatte.

3. Ma quali relazioni sono buone relazioni? Quelle che fanno fare esperienza dell’amore oggettivo ed effettivo (bambino).

Sophie Scholl riconosce il bello, il vero, il bene anche dentro la grande prova: «Tutto è così bello nonostante le cose terribili che accadono». Lo riconosce perché vive relazioni buone con gli amici e con Cristo come un Tu presente.

4. Questa è la libertà. Per questo si sono mossi i giovani della Rosa bianca. La libertà è il più grande dono che Dio ha fatto all’uomo, creandolo simile a sé. Per sua natura si muove seguendo quel complesso di indizi, di stimoli buoni che noi abbiamo già dentro. è orientata al bene, come il girasole è strutturalmente orientato al sole. In ciascuno di noi c’è, più o meno consapevole, questa esperienza: quando aderiamo al bene siamo soddisfatti. Eppure – anche questa esperienza è amaramente nota a tutti noi – la nostra libertà può decidere di non aderire, l’uomo “con il libero arbitrio può decidere di separarsi da questo canto di lode” (Sophie Scholl).

5. Se siamo qui è perché l’eco di questa promessa di relazioni buone ci ha raggiunto. E noi, come i primi, come Giovanni ed Andrea, mossi da quel qualcosa di grande, ci siamo messi in cammino dietro a Lui. «Cristo divenne per essi il singolare fratello maggiore che era sempre vicino, ancor più vicino della morte: la via che non consentiva ritorno, la verità che dava una risposta a tante domande e la vita, vita piena» (da: Inge Scholl, La rosa bianca, pp 50-51, Castel Bolognese 2006). Come i ragazzi de La rosa bianca, noi abbiamo riconosciuto in Lui la Presenza più amica del nostro cuore, Uno che ci conosce e ci ama come nessun altro. Di Lui ci possiamo fidare, a Lui ci vogliamo affidare (fiducia, da fidere se alicui). Il rapporto con Lui è la condizione del tuo bene-essere (affetti, studio, riposo, fragilità, giustizia).

6. Siamo chiamati a seguire Lui, secondo l’invito che questa sera ci fa Sua madre: «Qualsiasi cosa dica fatela». Così facendo crescerà la nostra responsabilità: «Mi sentivo responsabile della sorte di due popoli, mi sentivo in dovere di dare il mio contributo affinché la situazione cambiasse» (Alexander Schmorell). Impareremo a scoprire e a vivere ciò che Dio ha preparato per noi (compito/compimento): «Sono convinto che la mia vita deve compiersi in quest’ora, per quanto sembri prematuro, perché con il mio agire ho realizzato il compito della mia vita” (Alexander Schmorell).

Pellegrini consapevoli. Riconoscere il bello della vita attraverso buone relazioni.

Saluto finale nella Basilica della Madonna della Salute

7. E, nella familiarità con Lui, diventeremo capaci di una grandezza impensata ed insperata: «Tutto posso in Colui che mi dà la forza» (Fil 4,13).

Approfondire i rapporti buoni (cioè veri) con tutti in tutti gli ambienti. Come?

Tre condizioni:

- fedeltà alla comunità come l’ambito dove imparare il Tu di Cristo

- fedeltà ai gesti comuni a tutti i giovani del Patriarcato (Via Crucis)

- riconoscersi tra cristiani dentro la scuola, il luogo di lavoro, il quartiere, ovunque.

venerdì 20 novembre 2009

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón - Milano, 18 novembre 2009


Testo di Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 271-277 e 255-259
Canto “Mare nostre”
Canto “Liberazione n.2”
Come ci siamo detti la volta scorsa, riprendiamo il testo Si può vivere così? a partire dal percorso dalla fede alla libertà che abbiamo indicato e l’inizio della povertà. Insieme a questo è successo qualcosa: abbiamo davanti a noi anche la vicenda dei crocifissi e il volantino pubblico che abbiamo fatto. Anche questa è un’occasione di verificare qual è stata l’esperienza, perché prima di arrivare al volantino si era già scatenata la bagarre e ciascuno si è mosso in qualche modo. Che contraccolpo ha prodotto il volantino? Qual è la differenza di atteggiamento rispetto alla mentalità comune? Qual è la ragione della differenza che il volantino porta dentro e come l’abbiamo usato? Che cosa è
successo quando l’abbiamo giocato nel reale?
Venendo al libro, quando arriviamo a parlare della povertà, noi dobbiamo chiarire questo: in che cosa si vede che io ho fatto l’esperienza di questo percorso che qui è riassunto? Sono curioso di sapere in che cosa si vede questo.


Io vorrei chiedere un aiuto relativamente a due fatti che mi sono accaduti la scorsa settimana. Un giorno ho saputo che mio figlio aveva fatto una sciocchezza e ci sono rimasta malissimo, tanto che ho chiamato mio marito al lavoro e gli ho detto: «Che facciamo?»; eravamo arrabbiatissimi tutti e due e abbiamo deciso di rimandare la ramanzina alla sera. Nel pomeriggio ero proprio triste e mi sono messa a leggere la Scuola di comunità, lì dove dice che nella realtà c’è un fattore imprevedibile di cui vedo le conseguenze, ma che non posso vedere direttamente, è inspiegabile ma è dentro la realtà e se io lo nego non sono ragionevole. Come spesso mi accade, ho visto che queste righe leggevano bene quello che mi stava accadendo, perché mio figlio fa le sciocchezze come me perché Qualcuno lo ha fatto, e lo stava facendo anche in quel momento, libero. Davanti a questo Qualcuno che faceva in quel momento mio figlio e me ho fatto come un passo indietro e ho capito che non potevo sgridarlo e forse dargli una sberla, che non era giusto e che non sarebbe servito. Quando ho sentito mio marito che arrivava gli sono andata incontro e prima che entrasse in casa gli ho detto: «Non sgridarlo, vorrei che parlassimo questa sera», così quella sera abbiamo parlato con lui e alla fine gli abbiamo detto che ha fatto una scemenza, ma che il nostro affetto per lui non è scalfito di una virgola. Solo qualche ora prima avrei voluto riempirlo di sberle. Quella sera ho
pensato che l’aver giudicato mi aveva fatto riconoscere la Sua presenza che mi aveva fatto muovere in modo diverso e questo mi aveva fatto sentire più mamma, più moglie e più persona. Il secondo fatto è accaduto quando è uscito il volantino sulla questione del crocifisso. Devo premettere che quando si era diffusa la notizia della sentenza sui crocifissi nelle aule io avevo pensato che non fosse giusta per motivi dei quali io, in fondo, non so nulla e avevo in un certo senso archiviato così la questione. Quando ho letto il nostro volantino ho provato un grande dolore, perché il giudizio del volantino è l’unico che un cristiano può dare e mi ha fatto capire quante volte dire il nome di Gesù era stato dire una parola vuota, infatti non mi era passato neanche per l’anticamera del cervello che quello che era sfidato in quella questione era il mio rapporto con Colui che è sempre
presente nelle mie giornate, anche quando io me ne frego, e che dà pienezza e senso e tutto alla mia vita, e che anche due sere prima era entrato nella vita mia e della mia famiglia permettendoci di guardare le cose in un modo più vero. Dopo il volantino e anche grazie allo scarto che ho provato, mi sono chiesta che senso abbia per me mantenere il crocifisso nelle aule o tenerlo al collo come faccio io, e pensando anche alle mamme della scuola che mandano i figli in una scuola cattolica, ma poi non vogliono fargli fare il ritiro d’Avvento, ho pensato che però nessuno può negare che il (pag. 2)
crocifisso ci ricorda il fatto più misterioso nella storia dell’uomo, anche perché, se quell’Uomo fosse morto e basta, come si potrebbe spiegare che gli uomini hanno continuato a credere in Lui per duemila anni? Di fronte a un fatto di tale portata tutti gli uomini devono poter dire: «Mi interessa o non mi interessa», come dice la Scuola di comunità, e non è giusto che un gruppetto di saggi si arroghi il diritto di decidere anche per me e per tutti gli uomini. Ciò che però mi sono chiesta e su cui chiedo un aiuto è questo: ma come è possibile che, dopo fatti come quello con mio

figlio e anche altri che ho vissuto, nei quali ho riconosciuto la Sua presenza buona, dopo tutto quello che è accaduto nella mia vita, io non percepisca questo attacco al crocifisso come un attacco a ciò che ho di più caro, come una questione mia?
E cosa ti sei risposta?

Sinceramente l’unica risposta che mi è venuta in mente, che però non mi piace molto, è che non ho conosciuto.
Cosa vuol dire che non hai conosciuto? Spiegaci.

Che io dico che Lo riconosco, che riconosco la Sua presenza buona perché veramente il mio cambiamento per me è sempre segno della Sua presenza (perché è impossibile che uno cambi, soprattutto io). Però, quando poi viene fuori questa questione del crocifisso, mi viene da dire: «Questa non è una questione mia».
Questa è la questione: non è tua. E perché non è tua?
Ho anche pensato che la questione di mio figlio la sentivo come mia, ho pianto, ero disperata quel pomeriggio lì.
E allora? Sei stata costretta a fare qualche passo perché ti urgeva e qua no.
Sì.
Che cosa impari da tutto questo? Perché altrimenti tutte queste cose che ci capitano sono inutili per un cammino, tanto è vero che poi ci sorprendiamo con l’atteggiamento di tutti; e perché non c’è un’esperienza?
Perché a me sembra che ci sia.
Questa è la questione. In che cosa si è ridotto, si riduce di nuovo l’esperienza? Lascia aperta la questione. In che cosa si vede che si cresce? Nel fatto che questo è tuo, diventerà tuo sempre di più.

Ma crescere non è già che io, quella sera lì, ho fatto una cosa diversa da quel che il mio istinto mi avrebbe suggerito? Non è lì che io vedo che ho fatto esperienza?
In questo senso tu lì hai fatto un’esperienza, ma che cosa vuol dire questo? Che è ancora a macchia di leopardo, non è ancora così nostro da diventare la posizione normale davanti al reale; qualche volta succede, ma tante volte ricadiamo nella mentalità di tutti: non è mia come posizione normale del vivere, tanto è vero che davanti a queste cose quasi non vediamo la differenza, partiamo in quinta secondo la mentalità di tutti. Per questo dico: se noi non facciamo un’esperienza in modo tale da giudicare (e giudicare vuol dire che io imparo qualcosa sul reale che diventa mio, in questo io vedo che mi sorprendo con un atteggiamento diverso), in che cosa si vede che noi ancora non ci siamo certamente resi conto? Perché noi tante volte ci fermiamo ancora a quello che non facciamo;
ma qual è la cosa più strepitosa di tutte, molto di più di quello che non riesci a fare?
Che Lui c’è.
Calma. E perché c’è? In che cosa vedi che c’è?
Io non sono scontenta che ci sia stato il volantino, perché nel volantino vedo che Lui c’è.
Esatto. E cosa vuol dire questo? Che la cosa più importante non è che noi siamo fragili, facciamo dei passi zoppicando (e che poi ci bastoniamo per non essere stati all’altezza), ma che quello che prende il sopravvento è che Lui c’è, e che ci riprende in continuazione; ma come c’è? C’è non teoricamente, bensì storicamente: ti sorregge riscattandoti dalla tua riduzione per metterti davanti alla Sua presenza. E in che cosa si vede – questo è quello che dobbiamo capire – in che cosa si vede che c’è nel volantino? Dove sta la differenza, dove sta la diversità, lo scontro con questa diversità, dove sta la diversità? Questo ancora lasciamolo aperto. Pag 3
Io ti racconto di una ramanzina che invece è avvenuta, te la racconto perché mi sembra che c’entri con il cammino della fede e con la fiducia in particolare. Venerdì scorso ricevo dal mio capo di lavoro – che è anche un mio grandissimo amico – una lavata di capo di dimensioni mai viste, anche con una certa violenza che non capivo al momento, per una questione che non mi sembrava così decisiva. Probabilmente non era giornata, fatto sta che succede questo, anche con toni duri e provocatori come sa avere lui; chiude dicendomi – che era il tema anche del rimprovero, perché non avevo portato a fondo una cosa verificandola –: «Comunque, tu non vai mai al fondo delle

cose e questo valga come metodo», come dire: questo ti serva come metodo sempre, ed è una cosa che mi diceva dentro il lavoro, ma da come lo dice lui ha una portata per la vita. Io esco da questo
quarto d’ora di telefonata incavolato nero per i toni, ma, allo stesso tempo, mi continuavo a dire: «Ma caspita, comunque, quel pezzo di vero che mi ha detto, quello rimane, mi inchioda», però la questione mi rimane ancora tutta aperta e la sera sono tornato a casa e l’ho raccontato a un mio amico a cena e lui mi ha fatto accorgere di questo, perché lui conosce bene me e anche il rapporto che ho con il mio capo, e mi ha detto: «Scusami, ma se anche il tuo capo ti avesse rimproverato dicendoti falsità assolute, niente con un minino di attinenza con la realtà, tu avresti mai messo in discussione il rapporto con lui?». E lì mi ha spiazzato perché io gli ho detto: «Guarda, non ci avevo neanche pensato a questo». E lui: «Vedi che qua c’è un fattore che è strano: se succedesse a me con il mio datore di lavoro, sarebbe solo una questione lavorativa e io troncherei il rapporto, da un certo punto di vista: “Sono un tuo dipendente e ci rimango, faccio quello che mi chiedi, basta”. E invece guarda: non hai neanche pensato minimamente a troncare quel rapporto, capisci
che c’è come un fattore misterioso, strano, e se tu non vai a fondo di questo fattore, prima o poi vedrai che metterai in discussione anche quel rapporto». Cosa è successo? Il giorno dopo incontro il mio capo in un’altra circostanza fuori dal lavoro e lui continua a provocare, rincara la dose perché, da un lato, mi dice: «Comunque devi capire che io sono il tuo capo, posso dirti quello che voglio», e, dall’altro, mi dice: «Sono anche contento che sei arrabbiato, perché così si smuove qualcosa»; io esco da questa cosa di nuovo incavolato nero e il giorno dopo mi accorgo che sono lì e ogni tanto, durante il giorno, penso a trovarmi un altro lavoro, penso alle possibilità di poter andare, di piazzarmi sul mercato, finché la sera prendo sul serio la cosa, cioè la guardo in faccia: «Ma io, in fondo, perché non lo faccio? Io dove trovo un’esperienza dentro il lavoro che mi fa crescere così nel rapporto con la realtà e mi fa diventare in pieno un uomo, a partire da un particolare?». Il giorno dopo ho detto al capo: «Per questo non ti mollo, perché è troppo decisivo questo rapporto». Cioè?
Arrivo al punto. Da tutto questo capisco due cose: che io ho ancora tutto un cammino da fare, nel senso che non basta che io mi fermi a dire che c’è un fattore inspiegabile dentro questo rapporto e quello che si è rivelato in questo fatto, e capisco che se non vado a fondo dell’origine, rimane un’inquietudine e prima o poi mollo anche dentro questo. La seconda cosa sulla povertà è che io non avevo problemi di un’immagine mia di affermazione, ma poi sono venuto meno perché non sono andato a fondo a quell’origine lì. Per questo mi accorgo che io sono in una situazione di stallo, con tutto un cammino ancora da fare.
E qual è il cammino da fare? Come il Mistero ti risponde a questo stallo? Come ti provoca, come ti mette in moto? Questo che ti è successo c’entra con la tua situazione di stallo?
Eccome.
Allora, come il Mistero ti sta rispondendo? Vuoi che ti mandi un angelo? Ti manda un capo! Sbrigati. La questione è: tu questo lo puoi lasciar perdere o può essere l’occasione attraverso cui il Mistero ti sfida a fare un lavoro. Se tu hai scoperto un pezzo di vero in questo, prendilo, incomincia a lavorare su questo, perché questa è la modalità attraverso cui il Mistero ti chiama, ti sta chiamando. Sarebbe meglio che non fosse successo niente e tu avessi continuato a vivere la vita continuando a fare le cose in modo sbagliato? Allora, ti sta portando un bene.Assolutamente.
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Allora puoi rispondere o no, questa è la tua libertà. Ma questo è un esempio – grazie – di quello che capita nella vita; mi scrive una persona che racconta lo stesso: «Il responsabile di lavoro mi ha chiesto di studiare un aspetto di una questione e poi di relazionare. Allora io mi sono messa a studiare gli strumenti e i documenti che mi erano stati dati e a cercarne altri, ad approfondire, insomma, e poi a decidere che avevo finito. Dopo la mia risposta il mio responsabile mi ha chiesto se ero proprio sicura perché, dato l’uso che doveva fare della cosa, dovevo essere sicura al 100% di quello che affermavo. Allora mi sono rimessa in discussione, e ho trovato degli aspetti che avevo trattato superficialmente e ne ho presi in considerazione altri che prima avevo tralasciato, e poi, prima della relazione finale, mi sono stupita io stessa di come avevo lavorato, di come mi erano venute tante domande sul pezzo di lavoro che avevo

tra le mani, di come avevo approfondito, alla fine ero veramente più sicura io della mia riposta, ero anche più contenta perchè avevo lavorato bene, ero soddisfatta; allora mi è sorta questa domanda [questo, in un pezzettino del reale che trattiamo bene]: ma perché nella vita non è così? Perché tralascio tante cose (per esempio nei rapporti faccio fatica a rischiare fino in fondo), ma se c’è un disagio, questo diventa subito un blocco, invece di spingermi a lavorare, a mettermi in rapporto in modo ancora più vero, cioè a implicarmi di più, invece che lasciar perdere? Quindi chiedo di capire meglio cosa si intende quando l’ultima volta dicevamo che nel lavoro abbiamo un metodo e nella vita no» Perché questo è proprio quello che capita: quando dobbiamo rispondere davanti a un altro, siamo costretti a questo,quando non possiamo prenderla sportivamente, anche soltanto per non perdere il lavoro, perché questo ci interessa; sulla vita, invece, possiamo chiacchierare, dire la nostra, accontentarci di una battuta facile invece di fare un lavoro. Poi, alla fine, sul lavoro facciamo una strada; sulla vita, quando capita. Questa è la differenza.

A pagina 276 dice: «Ma se la felicità, la giustizia, la verità, la bellezza è oltre quello che noi possiamo vedere, quello che possiamo vedere e toccare, cosa ci importa?». Quando ho letto questa cosa mi sono detta: ma come la felicità, la giustizia, la verità e la bellezza sono oltre quello che io posso vedere e toccare? Io sono fatta per questo, tu mi hai fatto accorgere che io sono fatta per questo e io l’ho sentito corrispondente. Però qua dice un’altra cosa, allora mi sono chiesta: «Ma io vedo e tocco la felicità, la giustizia, la verità e la bellezza?» No, ne sento un accento, ma non le vedo e non le tocco mai totalmente. Allora io queste esigenze che mi corrispondono così tanto non le posso vedere e toccare perché sono i criteri di un Altro, mi sembra che questo Altro mi dica: «Io porto a compimento le tue esigenze attraverso le circostanze che ti do», ma queste circostanze ultimamente mi sembrano troppo dure; non sento questa durezza come un’obiezione, ma sento un dolore enorme, e se Lui non si mostra con tutta la sua bellezza e non mi fa capire qualcosa, io non riesco a stare in questo dolore. Ti volevo chiedere un aiuto su questo.
In che cosa si vede – perché qui arriviamo al dunque di oggi, proprio arrivando al punto della povertà –, che noi abbiamo fatto il percorso che qui lui riassume? Qual è – e faccio la domanda a tutti, perché ciascuno possa poi fare il paragone con quello che dice la Scuola di comunità, non con quello che dico io (che non sarebbe nemmeno interessante) – il segno che io ho fatto questo percorso? Perché è soltanto se noi capiamo questo che possiamo rispondere alla tua domanda in modo giusto. In che cosa si vede che abbiamo fatto il percorso dalla fede fino alla povertà? Qual è il segno più potente di questo?
A me viene da dire nella certezza della Sua presenza.
Allora, questa è una formula o è un’esperienza?
È un’esperienza.
E se è un’esperienza, questa è una cosa dove tu trovi il centuplo?Se è un’esperienza, sì.
No, ritorniamo indietro; prima ti ho chiesto: «È un’esperienza o no?», e tu hai risposto di sì. Adesso mi dici: «Se». Hai fatto quest’esperienza? Perché adesso incominci a far “girare” la testa invece di seguire l’esperienza, e allora io comincio a dubitare che tu l’abbia fatta. «Sei innamorata?». «Sì». «E uno che è innamorato sperimenta la vita più intensamente?». «Se è innamorato, sì». Capite la( pag. 5) contraddizione? Allora, in che cosa si vede che uno ha fatto veramente un’esperienza, che cosa dice la Scuola di comunità, qual è il segno più palese che uno ha fatto veramente tutto questo percorso come esperienza?
Io so dire solo quello che ho detto.
Basta. Avanti, lasciamo aperta la domanda. La domanda è apparsa, adesso tutti quanti fanno i conti con la domanda. Qui il metodo è un avvenimento. Questa è la domanda di oggi; perché è come la verifica, se noi abbiamo fatto il percorso. Che io faccio…
Una parola soltanto.
Letizia e gratitudine. Tu hai rilanciato la questione della sentenza sui crocifissi, io inizialmente ho reagito con rabbia.

Perché?
Perché tutto ti grida dentro che è un’ingiustizia, che è una prevaricazione, che è una violenza, che è
una menzogna questa sentenza. Però la cosa che mi ha sorpreso, su cui sono rimasto stupito è che dopo (e questa era una cosa che non mi era accaduta prima, per esempio sul caso di Eluana sono rimasto fermo sulla rabbia) è come se fosse emersa la domanda: ma se vincessero loro e i crocifissi sparissero da qualsiasi posto, io che cosa potrei dire della mia fede? E allora lì sono dovuto letteralmente riandare a tutto ciò che mi è accaduto e che mi sta accadendo ancora, e questa cosa,
questo percorso di riandare a ciò che mi accade io lo posso dire come una cosa reale, come una cosa tangibile, come una cosa in cui io sono certo (potrei anche dire a volte le circostanze, il posto,l’ora in cui ho sperimentato una tenerezza), e quando poi è venuto fuori il volantino, io ho detto subito: «Ecco qual è la questione, ecco qual è la portata della questione»; ed è come emersa dentro
di me una letizia, cioè ora è chiaro che posso andare in corto circuito tra un istante, ma non posso negare questa esperienza, non la posso più negare, non posso più tornare indietro.
E perché c’è questa letizia? Qual è la differenza tra quella prima tua reazione e la letizia? Qual è il nocciolo della differenza, della diversità che il volantino porta? Perché questa è la questione.
Che ho dovuto implicare tutto il mio umano. Mentre in fondo per altre questioni, anche quella di Eluana, in fondo il mio umano lo potevo anche tenere fuori, perché non vivo una situazione di sofferenza, qui si trattava di arrivare al punto di dove io, ultimamente, sto fondando la mia esistenza, si arrivava al punto di dover implicare quello che mi brucia di più, quello per cui io sono qui a fare una strada con te, e per cui sempre di più percepisco che è una grande avventura ed è
sempre più bella.
Ancora deve venire fuori con più chiarezza qual è la diversità.
Ero felicissima quando ho letto il volantino, ho fatto una festa enorme.
Perché?
Perché corrispondeva a quello che io dicevo e dico di me. Avevo avuto una chiacchierata con un amico italiano che vive in Inghilterra, che è da un po’ di anni che non sopporta che ogni volta che ci sentiamo per mail in qualche modo io dica il nome di Gesù, e mi chiede di parlare di mio marito, dei miei figli e del mio lavoro e dice che vuole parlare di cose che ci sono, e io gli avevo detto,
prima che uscisse il volantino: «Toglieteli pure i crocifissi, io comunque ci sono, io ci sono e nel mondo Gesù c’è, sempre ci sarà, per cui noi abbiamo già vinto tutto». Per me quel volantino è stata una festa! Da che cosa si vede – che è l’altra domanda –? C’è una differenza enorme tra chi ha la grazia della certezza del Signore presente, chi nel Signore presente trova soddisfazione e felicità, e
chi non ha la grazia di questa certezza. E la differenza è che chi non ha questa certezza è giustamente arrabbiatissimo, spende però tutta l’energia a bestemmiare, a lamentarsi e a stancarsi,oppure fa finta che il problema non ci sia per riuscire a sopravvivere, e fa una guerra che non è neanche una guerra perché non si implica mai, in nessun dialogo, in nessun rapporto, mentre invece io mi trovo una letizia incrollabile, inattaccabile da qualsiasi cosa accada, e la vedo in altri
davanti a me e dico che sono vere quelle parole perché ho l’energia per coinvolgermi moltissimo
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nella realtà, per cogliere tutte le occasioni – sbagliando, non sbagliando – senza avere nessuna paura e sapendo cosa mi fa felice. Come la preghiera, che anni fa per me nasceva dall’angoscia; e adesso invece prego perché sono felice, sono sicurissima che sono completamene esaudita.
Due cose devono ancora diventare chiare. Una: perché tu hai fatto festa per il volantino?
Non è un’idea da difendere, e non è una guerra che possiamo perdere; non è un’idea da difendere,ma sono io, è una presenza che io non posso togliere.
Non è un’idea, e perché dici che non è un’idea? Dico: qual è la diversità a cui la cultura vuole ridurre la vicenda e qual è la novità che noi portiamo nel volantino? Perché questo è quello che dobbiamo capire noi prima di tutto, per poter esserci con una diversità.
La differenza è che il Verbo si è fatto carne, Gesù c’è.
Ma anche quelli che dicono che il crocifisso è un fatto culturale accettano che il Verbo si è fatto carne, qual è la differenza?

È che noi siamo già sicuri, nel senso che io difendo la mia esperienza, difendo la mia vita.
Ma anche gli altri sono sicuri che Cristo è diventato carne, che è morto, tanto è vero che difendono i crocifissi, non è che non li difendono; tanti cattolici o tanti di noi hanno difeso il crocifisso come un fatto culturale.
Ma non hanno sicuramente speranza…
E perché questo è sbagliato? Che cosa diciamo noi? Perché se questo non diventa chiaro, non sappiamo la ragione della festa.
Diciamo che è irriducibile.
E cosa vuol dire questo? Perché è irriducibile? Perché non è un fatto culturale, non è un fatto del passato, ma è un fatto presente. Grazie. Adesso occorre sapere perché è un fatto presente.
È un fatto presente perché mi cambia.
In che cosa ti ha cambiato il volantino? Perché se è presente, ti cambia; cosa ti ha cambiato? In cosa ti ha spostato?
A me ha messo molta più tranquillità al lavoro, dove nessuno è credente, anzi, mi prendono sempre abbastanza in giro; avere in mente in questi giorni quel volantino mi rende più tranquilla: posso
non convertirti, posso non dirti nulla di Cristo, ma che io sono qua è un’evidenza, che i miei capi guardano a me in una maniera diversa io lo vedo, che davanti alle cose io sono diversa loro lo vedono, si stupiscono, poi uno lo dice più o meno come lo dice. Ripensando a questi ultimi mesi, mi sono accorta che immediatamente, rispetto a ciò che accade, non ho un atteggiamento di povertà.
Faccio un esempio banale, l’ultima cosa che mi è capitata, proprio stupida: ieri sera ho realizzato che devo smettere di fumare, assolutamente, e immediatamente mi è uscita una frase: «Che vitaccia, non posso neanche più fumare». E qui mi accorgo però dell’importanza dal lavoro che ci stai facendo fare sul giudizio e l’esperienza, non ho lasciato perdere quella frase e sono iniziate le
domande. È una sigaretta che ti rende felice? Ti ha mai vibrato il cuore accendendoti una sigaretta? Ti commuovi quando vedi un tabaccaio?
Soltanto i fumatori possono capire queste cose...
Ognuno ha la sua strada, quindi anche la sigaretta vale. Così sono arrivata a dire Cristo perché,evidentemente, è l’unico che risponde al mio desiderio di felicità, è l’unico che mi fa vibrare il cuore e commuovere tanto da sentire che ho tutto. Come dicevo l’altra sera ad alcuni amici:
«Quello che mi commuove in questi ultimi mesi è l’essermi accorta che non c’è nessuna
contraddizione che sia contro il mio desiderio di felicità». Però questo posso dirlo solo perché Cristo c’è nella mia vita, è un fatto che mi cambia la faccia; ma è diventato un fatto perchè in questi ultimi anni ho deciso di scommettere tutto sul lavoro che ci chiedi di fare; solo così ho iniziato a conoscere e ad affezionarmi a Cristo. Così queste pagine sulla povertà non sono diventate una misura perché non sono capace, ma un punto di commozione, perché con un piccolo lavoro ho ridetto il nome di Colui che mi fa respirare veramente in tutto, ed è come una festa a
Cristo. Questo mi fa ringraziare per questo momento, perché è occasione per riverderLo e vedere quello che fa della mia vita, anche una stupida sigaretta diventa occasione per fare memoria.
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In che cosa vedi che tu stai facendo questo percorso che propone la Scuola di comunità e che abbiamo fatto insieme? In che cosa lo vedi rispetto alla povertà?
Per questa certezza che mi trovo addosso che, per carità, ogni volta è un lavoro, perché magari non è immediato, però sempre di più mi rendo conto che quello che mi è dato da vivere mi compie molto di più che se io lo evitassi.
In che cosa si vede che la certezza si compie?
Perché mi vedo più tranquilla, più lieta, come diceva il ragazzo di prima, più tranquilla, sono meno agitata.
In che cosa si vede che tu sei più libera, cioè in che cosa si vede che tu sei più povera?
Perché me la vivo quella cosa lì, me la vivo.
Dobbiamo arrivare al dunque. Grazie.
Io dico che quello che vedo (che è un’esperienza), è che a me viene voglia di stare con voi, nel Movimento: mi allarga la testa. Per esempio, io sulla questione dei crocifissi ho reagito esattamente come hanno reagito tutti, come un fatto culturale e non ho pensato a Gesù, a Gesù vivo. Allora io desidero venire qua, desidero fare il lavoro della Scuola di comunità. Quello che
volevo raccontare è che mio figlio oggi è partito per Londra. Il mio terzo figlio. Ho sempre vissuto le partenze dei figli molto dolorosamente, come una brava mamma chioccia…
Figurati mia mamma, che mi ha visto partire a dieci anni!
Io non ci posso neanche pensare! Mi sono scoperta diversa non perché non viva il distacco, ma in realtà non ho dolore perché il rapporto è proprio libero quando è povero, quando tu non lo vuoi possedere. I nostri figli sono di un Altro…
Cioè, il segno che uno fa un’esperienza qual è davanti, per esempio, a questa vicenda dei figli?
Io lo vivo diversamente.
L’hai detto, ripetilo! Neanche quando la beccate riuscite a fissarla… Guardate, andiamo alla pagina 258: «Il fondamento della povertà sta nella certezza che Dio compie quello che ti fa desiderare. Se Dio, Dio presente, Cristo – perché è in Cristo che Dio opera –, se Cristo ti dà la certezza di compiere ciò che ti fa desiderare, allora tu sei liberissimo». Il test che noi abbiamo fatto questo percorso dalla fede alla povertà, non è che adesso facciamo chiacchiere sulla povertà o riflessioni sulla povertà: ma se è successa la povertà. E vedo che è accaduta la povertà, se io mi ritrovo libero, liberissimo dalle cose.
Ho fatto l’esperienza di questo. Io faccio l’avvocato, ho il mio studio da tre anni e prima lavoravo in un grande studio dove facevamo delle cose molto interessanti, che ci prendevano, sempre all’erta, sempre sul pezzo. Adesso ho una realtà piccola, faccio piccoli lavori, molta frustrazione per la mia intelligenza sacrificata. La scorsa settimana, la mattina (io mi alzo presto la mattina per leggere) ho letto proprio il pezzo su «Non sperare la felicità futura da un certo possesso presente»
e ho riflettuto. Poi, durante la mattinata, avevo un appuntamento, procurato da amici di Roma, con un avvocato di Milano molto noto che aveva recentemente smembrato la sua organizzazione e cercava proprio il mio profilo. Io non l’avevo cercata questa cosa, gli amici di Roma mi avevano detto: «Dai, lavoriamo insieme da tanto, perché non vieni anche tu in questa ipotetica cordata che forse si farà?»; sono andata all’appuntamento e lui mi è piaciuto subito, era del tipo di quelli con
cui lavoravo prima, per cui mi stimolava il lavoro che faceva, le proposte teoriche che mi proponeva, e avevo dei sentimenti contrastanti: perché raccontandogli di me stessa come sono veramente (per esempio, che la mia attuale segretaria ha solo la terza media) diventavo sempre meno accattivante per lui e c’è stata una curva discendente. Lui aveva un entusiasmo all’inizio perché aveva visto il mio profilo, alla fine del dialogo mi ha praticamente congedata di forza e sono uscita ancora più frustrata. Mi sono sfogata con un’amica addirittura chiamandola sul
lavoro, e lei poveraccia mi ha ascoltato, sono stata tutto il giorno molto disturbata e ho lavorato malissimo. La sera c’erano le quarant’ore in parrocchia da me, sono andata a fare l’adorazione.
Durante l’adorazione mi sono detta: «Tu non hai fatto un fallimento dicendo a questa persona
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come sei veramente, tu hai dato la tua testimonianza di quello che sei e di quali sono i tuoi valori,di cosa tu porti avanti, di perché lavori così, di perché questa persona che ha la terza media tu la stimi e la incoraggi e la porti avanti e comunque non te ne separeresti mai anche se ha tanti limiti, e del modo con cui tu ti poni verso il lavoro che non è assolutamente quello con cui si pone lui (il
denaro)». E siccome il Signore non ti lascia mai con l’interrogativo che magari ti sei sbagliato, quando sono tornata a casa dall’adorazione, mi chiama una mia collega dello studio dove stavo prima e che non sentivo da sei mesi, alle undici di sera, le racconto brevemente l’episodio e lei, che è una donna in carriera, che ha fatto la scelta opposta, io pensavo mi incoraggiasse a ricontattarlo, mi ha detto questa frase: «Stai a casa tua», e io mi sono detta: «Signore, ti ringrazio perché questa
qui è la conferma, l’avevo già capito però è la conferma di cui avevo bisogno». Che cos’è che cambia? Non è importante cosa faccio, ma come lo faccio e quindi il giorno dopo avevo massimo entusiasmo. Poi, lo spostamento del baricentro sulle cose importanti: non è importante cosa faccio di lavoro, è importante come lo faccio, è importante averlo perché tanta gente non ce l’ha, e quindi ringraziamo il Signore, perché così campiamo in quattro famiglie. E la libertà con cui faccio le
cose deriva dal fatto che Lui penserà a colmare i miei limiti. Alla fine il progetto mio con il Signore è la cosa più importante, cioè quello che faccio lo faccio con il Signore e poi quello che succede succede.
Ma questo è per un temperamento tuo o è per qualcosa che è successo?
Davanti all’Eucaristia ho cambiato completamente atteggiamento.
Come, davanti all’Eucaristia?
Mentre pregavo ho riletto quello che era successo con un altro occhio.
Non confonderti. La libertà ti è successa prima di andare alle quarant’ore, perché il problema era la tua libertà davanti all’ipotetico datore di lavoro. Lì tu sei stata libera; e qual era l’origine di questa libertà? Perché se non capiamo questo, non capiamo perché diciamo queste cose; questo è stato semplicemente perché tu eri più brava, perché eri più allenata, per il tuo temperamento, perché? Perché questo è quello su cui adesso dobbiamo fare il paragone tutti. Dicevo all’inizio: in che cosa si vede che io ho fatto il percorso che abbiamo ripreso?
È la domanda che mi sto facendo da una settimana, perché sapevo che non avrei potuto concludere.
Esatto, in che cosa? La povertà è il punto in cui siamo adesso, possiamo vedere se noi abbiamo fatto un percorso non soltanto se possiamo fare tutti i passaggi logici (perché uno può fare tutti i passaggi logici del discorso, ma questo non basta per aver fatto esperienza). Questa è la differenza fondamentale fra usare il libro soltanto come uno strumento per imparare qualcosa, o come lo strumento per fare un’esperienza, che mi butta in un’esperienza. E qual è il test che la Scuola di comunità stessa suggerisce? Se Cristo ti dà la certezza di compiere ciò che ti fa desiderare, allora tu sei liberissimo. Io so che ho fatto esperienza se mi sorprendo libero dalle cose: «Non sei schiavo di niente, non sei legato a niente, non sei incatenato a niente, non dipendi da niente: sei libero». Questa è la cosa più impossibile da darsi all’uomo, perché tante persone davanti alla povertà o davanti alle cose possono essere generose, possono fare un tentativo di distacco, ma in fondo per virtù (che è il valore a cui occorre aderire); ma quello che uno non si può dare è la libertà dalle cose, perché la libertà dalle cose nasce solo da un’esperienza vissuta, da qualcosa che mi riempie tanto da rendermi libero. Questo è il test della fede come esperienza: che io faccio tale esperienza di sovrabbondanza che mi sorprendo a trattare le cose con libertà; sei libero, non sei incatenato a niente. E ciascuno può vedere adesso, in se stesso, fino a che punto questo è stato così, è così adesso: «Ora, non sei schiavo di quello che usi, perché sei schiavo solo di Colui che ti dà la certezza della tua felicità. La povertà si rivela come libertà dalle cose in quanto è Dio che compie i desideri, non la certa cosa cui tu miri». E questo è il cristianesimo come avvenimento, non soltanto come una mia bravura, non soltanto come un mio moralismo, non soltanto come un mio tentativo, perché qua adesso abbiamo potuto fare tutto il percorso del cristianesimo come avvenimento partendo dai fatti eccezionali, da una diversità, da una eccezionalità. Adesso possiamo tornare alla povertà e cambiare di nuovo la natura del cristianesimo, cercando ridicolmente di provare a fare i poveri. No! La povertà, così come viene inserita in tutto il percorso, è il test del percorso, il test di come vivo le circostanze, il (9 )
test per cui posso riconoscere che è un’esperienza presente, che la fede è il riconoscimento di una presenza presente: perché io sono libero. Guardate che questo criterio è infallibile, questa libertà è il segno della Sua presenza, è un’esperienza che io devo riconoscere; per spiegare questa libertà occorre la presenza di qualcosa che io non vedo né tocco, ma senza della quale io non potrei sperimentare questa libertà. Per questo, perché possiamo fare un volantino così? Possiamo fare un volantino così, non accettando il campo di gioco definito dalla Corte Europea – perché anche tanti di coloro che sono a favore dei crocifissi hanno accettato di difenderli con la stessa mentalità ridotta della sentenza –, perché Cristo non è un fatto del passato o un fatto culturale! Il volantino è diverso proprio per questo, perché parla di un’esperienza presente. Per fare un volantino così occorre il cristianesimo come esperienza presente, come ce lo ha testimoniato don Giussani. Perciò, molto più importante che lamentarci adesso di quello che non abbiamo fatto bene o della correzione che ci è stata fatta, è importante di nuovo fare festa perché c’è un Altro che ci tiene per la mano, perché una Presenza è presente. Senza questa Presenza presente il volantino non ci sarebbe

stato. È una testimonianza dello stesso livello della povertà, della libertà rispetto alle cose, perché per poterlo fare così non basta tutta la nostra cultura (perché tanti hanno molta più cultura di noi e sono caduti nella riduzione), non bastano tutte le biblioteche, non basta tutta la teologia: occorre una fede come esperienza, come riconoscimento della Sua presenza che ci impedisce di ridurre la natura del cristianesimo. E questo, di nuovo, adesso, diventa ancora una volta una verifica di che cosa è la fede per noi, per giocarla nel presente; perché è la modalità con cui noi – non facendo una manifestazione, ma essendoci come presenza in mezzo al lavoro, in mezzo ai colleghi, in mezzo agli amici – possiamo dare a quelli che l’hanno ridotto la ragione completa del perché a noi interessa il cristianesimo. Per questo abbiamo davanti una bella occasione per fare esperienza di tutto questo.
La prossima volta ci troviamo sulle pagine 259-270, terminando il capitolo sulla povertà, ma soprattutto cercando non soltanto di riflettere sulla povertà, ma di sorprendere se ci succede
La povertà, come sorpresa, perché i cosiddetti valori cristiani sono i segni che Lui è presente. Senza avere Lui come radice e come presenza, non accade nulla (come invece pensava l’Illuminismo, e insieme all’Illuminismo anche noi tutte le volte che sogniamo di generare le cose da noi stessi, per poi ritrovarci tristi come tutti), non è la sorpresa di qualcosa, di una sovrabbondanza da cui viene per sorpresa un evento, una conseguenza imprevista: la libertà rispetto alla cose e alle persone e alle circostanze a tutto.
È uscito il volantone di Natale, che descrive bene l’esperienza dell’umano che tutti viviamo e a cui Cristo risponde ora venendoci incontro: è un’esperienza se «io posso amarmi ora». Mi sembra quasi ovvio, ma tutti sappiamo che non è così ovvio; volersi bene ora o voler bene all’altro ora è diverso.
Noi non possiamo tornare indietro come metodo dall’esperienza di cui abbiamo parlato, non mi interessa soltanto ripetere delle cose giuste, ma fare esperienza di questo, perché è ciò che ci spinge a fare il percorso che propone la Scuola di comunità. Il volantone rappresenta il nostro cammino oggi, perciò esporlo e usarlo è un’occasione, come il volantino sul crocifisso, di comunicare con più consapevolezza un’esperienza così grande da renderci liberi nel reale. Altrimenti non occorre nemmeno levare i crocifissi, perché il cristianesimo come esperienza reale non c’è nei luoghi dove si gioca la vita. La sfida per noi è questa: abbiamo fatto un’esperienza di una sovrabbondanza così da essere liberi nel reale o no?
Questa è la verifica.

• Gloria