sabato 28 marzo 2009

IL PDL NON CENSURI LA VOGLIA DI BENE E DI GIUSTIZIA .Che interpreti le vere attese non i totem di carta


DAVIDE RONDONI
C he moltissimi uomini e donne si uniscano in un solo grande partito è una faccenda che si deve valutare con una previa simpatia. Che ci siano spinte a unirsi per cercare insieme soluzioni politiche ai problemi e alle necessità della vita comune è un segno che merita un favore iniziale, primario. La nascita del Pdl, come del resto quella del Pd, a noi suggeriscono anzitutto lo spettacolo di tanti uomini che mettono in comune ideali ed energia. E questo è un buon segno contro i tanti, troppi segni di disgregazione da cui siamo circondati. Naturalmente non viviamo sulle nuvole e sappiamo bene quanti e quali moti e spinte di interesse, di vanità, di opportunismo possono mescolarsi alla tensione ideale all’unirsi. E il valore di una formazione politica nuova lo si potrà valutare davvero non nel momento in cui celebra con fasto il proprio avvio ma quando si vedranno le scelte, le direzioni e le reali capacità di collaborare al bene comune. Non viene dal niente, questo Pdl. E per quanto negli anni scorsi non siano mancate critiche alla presunta inconsistenza o virtualità di una parte di forze che lo stanno componendo, ora quel che si avvia a Roma è un soggetto politico che ha dato nella strada percorsa fin qui segni di maturità nell’azione di opposizione o di governo. A questo nuovo soggetto viene da chiedere che sia innanzitutto e fino in fondo al servizio del bene del Paese. I partiti sono – pur con i mille difetti che spesso si imputano loro, a volte non senza occulti interessi di potere – lo strumento con cui democraticamente una comunità tende al miglior bene. Strumenti preziosi, che non hanno come scopo se stessi o il culto del proprio potere. I partiti devono 'servire'. A questo nascente Pdl si deve chiedere che 'serva' l’Italia. L’Italia reale, di uomini in carne e ossa che ha vite e idee spesso diverse da quelle ritratte dai maggiori mass media. Che ha pene diverse da quelle spesso affrontate sugli schermi. I partiti devono essere lo strumento reale della politica per servire la vita reale della gente. Si vive nel nostro tempo una formidabile serie di mutazioni. Un partito deve saperle interpretare, smentendo i luoghi comuni se necessario. Magari dimostrando che si è davvero più moderni leggendo i fenomeni al contrario di quanto fanno certi intellettuali o mass media presunti 'moderni'. Un partito non è una scuola filosofica, e quindi non ha un pensiero unico, ma deve avere modi di pensare che non violentino la realtà in nome della ideologia o del consenso. Ci sono delicate sfide in campo culturale ed etico che chiedono un modo di pensare realista e non ideologico, attento ai dati più che agli slogan. Ne va, in molti casi lo sappiamo, della dignità e del valore della vita di tutti, e specialmente dei più deboli. In questo senso un partito può esser la sede in cui chi è segnato da una esperienza di fede e chi invece non lo è possono trovare insieme modi di pensare realisti, cioè rispettosi della realtà delle cose.
La Chiesa non chiede ai partiti di essere né sua gran cassa, né suo strumento. Perché la Chiesa è un corpo che non vive nel mondo grazie alla politica, ma che vive ed è vivissima grazie alla fede dei suoi figli. La politica non regala a nessuno la felicità, e non sarà dai cambiamenti politici che nasceranno nuove speranze, semmai il contrario. Esse nascono dal cuore degli uomini, spesso in condizioni politiche ardue o contrarie. Non sarà un partito a dare speranza ai genitori di fronte ai loro figli, o far sorgere nei giovani la voglia di impegnarsi nella vita. Per questo occorrono uomini e donne, educatori, esempi. I partiti, però, possono favorire questi esempi, oppure ostacolarli, ignorarli, e parlare sempre d’altro. Dal Pdl come da nessun partito e da nessun uomo si pretende la perfezione. Ma la Chiesa chiede ai partiti, come a ogni singolo uomo, di usare la ragione e di non censurare la domanda di bene e di giustizia che ci urge nel cuore.
La nascita di un partito, uomini che mettono in comune ideali ed energia

venerdì 27 marzo 2009

BIRMANIA - DOVE NASCE LA RIBELLIONE



di Piero Gheddo
Una povertà feroce. Un governo che schiaccia il popolo. E un regime che da quarant’anni pretende di eliminare Dio, «perché l’uomo è l’unico essere supremo». Uno storico missionario del Pime spiega cosa c’è alla radice della tragedia che sta dilaniando il Paese orientale. Anche ora che sui media occidentali è tornato il silenzio
È la prima volta, da quasi vent’anni, che sui media internazionali si parla della Birmania (o Myanmar), Paese quasi sempre dimenticato. Dal 1962 è oppresso da una dittatura militar-socialista (o meglio, comunista), che schiaccia il popolo ma non rappresenta alcuna minaccia diretta per l’Occidente. Dalla metà dell’agosto scorso, a causa dell’aumento improvviso del prezzo di benzina e gasolio che ha tagliato le gambe alla piccola economia, il popolo è sceso nelle piazze e a settembre si sono uniti i monaci buddhisti, anch’essi sfilando per le città nelle loro tuniche color zafferano-rosso. Per un po’ di giorni i militari non hanno reagito, poi s’è scatenata la repressione che ha rapidamente eliminato il fastidioso spettacolo, trasmesso da tutte le televisioni del mondo.
«Muoiono come mosche»
Era dal 1988 che non si verificava in Birmania una ribellione popolare su scala nazionale, iniziata dalla protesta degli studenti per la frequente chiusura delle scuole superiori e delle università. Com’è noto, allora la giunta militare aveva dovuto lasciare una qualche libertà alle opposizioni, a causa delle forti pressioni internazionali. Nel 1990 si erano tenute delle “libere” elezioni, dalle quali uscì trionfante la Lega per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, mentre il Partito socialista birmano dei militari aveva avuto il 10% dei voti. Qualche anno dopo tutto era tornato come prima: la Suu Kyi non ha mai governato, i suoi deputati eletti erano finiti in prigione o fuggiti all’estero.
C’erano state alcune migliaia di morti e molti arrestati in quelle manifestazioni erano finiti ai lavori forzati. Visitando la Birmania nel 1993, ho visto io stesso file di uomini legati a due a due con catene ai piedi e sorvegliati dai militari col fucile puntato, che costruivano la strada ai confini con la Thailandia (confine di Thachileik). Uno spettacolo da brividi, tanto più che chi mi accompagnava diceva: «Muoiono come mosche, vivono in capannoni di paglia, con poco cibo, senza riparo dal caldo e freddo dei monti e senza assistenza medica; e la grande maggioranza sono uomini di città, non più abituati a lavori pesanti e alla vita in foresta». Si teme che anche la recente ribellione con i monaci in prima fila finisca allo stesso modo, nonostante le pressioni internazionali, inconcludenti per il semplice motivo che dal 1990 a oggi la Birmania ha acquistato un potente protettore nella Cina comunista, oggi tornata alla ribalta come grande potenza e bisognosa di avere uno sbocco sull’Oceano indiano. Un testimone oculare un anno fa circa mi scriveva: «I militari stanno costringendo i contadini a coltivare l’oppio per loro e fanno della Birmania il maggior esportatore del mondo… Oggi la Cina rifornisce i militari di armi per ripagare i legni pregiati, i minerali, il gas e il petrolio; costruiscono strade, ci inondano dei loro prodotti».
L’invasione cinese
I cinesi sono già in Birmania, “colonizzano” alcune regioni tribali di confine che sono autonome. Ne ho visitato una nel 2002, con la città di Mong Lar invasa dai cinesi: scritte cinesi, taxi cinesi, moneta cinese, ristoranti cinesi, lavori cinesi che modernizzano la città con palazzi mai visti da quelle parti, canalizzano l’acqua, assicurano elettricità e acqua corrente. È facile capire perché Cina e Russia si oppongono alle sanzioni decretate dall’Onu. Oltre all’interesse economico e strategico di queste due potenze c’è il fatto, di cui assolutamente non si parla, che il colpo di stato che il 2 marzo 1962 ha portato le forze armate al potere assoluto non era fatto solo da “militari”, ma da militari “socialisti”, cioè in pratica “comunisti”, che si ispiravano ai modelli di sviluppo della Russia staliniana e della Cina maoista. L’hanno dimostrato subito quando hanno varato in quell’anno 1962 il Lanzin, cioè “la via birmana al socialismo”, un socialismo “ispirato al buddhismo”, anche se poi di buddhista non ha assolutamente nulla. Nel “Programma” del Lanzin, tra le idee di base da cui partire per una società nuova, si legge: «Al posto di dio (minuscolo) bisogna mettere l’uomo, che è l’essere supremo… La filosofia del nostro partito è una dottrina puramente mondana e umana. Essa non è una religione… La storia dell’umanità è non solo storia di nazioni e di guerre, ma anche di lotta di classe. Il socialismo intende mettere fine a questo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’ideale del socialismo è una società prospera, ricca, fondata sulla giustizia. Non c’è posto per la carità. Noi faremo di tutto, con metodi appropriati, per eliminare atti e opere di falsa carità e assistenza sociale. Lo Stato pensa a tutto. Nutrire ed educare i figli dei lavoratori sarà esclusiva responsabilità dello Stato, quando ci saranno abbastanza risorse economiche. L’attività di imprese sociali fondate sul diritto di proprietà privata è contro natura e non fa che sfociare in antagonismi sociali. La proprietà dei mezzi di produzione deve essere sociale… Un’azione può essere considerata come retta, morale, solo quando serve agli interessi dei lavoratori. Lavorare tutta la vita per il benessere dei concittadini e per quello dell’umanità in spirito di fratellanza è il “Programma delle Beatitudini” per la Società dell’Unione Birmana».
In base a questi principi, uno dei primi decreti del governo è l’abolizione del buddhismo come “religione di stato” (lo era da subito dopo l’indipendenza del 1948). Poi il governo nazionalizza le banche, le industrie, le piccole e medie aziende artigianali, i negozi e le terre, i giornali e le radio, gli alberghi e i ristoranti e via dicendo. Scomparsa la proprietà privata, tutto è dello Stato, che orienta ogni cosa al bene pubblico. Infine, il 31 marzo 1964 vengono requisite le scuole e le strutture sanitarie private (con le loro terre e mezzi di trasporto: ai proprietari restano solo i debiti), in buona parte cattoliche e protestanti (soprattutto battiste e anglicane). Il regime nel 1966 espelle tutti i missionari entrati in Birmania dopo il 1964, fra i quali trenta del Pime, mentre altri trenta arrivati prima rimangono. Poi, a poco a poco, il governo si è accorto che avrebbe scontentato troppo il popolo e ha lasciato sopravvivere le religioni; fino al punto che i buddhisti si sono riconciliati e hanno appoggiato la giunta, che assicurava comunque stabilità a un Paese che nei 14 anni del governo democratico (1948-1962) aveva conosciuto la guerra civile. La svolta è avvenuta nel 1988 e da allora fino a oggi i buddhisti sono stati all’opposizione.
Occorre spiegare come mai il buddhismo, che predica il distacco dalle cose mondane, la rinunzia a tutto, l’accettazione passiva per assicurarsi una rinascita più felice, in Birmania oggi si impegna contro il governo. In sintesi, si può dire che la rinascita del buddhismo nel mondo moderno (parlo soprattutto della “piccola via”, l’hinayana, praticata in Sri Lanka, Birmania, Thailandia, Cambogia e Laos) è iniziata alla fine dell’Ottocento col nascere del nazionalismo in questi Paesi allora colonizzati (eccetto la Thailandia). L’identità nazionale comprendeva la lingua, la storia e naturalmente la religione e la cultura buddhista, radicatissime in quei popoli. Questo movimento ha portato i bonzi, i monaci e i fedeli laici a capire che la loro religione, secondo i principi dottrinali antichi e la tradizione storica, non poteva sopravvivere nel mondo moderno, che dava importanza alla scuola, alla politica, all’organizzazione popolare, al benessere sociale. I nazionalismi in Asia sono stati tutti ispirati alle religioni popolari: basta pensare al Pakistan e, oggi, allo Sri Lanka, con la guerra civile fra maggioranza singalese buddhista e la minoranza tamil hindù.

Che cosa ha detto Buddha
Il rinnovamento del buddhismo ha avuto vari aspetti: modernizzazione delle scuole dei monasteri, fondazione di centri di studio e università buddhiste, inizio di associazioni laicali, fondazione di molte opere sociali per il popolo (a imitazione delle missioni cristiane), che prima assolutamente non esistevano. Ho visitato l’Università buddhista di Kandy, in Sri Lanka, e mi sono reso conto della complessità del buddhismo, a partire dalla difficoltà di stabilire quali sono i testi di Buddha. Il vescovo di Kandy (che ha studiato in quella università) mi diceva che oggi i testi della tradizione in varie lingue (sanscrito e pali soprattutto) attribuiti a Buddha, che sono le Sacre Scritture del buddismo, sono 11 volte più lunghi dell’intera Bibbia (che ha 72 libri canonici). Gli studi critici, iniziati da studiosi inglesi e tedeschi poco più d’un secolo fa, sono praticamente ancora agli inizi, nel mare magnum di questa letteratura (anche in singalese, birmano, thailandese, cambogiano, vietnamita, ecc.). Scientificamente non è ancora possibile dire cosa ha detto o non detto Buddha. Questo vale anche, in misura minore, per Maometto e il Corano!
L’anima del popolo
Tutto ciò non impedisce al buddhismo popolare birmano non solo di sopravvivere, ma di avere una seconda giovinezza e di essere sempre più l’anima del popolo, anche come unica forza di opposizione, data la pratica eliminazione di tutte le altre. La discesa in campo così massiccia dei monaci buddhisti contro il governo nel settembre scorso è il chiaro indice di come la situazione sia diventata insopportabile.
Inutile aggiungere altro. Se non riesce la pacifica rivolta popolare guidata e animata dai bonzi, per Myanmar si aprono scenari ancora più cupi: potrebbe diventare, per interposto governo “locale”, una provincia cinese. I governi europei e quello italiano cosa fanno? L’unica minaccia efficace di boicottaggio spontaneo dell’Occidente sarebbe di non partecipare alle Olimpiadi del 2008 a Pechino, ma mi pare che non ci siano ancora state proposte e dibattiti seri in questo senso, nemmeno in Italia dove abbondano i democratici, i pacifisti e i gruppi pronti a mobilitarsi per i diritti dell’uomo. Per quale motivo?

lunedì 23 marzo 2009

Brasile - LA BAMBINA DI ALAGOINHA E NOI


Brasile


Non conosciamo il nome “della bambina di Alagoinha”..., che all'età di nove anni è rimasta incinta dopo aver subito un abuso dal patrigno e ha abortito. E molti in questi giorni non si preoccupano di pensare che è lei la prima che, in momenti tristi come questo, avrebbe bisogno di una carezza del Nazareno.

La bambina di Alagoinha e noi – che ci troviamo nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, al potere o scrivendo sui giornali – abbiamo bisogno di una dolcezza che ci abbracci e che risvegli un’affezione per noi stessi. Perché altrimenti il sentimento che prevale è solamente la stanchezza: basta che le difficoltà del vivere quotidiano, o meglio, il mistero attraverso cui la vita ci sfida, superi di poco la nostra misura che noi ci sentiamo distrutti. E intanto difendiamo, con tutta la nostra resistenza, il nostro scandalo di fronte a ciò che non comprendiamo.

Ma di fronte a un fatto così drammatico, tutte queste parole sembrano inutili. La vita è un inganno? Possiamo dare un senso alla vita quando ci troviamo di fronte a dei fatti come questo? Possiamo sopportare una tale sofferenza? Da soli sicuramente no, non ci riusciamo. È necessario che scopriamo e incontriamo la presenza di qualcuno che sperimenti una pienezza nella vita, in modo che possiamo vedere e recuperare la speranza che tutto non finisce in un vuoto devastante.

Nemmeno Cristo ha avuto timore dell’angustia legata al dolore e al male fino alla morte. Ma allora cos’è che ha fatto la differenza in Lui? È una persona che è stata più coraggiosa di noi? No! Tanto che nel momento più terribile della sua prova, ha chiesto che la croce gli fosse risparmiata. In Cristo, è stato vinto il sospetto che la vita, in ultima istanza, sia un fallimento: ciò che ha vinto è stato il suo legame con il Padre.

Benedetto XVI ci ha ricordato che «la vera risposta consiste nel testimoniare l’amore che ci aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano. Di questo siamo certi: nessuna lacrima di chi soffre, e nemmeno di quelli che gli stanno vicino, si perderà davanti a Dio» (Angelus, 1 febbraio 2009).

Per questo noi siamo vicini alla bambina di Alagoinha e alla Chiesa, che non si stanca di insegnarci, all'interno degli avvenimenti della storia, che non possiamo ripagare il male con il male. Consideriamo l’aborto come una seconda violenza su questa bambina, un gesto così lascia dei segni molto profondi per tutta la vita, e una bambina che aveva già sofferto tanto non meritava di ricevere un’ulteriore violenza. La vita è dono di Dio e in nome di chi l’uomo decide quando la vita viene donata o viene tolta?

La presenza di Cristo è l’unico fatto che può dare un senso al dolore e all’ingiustizia. Riconoscere la positività che vince qualsiasi solitudine e qualsiasi violenza è possibile solo grazie all’incontro con persone che testimoniano che la vita vale più della malattia e della morte. Come ci ha testimoniato Vicky, ripresa nel documentario che ha vinto a Cannes nel 2008: una donna sieropositiva dell'Uganda, che ha accettato questo sguardo su di sé, ha riscoperto la propria dignità e oggi aiuta centinaia di altre persone in una ONG del suo Paese. Questa è la vita nuova che tutti desideriamo, malgrado il male del mondo e il nostro male. Questa è la vita che la bambina di Alagoinha desidera ora.

Movimento Cattolico di Comunione e Liberazione (www.cl.org.br)

«La Chiesa sta con le persone reali, delle famiglie, dei lavoratori, degli indigenti»


C E I
Prolusione del (23 marzo 2009)

1. Di certo si è prolungato, oltre ogni buon senso, un pesante lavorio di critica − dall’Italia e soprattutto dall’estero − nei riguardi del nostro amatissimo Papa, a proposito dapprima della remissione della scomunica ai quattro Vescovi consacrati da Monsignor Lefebvre nel 1988, e al caso Williamson che imponderabilmente vi si è come sovrapposto. Sul merito di queste due vicende, quello che di importante c’era da dire l’abbiamo sollecitamente detto appunto in occasione della precedente prolusione. Nessuno tuttavia poteva aspettarsi che le polemiche sarebbero proseguite, e in maniera tanto pretestuosa, fino a configurare un vero e proprio disagio, cui ha inteso porre un punto fermo lo stesso Pontefice con l’ammirevole Lettera del 10 marzo 2009, indirizzata ai Vescovi della Chiesa Cattolica. Di proposito non vogliamo tornare sulle accuse maldestre rivolte con troppa noncuranza al Santo Padre. Merita molto di più invece concentrarci sulla citata Lettera che, come atto autenticamente nuovo, ha subito attirato un vasto consenso. La grande impressione che essa ha suscitato è per buona parte dovuta alla forza interiore che emerge dall’intero testo e da ciascuna delle sue parole, anche le più amare. La sua disamina, per certi versi conturbante, degli ultimi episodi − ma, per analogia, anche di certe discutibili e ricorrenti prassi ecclesiali − ha fatto emergere come per contrasto il candore di chi non ha nulla da nascondere circa le proprie reali intenzioni, le motivazioni concrete delle proprie scelte, la coerenza di una vita vissuta unicamente all’insegna del servizio più trasparente alla Chiesa di Cristo. Per questo non stentiamo affatto a riconoscere nell’iniziativa papale l’azione di quello Spirito di Dio che svela i disegni dei cuori e sa trarre il massimo bene anche dalle situazioni più irte e penose. Il che non significa naturalmente attenuare la severità di un giudizio che nella carità va pur dato circa atteggiamenti e parole che hanno portato a una situazione cui non si sarebbe dovuti arrivare, alimentando interpretazioni sistematicamente allarmistiche e comportamenti diffidenti nei riguardi della Gerarchia.

Con ferma e concreta convinzione facciamo nostro l’appello alla riconciliazione più genuina e disarmata cui la Lettera papale sollecita l’intera Chiesa. E questo naturalmente esclude che si perpetuino letture volte a far dire al Papa ciò che egli con tutta evidenza non dice. Che è un modo discutibilissimo, persino un po’ insolente, per costruirsi una posizione distinta dal corretto agire ecclesiale. Molto meglio identificarsi in quella che è la migliore tradizione del nostro cattolicesimo: stare con il Papa, sempre e incondizionatamente. Il che da una parte comporta il nostro sintonizzarci sulle ancor più evidenti priorità del suo ministero: «Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia» e «avere a cuore l’unità dei credenti», priorità che coinvolgono tutti, ciascuno per la propria responsabilità. E, dall’altra, esige di pregare intensamente per lui e con lui, ossia con le sue stesse intenzioni: e questo aiuta a purificare il nostro sguardo sulla Chiesa, mistero di salvezza per il mondo.

2. In queste ore peraltro il Santo Padre sta portando a termine un’importante visita apostolica nel Camerun e in Angola. Nelle sue intenzioni essa aveva «per orizzonte» l’intero continente africano (cfr Benedetto XVI, Saluto all’arrivo a Luanda, 20 marzo 2009). Si è trattato di un viaggio impegnativo e ad un tempo ricco di speranza. Ciò che lì è avvenuto e il magistero che vi si è esplicato hanno avuto localmente una grande eco, come in noi hanno suscitato un profondo coinvolgimento e una viva commozione: per questo non mancheremo di ritornare sul significato di codesto pellegrinaggio, che fin dall’inizio è stato sovrastato nell’attenzione degli occidentali da una polemica – sui preservativi − che francamente non aveva ragione d’essere. Non a caso, sui media africani non si è riscontrato alcun autonomo interesse, se non fosse stato per l’insistenza pregiudiziale delle agenzie internazionali, e per le dichiarazioni di alcuni esponenti politici europei o di organismi sovranazionali, cioè di quella classe che per ruolo e responsabilità non dovrebbe essere superficiale nelle analisi né precipitosa nei giudizi. Si è avuta come la sensazione che si intendesse non lasciarsi disturbare dalle problematiche concrete che un simile viaggio avrebbe suscitato, specie in una fase di acutissima crisi economica che richiede ai rappresentanti delle istituzioni più influenti una mentalità aperta e una visione inclusiva. Non ci sfugge tuttavia che nella circostanza non ci si è limitati ad un libero dissenso, ma si è arrivati ad un ostracismo che esula dagli stessi canoni laici. L’irrisione e la volgarità tuttavia non potranno far mai parte del linguaggio civile, e fatalmente ricadono su chi li pratica. Infatti, la conferma più significativa circa la pertinenza delle parole del Papa sull’argomento è venuta da quanti – professionisti, politici e volontari – operano nel campo della salute e dell’istruzione. C’è da promuovere un’opera di educazione ad ampio raggio, che va inquadrata nella mentalità degli africani e si concretizza in particolare nella promozione effettiva della donna; soprattutto bisogna alimentare le esperienze di cura e di assistenza, finanziando la distribuzione di medicinali accessibili a tutti. Com’è noto la Chiesa, compresa quella italiana, è coinvolta con persone e mezzi in questa linea di sviluppo. Ma chiediamo anche ai governi di mantenere i propri impegni, al di là della demagogia e di logiche di controllo neo-colonialista. E mentre invitiamo i diversi interlocutori a non abbandonare mai il linguaggio di quel rispetto che è indice di civiltà, vorremmo anche dire – sommessamente ma con energia − che non accetteremo che il Papa, sui media o altrove, venga irriso o offeso. Per tutti egli rappresenta un’autorità morale che questo viaggio ha semmai fatto ancor più apprezzare. Per i cattolici è Pietro che, con le reti del pescatore e nel nome del Signore Gesù, continua a raggiungere i lidi del mondo. Noi, che con trepidazione e preghiera l’abbiamo accompagnato in questo pellegrinaggio, ci apprestiamo ora a salutare con affetto il suo felice ritorno.

3. La dinamica contestativa di cui dicevamo, per le forme subdole che talora assume ma anche per gli appoggi clamorosi di cui gode, è una delle tracce che ci portano a identificare la cifra più marcata del nostro tempo qual è il secolarismo. È su questo che vorrei dire oggi una parola. Sembra a me infatti che vari segnali ci rendano vieppiù avvertiti che il trapasso culturale dentro al quale ci troviamo vada assumendo il carattere di un vero e proprio spartiacque. Chi, tempo addietro, paventava uno scontro di civiltà, facendolo magari derivare in parte da divaricanti matrici religiose, oggi si trova dinanzi agli occhi una situazione alquanto diversa, e non necessariamente più complessa da descrivere: si fronteggiano sostanzialmente due culture riferibili all’uso della ragione. Al centro di entrambe c’è – come sempre – una specifica risposta alla domanda sull’uomo. Da cui discendono due diverse, per molti aspetti antitetiche, visioni antropologiche. Su un versante c’è la cultura che considera l’uomo come una realtà che si differenzia dal resto della natura in forza di qualcosa di irriducibile rispetto alla materia. Qualcosa che è qualitativamente diverso e che costituisce la radice del suo valore e il fondamento della sua dignità. In altri termini, l’uomo − prima di metter mano a se stesso – si accoglie come dono che ha un’identità e una consistenza iscritte nella struttura del suo essere. Dono che non dipende da lui, che precede ogni sua autodeterminazione, e che ne fa quello che egli è: persona, appunto. È a partire da questo dato ontologico, e tenendolo fermo quale fatto oggettivo, che il soggetto cresce e si compie nello sviluppo della vita. In questa prospettiva, la natura umana, dentro lo scorrere della storia, è un perno fermo e insieme bussola per l’esercizio della libertà personale. Nel gioco stesso dell’uomo, la libertà trova così i riferimenti oggettivi per le scelte e i comportamenti coerenti alla sua autentica umanità. Nell’altro versante, invece, si esplica una cultura per la quale il soggetto umano è un mero prodotto dell’evoluzione del cosmo, ivi inclusa la sua autocoscienza. In quanto risultato di un processo evolutivo mai concluso, l’uomo sarebbe solamente un segmento di storia, sganciato cioè da qualunque fondamento ontologico permanente e comune a tutti gli uomini, privo quindi di riferimenti etici certi e universali. Essendo semplicemente uno sghiribizzo culturale fluttuante nella storia, l’individuo si trova sostanzialmente prigioniero di sé ma anche solo con se stesso. E se è ovvio che non sia questa la sede per richiamare, neppure nelle sue coordinate generali, la questione dell’evoluzionismo, di cui s’è infatti parlato recentemente in sedi autorevoli (cfr la Conferenza internazionale svoltasi alla Pontificia Università Gregoriana su «Evoluzione biologica: fatti e teorie», Roma 3-7 marzo 2009), dobbiamo tuttavia segnalare come si annidi, proprio nella posizione che prima evocavamo, un’interpretazione esasperata e unilaterale del paradigma evoluzionistico.

Nel contempo, collegata alle due citate visioni antropologiche, e alla dialettica che le contrassegna, c’è una diversa concezione della libertà. Da una parte si ritiene – in base ad una riflessione millenaria e all’esperienza universale – che la libertà umana sia uno dei valori più grandi (per i cristiani essa è addirittura dono di Dio creatore), non però un valore assoluto né solitario. La libertà infatti deve fare i conti con altri valori − come la vita, la pace, la giustizia, la solidarietà… − che in qualche modo vengono prima e le danno come sostanza, anzi la rendono vera in quanto sono per il bene dell’uomo, e lo realizzano secondo quella linea di appartenenza che si identifica nella natura umana e con i vettori che dall’interno le danno sviluppo pieno. Il tipo di società che ne deriva è chiaramente aperto e solidale: in essa il farsi carico degli altri – specialmente dei più deboli, dei meno dotati ed efficienti – è congenito e vitale. Dall’altra parte, invece, si afferma una libertà individuale non solo come valore, ma come valore assolutamente primo, sciolto da qualsiasi altro vincolo che lo possa misurare, con il pretesto che la libertà non può negare se stessa, andando con ciò − se occorre − anche contro la persona. In questa prospettiva, la libertà sembra priva di relazione, è legge a se stessa, al di fuori di ogni contesto relazionale. L’individuo, paradossalmente, finisce schiacciato dalla propria libertà, e ritenendo di essere pieno e assoluto padrone di se stesso arriva a disporre di sé a prescindere da ciò che egli è fin dal principio del suo esistere. E concepisce ogni suo desiderio, magari confuso in qualche caso anche con l’istinto, quale diritto che la società dovrebbe riconoscere come elemento costitutivo di se stessa. In questa direzione, si scivola inevitabilmente verso un nichilismo di senso e di valori che induce alla disgregazione dell’uomo e ad una società individualista fino all’ingiustizia ed alla violenza. Anzi, verso un nichilismo gaio e trionfante, in quanto illuso di aver liberato la libertà, mentre semplicemente la inganna rispetto ad una necessaria e impegnativa educazione della stessa.

La divina Provvidenza ci dona quest’ora da amare con fede e intelligenza: e quest’ora vogliamo servire con tutto noi stessi. La comunità cristiana deve però lasciar da parte improvvisazione e autoreferenzialità, ingenuità ed empirismo – lo dico anche alle nostre associazioni, e ai nostri movimenti e gruppi – per investirci tutti della responsabilità credente, dell’«esserci» con simpatia e competenza, e con larga capacità di dialogo e di sensata interlocuzione rispetto alle più diverse situazioni di vita. Tra l’altro, ci sono alcuni nostri strumenti culturali e mediatici che proprio a questo mirano: a servircene saremmo semplicemente utili a noi stessi.

4. E siamo al caso che più ha colpito il nostro Paese nell’ultimo periodo, quello di Eluana Englaro, la ragazza lecchese che per 17 anni è vissuta in stato vegetativo persistente e che è stata fatta morire a Udine il 9 febbraio scorso. Benché non fosse attaccata ad alcuna macchina – dato che l’opinione pubblica ha scoperto solo con grande fatica – e benché sia da tempo invalso nei vari ambiti della nostra vita sociale quel saggio «principio di precauzione» per il quale nulla di irripristinabile va compiuto se i dati scientifici non consentono una valutazione obiettiva del rischio, s’è voluto decretare che a certe condizioni poteva morire. Un procedimento che, in un solo atto, avrebbe voluto ribaltare tutta una cultura giuridica minuziosamente costruita sul favor vitae, contraddicendo un’intera civiltà basata sul rispetto incondizionato della vita umana, e smentendo un lungo processo storico che ci aveva portato ad affermare l’indisponibilità di qualunque esistenza, non solo a fronte di soprusi o violenze, ma anche di condanne penali quale la pena di morte. Tutto, per certe intenzioni, messo a repentaglio, attraverso una operazione tesa ad affermare un «diritto» di libertà inedito quanto raccapricciante, il diritto a morire, cioè a darsi e a dare la morte in talune situazioni da definire. Come se la vita potesse, in alcuni frangenti − i più critici −, cessare di essere un «bene relazionale». E come se la vita a ciascuno di noi così cara, e così salvaguardata ed educata a caro prezzo anche dalla collettività, di colpo divenisse un bene «inerme», anzi un non-bene. E non fosse vero piuttosto che, proprio quando è più fragile, l’esistenza di ciascuno di noi diventa allora più moralmente preziosa, nel senso che è più direttamente protesa a cementare il bene comune suscitando in ciascuno e nella società ulteriori energie di altruismo e di dedizione. L’ammanto di pietà attraverso cui, con grande sforzo, si cerca di far passare questo ulteriore improbabile «diritto», non può non indurre la persona equipaggiata di intelligenza a porsi una serie di interrogativi consequenziali, il primo dei quali è: non stiamo attribuendo al «sistema» un diritto all’eliminazione dei soggetti inabili, quasi che costoro possano configurarsi come cittadini di serie B? E questo «diritto», che per ora si affaccia appena, una volta immesso nel corpus giuridico e nel costume pubblico, non è forse destinato a diventare col tempo più incalzante e spietato? E tale meccanismo non riguarderà anzitutto coloro che sono più deboli, bisognosi di assistenza e di premura da parte della collettività, perché segnati dalla vecchiaia o dalla malattia o dalla fragilità mentale? E se la “qualità della vita” è fatta dipendere principalmente dalle relazioni consapevoli, quanti altri sono i soggetti che di tali relazioni non hanno coscienza, pur non vivendo in stato di coma vegetativo persistente? Che cosa ci autorizza ad escludere che, al di là delle nostre più ravvicinate determinazioni, potremmo un giorno restarne in un modo o nell’altro coinvolti? E un’autorizzazione legalizzata di questo segno, cosa potrà produrre in termini di cultura, e dunque di gestione delle cure, nelle più diverse strutture sanitarie come nell’intero sistema socio-assistenziale, fino alle compatibilità ultime di budget? Qualunque deriva eutanasica, per quanto tecnicamente circoscritta o concettualmente edulcorata, è in realtà per gli uomini d’oggi, se ci si pensa bene, «una falsa soluzione» (cfr. Benedetto XVI, Discorso all’Angelus, 1° febbraio 2009). Falsa soluzione rispetto agli stessi disagi personali gravi, che richiedono non la soppressione della vita ma la vicinanza e l’accompagnamento delle persone. La prima cura, per qualsiasi forma di malattia, è non far sentire solo il malato, solo con il suo male, e abbandonato a se stesso. Garantirgli una presenza competente, amorevole e quotidiana, è per la società una responsabilità più ardua e impegnativa rispetto ad altre “scorciatoie” apparentemente pietose. Ma è qui, non nei proclami astratti e ripetuti, che una società getta come la maschera e rivela il suo vero volto, manifestando il proprio livello di umanità o, al contrario, di inciviltà. Nelle moderne democrazie, la vita va difesa perché è indispensabile limitare il potere «biopolitico» sia della scienza sia dello Stato, il che trova sostanza nel fermo «sì» alla tutela dei diritti umani di tutti, di chi economicamente è in grado di difendersi come di chi non può farlo, e in un altrettanto netto «no» alla pena di morte, al commercio degli organi, alle mutilazioni sessuali, alle alterazioni fecondative, a qualsiasi manipolazione non terapeutica del corpo umano, pur se liberamente volute da persone adulte, informate e consenzienti.

5. Ha peraltro qualche componente grottesca il fatto che si sia tentato di far passare la tribolata vicenda − con profili in realtà civilmente tanto rilevanti e potenzialmente tanto intrusivi rispetto al vissuto di ciascuno − come mera conseguenza di un altolà della Chiesa, ossia come un’iniziativa di polemica ideologica, quando di ideologia qui non c’era nulla, ma solo concretezza palpitante di vita e pertinenza all’umano dell’uomo. Allorché un cuore batte in autonomia, il corpo è caldo, i polmoni respirano, gli occhi si aprono alla luce del giorno e poi si chiudono, come si può parlare di morte? E cosa c’entrano i guelfi e i ghibellini? Qui c’entra anzitutto il vero, c’entra il reale-concreto, non perché sia alienante il riferimento al progetto di Dio sulle proprie creature, anzi, ma perché nessuno può darsi impunemente degli alibi allorché si tratta di constatare che si va verso l’alterazione del principio di eguaglianza tra tutti i cittadini. Per questo motivo ci ha causato una grande tristezza la storia dolorosa eppure umanissima di Eluana, con l’obnubilamento in cui si è caduti circa i limiti che sono intrinseci all’esistenza terrena, quasi che essa potesse esistere solo nei termini in cui la desideriamo noi, priva di imperfezioni e asperità, di imprevisti o evenienze, che comunque fanno parte del suo impasto. Non essere all’altezza dello standard vigente non può equivalere a una squalifica. Il rifiuto anche solo dell’idea di malattia, di vecchiaia, di sofferenza fisica e morale è qualcosa che merita una riflessione rigorosa su se stessi, e ha a che fare con un’autocoscienza bonificata dal risentimento verso un destino percepito amaro o ingiusto. So bene che qui si entra nel sacrario dei pensieri e dei sentimenti che ogni persona custodisce gelosamente dentro di sé. Ma in una cultura in cui giustamente si vuol far valere il criterio della ragione e della ragionevolezza, questo non può avvenire solo fino ad un certo punto. Bisogna piuttosto vigilare sui meccanismi nascosti dell’auto-indulgenza, ed essere moralmente forti, ossia interiormente attrezzati, nell’accettare la vita per quello che è, e partendo da questo dato operare per migliorarne le condizioni. Con tutti gli avanzamenti, i progressi, le innovazioni che essa offre, ma anche con le sue sospensioni, le sue incompletezze, le sue incongruità, le sue aporie. Alla fine è sulla nostra maturità che siamo sfidati, e sull’effettiva disponibilità a solidarizzare con il più debole: non a parole o a tratti, ma con la vita vissuta, che non per questo cesserà di rivelare panorami di bellezza indicibile. Quando il dolore bussa, e non può essere neutralizzato del tutto, quando chiede ascolto, quando ci domanda di essere introdotto come un nuovo parametro di ordinarietà e dedizione, non bisogna fuggire. E serve a poco imprecare, fino a isterilirsi. Domanda: come pensiamo di cavarcela con i nostri giovani rispetto a quella innegabile componente della vita che, in un modo o nell’altro, si presenta ed è rappresentata dal dolore, dalla sofferenza, dalla fatica magari ingrata, dalla possibilità di far fronte all’insuccesso e all’ineluttabile? Non stiamo qui, per caso e involontariamente, ponendo le basi verso un’infelicità strutturale delle nuove generazioni, con i presupposti di una loro fatale inadeguatezza e i criteri non dichiarati, eppure meschini, di un nuovo tipo di selezione alla vita?

6. Un fatto tuttavia ci ha confortato, e cioè che più si palesava l’azione mossa nei confronti della vita di Eluana, più la gente è sembrata farsi cauta, quasi pensosa, come intuisse in maniera un po’ più nitida l’effettiva posta in gioco. Al momento della morte – evento che avremmo voluto scongiurare – si è percepito un sentimento di diffuso dolore, come di una sorella comune che non si era riusciti a salvare. Ebbene, è opportuno ora che questa tensione non evapori dentro il turbinio mediatico. Oltre a pregare per la sua anima, per i suoi parenti e i suoi amici, oltre a pregare per quanti si trovano nelle sue condizioni, dobbiamo immaginare una reazione morale e culturale capace di trasformare lo sgomento in un riscatto: se è possibile, in una crescita di consapevolezza e di iniziativa. Su un versante molto importante spetta alla politica agire nell’approntare e varare, senza lungaggini o strumentali tentennamenti, un inequivoco dispositivo di legge che – in seguito al pronunciamento della Cassazione − preservi il Paese da altre analoghe avventure, ponendo attenzione a coordinarlo con l’altro sospirato provvedimento relativo alla cure palliative, e mettendo mano insieme alle Regioni ad un sistema efficace di hospice, che le famiglie attendono non per sgravarsi di un peso ma per essere aiutate a portarlo. Sull’altro versante tocca alla società civile mobilitarsi per acquisire in prima persona una coscienza più matura della posta in gioco in termini antropologici e culturali, così da evitare nel futuro ingorghi concettuali e tentazioni di delega. In questo ambito, c’è in campo l’iniziativa appena annunciata dai tre organismi di collegamento laicale − Scienza & Vita, il Forum delle Associazioni familiari e RetinOpera – che, nel tessuto vivo delle parrocchie, delle aggregazioni laicali, come degli ambienti e dei mezzi di comunicazione, merita di essere da noi incoraggiata e sostenuta. Come Vescovi non possiamo non avere a cuore il superamento di qualunque rassegnazione culturale, mentre occorre portare conforto e far sentire una concreta vicinanza a tutte quelle famiglie che fanno fronte con sacrifici e dignità alle prove della vita.

Ma c’è un grazie speciale che noi Vescovi vogliamo oggi dire, ed è alla Suore Misericordine della clinica Beato Talamone di Lecco e alla loro splendida, ineffabile testimonianza. Sappiamo che a loro non piace stare in alcun modo sulla ribalta, che rifuggono da quella notorietà che fare il bene talora procura, che sono disposte a subire anche l’ingiustizia piuttosto che protestare dinanzi a ingiurie e falsità. Ma questo non significa che la comunità cristiana non sappia riconoscere in loro delle autentiche campionesse della carità secondo l’inno di san Paolo: «[...] La carità è paziente, è benigna […], non è invidiosa […], non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta […]». (1Cor 13,1-13). Quell’invocazione mansueta e quasi dolente che loro hanno rivolto − «Se c’è chi considera Eluana morta, lasciatela a noi che la sentiamo viva» − è stata per l’opinione pubblica un’autentica scossa, è stata finalmente uno scandalo buono. In quel «sentire viva» c’era certo l’abilità professionale ma c’era, ad informare l’abilità, l’allenamento del cuore che rende capaci di riconoscere la vita e, nei limiti del possibile, farla palpitare anche nell’immobilità e nell’incoscienza. «Lasciateci – concludevano le stesse Suore – la libertà di amare e di donarci a chi è debole». Certo che gli uomini d’oggi ve la lasciano, Sorelle care, questa libertà benedetta, antica e nuova, mite e benefica, che al di là di ogni clamore è garanzia vera per i non garantiti di questa società. Anzi, proprio questa vostra libertà additiamo alle giovani e ai ragazzi come il destino di una vocazione felice. Vi ringraziamo, come ha già fatto il vostro Arcivescovo Cardinale Tettamanzi, per ogni giorno del vostro dono, e per il vostro donarvi, come ad Eluana, ad ogni altra creatura che vi è affidata. Insieme a Voi, ringraziamo quanti Religiose e Religiosi sono sulla vostra stessa filiera di servizio, quanti si chinano ogni giorno con naturalezza e affidamento sui fratelli più piccoli e indifesi, e consumano i loro giorni e se stessi per gli altri. La loro testimonianza commuove la Chiesa e misteriosamente la edifica nel cuore del mondo. Ma edifica anche l’umanità intera nella sua autentica e intrinseca vocazione a non abbandonare nessuno, ma a farsi prossimo e solidale con tutti e con ciascuno nell’ora della maggiore debolezza.

7. Mi pare giusto richiamare a questo punto il Convegno - «Chiesa nel Sud, Chiese del Sud: nel futuro da credenti responsabili» - che si è tenuto a Napoli il 12 e 13 febbraio scorso, e al quale ho avuto la gioia di partecipare almeno per la Concelebrazione eucaristica che si è svolta nella cattedrale partenopea, su invito amabile del confratello Cardinale Crescenzio Sepe. Il loro riunirsi a vent’anni dallo storico incontro che produsse, tra l’altro, il documento Cei - «Chiesa italiana e Mezzogiorno» - è stata l’occasione per identificare le novità ma anche la persistenza di talune condizioni economiche e sociali del nostro Meridione. Dalla ricognizione dei drammi e delle risorse di questa parte stupenda e martoriata del nostro Paese, è venuta una rinforzata consapevolezza su una serie di sfide che vanno affrontate con le armi del Vangelo, e forti della compagnia di Gesù Cristo. In particolare su alcune denunce: un senso di abbandono da parte della collettività nazionale, un tasso di disoccupazione sproporzionato rispetto al resto del Paese, la presa tentacolare della malavita, che peraltro non si autolimita al Meridione essendo ormai presente su varie piazze del Nord come del Centro. Tutti dobbiamo interrogarci con profonda onestà intellettuale, superando qualunque tentazione divisoria. Dal canto loro, le Chiese del Sud, diverse ma unite, si sono dette pronte a mettere in rete energie e competenze, con l’obiettivo comune di far lievitare la vitalità ecclesiale. Devo dire che noi tutti Vescovi d’Italia avvertiamo l’impeto che ci proviene da queste comunità radicate per storia e tradizioni, e che più di quanto forse non avvenga altrove sanno mantenere il profilo di una identità rigogliosa e popolare che è un patrimonio prezioso dell’intera Chiesa italiana. Non mancheranno le occasioni per riprendere adeguatamente le fila dei discorsi avviati a Napoli, per tesserli in una circolarità di verifiche e di scambio, avendo a cuore il bene reciproco e la forza intrinseca della comunione che è la vera testimonianza da offrire a tutto il Paese.

Guardando più al largo, troviamo sempre qui gli elementi per uscire dalle «sabbie mobili» di una condizione di mediocrità spirituale, e per lasciarci ogni volta «prendere per mano» − che è come un’irruzione che ci cambia il cuore − lungo un cammino di conversione che è meta perenne dei discepoli di Cristo (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 25 gennaio 2009). È ciò che ci siamo proposti per il tempo forte della Quaresima che è in atto nelle nostre Chiese e che amiamo considerare alla luce dei fondamentali della vita cristiana. Il tema del digiuno su cui il Santo Padre ha inteso soffermarsi nel Messaggio di quest’anno ci pare particolarmente adatto per ricomprendere il senso di un impegno che è attuale nella misura in cui riesce ad incidere sul serio sulla nostra vita, inducendoci a prendere le distanze dalle voracità che la zavorrano, e liberarla in considerazione anche dei bisogni dei fratelli.

8. Questo ci porta a dire una parola ancora sulla gravissima crisi economica che sta attanagliando il mondo intero, con esiti rovinosi in tutta una serie di Paesi, non esclusi alcuni europei. L’impressione è che purtroppo non si sia ancora toccato il fondo, o quanto meno che non ci sia nessuno in grado di dire con certezza a che punto si è della perigliosa attraversata. Ci sostiene ancora una volta la parola lucida del Santo Padre che se da una parte scorge il bisogno di «competenza» per parlare con credibilità e fuori da facili moralismi, dall’altra avverte necessaria «una grande consapevolezza etica» informata da una coscienza illuminata dal Vangelo (cfr Discorso all’Incontro con il Clero di Roma, 26 febbraio 2009). Come già si disse nella precedente prolusione, si rivela sempre più urgente e necessario affermare in modo chiaro e forte e riscoprire a livello concreto l’anima etica della finanza e dell’economia. Ma l’attuale congiuntura diverrà l’occasione, si chiede il Santo Padre, per capire che «esiste realmente il peccato originale?». Diversamente non comprenderemo come, nonostante i grandi discorsi e le acute analisi, la ragione è come «oscurata da false promesse» e la «volontà curvata» sul proprio tornaconto: infatti si incappa in una «idolatria che sta contro il vero Dio» falsificandone l’immagine con quella di mammona. Bisogna risalire alla «radice dell’avarizia», a quell’egoismo che «sta nel volere il mondo per me», quando occorre invece trovare «la strada della ragione, e della ragione vera» (ib). Il compito che Benedetto XVI intravvede per la Chiesa è quello «di essere vigilante», così da «cercare essa stessa con le migliori forze che ha […] di farsi sentire, anche ai diversi livelli nazionali e internazionali, per aiutare e correggere», ostacolando «la dominazione dell’egoismo, che si presenta sotto pretesti di scienza e di economia». Il Papa ci invita ad «essere realisti. […] La giustizia si realizza solo se ci sono i giusti». Questo è il punto, avverte, in cui la macroeconomia coincide con la microeconomia: ma «i giusti non ci sono se non c’è il lavoro umile, quotidiano, di convertire i cuori. […] Perciò il lavoro dei parroci è così fondamentale, e non solo per la parrocchia, ma per l’umanità. Perché se non ci sono i giusti, la giustizia rimane astratta. E le strutture buone non si realizzano se si oppone l’egoismo fosse pure delle persone competenti» (ib).

Nello stesso discorso al clero di Roma, il Santo Padre aveva posto una domanda interessante: «Chi conosce gli uomini di oggi meglio del parroco?». E aggiungeva: «Dal parroco gli uomini normalmente vanno senza maschera […]. Nessun’altra professione, mi sembra, dà questa possibilità di conoscere l’uomo com’è nella sua umanità» (ib). Questa affermazione ci suona tra l’altro particolarmente efficace dinanzi all’iniziativa dell’«Anno sacerdotale», appena indetto dal Papa in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, e che prenderà avvio il prossimo 19 giugno (Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero, 16.3.2009). I sacerdoti, insieme ai religiosi e alle religiose, ma anche a moltissimi laici che partecipano direttamente alla pastorale, sono il volto quotidiano e immediato di una Chiesa tutt’altro che «rigida e fredda»; sono il volto amico di una Chiesa che cammina con la gente. Il fatto ha una serie di applicazioni importanti e aiuta a individuare la collocazione della Chiesa anche nell’ambito di questa drammatica crisi: stare dalla parte delle persone reali, delle famiglie, dei lavoratori, degli indigenti, senza tuttavia tralasciare il quadro generale, ma essendo capace dentro a questo quadro di esprimere una preferenza ragionata, sulla quale sollecitare anche i pubblici poteri, in particolare quando sono a rischio i posti di lavoro (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 1 marzo 2009). E molti sono già persi! È vero che oggi sembra di cogliere una maggiore consapevolezza circa le dimensioni reali di quel che ci attende e la necessità di fare della crisi l’occasione per riassorbire gli squilibri maggiori, ma proprio per questo va intensificata un’azione di supporto concreto e subito efficace verso i soggetti più deboli, e le famiglie che si trovano più scoperte. A livello pastorale, è noto il fiorire in tantissime diocesi di iniziative di solidarietà concreta, cui si unisce l’importante impegno ai vari livelli della Caritas, come degli Istituti di vita consacrata. Già è stata annunciata, in seguito all’ultimo Consiglio Permanente, l’istituzione di un fondo di garanzia per le famiglie in difficoltà, che nascerà da una colletta comune da farsi nei modi che decideremo. La nostra gente sappia che i Vescovi le sono decisamente vicini e che la nostra Chiesa non ha altra ambizione che curvarsi sui più bisognosi, e interpretare in prima persona e senza risparmio nella situazione data la parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10,30-37).

Vi ringrazio, venerati Confratelli, per l’attenzione che avete voluto prestare alle mie parole introduttive, ad un tempo, al dibattito che ora segue sugli stessi temi e quindi agli argomenti che sono all’ordine del giorno. Ci aiuti il pensiero delle nostre Chiese, e la solidarietà che esse puntualmente esprimono a noi pastori. Ci aiuti soprattutto lo Spirito a cercare e a fare la volontà del Signore Gesù. Lo chiediamo per intercessione di Maria, che venereremo mercoledì nel mistero gaudioso dell’Annunciazione, e per intercessione di san Giuseppe e dei Santi nostri protettori.


Angelo Card. Bagnasco
Presidente

sabato 21 marzo 2009

Fede e ragione, violenza e libertà: dopo il caso Eluana faccia a faccia a Padova fra il cardinale Scola e il filosofo Severino


La morte contesa

LUIGI GENINAZZI
S e è vero, come ha scritto Adorno, che dopo Auschwitz non ha più senso scrivere poesie, potremmo dire che in Italia, dopo il caso di Eluana Englaro, tutti siamo costretti a parlare della morte in modo diverso da prima. Forse è finita la stagione moderna che ha voluto rimuovere quel che Eliot chiamava «La Straniera», ma il guaio è che il dibattito è diventato sempre più confuso. A riportare la questione nell’ambito strettamente filosofico e teologico ci ha pensato l’università di Padova con il convegno «Morire tra ragione e fede: universi che orientano le pratiche di aiuto», apertosi ieri con una tavola rotonda in cui si sono confrontati il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, ed il filosofo Emanuele Severino. Un incontro culturale d’altissimo livello tra un porporato che ha molto a cuore la questione antropologica ed un pensatore radicalmente anti­cristiano che però cita spesso il Vangelo. Per il cardinale Scola il problema centrale è dato dal «rapporto, a prima vista contraddittorio, tra libertà e morte».
La sua riflessione parte dalla domanda che solitamente il malato fa al medico: «fammi vivere, cioè fammi durare». Ma la durata non è solo quello che intende l’utopia salutista, in realtà «la domanda di salute è domanda di salvezza». In questo senso la morte, ogni morte, suona sempre come «una condanna a morte».
Per Severino non ha senso il gran discutere di queste settimane sull’inizio e sulla fine della vita, «un dibattito dove ci si dimentica che l’esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano». Secondo il filosofo che ha legato il proprio nome alla serrata critica dell’intera tradizione metafisica occidentale non ha senso voler stabilire quando finisce la vita altrui perchè non sappiamo chi sia «l’altro» (ed anche per chi lo considera evangelicamente «il nostro prossimo» è qualcosa di creduto, di voluto, e quindi di discutibile). Ed ancor meno possiamo parlare della morte come annientamento, perché di questo non facciamo esperienza.
Chi conosce gli scritti di questo pensatore, complesso e paradossale, non si stupirà di simili affermazioni.
Perentoria la sua conclusione: la ragione e la fede si trovano entrambe accomunate nella visione pessimistica della morte come annientamento. Il concetto cristiano di resurrezione della carne è una metafora del «destino della verità» dell’uomo, ma è una metafora sviante perchè afferma una seconda creazione e così nega «l’incontrovertibile eternità dell’essere». Così parlò il Parmenide del XXI secolo che proprio pochi giorni fa ha compiuto ottant’anni.
Nei confronti dell’anziano professore, di cui è stato giovane allievo alla Cattolica di Milano, Scola si mostra molto deferente. Ma preferisce seguire un’altra strada, quella indicata dal suo vero e grande maestro, il teologo svizzero von Balthasar, per il quale la resurrezione non è certo una metafora. «Valutata in termini umani la morte è un puro e semplice passivo venir portato via. La follia del cristianesimo consiste nel fare di questo confine una specie di centro». Commenta il patriarca di Venezia: «Quella di Gesù Cristo è una forma del tutto speciale di morte che combatte e vince il duello con la forma comune, quella della nostra morte». Ne deriva che «libertà e morte non si escludono più reciprocamente». Concetto provocatorio, in quanto l’esperienza del morire sembra coincidere con l’assoluta impossibilità di scegliere qualcosa d’altro. Ma, spiega il cardinale Scola, «la libertà non si riduce alla semplice capacità di scelta. Ci sono altri due elementi essenziali: la datità delle sue condizioni e l’evento assoluto. Nell’atto della morte la libertà si lascia alle spalle l’imperfetta libertà di scelta per inoltrarsi verso il suo compimento.
Nulla più della mia morte chiama in causa la mia libertà. Nessuno me la può sottrarre, neanche l’uomo­bomba che mi sorprendesse del tutto inatteso mentre bevo un caffè al bar».
E’ chiaro allora che tutte le dispute sul fine-vita (eufemismo per non guardare in faccia la morte) ruotano attorno al concetto di libertà. Se viene ridotta a pura e semplice auto­determinazione allora posso anche decidere della disponibilità o meno della vita. La lotta che si sta ingaggiando su questo terreno, secondo Emanuele Severino, non è altro che «uno scontro tra due forme di violenza», quella che si definisce laica e quella cattolica. Vincerà il più forte, non chi ha ragione. Anche perchè, per il filosofo parmenideo, non ce l’ha nessuno dei due. Pronta la risposta del cardinale: nessuna violenza, solo una posizione di tranquilla e serena ragionevolezza, quella che «in caso di dubbio, privilegia il favor vitae ». Invece gran parte del dibattito sul fine vita si può ricondurre al concetto, già espresso da Nietzsche, del «risentimento», cioè l’insopportabilità di fronte a situazioni di terribile limitazione e gravità. Un turbamento che, confessa il patriarca di Venezia, ha provato lui stesso pochi giorni fa visitando un giovane padre di tre bambini, malato di Sla e accudito amorevolmente dalla moglie. Può muovere solo le palpebre superiori degli occhi coi quali comunica tramite un computer.
«Eminenza, io sono contento di vivere», ha scritto sullo schermo.
Terribile violenza o straordinaria manifestazione di libertà?
Il pensatore parmenideo: «L’esistenza della vita altrui è un arcano, si scontrano due forme di violenza, laica e cattolica». Il patriarca di Venezia: «La libertà non si riduce alla capacità di scelta. C’è un compimento più alto»

Il piacere di aggredire il Papa senza capirne il messaggio


di Pietro De Marco20 Marzo 2009
1. La esibita, e sempre più acuta, inintelligenza dell’intelligencija nei confronti dell’azione di Benedetto XVI, ha buona materia su cui esercitarsi in questi giorni. Ma debbo partire partire da più lontano. Osservavo, già nel settembre 2006 (cfr. www.chiesa.espressonline.it 22 settembre ), come vi fosse un taglio inconfondibile nella importante lezione di Benedetto XVI nell’Aula magna dell’Università di Regensburg: la decisione di non evitare la pars critica entro un disegno dialogico.

E sottolineavo come la profonda visione strategica di papa Benedetto sembrasse operare ad integrazione del magistero di Giovanni Paolo II, proprio usando quel discernimento sui temi della verità e della ragione che Joseph Ratzinger cardinale aveva esercitato, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sui disastri teologici maturati entro la Chiesa postconciliare. Un’opera difficile, poiché derive e squilibri nell’intelletto cattolico avevano indotto errori antagonistici, ad esempio nella estesa, differenziata, area delle reazioni “tradizionalistiche”.

Che il discernimento e la sanzione dell’eccesso dovesse essere inteso come leale, fattiva, premessa all’incontro è risultato dagli atti successivi di Benedetto. Poiché la storia cattolica precedente il Concilio Vaticano è il vitale orizzonte dello “spirito” del Concilio stesso e della sua realizzazione - “realizzazione” che molti estremismi hanno vissuto invece come incompatibile col passato - gli atti di pace iniziano necessariamente dalle aree di sofferente, anche se troppo esibita, ortodossia “tradizionale” che si richiamano alla storia preconciliare. Solo un “uso politico del Concilio”, non la sua dottrina, ha declassato sotto il pretesto della “rottura” conciliare, e respinto ai margini della vita cattolica, secoli di vitale, autentica Tradizione. La riabilitazione di stili, sensibilità e forme della storia cristiana intende agire, in Benedetto, come paradigma stabilizzatore delle derive centrifughe, della frammentazione soggettivistica, che operano non solo nelle “sperimentazioni” avanzate, ma anche nella pastorale corrente. La stabilizzazione esige, però, che quello che ho chiamato “uso politico” (ecclesiale) del Concilio divenga consapevole del proprio eccesso squilibrante, della propria parzialità; e ne tragga conseguenze autocritiche. Così l’obiettivo della “riconciliazione interna nel seno della Chiesa” diviene parte di un più ampio intervento medicinalis per la chiesa universale.

Le stesse rare, ma violente, reazioni negative al motu proprio Summorum pontificum confermavano senza volerlo l’urgenza dell’azione “medicinale” di papa Benedetto. Ho sottolineato in più occasioni che, come l’attenzione alla integrità della storia liturgica cattolica, anche la nuova apertura alla fraternitas San Pio X è ordinata a ricondurre la vita cattolica alla sua essenziale natura di complexio. La nuova dignità delle comunità “tradizionali” nella Chiesa cattolica di oggi opera da correttivo, se non da risarcimento, di un’indebita frattura pratica e, prima ancora e più gravemente, ideologica consumata nel recente Novecento (contro la stessa Costituzione Sacrosanctum Concilium) con la cancellazione di fatto dello spirito liturgico, quasi lasciando intendere ch’esso fosse diventato “inattuale”.

Si tratta dunque, per Benedetto XVI, di assumere il rischio di indicare opportune et importune l’eccesso, quando dottrine e condotte oltrepassano soglie estreme di tollerabilità. Da ciò, ogni volta, degli scandala, previsti e non previsti, ma opportuni nel disegno di Dio. Che si tratti dell’intenso confronto con l’Islam, o della dedizione al dialogo con gli ebrei (una riconciliazione, una Versöhnung, grande tema della teologia tedesca, nella chiarezza del peculiare compimento in Cristo), o della cura per l’unità della Chiesa nell’unità della tradizione vivente; o che gli esprima ad extra una critica alle politiche preventive dell’AIDS in quanto esse colpiscono, come effetto sottovalutato o imprevisto, estesamente e profondamente la cultura della sessualità procreativa.

In effetti, i contingenti scandala e il loro sofferto superamento portano a coscienza, entro la Chiesa e tra Chiesa e istituzioni internazionali, proprio le soglie critiche che il cammino di Pietro, e la sollecitudine di Roma, attraversano carismaticamente.

2. “Condurre gli uomini verso il Dio che parla nella Bibbia” (non un dio qualsiasi), priorità suprema della Chiesa e del successore di Pietro, dunque. Questa la missio e questo l’orizzonte, ritornanti anche nell’intervista “concessa ai giornalisti durante il volo verso l’Africa” (17 marzo u.s.). Il Papa ha detto, solamente: "Non si può superare questo problema dell'AIDS solo con il soldi, che sono necessari, ma se non c'è l'anima che sa applicarli, non aiutano; non si può superare [il problema dell'AIDS ] con la distribuzione dei preservativi: al contrario, il rischio è aumentare il problema". Siano di fronte, rigorosamente parlando, ad un argomento contro le politiche e le antropologie del preservativo, non ad una ulteriore argomentazione del divieto del profilattico.

Il dato dell’intrinsece malum delle pratiche contraccettive ovviamente resta, nel quadro di discussioni teologico-morali e di duttili prassi pastorali (non dico “misericordiose”, perché non vi è maggior equivoco che considerare “misericordiosa” solo la remissione della pena; misericordioso è anzitutto il dono della Legge di Dio). Credo si possa dire che 1) tutta una serie di stati di necessità (per i quali sarà utile la ripresa in teologia morale, e nella formazione del confessore, del metodo casistico) operano come scusanti o scriminanti caso per caso, e che, in foro interno, i confessori si comportano lecitamente di conseguenza; 2) la coscienza bene ordinata assume, comunque, a proprio carico la illiceità di una condotta e la condizione “attuale” di peccato (ciò che ha rilievo, anzitutto, è che la coscienza sappia di non poter rivendicare alcun "diritto alla trasgressione" di fronte a Dio, ma che si deve appellare alla Sua misericordia).

La preoccupazione del Papa in quella breve frase non è, comunque, teologico-morale ma antropologica (dunque di diritto naturale). Si tratta di ricordare opportune et importune che la diffusione dei metodi anticoncezionali non “libera”, se non nell’immediato e superficialmente, la sessualità umana, e nel tempo la colpisce a morte in quanto umana. Annientare la stessa eventualità, quindi la corrispondente responsabilità, procreativa in una cultura umana è favorire su larga scala la “neutralizzazione” dell’accoppiamento, fuori da un quadro di valore, contro la forma - profonda e costante nelle società - della sessualità regolata da un Nomos. Né si tratta solo di un esercizio regolato della sessualità da parte degli individui, ma un Ordine che, non secondariamente, porta con sé un primato del pudore e, spesso, l’eccellenza (in condizioni elettive) della verginità e castità. Promiscuità (anche programmatica), assenza di regole, casualità e banalità dell'atto sessuale, come l’allontanamento o l’eccezionalità della procreazione, portati a sistema investono invece la coppia umana e il nodo paternità/maternità nella loro essenza.

Certo, nel caso della diffusione dell’AIDS, siamo in un vero e proprio stato di necessità. Non per questo va da sé, cioè senza critica, un intervento grossier di “riduzione del danno” su scala continentale. Vi è un’analogia col modo sbrigativo e cinico (“almeno non prendono malattie”, quasi fosse problema più importante per l’uomo) con cui su scala minore in Europa, per le strade e magari nelle scuole, si mettono i profilattici a disposizione e incentivo dei fruitori del sesso occasionale, vero servo della pulsione. In ciò risiede, su piccola e grande scala, il “rischio di aumentare il problema”!

Con intensificazione e assuefazione alla sessualità senza criterio aumentano a dismisura, anche indipendentemente dai margini di insicurezza del mezzo profilattico, le occasioni del cammino dell'infezione da una mucosa potenzialmente infestante ad altre. Mentre l’ideale copertura strumentale di un’intera società dai rischi di infezione da HIV separerebbe, in essa, la sessualità dalla fecondazione, lasciando quest’ultima per intero alle tecniche procreative assistite. Questa sì una situazione di surroga e dominio da parte della Techne, non la protezione di un essere umano da derive eutanasiche.

(Su Repubblica del 19 marzo Adriano Sofri osserva che l’argomento della indesiderabilità morale-culturale di un uso generalizzato del profilattico dovrebbe implicare anche la non desiderabilità di un vaccino anti-AIDS, perché l’immunizzazione condurrebbe allo stesso effetto. Ma non è così. L’immunità ridefinisce una normalità; l’emergenza vita/morte non preme più sulle istituzioni che regolano la sessualità; dal praticabile/impraticabile (senza rischio) si ritorna al lecito/non lecito. Può essere, allora, ridotto di molto o abbandonato l’uso dei profilattici per una opzione favorevole alla procreazione; si esce dalla loro dipendenza, direi dalla loro sovranità anche simbolica).

L'opposizione classica alla propaganda anticoncezionale si è attenuata nel tempo solo perché appare un "minor male" di fronte all'imbarbarimento (alla ri-animalizzazione) dell’intimità e della sessualità. Ma oggi la critica di un Papa alla generalizzazione dell'uso del preservativo perché un continente cessi disturbarci con i suoi problemi, manifesta con giusta traumaticità (secondo il metodo di Benedetto XVI) la integrale sollecitudine della Chiesa per l’Africa, e per ogni uomo. L’intelligencija che giudica il Papa in questi giorni non ha più orizzonte del funzionario degli organismi internazionali addetto a compilare le bolle di spedizione delle partite di preservativi. Eppure questa è l'antropologia implicita di chi, propagandando profilattici, si preoccupa della salute (com’è doveroso) di una popolazione – ma solo demograficamente intesa e nel disinteresse per la sua qualità e peculiarità di cultura umana, per la sua concezione della vita, della relazione e della generazione, che certamente appartengono, e non solo nelle culture africane, all'ordine del Sacro. In Europa, ripetiamolo per l’ennesima volta per vedere se entra nelle teste, non vi è la preoccupazione che l’uomo contemporaneo smarrisca il significato trascendente del corpo proprio a vantaggio della cura di sé come mera sussistenza/sopravvivenza di una macchina biologica efficiente e desiderante (desiderante il niente, nel vuoto di significati). Il Papa, la visione cristiana dell'uomo integrale, si oppongono alla automatizzazione di questa “cura” (care) passiva-preventiva per i corpi. Essa può valere solo caso per caso nella responsabile valutazione di chi ne ha autorità; eccezione dunque, di fronte ad assoluta necessità; non regola né tantomeno visione dell'uomo e del suo bene.

La cura cristiana integrale è altra: "rinnovare l'uomo interiormente, (...) dare forza spirituale umana per un comportamento giusto nei confronti del proprio corpo e di quello dell'altro [che la regolare protezione contraccettiva può permettersi di ignorare], e [la indiscutibile] capacità di soffrire con i sofferenti, di rimanere presente [da parte della Chiesa, e non guidare ben da lontano grossolane politiche sanitarie] nelle situazioni di prova".

3. La sprungbereite Feindseligkeit, quel piacere di aggredire, che attende solo l’occasione per esprimersi, e che il Papa coglie, senza complimenti, nei suoi critici, ha di nuovo tradito molti in questi giorni, ed anche Adriano Prosperi (Il tabù del Pontefice, in La Repubblica, 18 marzo u.s. che tratta anche della bimba brasiliana stuprata dal patrigno e della scomunica). Supponendo, evidentemente, che alcune considerazioni inconsuetamente moderate del suo articolo non avessero abbastanza sale per i lettori, Prosperi deve terminare il pezzo con il topos della “durezza disumana della condanna ecclesiastica”, quando egli sa benissimo (non i suoi lettori, magari – ma tanto peggio per la sua responsabilità di studioso) quale sia il senso e la ratio di una scomunica. Questo topos è preceduto da una domanda: “Cosa accadrà per chi usa il preservativo”, che suona molto “gotica”; Prosperi vuole prospettarci qualche scenario da auto da Fé? Lo studioso conosce come conosco io la prassi della pena canonica e il legittimo e costante uso dell’epicheia, nonché la vitale dialettica cattolica di peccato, remissione, grazia. Inoltre, poiché accosta uso di un profilattico (ordinato, nel caso che discutiamo, ad impedire la trasmissione del virus) all’aborto (il caso brasiliano), dovrebbe sapere che si tratta di atti di diversissima gravità e diversamente sanzionati.

Adriano Sofri (su Repubblica di oggi 19 marzo), che ho già citato, non sa cosa sia scomunica; pensa che “scomunica misericordiosa” sia un ossimoro. Ma, con la stessa impazienza di “governi e istituzioni internazionali”, vede “offesa la ragionevolezza e sabotata la fatica di tanti professionisti e volontari”, il che è semplicemente falso, come spiegato. Ma Sofri non leggerà opinioni diversa dalla sua; ritiene di sapere già perché e come molti commenteranno favorevolmente gli acta di Benedetto XVI. Non ha dubbi ad associare, sapendosi in buona compagnia, la “durezza della Chiesa, che a volte sembra ottusità, a volte cattiveria”, con una “malattia inguaribile della società italiana”, un’ombra sulla nostra storia. Non è migliore il suo giudizio per il caso Welby, o per i pagani e sanfedisti che “confiscano i corpi dei sudditi”, e intende uomini e donne che hanno formulato e stanno difendendo in Parlamento la legge sul fine vita. Spiace che sotto tanta enfasi non vi sia quasi nulla.

Ma anche la conclusione “femminista” dell’articolo di Prosperi va veramente a vuoto. Secondo lui, l’anima della bambina brasiliana o della donna camerunese sarebbero per la Chiesa, per di più in quanto donne, meno importanti di quella di un vescovo negazionista. Sia la censura canonica latae sententiae (da cui non è stata colpita, ovviamente, la piccola Carmen; eventualmente sua madre, certamente i medici in quanto coscienti e contumaci) da parte della Chiesa, sia la chiara indicazione di una condizione di peccato, sono al contrario medicina, nel primo caso, e guida del fòro della coscienza, nel secondo, proprio e solo in vista della salvezza delle anime. Per di più Benedetto XVI non ha parlato degli individui, destinatari oggi di cura e amore, quanto degli effetti aggregati delle politiche del preservativo. Possibile che una persona intelligente e dotta, che conosce la tradizione dottrinale e spirituale cristiana, creda veramente (alla stregua del laico più sprovveduto e di qualche teologo d’accatto) che si provveda alla salus animarum e all’integrità dell’uomo nascondendo o derubricando il peccato? Come se qualcuno volesse salvarci dai rischi mortali della strada togliendo i cartelli di incrocio pericoloso e annullando le fattispecie di reato previste dal Codice! Ed è plausibile che intellettuali della mia generazione, educati austeramente come ancora avveniva nell’Italia postbellica, possano allinearsi al piagnucolio postmoderno sulla “cattiveria”, la “inumanità” di un’autorità che tangibilmente ama, protegge e sanziona, e sanziona perché ama? Un’autorità che ripete questo senza sosta, come si può verificare nella maggior parte dei testi, spesso bellissimi, di Benedetto XVI, e è vissuta come tale dagli africani che la accolgono in questi giorni.

(Quanto poi al tic Williamson - il senso della scomunica ai vescovi lefebvriani e della sua remissione sono offerti alla riflessione di chi voglia riflettere - valga quanto ho scritto altrove [ www.chiesa.espressoline.it 17 marzo 2009] sulla automatica, e strumentale, costruzione del capro espiatorio).

La Chiesa, che Rémi Brague ha detto profondamente (in occasione del VI Forum del Progetto Culturale della CEI, nel 2004) essere la sola capace di conservare oggi alla ragione gli orizzonti del bene, del vero e dell’essere, ha il compito di chiarire l’errore radicale di chi confonde il Bene col (problematico) “star bene” della nostra animalitas.

Gli organismi internazionali facciano in Africa ciò che debbono, peraltro nella quotidiana contiguità e integrazione con l’azione della Chiesa; ma non usino il dramma africano per fare delle culture dell’Africa una imitazione dell’Occidente invertebrato e della sua anomia (non di tutto l’Occidente, però, poiché per sua fortuna e per disegno divino, la sofriana “ombra dell’eccezione cattolica” non lo abbandona). Proseguiva Benedetto XVI rispondendo a Philippe Visseyrias di France2: “La soluzione può trovarsi solo in un duplice impegno: il primo, una umanizzazione della sessualità (…), e secondo, una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la disponibilità (..) ad essere con i sofferenti”. In una simile integrità assiologica, non nella burocrazia del preservativo, può essere scusata o scriminata l’adozione di una tecnica impeditiva, imposta (e solo in quanto imposta) da uno stato di necessità.

Dall’Africa: perché il Papa ha ragione



«U na polemica che non ha ragion d’es­sere» . Etienne Pagot, coor­dinatore diocesano della sanità dell’arcidiocesi di Doaula e responsabile dei programmi di lotta contro l’Aids, è sorpreso del pol­verone sollevato dalla di­chiarazioni di Benedetto XVI sull’uso del preserva­tivo. Dichiarazioni che, del resto, non hanno trovato vasta eco in Camerun. « Le abbiamo vissute come qualcosa di già detto – con­tinua Pagot –. E se non fos­sero state rilanciate con grande enfasi dai media internazionali , probabil­mente sarebbero rimaste sullo sfondo. D’altra parte, è lo stesso linguaggio che noi teniamo ogni giorno sul terreno: astinenza e fe­deltà sono mezzi più sicu­ri per prevenire e combat­tere la diffusione dell’Aids. Questione di realismo e di buon senso » . Il vero problema, sostiene, è proprio il « gran rumore sollevato sulla questione del preservativo, che ha fatto passare in secondo piano non solo gli altri te­mi trattati dal Pontefice, ma la stessa questione del­l’Aids che ha ben altre ri­percussioni: sanitarie, so­ciali, psicologiche, cultu­rali, spirituali… » .

Il sospetto, secondo Pagot, è che « chi è lontano da questi problemi, che per noi sono quotidiani e cru­ciali, dà un’importanza ec­cessiva a un aspetto speci­fico e non centrale, svian­do l’attenzione dalle vere questioni » . « La mia impressione – gli fa eco Martin Jumbam, ex direttore della Maison des communications sociales ( Macacos ) di Douala – è che il Papa qui in Camerun abbia toccato i temi e le sfi­de più urgenti per questo continente. È quello di cui tutti, dai media alla gente, parlano qui: pace, giusti­zia, riconciliazione, ma an­che la sofferenza materia­le e spirituale degli africa­ni, il tema forte della fami­glia, quello della povertà e dell’oppressione. I discor­si del Santo Padre hanno suscitato grande impres­sione. E continuano a far discutere la gente » . Jumban, che è perfetta­mente bilingue e guarda con attenzione i media in­ternazionali, nota una dis­sonanza tra la copertura locale e quella straniera.

«Qui si continua a sottoli­neare la portata storica di questo viaggio del Ponte­fice, e delle ripercussioni che potrà avere sul nostro Paese e sulla sua Chiesa. I media internazionali han­no insistito quasi unica­mente sulla questione del preservativo, che da noi è passata quasi inosservata». Chi non si è fatto sfuggire l’occasione di ironizzare sulle dichiarazioni del Pa­pa è stato invece l’irrive­rente Messager Popoli, in­serto satirico che esce set­timanalmente con il gior­nale Le Messager, princi­pale quotidiano indipen­dente camerunese. Il suo direttore, tuttavia, usa to­ni ben più pacati: «Dal mio punto di vista – dice Njawé, che è anche uno dei principali alfieri della libertà di stampa in Came­run – il Papa ha ragione ad esprimersi in questi termi­ni e soprattutto a ribadire che la fedeltà e l’astinenza sono i mezzi migliori per combattere l’Aids. Tuttavia quando lo si dice in Africa subsahariana, la regione al mondo maggiormente colpita da questo flagello, occorre farlo con una cer­ta prudenza ed evitare i ri­schi di fraintendimento: non si deve infatti lascia­re la porta aperta alla ne­gligenza, che qui da noi si­gnifica morte» .

Quanto al giornale di go­verno, il Cameroon Tribu­ne, elenca tra le dichiara­zioni di Benedetto XVI di cui far tesoro quelle sulla famiglia e sul ruolo dei ma­riti, per nulla scontate in quel contesto. Nonché le parole rivolte ai giovani: « Di fronte alla difficoltà della vita, custodite il co­raggio e lasciatevi toccare da Cristo » . « Verginità e ce­libato non diminuiscono in nulla la dignità del ma­trimonio » , riporta il gior­nale, commentando: «Questo almeno ha il gran­de vantaggio di essere chiaro».
Anna Pozzi

venerdì 20 marzo 2009

Aids, dall'Europa critiche al Papa sui preservativi


Francia e Germania in testa alle voci contrarie alle dichiarazioni di Benedetto XVI sull'uso del preservativo nella lotta all'aids. E anche la Commissione europea ribadisce, interpellata dall'agenzia Ansa, che il preservativo "e' uno degli elementi essenziali nella lotta contro l'aids e la commissione Ue ne sostiene la diffusione e l'uso corretto": cosi' il portavoce del commissario Ue agli aiuti umanitari Louis Michel. Dall'Italia arriva invece il no comment del ministro degli Esteri Franco Frattini.

In Francia
La Francia e' la prima a dichiararsi "preoccupatissima" per l'attacco del papa all'uso del preservativo in funzione anti-aids. Si sono unite subito dopo le voci della Germania, del Belgio, delle Ong inglesi e della Commissione europea e, in serata, anche della Spagna che alle parole ha aggiunto anche i fatti, annunciando l'invio in Africa di un milione di preservativi.

In Germania
Dura anche la Germania, preoccupata di un affievolimento dell'attenzione generale ai rischi della malattia: i preservativi hanno un ruolo "decisivo" nella lotta all'aids - hanno affermato due ministre del governo tedesco, Ulla Schmidt (Sanita') e Heidemarie Wieczorek-Zeul (Sviluppo), per le quali "ogni altro strumento sarebbe irresponsabile".

In Spagna
Oltre al gesto concreto di inviare un milione di preservativi in Africa, dalla Spagna si e' levata la voce critica del segretario generale della sanita', Jose' Martinez Olmos, che ha invitato Benedetto XVI a fare una "mea culpa" e a rettificare le parole di ieri. Il piu' alto funzionario della sanita' in Spagna si e' anche detto convinto che il papa e' "molto mal consigliato".

In Belgio
Il ministro belga della Sanita, Laurette Onkelinx, ha espresso "sorpresa" e "costernazione" per le parole del papa, che potrebbero "pregiudicare anni di prevenzione e sensibilizzazione mettendo a rischio molte vite umane".

Unanime critica dal mondo scientifico e associativo
"Profondamente indignato" si e' detto il professor Michel Kazatchkine, direttore esecutivo del Fondo mondiale per la lotta all'aids, che chiede al papa di "ritirare le sue affermazioni in modo chiaro" perche' sono "inaccettabili".

Critiche si sono levate da diverse ong britanniche, fra le quali la religiosa Christian Aid ("le parole del papa rischiano di seminare confusione in Africa"). Anche il vescovo ausiliario di Amburgo, Hans Jochen Jaschke, si e' schierato contro il Papa. "Chi ha l'Aids, e' sessualmente attivo e cerca partner differenti deve proteggere gli altri e se stesso", ha scritto in un articolo per il settimanale Die Zeit.

La Santa Sede replica ribadendo la propria posizione
"La Chiesa concentra il suo impegno non ritenendo che puntare essenzialmente sulla piu' ampia diffusione di preservativi sia in realta' la via migliore" si legge in una nota della Santa Sede. Il Santo Padre, precisa padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa, "ha ribadito le posizioni della Chiesa Cattolica e le linee essenziali del suo impegno nel combattere il terribile flagello dell'aids", che si concentrano sull'educazione alla responsabilita' delle persone nell'uso della sessualita' e con il riaffermare il ruolo della famiglia e del matrimonio; con la ricerca di cure efficaci accessibili al maggior numero di persone e con l'assistenza umana e spirituale ai malati.

"Queste sono le direzioni in cui la Chiesa concentra il suo impegno non ritenendo che puntare essenzialmente sulla piu' ampia diffusione di preservativi sia in realta' la via migliore, piu' lungimirante ed efficace per contrastare il flagello dell'aids e tutelare la vita umana".

Il vicepresidente della Camera: Europa burocratica e ideologica
Mentre il ministro degli Esteri Franco Frattini ha rifiutato ogni commento alle parole del papa, Maurizio Lupi ha stigmatizzato le dichiarazioni della commissione europea sull'importanza dell'uso dei preservativi per la lotta all'aids, dopo le dichiarazioni di Benedetto XVI. "Continuiamo a domandarci per quale ragione il processo di integrazione europea stenta ad andare avanti e perche' la Ue continua ad essere percepita come una istituzione distante. La risposta e' facile: si sta lentamente affermando una Europa relativista, burocratica, ideologica e incapace di rispondere alle esigenze della societa'. Quello che sta accadendo intorno alle parole del papa ne e' un esempio. Benedetto XVI, come sempre, ci ha provocati attraverso una semplice domanda: e' sufficiente inondare l'Africa di preservativi per risolvere il problema dell'Aids?". "Il papa ha il grande merito di provocare le nostre coscienze. Invece di attaccarlo strumentalmente sarebbe il caso di ascoltarlo".
Berlusconi: il Papa svolge la sua missione.
Ciascuno svolge la sua missione ed è coerente con il suo ruolo". Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, a margine del vertice del Partito popolare europeo a Bruxelles, ha risposto così a chi chiedeva un commento sulle parole di Papa Benedetto XVI, nel corso del suo viaggio in Africa, sull'uso del preservativo.

sabato 14 marzo 2009

Julian Carron: «Una misericordia che ci sfida»




La prima cosa che colpisce è il fatto che il Papa abbia sentito il bisogno di scrivere una lettera così: piena di dolore davanti all’incomprensione non tanto degli estranei, quanto dei cattolici. Caso insolito nella storia recente, da quanto ricordi, e segno del fatto che non capiamo un gesto che, come dimostra la lettera, è pieno di ragionevolezza.



Nella sua semplicità, è stato un gesto di misericordia per una parte di fedeli affidati alla sua paternità di pastore universale della Chiesa, che acquista tutta la sua portata davanti agli irrigidimenti di coloro che lo criticano, inclusi quelli a cui era rivolto. Questo gesto pone davanti a tutti lo scandalo cristiano. È difficile, infatti, che leggendo la lettera non vengano alla mente le parole di Gesù: «Beato colui che non si scandalizza di me», rivolte a chi si arrabbiava perché mangiava coi pubblicani e i peccatori. La misericordia, gesto inequivocabile del divino, continua a scandalizzare come il primo giorno. Peccato che questo succeda anche tra chi appartiene al popolo dei redenti, vale a dire, tra chi per primo è stato oggetto di una sconfinata misericordia.



Diversamente da quanti pensano che Benedetto XVI confermi i destinatari nella loro posizione, il suo gesto costituisce la sfida più grande davanti alla quale si siano mai trovati. Soltanto la misericordia sfida come nessun altro richiamo la nostra testardaggine. A chi molto viene perdonato, molto ama, dice Gesù. A nessun altro gesto è sensibile l’uomo come alla misericordia, tanto è vero che è stato il metodo di Gesù, come ci ricorda San Paolo: «Quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Quella del Papa è una risposta alla «priorità che sta al di sopra di tutte, rendere Dio presente in questo mondo», un Dio incarnato il cui nome è “misericordia”, che si manifesta attraverso «l’unità dei credenti».



Questa lettera ha un “respiro” di cui non possiamo non ringraziare il Papa, tanto più quanto più aumentano gli irrigidimenti di coloro che riducono la vita cristiana a un moralismo soffocante. Niente più di una lettera così mi fa sentire orgoglioso della mia appartenenza ecclesiale, pieno di fiducia che il giorno in cui io dovessi sbagliare sarei trattato con altrettanta misericordia.



(Julián Carrón)



Pubblicato su L'Avvenire, 14 Marzo 2009

venerdì 13 marzo 2009

Le priorità del pontificato di Benedetto XVI


di Camillo Ruini


Nell'omelia di inizio del pontificato, Benedetto XVI affermava di non avere un proprio programma, se non quello che ci viene dal Signore Gesù Cristo. Era questo un chiaro richiamo a ciò che è essenziale nel cristianesimo. Il nuovo pontificato si poneva inoltre nella continuità sostanziale con quello di Giovanni Paolo II, di cui Joseph Ratzinger era stato, per i contenuti decisivi, il primo collaboratore.

In questo quadro non è difficile individuare alcune priorità del pontificato di Benedetto XVI.

La prima e maggiore priorità è Dio stesso, quel Dio che troppo facilmente viene messo al margine della nostra vita, protesa al "fare", soprattutto mediante la "tecno-scienza", e al godere-consumare. Quel Dio, anzi, che è espressamente negato da una "metafisica" evoluzionistica che riduce tutto alla natura, cioè alla materia-energia, al caso (le mutazioni casuali) e alla necessità (la selezione naturale), o più frequentemente è dichiarato non conoscibile in base al principio che "latet omne verum", ogni verità è nascosta, in conseguenza della restrizione degli orizzonti della nostra ragione a ciò che è sperimentabile e calcolabile, secondo la linea oggi prevalente. Quel Dio, infine, di cui è stata proclamata la "morte", con l'affermarsi del nichilismo e con la conseguente caduta di tutte le certezze.

Il primo impegno del pontificato è dunque riaprire la strada a Dio: non però facendosi dettare l'agenda da coloro che in Dio non credono e contano soltanto su se stessi. Al contrario, l'iniziativa appartiene a Dio e questa iniziativa ha un nome, Gesù Cristo: Dio si rivela in qualche modo a noi nella natura e nella coscienza, ma in maniera diretta e personale si è rivelato ad Abramo, a Mosè, ai profeti dell'Antico Testamento, e in maniera inaudita si è rivelato nel Figlio, nell'incarnazione, croce e risurrezione di Cristo. Vi sono dunque due vie, quella della nostra ricerca di Dio e quella di Dio che viene alla ricerca di noi, ma soltanto quest'ultima ci permette di conoscere il volto di Dio, il suo mistero intimo, il suo atteggiamento verso di noi.

Giungiamo così alla seconda priorità del pontificato: la preghiera. Non soltanto quella personale ma anche e soprattutto quella "nel" e "del" popolo di Dio e corpo di Cristo, ossia la preghiera liturgica della Chiesa.

Nella prefazione al primo volume delle sue "Opera omnia", uscito da poco in lingua tedesca, Benedetto XVI scrive: "La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l'attività centrale della mia vita ed è diventata anche il centro del mio lavoro teologico". Possiamo aggiungere che oggi è il centro del suo pontificato.

Arriviamo così a un punto controverso, specialmente dopo il motu proprio che consente l'uso della liturgia preconciliare e ancor più dopo la remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Già in precedenza però Joseph Ratzinger aveva chiarito questo punto molto bene. Egli è stato uno dei grandi sostenitori del movimento liturgico che ha preparato il Concilio e uno dei protagonisti del Vaticano II, e tale è sempre rimasto. Fin dall'attuazione della riforma liturgica nei primi anni del dopo-Concilio, egli aveva contestato però la proibizione dell'uso del messale di San Pio V, vedendovi una causa di sofferenza non necessaria per tante persone amanti di quella liturgia, oltre che una rottura rispetto alla prassi precedente della Chiesa che, in occasione delle riforme della liturgia succedutesi nella storia, non aveva proibito l'uso delle liturgie fino allora in uso. Da pontefice ha pertanto ritenuto di dover rimediare a questo inconveniente consentendo più facilmente l'uso del rito romano nella sua forma preconciliare. Lo spingeva a questo anche il suo dovere fondamentale di promotore dell'unità della Chiesa. Si muoveva inoltre nella linea già iniziata da Giovanni Paolo II. In questo spirito la remissione della scomunica è stata concessa per facilitare il ritorno dei lefebvriani, ma non certamente per rinunciare alla condizione decisiva di questo ritorno, che è la piena accettazione del Concilio Vaticano II, compresa la validità della messa celebrata secondo il messale di Paolo VI.

In positivo Benedetto XVI ha precisato l'interpretazione del Vaticano II nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, prendendo le distanze da una "ermeneutica della rottura", che ha due forme: una prevalente, in base alla quale il Concilio costituirebbe una novità radicale e sarebbe importante "lo spirito del Concilio" ben più della lettera dei suoi testi; l'altra, contrapposta, per la quale conterebbe soltanto la tradizione precedente al Concilio, rispetto a cui il Concilio avrebbe rappresentato una rottura densa di conseguenze funeste, come sostengono appunto i lefebvriani.

Benedetto XVI propone invece l'"ermeneutica della riforma", ossia della novità nella continuità, sostenuta già da Paolo VI e Giovanni Paolo II: il Concilio costituisce cioè una grande novità ma nella continuità dell'unica tradizione cattolica. Soltanto questo tipo di ermeneutica è teologicamente sostenibile e pastoralmente fruttuoso.

Abbiamo messo a fuoco così un'ulteriore priorità del pontificato: promuovere l'attuazione del Concilio, sulla base di questa ermeneutica.

Nella medesima prospettiva, possiamo parlare di una "priorità cristologica" o "cristocentrica" del pontificato. Essa si esprime in particolare nel libro "Gesù di Nazaret", impegno non consueto per un papa, al quale Benedetto XVI dedica "tutti i momenti liberi". Gesù Cristo infatti è la via a Dio Padre, è la sostanza del cristianesimo, è il nostro unico Salvatore.

Perciò è terribilmente pericoloso il distacco tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, distacco che è frutto di un'assolutizzazione unilaterale del metodo storico-critico e più precisamente di un impiego di questo metodo sulla base del presupposto che Dio non agisca nella storia. Un tale presupposto, già da solo, rappresenta infatti la negazione dei Vangeli e del cristianesimo. Anche in questo caso si tratta di allargare gli spazi della razionalità, dando credito a una ragione aperta, e non chiusa, alla presenza di Dio nella storia. Questo libro ci mette in contatto con Gesù e così ci introduce nella sostanza, nella profondità e novità del cristianesimo: leggerlo è un impegno che costa un po' di fatica ma che ripaga abbondantemente.

***

A questo punto possiamo ritornare alla prima priorità, Dio, per prendere in considerazione l'impegno anche razionale e culturale di Benedetto XVI al fine di allargare a Dio la ragione contemporanea e di fare spazio a Dio nei comportamenti e nella vita personale e sociale, pubblica e privata: sono particolarmente importanti qui il discorso di Ratisbona, quello più recente di Parigi e anche quello di Verona del 2006.

Quanto alla ragione contemporanea, Benedetto XVI sviluppa una "critica dall'interno" della razionalità scientifico-tecnologica, che oggi esercita una leadership culturale. La critica non riguarda questa razionalità in se stessa, che ha anzi grande valore e grandi meriti, dato che ci fa conoscere la natura e noi stessi come mai era stato possibile prima e ci permette di migliorare enormemente le condizioni pratiche della nostra vita. Riguarda invece la sua assolutizzazione, come se questa razionalità costituisse l'unica conoscenza valida della realtà.

Tale assolutizzazione non proviene dalla scienza come tale, né dai grandi uomini di scienza, che ben conoscono i limiti della scienza stessa, bensì da una "vulgata" oggi molto diffusa e influente, che però non è la scienza ma una sua interpretazione filosofica, piuttosto vecchia e superficiale. La scienza infatti deve i suoi successi alla sua rigorosa limitazione metodologica a ciò che è sperimentabile e calcolabile. Se però questa limitazione viene universalizzata, applicandola non solo alla ricerca scientifica ma alla ragione e alla conoscenza umana come tali, essa diventa insostenibile e disumana, dato che ci impedirebbe di interrogarci razionalmente sulle domande decisive della nostra vita, che riguardano il senso e lo scopo per cui esistiamo, l'orientamento da dare alla nostra esistenza, e ci costringerebbe ad affidare la risposta a queste domande soltanto ai nostri sentimenti o a scelte arbitrarie, distaccate dalla ragione. È questo, forse il problema più profondo e anche il dramma della nostra attuale civiltà.

Joseph Ratzinger-Benedetto XVI fa un passo in più, mostrando che la riflessione sulla struttura stessa della conoscenza scientifica apre la strada verso Dio.

Una caratteristica fondamentale di tale conoscenza è infatti la sinergia tra matematica ed esperienza, tra le ipotesi formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: si ottengono così i risultati giganteschi e sempre crescenti che la scienza mette a nostra disposizione. La matematica è però un frutto puro e "astratto" della nostra razionalità, che si spinge al di là di tutto ciò che noi possiamo immaginare e rappresentare sensibilmente: così avviene in particolare nella fisica quantistica – dove una medesima formulazione matematica corrisponde all'immagine di un'onda e al tempo stesso di un corpuscolo – e nella teoria della relatività, che implica l'immagine della "curvatura" dello spazio. La corrispondenza tra matematica e strutture reali dell'universo, senza la quale le nostre previsioni scientifiche non si avvererebbero e le tecnologie non funzionerebbero, implica dunque che l'universo stesso sia strutturato in maniera razionale, così che esista una corrispondenza profonda tra la ragione che è in noi e la ragione "oggettivata" nella natura, ossia intrinseca alla natura stessa. Dobbiamo chiederci però come questa corrispondenza sia possibile: emerge così l'ipotesi di un'Intelligenza creatrice, che sia l'origine comune della natura e della nostra razionalità. L'analisi, non scientifica ma filosofica, delle condizioni che rendono possibile la scienza ci riporta dunque verso il "Logos", il Verbo di cui parla san Giovanni all'inizio del suo Vangelo.

Benedetto XVI non è però un razionalista, conosce bene gli ostacoli che oscurano la nostra ragione, la "strana penombra" in cui viviamo. Perciò, anche a livello filosofico, non propone il ragionamento che abbiamo visto come una dimostrazione apodittica, ma come "l'ipotesi migliore", che richiede da parte nostra "di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell'ascolto umile": il contrario dunque di quell'atteggiamento oggi diffuso che viene chiamato "scientismo".

Allo stesso modo non può essere presentata come "scientifica" la riduzione dell'uomo a un prodotto della natura, in ultima analisi omogeneo agli altri, negando quella differenza qualitativa che caratterizza la nostra intelligenza e la nostra libertà. Una simile riduzione costituisce in realtà il capovolgimento totale del punto di partenza della cultura moderna, che consisteva nella rivendicazione del soggetto umano, della sua ragione e della sua libertà.

Perciò, come Benedetto XVI ha detto a Verona, la fede cristiana proprio oggi si pone come il "grande sì" all'uomo, alla sua ragione e alla sua libertà, in un contesto socio-culturale nel quale la libertà individuale viene enfatizzata sul piano sociale facendone il criterio supremo di ogni scelta etica e giuridica, in particolare nell'"etica pubblica", salvo però negare la libertà stessa come realtà a noi intrinseca, cioè come nostra capacità personale di scegliere e di decidere, al di là dei condizionamenti ed automatismi biologici, psicologici, ambientali, esistenziali.

Proprio il ristabilimento di un genuino concetto di libertà è un'altra priorità del pontificato, l'ultima di cui parlerò.

Essa riguarda la vita personale e sociale, le strutture pubbliche come i comportamenti personali. Benedetto XVI contesta cioè quell'etica e quella concezione del ruolo dello Stato e della sua laicità che egli stesso ha definito "dittatura del relativismo", per la quale non esisterebbe più qualcosa che sia bene o male in se stesso, oggettivamente, ma tutto dovrebbe subordinarsi alle nostre scelte personali, che diventano automaticamente "diritti di libertà". Vengono escluse così, almeno a livello pubblico, non solo le norme etiche del cristianesimo e di ogni altra tradizione religiosa, ma anche le indicazioni etiche che si fondano sulla natura dell'uomo, cioè sulla realtà profonda del nostro essere. È questa una cesura radicale, un autentico taglio, rispetto alla storia dell'umanità: una cesura che isola l'Occidente secolarizzato dal resto del mondo.

In realtà la libertà personale è intrinsecamente relativa alle altre persone e alla realtà, è libertà non solo "da" ma "con" e "per", è libertà condivisa che si realizza soltanto unitamente alla responsabilità. In concreto, Benedetto XVI è talvolta accusato di insistere unilateralmente sui temi antropologici e bioetici, come la famiglia e la vita umana, ma in realtà egli insiste analogamente sui temi sociali ed ecologici (certamente senza indulgere ad "inquinamenti ideologici"). Proprio ai temi sociali sarà dedicata la sua terza enciclica ormai imminente. La radice comune di questa duplice insistenza è il "sì" di Dio all'uomo in Gesù Cristo, e in concreto è l'etica cristiana dell'amore del prossimo, a cominciare dai più deboli.

Concludo tornando all'inizio. Parlando a Subiaco il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger invitava tutti, anche quegli uomini di buona volontà che non riescono a credere, a vivere "veluti si Deus daretur", come se Dio esistesse. Ma al tempo stesso affermava la necessità di uomini che tengano lo sguardo fisso verso Dio e in base a questo sguardo si comportino nella vita. Soltanto così infatti Dio potrà tornare nel mondo. È questo il senso e lo scopo dell'attuale pontificato.