domenica 30 settembre 2012

"DOBBIAMO ESSERE TUTTI E SEMPRE CAPACI DI APPREZZARCI E STIMARCI A VICENDA"

CASTEL GANDOLFO, domenica, 30 settembre 2012 di seguito le parole rivolte oggi a mezzogiorno durante la recita della preghiera dell'Angelus da papa Benedetto XVI ai fedeli e ai pellegrini convenuti a Castel Gandolfo. ***
Cari fratelli e sorelle! Il Vangelo di questa domenica presenta uno di quegli episodi della vita di Cristo che, pur essendo colti, per così dire, en passant, contengono un profondo significato (cfr Mc 9,38-41). Si tratta del fatto che un tale, che non era dei seguaci di Gesù, aveva scacciato dei demoni nel suo nome. L’apostolo Giovanni, giovane e zelante, vorrebbe impedirglielo, ma Gesù non lo permette, anzi, prende spunto da quella occasione per insegnare ai suoi discepoli che Dio può operare cose buone e persino prodigiose anche al di fuori della loro cerchia, e che si può collaborare alla causa del Regno di Dio in diversi modi, anche offrendo un semplice bicchiere d’acqua ad un missionario (v. 41). Scrive a questo proposito Sant’Agostino: «Come nella Cattolica – cioè nella Chiesa – si può trovare ciò che non è cattolico, così fuori della Cattolica può esservi qualcosa di cattolico» (Agostino, Sul battesimo contro i donatisti: PL 43, VII, 39, 77). Perciò, i membri della Chiesa non devono provare gelosia, ma rallegrarsi se qualcuno esterno alla comunità opera il bene nel nome di Cristo, purché lo faccia con intenzione retta e con rispetto. Anche all’interno della Chiesa stessa, può capitare, a volte, che si faccia fatica a valorizzare e ad apprezzare, in uno spirito di profonda comunione, le cose buone compiute dalle varie realtà ecclesiali. Invece dobbiamo essere tutti e sempre capaci di apprezzarci e stimarci a vicenda, lodando il Signore per l’infinita ‘fantasia’ con cui opera nella Chiesa e nel mondo. Nella Liturgia odierna risuona anche l’invettiva dell’apostolo Giacomo contri i ricchi disonesti, che ripongono la loro sicurezza nelle ricchezze accumulate a forza di soprusi (cfr Gc 5,1-6). Al riguardo, Cesario di Arles così afferma in un suo discorso: «La ricchezza non può fare del male a un uomo buono, perché la dona con misericordia, così come non può aiutare un uomo cattivo, finché la conserva avidamente o la spreca nella dissipazione» (Sermoni 35, 4). Le parole dell’apostolo Giacomo, mentre mettono in guardia dalla vana bramosia dei beni materiali, costituiscono un forte richiamo ad usarli nella prospettiva della solidarietà e del bene comune, operando sempre con equità e moralità, a tutti i livelli. Cari amici, per intercessione di Maria Santissima, preghiamo affinché sappiamo gioire per ogni gesto e iniziativa di bene, senza invidie e gelosie, e usare saggiamente dei beni terreni nella continua ricerca dei beni eterni. [Dopo la preghiera dell'Angelus, il Papa ha salutato i pellegrini provenienti dai vari paesi nelle diverse lingue. In italiano ha detto:] Seguo con affetto e preoccupazione le vicende della popolazione dell’Est della Repubblica Democratica del Congo, oggetto, in questi giorni, di attenzione anche da parte di una Riunione di alto livello, presso le Nazioni Unite. Sono particolarmente vicino ai profughi, alle donne e ai bambini, che a causa dei persistenti scontri armati subiscono sofferenze, violenze e profondi disagi. Invoco Dio, perché si trovino vie pacifiche di dialogo e di protezione di tanti innocenti e affinché torni al più presto la pace, fondata sulla giustizia, e sia ripristinata la convivenza fraterna in quella popolazione così provata, come pure nell’intera Regione. (…) Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, incominciando dai membri del rinnovato Consiglio pastorale della parrocchia di Castel Gandolfo. Cari amici, come sapete, domani rientrerò in Vaticano; con affetto vi dico «arrivederci» e vi prego di portare il mio saluto all’intera comunità. Saluto il Gruppo Scout di Bisuschio e il Lions Club di Castellabate Cilento Antico. Vorrei rivolgere anche il mio augurio alla nuova missione «Gesù al centro», della Diocesi di Roma, che in questa settimana si svolgerà nel territorio di Ostia. Prego per questo momento forte di testimonianza e di annuncio. A tutti voi, cari amici, buona domenica! [© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana]

Perché, anche se piove, Norma può dire: che bella giornata?

Vivere intensamente il reale è la sfida che don Julián Carrón ci ha rilanciato alcuni mesi fa. Una sfida che non è solo per coloro che appartengono al movimento di Comunione e Liberazione, ma per qualunque essere umano veramente impegnato con la sua umanità, con la sua ragione, con il suo cuore. In questi mesi, ogni persona che vive con noi, lavorando nelle diverse opere di carità, è stata provocata tutti i giorni a non lasciare nulla nella periferia della realtà, ad andare a fondo di tutto. Questo per scoprire come soltanto la fede risponda e corrisponda in modo integrale a ciò che il cuore desidera e cerca. Questo lavoro personale e comunitario ha permesso di verificare che l’avvenimento di Cristo trasforma tutto in ragionevole e vero. Molte persone imparano un modo nuovo di lavorare: non più per un dovere o per una questione economica, ma perché il lavoro è la continuità dell’opera creatrice di Dio. Un modo profondamente umano di vivere i rapporti uomo e donna. In Paraguay la poligamia è una modalità, un “modus vivendi”. Parlare di matrimonio è come parlare di carcere. Nonostante questo, più di una persona ha deciso di terminare il suo concubinato o la sua vita disordinata, chiedendo il matrimonio cristiano. L’ordine, la bellezza, la pulizia, tanto nella vita personale come in quella comunitaria, non fanno parte della cultura che respirano. Le persone che stanno con noi possono vedere continuamente che il bello, in tutti i particolari, conviene non solo alle nostre opere, che sono diventate più belle e più ordinate, ma anche alle loro case e alla loro vita. Questi sono alcuni messaggi che mi sono arrivati nell’ultimo periodo: «Padre, grazie alla formazione che ci offrono qui, alla bellezza che tutte le opere ci testimoniano, la mia casa ha cambiato look: ora la mia camera da letto è bella ordinata, il letto non più una “cuccia” per cani, ma un luogo di riposo pulito, con le pareti tutte ben pitturate». «Padre, perfino l’uso del denaro è cambiato: ora ho un quaderno in cui segno le entrate e le uscite. Inoltre sto comprando un terreno, perché voglio costruirmi una casa». «Padre, ho un fidanzato, ma vorrei che lei ci seguisse, che ci accompagnasse, perché non voglio, come i miei genitori e parenti, convivere o cambiare facilmente uomo. Non voglio che i miei figli siano di padri diversi. Voglio sposarmi e vivere con mio marito». «Padre, sono riconoscente per la catechesi settimanale perché mi aiuta a prendere sul serio la realtà. Io e le persone con cui abito abbiamo cambiato il nostro modo di vivere. Così mi piace la vita». La grazia della malattia Ciò che vale per quelli che lavorano, vale anche per i pazienti terminali che sono la testimonianza quotidiana di una novità della vita. Per loro la malattia smette di essere una maledizione e diventa una grazia che cambia la prospettiva della vita, che dà senso alla sofferenza e alla morte. Le testimonianze di questi giorni sono molto eloquenti. Le prime due raccontano di due pazienti della Clinica: Hortencio, un paziente malato di aids e Andrea, una bellissima ragazza di 17 anni morta di cancro alcune settimane fa. La terza testimonianza è di Norma, una signora malata di cancro che ci contagia tutti con la sua allegria. Scrive sorella Sonia, la consacrata che vive 24 ore al giorno nella Clinica: «Hortencio, nato nella città di Concepción, ha una storia molto dolorosa. A 12 anni ha deciso di venire ad Asunción per cercare lavoro e guadagnarsi da vivere. Passava ore per strada vendendo diari, sotto il sole e la pioggia, fino a che, dopo anni, si è trovato in una situazione inaspettata. A seguito di relazioni con travestiti, si è ammalato di Aids. Tempo dopo ha vissuto un altro momento drammatico: una notte, molto ubriaco, è stato investito da un’auto che l’ha lasciato paraplegico. Dopo essere andato in molti ospedali è arrivato nella nostra Clinica, dove dice di sentirsi abbracciato, amato, dove non gli rimproverano il suo passato né lo emarginano per la sua malattia. Hortencio è un figlio che sta facendo un cammino lento, ma bello, di conversione. Quando è arrivato, ha chiesto di confessarsi con cuore sincero e aperto. Vuole tornare a camminare, a lavorare, ma con un altro sguardo, vuole perdonare, ma con certezza, vuole vivere, ma con un grande motivo che lo muova e lo sostenga. Rendo grazie a Dio per la sua presenza nella mia vita, lui è qui per me, perché nel suo volto sofferente per la crudezza della vita, contempli Cristo, mendicante del mio amore». Il lamento di Andrea Uno dei giovani volontari dei “sabati sera”, scrive di Andrea: «Le parole di Andrea, una ragazza di soli 17 anni, quando era appena arrivata alla Clinica ci hanno sempre colpito. Noi giovani che eravamo lì, il giorno del suo arrivo, siamo rimasti sorpresi per come accettava le metastasi che la facevano soffrire, uno dei dolori più insopportabili che l’uomo possa sentire nel suo corpo. Ma lei era lì per concederci un sorriso, un saluto, uno sguardo. Un mercoledì sera è cominciata la sua agonia. Cosciente del fatto che fosse la sua ora, ha ceduto alle spine del dolore, “lamentandosi” per la prima volta, dicendo a sua mamma, che ha vegliato su di lei durante il suo calvario e la sua croce: “Non mi sento bene”. Solamente un semplice “Non mi sento bene”. Anche se dopo aggiungeva: “Perdonami perché per colpa mia hai perso il lavoro e per questo siamo poveri, prenditi cura di mia sorella”. Che santità, una giovane in un’età tanto innocente, che di fronte al dolore non ha fatto nient’altro che accettarlo e offrirlo. Chi può sostenerci nel dolore se non un Altro più grande che ha già vinto la morte? Fuori da questa logica e da questa evidenza, il dolore di Andrea e l’accoglienza fraterna che lei ha dato alla sofferenza sarebbero inconcepibili. Ciò che desidero io, testimone di questi fatti, della sua vita e della notizia della sua morte, è che aumenti la mia fede e che faccia di me ogni giorno di più una persona capace di dire di sì a Cristo, in qualsiasi circostanza, e non permetta che anneghi più in un bicchiere d’acqua, come tante volte ci succede con piccolezze. Andrea ha offerto la sua vita a Dio un sabato, per godere della gioia eterna la domenica, giorno del Signore, giorno dell’affermazione della vita sopra la morte. Spero che la sua vita e quella di tanti pazienti sia sempre un esempio e uno stimolo per tutti». «Guarda che bella giornata» Per ultima, Norma, una donna con una grande forza, madre di nove figli. Commuove vederla sorridere con la semplicità di una bambina, totalmente affidata alla volontà di Dio. Lei racconta che quando ha scoperto la sua malattia si è sentita talmente male che passava il giorno piangendo in compagnia della sua famiglia, e con il passare del tempo, non ha più avuto possibilità economiche per proseguire il trattamento indicatole. Un giorno ha incontrato una dottoressa che le ha promesso di trasferirla dove avrebbe potuto continuare le cure. Lo stesso giorno l’hanno portata alla Clinica della Divina Provvidenza: «Mi hanno ricevuto con molta allegria, sono stata molto felice perché tutti mi dimostravano affetto e amore. La cosa che più mi ha impressionato è che da quando sono arrivata alla Clinica sono un’altra persona. Dio e la Madonna mi hanno cambiata, la mia relazione con Dio è cominciata a essere un’altra, non sono più come ero prima. Prima mi dava fastidio tutto, adesso sono molto più tranquilla, vivendo la quotidianità con intensità, occupandomi di cose manuali. Percepisco che non posso più vivere senza pregare, se non lo faccio rimango con l’impressione che mi manchi qualcosa, che grazie a Dio adesso so cos’è: stare con Lui, perché quando prego sento di avere tutto ciò di cui ho bisogno per vivere». È bello vederla allegra, cantare e ballare con i volontari. Un altro momento indimenticabile per lei è stato il giorno del suo compleanno: «Il mio compleanno è stato meraviglioso, mi avete festeggiata e non lo dimenticherò mai. Non ho mai festeggiato così in vita mia e il mio sogno era poterlo fare qui, nella Clinica. Il mio sogno è diventato realtà». Norma è un regalo per tutti, ci risveglia sempre, richiamandoci a vivere l’istante presente come segno del Mistero, come oggi, che all’alba era nuvoloso e con una lieve pioggerellina, e lei appena l’ho incontrata ha esclamato con gioia: «Guarda che bella giornata!». Perché lei è capace di vedere la bellezza anche in una giornata così? Semplicemente perché il suo sguardo è fisso verso il Mistero che le permette di riconoscere che tutta la realtà è positiva. paldo.trento@gmail.com Settembre 30, 2012 Aldo Trento

sabato 29 settembre 2012

Il tempo della crisi è il tempo della persona

Intervenendo ieri alla plenaria del CCEE (Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa) che si sta svolgendo a Sankt Gallen, in Svizzera, la professoressa Marta Cartabia, docente di Diritto e giudice della Corte Costituzionale in Italia, ha cercato di individuare le emergenze sorte nell’attuale ambiente culturale e politico in crisi.
La sua riflessione ha toccato tre ambiti: il primo riguarda la crisi della politica e della democrazia. Se nel dopoguerra sembrava che ci fosse in Europa un ideale politico che era allo stesso tempo pieno di realismo e rispettava la dignità della persona, oggi sembra che il discorso politico è quasi esclusivamente occupato da preoccupazioni economiche. Un secondo ambito è quello dell’implosione dello “stato sociale”, che per decenni è stato il modello europeo della democrazia sociale. Infine, un terzo ambito è quello che potrebbe essere definito di “crisi antropologica” che sta dando vita ad una “età dei nuovi diritti” dove tutto può diventare diritto perché viene dalla volontà della persona. Secondo la professoressa Cartabia, viviamo in un’epoca paradossale dove il liberalismo economico si è unito a una cultura libertaria sulle questioni di etica pubblica. Prima ancora che chiederci “cosa fare?” di fronte alla crisi, occorre porre di nuovo la domanda “chi siamo?”, “chi è l’uomo della crisi”? Ci si può domandare allora: da dove iniziare per affrontare le crisi? Dallo Stato? Come alcuni pensano, asserendo che, se è lo Stato che ha perso la sua identità ed è incapace di gestire la vita della società, allora è da qui che bisogna ricominciare? Ma forse non sarà questa crisi il segno di una crisi più profonda? Quella della persona? Per la professoressa Cartabia, il tempo della crisi è il tempo della persona e la crisi potrebbe quindi rivelarsi tempo propizio per andare alla profondità dell’esperienza umana. Per una nuova rinascita occorre che sia salvaguardata e praticata un’autentica libertà religiosa, intesa non come mera libertà di culto e di coscienza, ma come libertà dell’uomo di vivere ed esprimere appieno il suo senso religioso e dunque di imprimere al suo rapporto con la realtà e ai suoi rapporti umani, una spinta ideale, generando così germogli di vita nuova. Solo in questo modo, – ha concluso la Cartabia – nasceranno soggetti e comunità costruttori di civiltà. tratto da ZENIT.org.-

GLI ARCANGELI RENDONO PALPABILE LA PRESENZA DIVINA SULLA TERRA.Se invocati hanno la capacità di aiutare a discernere tra il bene e il male

Oggi la Chiesa celebra la festa dei Santi arcangeli Michele, Raffaele e Gabriele. Gli arcangeli, figure presenti sia nell’ebraismo che nella religione islamica, sono una sorta di angeli “superiori”, non a caso collocati nelle sfere più alte delle gerarchie angeliche, attraverso i quali opera lo spirito Santo. Questi “angeli”, spesso nell’iconografia rappresentati con grandi ali e molti occhi, hanno il compito di “gestire, coordinare e distribuire” la luce divina, che loro stessi riflettono essendo in continua contemplazione del volto di Dio, e dunque, rendere percepibile l’azione salvifica del creatore sulla terra. Gli arcangeli, in sostanza, come indica lo stesso termine (composto dalle parole greche "archein", comandare, e "anghelos", angelo), servendosi degli angeli delle schiere inferiori, dei quali sono messi a capo, si preoccupano e dispongono che il “disegno divino” prenda concretamente forma. L’angelologo Haziel, dopo un approfondito studio sui testi della cabala e della dottrina ebraica, riporta i nomi di 9 arcangeli (Metatron, Raziel, Binael, Hesediel, Camael, Raffaele, Haniel, Michele e Gabriele), che presidierebbero l’attività dei 9 cori celesti, più un decimo, Sandalphon, che, secondo la cabala, sarebbe preposto alla “sfera energetica” della Terra. Nonostante la Chiesa riconosca l’esistenza di migliaia di angeli, autorizza solamente il culto di Michele, Raffaele e Gabriele, in quanto sono gli unici ad essere citati esplicitamente nella Bibbia. San Michele, infatti, è presente con molteplici nomi, “Angelo del Signore”, “Angelo dell’Eterno”, “Angelo della sua presenza”, “Angelo dell'alleanza”, solamente nella lettera di Giuda però viene definito “Arcangelo”. Tradizionalmente è considerato il capo supremo degli angeli, principe e comandante delle milizie celesti (nel libro di Giosuè si presenta come “il capo dell’esercito dell’Eterno” e nel libro di Daniele viene chiamato “il gran principe”), colui che ha sconfitto Satana e le sue schiere, precipitandole sulla terra. Il suo nome, che in ebraico significa “chi è come Dio?”, è la frase pronunciata contro gli angeli ribelli di Lucifero. Nell’Apocalisse è sempre l’arcangelo Michele a guidare gli angeli in battaglia contro il “dragone”, che simboleggia Satana; per questi fatti è considerato il sommo guerriero, protettore dei cristiani e della Chiesa, simbolo della lotta del bene contro il male, portatore della luce della conoscenza ed emblema di giustizia (nell’iconografia orientale è spesso raffigurato con in mano una bilancia, piuttosto che la spada). Gabriele, invece, che significa “Dio è la mia Forza”, è colui che rivela a Daniele i segreti del piano di Dio (Dn 8,16), annunzia a Zaccaria la nascita del Battista (Lc 1,11) e alla vergine Maria quella di Gesù (Lc 1, 26). Inoltre, secondo la tradizione, fu lui ad apparire ai pastori, annunciando la nascita del “salvatore”, e a confortare Gesù nel Getsemani. Nell’apocalisse ebraica, invece, appare come l’angelo del castigo, o della morte (definito “principe del fuoco”), mentre la tradizione islamica lo colloca a capo di tutti gli angeli (si dice abbia dettato il Corano a Maometto). Raffaele, dall’ebraico “Dio guarisce”, accompagna e custodisce Tobia nel suo lungo viaggio, caccia i demoni dalla futura moglie Sara e guarisce il padre cieco (appare anche con gli altri 2 arcangeli per guarire Abramo); in virtù di questi fatti è considerato l’angelo guaritore e invocato contro le malattie dell’anima e del corpo, protettore dei pellegrini, dei farmacisti e dei fidanzati. E’ interessante notare che in origine il 29 settembre veniva celebrato unicamente San Michele arcangelo, il cui culto gode di una tradizione secolare senza pari. Don Marcello Stanzione, in un suo articolo, ci fa notare come il culto di san Michele sia legato sopratutto alla grotta (spesso i santuari a lui dedicati sono stati edificati in luoghi sotterranei o in prossimità di grotte; lo stesso imperatore Costantino fece erigere in suo onore una chiesa sulla grotta della natività, mentre sua madre, sant’Elena, ne costruì una sulla grotta del Santo sepolcro), in quanto, nella teologia cristiana la grotta è da sempre messa in relazione al mistero della presenza divina (essendo il luogo natale, la tomba e dove si manifestò Cristo) e, non a caso, l’arcangelo viene considerato come l’angelo esorcista che scaccia i demoni dalle grotte dove, precedentemente, c’era il culto dei falsi dei pagani (vedi Mitra). Il martirologio romano, non a caso, in questo giorno ricorda la dedicazione della basilica di san Michele sul monte Monte sant’Angelo, considerato uno dei luoghi di culto più antichi della cristianità, la cui montagna è considerata sacra in virtù delle molte miracolose apparizioni dell’arcangelo avvenute nella grotta del Gargano.

Il superiore della Fraternità sacerdotale san Carlo Borromeo e figura di spicco di Comunione e Liberazione nominato vescovo

Benedetto XVI ha nominato vescovo di Reggio Emilia il superiore della Fraternità sacerdotale san Carlo Borromeo, don Massimo Camisasca, figura di spicco del movimento di Comunione e Liberazione, autore di numerosi saggi teologici. MONSIGNOR MASSIMO CAMISASCA Nato a Milano nel novembre 1946, da studente al liceo Berchet aveva incontrato don Luigi Giussani. Divenuto uno dei responsabili di Gioventù Studentesca prima e di CL poi, viene ordinato sacerdote nel 1975 a Bergamo, a motivo delle difficoltà incontrate nel seminario milanese dai ciellini. Dieci anni dopo, don Camisasca dà vita alla Fraternità san Carlo, che forma preti per la missione. «La consuetudine di vita con don Giussani fece sorgere in me il desiderio ha raccontato Camisasca – di imitare la sua paternità. Così, dopo alcune peripezie, entrai in seminario e nel 1975 diventai prete. Quando nel 1985 il vescovo di Bergamo diede a me e ad alcuni sacerdoti la possibilità di scegliere il futuro della propria missione, la cosa più naturale fu costituire una comunità missionaria di preti. La fondazione della Fraternità san Carlo raccoglie le esperienze fondamentali che avevano segnato fino a quel momento la mia persona: la sequela della paternità di don Giussani vissuta nel sacerdozio, il desiderio della vita comune e della missione». La Fraternità sacerdotale è stata riconosciuta come Società di vita apostolica di diritto pontificio nel 1999 da Giovanni Paolo II. Una delle caratteristiche dei missionari della san Carlo è quella di vivere insieme, costituendo delle piccole comunità. Camisasca, autore di trasmissioni radiofoniche, è stato insegnante di filosofia nei licei, all’Università Cattolica di Milano e alla Pontificia Università Lateranense a Roma. Dal 1993 al 1996 è stato vicepresidente del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul Matrimonio e la Famiglia. È autore di una storia di CL in tre volumi, edita dalla San Paolo, ma anche di molti libri dedicati sia alla figura del sacerdote sia alla famiglia. Risale agli anni Ottanta la conoscenza personale con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, che ha celebrato delle ordinazioni sacerdotali di preti della Fraternità. L’iter per arrivare alla nomina del nuovo vescovo di Reggio Emilia, in sostituzione del dimissionario Adriano Caprioli, è stato lungo. È la diocesi d’origine del cardinale Camillo Ruini (che ne fu vescovo ausiliare, prima di divenire segretario generale della Cei), e anche se il porporato di Sassuolo, avendo già compiuto ottant’anni, non è più membro della Congregazione per i vescovi, non è difficile immaginare che anche il suo parere abbia avuto un peso significativo. Con la nomina di Camisasca diventano sette i vescovi diocesani in Italia direttamente provenienti dalle fila di CL: oltre al nuovo pastore di Reggio ci sono il cardinale Angelo Scola, già patriarca di Venezia e ora arcivescovo di Milano, l’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro, il vescovo di Piazza Armerina Michele Pennisi, il vescovo di San Marino Montefeltro Luigi Negri, il vescovo di Fabriano Matelica Giancarlo Vecerrica e il vescovo di Tricarico Vincenzo Orofino.(vaticaninsider) Lettera alla Diocesi del Vescovo eletto di Reggio Emilia - Guastalla A S. E. mons. Adriano Caprioli, al vescovo ausiliare S. E. mons. Lorenzo Ghizzoni Ai fedeli, ai religiosi e al clero della Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla A tutti coloro che vivono nel territorio della Diocesi. Cari fratelli e cari amici, in queste due parole, fraternità e amicizia, sta racchiuso il senso profondo del mio venire tra voi come vescovo della Chiesa di Reggio Emilia – Guastalla, mandato dal Santo Padre Benedetto XVI. Innanzitutto mi ha mandato ai fratelli, cioè ai battezzati, per servire la loro fede. Questa è la ragione fondamentale del mio episcopato: annunciare che Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, che ha subìto per amore nostro la Passione e la Croce, è risorto e perciò è vivo, e agisce nella storia degli uomini con la forza attrattiva della sua divina umanità attraverso il suo Corpo nella storia, che è il popolo cristiano, la sua Chiesa. Vengo innanzitutto per confermare la fede dei miei fratelli: attraverso la predicazione, la celebrazione dei sacramenti, la vita della carità. Saluto perciò con grande affetto e stima ogni fedele che vive nella nostra diocesi. Spero di incontrare presto molti di voi. Attraverso la vostra vita e le vostre professioni siete i testimoni di Cristo nel mondo. Parte privilegiata di questo popolo sono i sacerdoti, i primi collaboratori del ministero del vescovo. A loro voglio dedicare le mie attenzioni e le mie cure più profonde. Li saluto a uno a uno, in modo particolare il vescovo ausiliare, il Capitolo della cattedrale, il Collegio dei consultori, i membri della Curia diocesana, i parroci, i sacerdoti missionari e tutti coloro che spero di conoscere presto uno per uno. In particolare prego già fin d’ora per i sacerdoti anziani, per quelli malati, per coloro che si sentono particolarmente soli. Saluto i diaconi permanenti, i seminaristi e tutti i collaboratori dei sacerdoti nelle parrocchie e nelle varie comunità della diocesi. Una stima profonda mi lega a tutte le forme associative nella Chiesa. Il mio pensiero va alle Confraternite, all’Azione Cattolica, ai movimenti, alle nuove comunità e a tutte le realtà che rendono visibile la comunione nelle diverse località e situazioni di vita della nostra Chiesa. So che nella nostra diocesi vivono per grazia di Dio molte comunità religiose. La vita religiosa è un segno privilegiato dell’umanità rinnovata. Mi affido fin d’ora alla loro preghiera ed esprimo la mia vicinanza a tutti coloro che nella dedizione a Dio attraverso i consigli evangelici sono luce per i nostri tempi. Saluto inoltre tutte le autorità civili, politiche e militari alle quali, fin d’ora, esprimo la mia disponibilità ad una collaborazione proficua per la costruzione di una società più giusta e buona. Vengo come amico. Vengo per ogni uomo e per ogni donna. Nel più assoluto rispetto della libertà di coscienza di ciascuno, umilmente e fermamente desidero essere il tramite dell’annuncio e della proposta di Gesù: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6), chi mi segue avrà il centuplo quaggiù e la vita eterna (cfr. Mt 19,29). Penso ai giovani in cerca di un senso definitivo e forte per la loro esistenza. Alle famiglie. Ma anche a coloro che per le più svariate ragioni vivono soli. Penso agli anziani. A coloro che esprimono nel lavoro la loro passione e la loro arte. A coloro che cercano il lavoro o l’hanno perduto. Penso ai malati, ai poveri, ai carcerati. Vorrei che a tutti arrivasse il mio incoraggiamento e la benedizione di Dio. Soprattutto a coloro che sono provati a causa del recente terremoto, ai quali voglio essere vicino con particolare affetto. Saluto con rispetto e affetto i fratelli nella fede cristiana che non appartengono alla Chiesa Cattolica, tutti i credenti nell’unico Dio e anche coloro che non professano nessuna fede e non si riconoscono in nessuna religione. Di tutti mi sento compagno di viaggio e a tutti vorrei poter offrire ciò che mi è stato donato e ricevere a mia volta i loro doni spirituali. La mia celebrazione eucaristica e la preghiera di ogni giorno portano già in sé questi volti non ancora conosciuti e queste speranze per la vita che ci attende. Il mio ministero si inserisce in una lunga tradizione, ricca di storia, di frutti di fede, carità, civiltà, arte. Da san Prospero al mio predecessore, il vescovo monsignor Adriano Caprioli, che qui voglio salutare con particolare deferenza assieme al vescovo emerito monsignor Giovanni Paolo Gibertini, la Chiesa ha sempre rappresentato nella terra emiliana che ora è anche la mia terra, un punto di riferimento e di luce per tante persone. Anche attraverso il sacrificio di alcuni suoi figli. Penso ai santi e ai martiri, che con la loro vita e il loro sangue hanno reso feconda e luminosa testimonianza a Cristo, luce del mondo. In particolare il mio pensiero va a coloro di cui si sta celebrando il processo di beatificazione, i servi di Dio don Giuseppe Dino Torreggiani e don Alfonso Ugolini, e non ultimo, a Rolando Rivi, che tutti presto auspichiamo di poter venerare sugli altari. Al Beato cardinal Ferrari, che ha unito nella sua vita la mia terra milanese alla nostra, nei mesi trascorsi come vescovo di Guastalla, affido fin d’ora le primizie del mio ministero episcopale. I nostri patroni, san Prospero, san Francesco d’Assisi, i santi martiri Crisanto e Daria e la Madre di Dio, a cui è intitolato il nostro Duomo, ottengano a me e a tutti noi ogni grazia desiderata dal Cielo. Tutti benedico nel Signore Gesù. + Massimo Camisasca Vescovo eletto di Reggio Emilia – Guastalla Roma, 29 settembre 2012 Festa dei SS. Michele, Gabriele e Raffaele, Arcangeli

giovedì 27 settembre 2012

Una chiave per l'Italia oltre l'antinomia politica-antipolitica . Mistici e popolari

Molti pensano – o sperano – che l’attuale chiave per leggere l’Italia sia costituita dalla coppia di termini 'politica­antipolitica'. In realtà la vera natura d’Italia si comprende considerando due termini che sembrerebbero opposti, e che invece la nostra storia e il nostro talento hanno avvicinato. Noi infatti siamo 'mistici e popolari'. Qualcuno vorrebbe che la nostra sempre ferita e mai morente patria si potesse leggere in controluce sulla banalissima opposizione tra furbi, affaristi, avidi politicanti e popolo sdegnato e sdegnoso. Chiunque guardi un poco oltre le gazzette di informazione e il perimetro dei salotti televisivi, si accorge che non è così. Che tale opposizione è una vecchia maschera che gli italiani usano da sempre. Si legga un poco di storia e si vedrà che la cosiddetta antipolitica è sempre stata l’arma dei rovesci politici, e che in definitiva il 'bordello Italia' (termine dantesco) non è di recente invenzione. E che il suo rimedio non è mai stato l’ira di un popolino aizzato da qualche aspirante principe. Tener fissa questa opposizione per leggere l’Italia come stan facendo purtroppo molti leader – politici, opinionisti – porta solo infiniti dissidi, e più fatica, più palude per tutti. Noi invece, siamo 'mistici e popolari'. Che appunto sembra una opposizione. Invece se diciamo: Dante, Michelangelo e, poi, mille e mille capolavori e mille riti, e luoghi e sagre, e opere d’ingegno quasi monastico, e il rinascere di tarante e sacri profani ritrovi, vediamo davanti ai nostri occhi cosa significa che l’Italia è questa natura. Dove il più alto e il più comune si incontrano. Popolare infatti significa 'per tutti' e non 'volgare' come certi media intendono. I nostri capolavori, i nostri grandi geni sono così: con la faccia rivolta al profondo dei cieli e capaci di cose valide per tutti. E se non è mistica e popolare l’Italia non è niente. «Si deve iniziare ogni mattina con Pergolesi…»: Johnatan Demme, premio Oscar che ha dedicato un lungometraggio a Enzo Avitabile, coglie questa frase detta in macchina dal musicista popolare. Chi ci guarda da fuori lo capisce: L’Italia è mistica e popolare. Se non si onora la nostra natura di strano 'mostro' dolcissimo e sorprendente, non si vede né si onora l’Italia. Né si comprende quale sia la nostra reale 'credibilità' e interesse nel mondo. Non si tratta d’essere 'core e passione', d’essere 'senza pensiero', come vorrebbero farci credere alcuni intelligentoni. L’Italia mistica e popolare è l’esito di una tradizione di sapienza e santità e pensiero. O siamo questo o siamo niente. È la nostra virtù. Una specie di incubo per chi invece vorrebbe un popolo senza mistica o una mistica senza popolo. È un impasto indigesto ai benpensanti di questo Paese. Una fede semplice, bambina che si rivolge al cielo e ai suoi segni in terra e un sentirsi niente di meglio di ogni 'povero Cristo' che passa in questo mondo. L’Italia che si esprime spesso in questa musica 'sporca' e ricca di linfe di Avitabile, o dell’altro musico principe popolare, Ambrogio Sparagna o Giovanni Aversano, è anche l’Italia di Dante Alighieri, amato da eruditi e incolti, di Sant’Alfonso Maria de Liguori, il mistico che scrisse «Tu scendi dalle stelle», di Filippo Neri giullare di Dio e di tanti altri, più o meno grandi. Abbiamo bisogno di mistici popolari. Il risentimento populista è il contrario, infatti cerca sempre un padrone a cui votarsi, un padrone in terra invece che un patrono in cielo. Il mistico e popolare sa invece che i presunti padroni in terra sono 'piccoli', e tende a una riverenza ironica. Perciò mentre imperano giornalisti, opinionisti, salotti tv, leader mediatici, l’Italia la capiscono solo quelli che non capiscono niente: i piccoli e, magari, gli artisti. Davide Rondoni

mercoledì 26 settembre 2012

L’ora di religione non è la Cenerentola degli studi e non è una graziosa concessione ai cattolici

Ancora reazioni alle parole del ministro dell’istruzione Francesco Profumo che ha detto che «l’insegnamento della religione nelle scuole così come è concepito oggi non ha più molto senso». Oggi su Libero Caterina Maniaci intervista monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, che dice che le dichiarazioni del ministro «appaiono frutto di una grave disinformazione, il che non è molto comprensibile per un ministro che dovrebbe avere, tra le proprie competenze, questi temi».
INCONTRARE IL CRISTIANESIMO. Negri ricorda la soluzione attuale («di grandissimo profilo culturale e democratico») è figlia di «un lungo cammino e dialogo» partito con i Patti Lateranensi. «L’ora di religione – spiega il vescovo – deve essere impartita secondo la forma della tradizione cattolica, perché rappresenta per tutti i cittadini italiani che lo desiderano la possibilità di incontrare il cristianesimo come avvenimento di vita, di cultura e di civiltà». NON E’ CATECHISMO. L’errore da non commettere è pensare che l’ora di religione sia un’ora di catechesi. «La catechesi ha altre finalità e altri metodi e che si realizza nell’ambito della vita ecclesiale». Tra l’altro, c’è di mezzo il Concordato: «Non c’è nessuno che possa mettere in discussione la funzione della religione cattolica nelle scuole senza aprire un contenzioso a livello internazionale, perché l’ora di religione insegnata nelle scuole fa parte del Concordato esistente tra lo Stato italiano e la Chiesa. La presenza della religione cattolica, poi, è un fatto irresistibilmente esistenziale, non programmatico». AL BERCHET CON DON GIUSSANI. Il vescovo fa riferimento anche alla propria esperienza personale: «Nel liceo che frequentavo negli anni Sessanta – il prestigioso liceo Berchet di Milano – le materie venivano a disporsi positivamente o dialetticamente nei confronti dell’insegnamento della religione cattolica che, per grazia, ci era impartita da monsignor Luigi Giussani. L’ora di religione non è la Cenerentola degli studi e non è una graziosa concessione al mondo cattolico. Anzi rappresenta il tentativo di realizzare una concreta pluralizzazione della scuola che, soprattutto quella statale, oggi soffre di una crescente omologazione di carattere ideologico a senso unico, in particolare nel senso del progressismo e del tecnoscientismo».

lunedì 24 settembre 2012

Che cosa permette all’uomo “selvaggio” di riconoscere la Grande Presenza?

Continuamente don Julian Carrón ci provoca a vivere intensamente il reale. Ma cosa significa per me “educazione” ed educare il mio popolo a questa posizione? Tutti i giorni, prima di cominciare a lavorare, affidiamo a ogni persona una provocazione che è stata suscitata in alcuni dalla stessa realtà. Sono esempi, sono particolari della vita quotidiana, ma se Cristo non entrasse in questi particolari non potremmo verificare la verità del fatto che la realtà, come afferma san Paolo, è il corpo di Cristo. Da questa posizione è nata la bellezza delle opere nella nostra comunità. Un’opera è un “opus Dei” solo quando in tutti i suoi particolari rimanda alla bellezza divina. Che bello ascoltare molti pazienti terminali dire: «Padre, solo per il fatto di essere in un posto così bello mi sento meglio». O quando i bimbi che vengono a scuola, in un luogo bello, pulito, ordinato, e nel tempo imparano a vivere nello stesso modo anche a casa loro. È “il bello” che educa, perché solo il bello desta stupore, rimanda al Mistero. Per questo per noi il culmine della carità è la bellezza. Cioè, vivere intensamente il reale, dall’alba al tramonto. In queste terre, che sono le mie terre, non esiste l’esperienza della bellezza, cioè di un luogo, un habitat bello. Per questo, fin dal principio ho percepito che tutto quello che avevo studiato di teologia pastorale non sarebbe servito a nulla se non avessi vissuto, per primo io, ogni istante e ogni cosa come relazione con il Mistero. Questa posizione nel vivere il reale me l’ha regalata don Giussani, che mi ha educato al gusto per il bello a 360 gradi. Realmente questa è l’unica posizione che permette all’uomo “selvaggio” di oggi, di riconoscere la grande presenza. Il bello e il dolore, che camminano uniti, sono sempre la strada verso Cristo. Queste provocazioni ci aiutano ogni istante del giorno a crescere in questa posizione, lasciandoci educare soprattutto dai nostri pazienti, i quali, in mezzo al dolore causato dalla malattia, riescono a guardare con positività tutto quello che vivono. paldo.trento@gmail.com

martedì 18 settembre 2012

Hai perso il lavoro? Non attardarti nel lamento, cerca il volto del Mistero

Caro padre, ti do del tu perché anche se non ci conosciamo per me sei un amico. Ogni giovedì quando torno dal lavoro la prima cosa che faccio è vedere se è arrivato Tempi per leggere le tue testimonianze che per me sono un aiuto continuo. Ti scrivo per raccontarti la mia storia. Ho 28 anni e da quando sono nato prematuro di 5 mesi e mezzo e pesavo 7 etti ho capito che la vita è una cosa seria. Gli ultimi 2 anni e mezzo sono stati molto intensi. Ho perso il lavoro. Dal 2007 a metà 2009 lavoravo in una piccola azienda, eravamo io e il titolare, e causa crisi l’azienda ha chiuso. Il rapporto costruito in 2 anni e mezzo tra noi è stato qualcosa di straordinario. Per me è stato come un secondo padre, ho trovato in lui un punto di riferimento importante per la mia persona, che porterò per sempre con me. Dopo la botta iniziale, ho dovuto rimboccarmi le maniche. Pur di trovare un nuovo posto di lavoro ho portato a mano nelle zone industriali 1.782 curriculum, vivendo la ricerca come una sfida con me stesso e ottenendo solamente 19 risposte. Tutto questo a livello psicologico mi ha toccato profondamente, così tanto che mi è venuta la depressione. È come se fossi finito in un tunnel buio, tanto che non avevo voglia di far niente, mi sembrava tutto inutile. Nel periodo in cui ero disoccupato ho comunque trovato tre posti di lavoro, ma nessuno dei tre mi soddisfaceva, e questo mi faceva fare molta più fatica, non avevo stimoli e addirittura timbrare il badge diventava un problema. In quel momento ho capito che se non mi fossi affidato a qualcuno di più grande e con più esperienza di me da solo non ce l’avrei fatta. Sono stato in cura da una persona straordinaria. Anche ora molte volte sento il bisogno di “andare a trovarlo” perché mi fa star bene e mi giudica per quello che sono e non per quello che faccio, mettendo la persona al primo posto. Anche mia mamma in questo periodo ha perso il lavoro. Insegnava in una scuola cattolica, i suoi colleghi erano tutti amici d’infanzia. I miei facevano anche parte di una fraternità, ma nessuno di quei confratelli le è stato accanto nel momento del bisogno. Com’è possibile che a 55 anni venga lasciata a casa e l’unica risposta che le hanno saputo dare è che il rapporto di lavoro è terminato solo per motivi amministrativi, cosa per altro non vera? È proprio vero che il potere non guarda in faccia a nessuno. Dopo essere uscito da questo periodo duro, un giorno mi chiama un’agenzia interinale per andare a fare un colloquio per un’azienda in provincia di Milano, dove tutt’ora lavoro. Nella mia vita sono stato molto legato al papà di mio cognato che il 21 ottobre 2006 è venuto a mancare. Pochi giorni dopo, il 25 ottobre, si è svolto il funerale. Ebbene, il giorno del colloquio era il 21 ottobre e il primo giorno di lavoro era il 25. Credo sia segno di qualcosa di più grande. Ora lavoro in questa azienda che fa macchine per il gelato a livello industriale. Prima di Natale mi hanno rinnovato il contratto per un altro anno e l’anno prossimo diventerà un contratto a tempo indeterminato. Però in tutto questo c’è anche il rovescio della medaglia. È stato triste il fatto che molti “amici” sapevano che mi scadeva il contratto ma nessuno mi ha chiesto se mi è stato rinnovato o meno. Mi sembra di vivere in un mondo troppo difficile. Conosco anche gente che magari fa l’università e ci mette più del doppio a laurearsi e sembra che sia la persona più felice del mondo. Come si fa a vivere così? Questa settimana sono andato a lavorare e a fare l’inventario. Nessuno voleva farlo, così mi sono proposto. È successa una cosa bellissima: mi sono scoperto felice anche contando i pezzi in magazzino. Nel periodo in cui ero disoccupato, a parte la mia famiglia, il mio ex titolare e la persona da cui sono stato in cura, quasi nessuno mi è stato vicino. Credo che essere amici veri significhi esserci nel momento del bisogno. Stare insieme per uscire a bere una birra non mi basta più. Il mio cuore desidera qualcosa di più grande, perché noi siamo fatti per qualcosa di più grande. In questi due anni e mezzo oltre a mia mamma anche mio papà ha perso il lavoro. È dura vedere una persona di 57 anni rimettersi in discussione e ripartire da zero. Com’è possibile vivere serenamente una situazione del genere? Un altro desiderio che ho è quello di crearmi una famiglia unita nel nome di Dio. A volte mi faccio domande troppo grandi a cui non so darmi una risposta. Come posso fare per vivere serenamente tutto questo? Lettera firmata Perché manipolare la realtà fino a ridurla a un lamento quando sarebbe più facile obbedirle e con pazienza capire ciò che ci indica? L’urgenza per te e per me è quella di partire sempre da un’ipotesi positiva nel vivere qualsiasi circostanza. Mi spiego con un esempio. Da molto tempo soffro di insonnia e in più in questi giorni la temperatura qui ha raggiunto i 47 gradi. Una cosa insopportabile, ancor più quando uno non riesce a riposare durante la notte. L’irritabilità, il fastidio, il malessere è terribile. Inoltre in una di queste notti si è verificato un blackout e con la scomparsa dell’elettricità si è spenta l’aria condizionata. Visto che non sopportavo più il calore del materasso, ho afferrato un cuscino, sono sceso nel corridoio della chiesa e mi sono sdraiato sul pavimento per assaporare il “fresco” delle piastrelle. Ovviamente non ho dormito per niente e la rabbia ha cominciato a entrare nella mia mente. Quanto più il nervoso sembrava vincere, tanto più la certezza del giudizio di vedere in queste condizioni una positività, che mi obbligava a tenere i miei occhi aperti davanti al Mistero, aumentava sempre più il grido: «Signore, perché? Signore aiutami non solo a sopportare, ma a offrire». Mentre avevo questa posizione, è tornata la luce e sono potuto tornare a dormire nel mio letto alcune ore, perché nell’orizzonte l’alba cominciava già a mostrare il suo bellissimo volto. La vita è così, come pure le relazioni umane, anche quelle per cui avremmo dato la vita e che improvvisamente cambiano, diventano moleste, rabbiose, o perfino nemiche. È l’umano che portiamo dentro ciascuno di noi, è l’esperienza quotidiana della nostra fragilità, con la quale siamo chiamati a fare i conti. Questo umano, questa fragilità, questo miscuglio di fango, di sterco e di bellezza, è l’unica strada verso Cristo. Non solo, ma senza questo fango, senza questa miserabile umanità è impossibile sperimentare la tenerezza di Cristo. Cosa importa se anche gli “amici”, perfino se compagni di Fraternità, che dovrebbero avere come unica ragione quella di aiutarsi nel cammino della fede, ci abbandonano? La nostra consistenza, la nostra ragione di vivere non è in Cristo? Tutti i giorni mi trovo in situazioni simili alla tua, ma quando ripenso a ciò che Gesù afferma nel Vangelo, riprendo con gioia il cammino: «Rallegratevi non per i miracoli, ma perché i vostri nomi sono scritti nel cielo». Vivere intensamente il reale è la responsabilità che ci è affidata. Solo in questo modo la perdita di un lavoro non ci annienta e non ci preoccupa la questione della morosa. Non si tratta di “pensare”, ma di vivere intensamente, perché se il pensiero non è la conseguenza del vivere con passione la realtà, è una fantasiosa elucubrazione mentale che nel tempo distrugge perfino la ragione, riducendola a immaginazione o stato d’animo. La serenità nella vita è sempre frutto di un guardare e prendere sul serio la realtà. Per questo mi commuovo ogni giorno quando visito i miei figli malati terminali e vedo nei loro volti una gioia sconcertante. Come nel caso di Pastora e Norma. Pastora, una donna di campagna che dava da mangiare ai suoi sette figli con il duro lavoro nella fattoria, malata di cancro con vari tumori nel viso, già anziana, vive affidandosi al Signore, con il sorriso sulle labbra, dicendo ogni giorno: «Sono contenta, qui so che mi salvo». Norma è una giovane mamma che è tornata in questi giorni nella Clinica, dopo essere stata dimessa dai medici dall’ospedale, a causa del suo sorprendente recupero. Quando è tornata ed è entrata qui, il suo volto si è trasfigurato, emanando una gioia che ci ha sorpresi tutti, perché sappiamo che solo un miracolo ha potuto salvarla. «Finalmente sono tornata a casa mia», e pensate che ha un marito e nove figli. Cosa permette questa posizione piena di positività? La certezza della scomparsa del cancro? Assolutamente no! È l’incontro con una realtà umana determinata dalla positività della realtà stessa, perché in questo luogo perfino le pietre gridano come Jacopone da Todi: «Amor, amore, grida tutto il mondo. Amor, amore, omne cosa conclama». La nostra consistenza o sta nella realtà, cioè in Cristo, o qualsiasi cosa diventa un lamento. Oggi sarà la mancanza della fidanzata o la perdita del lavoro, domani una malattia, la morte dolorosa di un amico o il licenziamento a 57 anni. Al contrario, «tutto posso in Colui che mi dà la forza». Lo affermo in un momento molto duro della mia vita, persino a livello di salute, non perché sia forte, anzi sono molto debole e invecchiato, ma perché la vita, la realtà vissuta senza sconti (la realtà non fa sconti a nessuno) mi ha educato e mi educa in ogni istante a riconoscere la verità che il mio cuore cerca. «Tu, o Cristo mio». Mi insegna a guardare in faccia Cristo, accompagnato e sostenuto dagli amici, in particolare i più vicini, Paolino, Alberto, Marcos e Cleuza. Non perdere tempo con i lamenti, anche se comprensibili, ma cerca quei volti nei quali la presenza del Mistero è evidente. In questi mesi sono stato in Brasile due volte e Marcos e Cleuza sono venuti due volte ad Asunción. Quando la lotta è grande, quando infuria la battaglia, quando i problemi sembrano soffocarti, il grido e l’affidarsi agli amici nei quali sono evidenti i tratti del Mistero è l’unica strada per vivere positivamente tutto. paldo.trento@gmail.com

domenica 16 settembre 2012

Quando sono debole è allora che sono forte

Dio è avvenimento. Non è un’idea mia, un’astrazione lontana. Egli accade nell’incontro con le persone che mi mette a fianco, perché scatti la scintilla dell’incontro con Lui. L’inizio della novità è l’incontro con un altro, o con altri, che mi portano l’annuncio e il segno della sua presenza. Tale inizio matura poi in una vita con le persone che più mi sono vicine e che più mi ricordano Cristo. Questo ricordo di lui, questa memoria, questa sua presenza, è fatta di gioia e di dolore, è fatta di vicinanza e di distanza, di corrispondenza e di incomprensione. Entrambe le strade portano realmente a Dio nella misura in cui noi le abbracciamo. Nella gioia può nascere la dimenticanza e nel dolore la disperazione. Ma, all’opposto, gioia e dolore diventano strade di compimento della nostra vita se le abbracciamo vivendo la gioia come anticipo della vita definitiva, come dono della sua resurrezione e il dolore come partecipazione alla sua croce e richiesta di cambiamento dello sguardo sull’altro, del giudizio sull’altro. La presenza degli altri, sia nei loro doni sia nei loro limiti, sia nelle loro grandezze sia nelle debolezze, diventa occasione di pienezza già nel presente, diventa la via per andare a Dio, per riconoscere il suo mistero presente nella vita, per abbracciare la verità. L’altro è diverso da me, di una diversità che nasce dal fatto che la comunione non è un’uniformità, ma è fatta di tanti colori, di una pluralità di volti e di sfumature. Non c’è un volto uguale a un altro, non c’è un’impronta uguale a un’altra. Questi aspetti superficiali della nostra diversità, che talvolta ci fanno soffrire, in realtà ci introducono nell’infinitudine di Dio. Non c’è un fiore uguale a un altro, un filo d’erba uguale a un altro. Accettando la diversità dell’altro comincio a fare l’esperienza positiva che la vita è sempre nuova perché Dio è infinito. Egli, attraverso l’incontro con gli altri, attraverso la realtà inattesa dell’attimo che accade, attraverso la sorpresa che suscita continuamente nella vita, arricchisce il mio cammino verso di Lui e il mio canto di lode per la sua infinita novità. E così grazie alla diversità dell’altro entro nell’esperienza della ricchezza di Dio. Certamente la diversità a volte è un ostacolo, causa fatica e talvolta è ragione di incomprensione. Eppure, tutte queste strade, al fondo, se accettate, ci conducono a scoprire qualcosa che ancora non stiamo vivendo. La ricchezza di Dio è una ricchezza misteriosa. L’aspetto più sconvolgente della sua ricchezza è che per Dio la vita include anche la morte, il bene include il sacrificio, e la fatica. Arrivare alla resurrezione significa passare attraverso la croce: ma l’ultima parola non è la diversità dell’altro come disagio o alterità, ma l’unità come ricchezza di forma e di colore. Oggi c’è parecchia confusione su un aspetto particolare della ricchezza di Dio. La sua debolezza. Dio non è debole, è forte. Ma Dio si è fatto debole, per raccogliere l’uomo nella sua debolezza, per scendere al nostro livello, per comunicarci la sua forza. San Paolo dice che da ricco che era si è fatto povero, per renderci ricchi con la sua povertà (cfr. 2Cor 8,9). Dio si è fatto debole per prendere su di sé la nostra debolezza e comunicarci la sua forza. Oggi assistiamo a un’apologia della debolezza che è molto dannosa, la cui massima espressione è il cosiddetto “pensiero debole”. Ma Dio è forte e vuole comunicarci la sua forza. E la sua misericordia è segno della sua forza, che sa comprendere ogni distanza e ogni lontananza, ogni esperienza di debolezza. Come dice san Paolo: quando sono debole, è allora che sono forte (2Cor 12,10). Perché la mia forza non sono io, ma è Cristo. La mia debolezza fa strada alla forza di Dio. È per questo che Dio sceglie i deboli: per confondere i forti, perché i forti sono pieni della loro forza e non sentono il bisogno di aprirsi a Dio. Ed è questa la ragione per cui Dio sceglie i bambini, che non hanno una sapienza propria, evoluta, erudita. Sono ricchi soltanto delle parole che hanno sentito direttamente da Dio attraverso i loro genitori e i loro amici. E in questo modo essi, non avendo altre parole oltre quelle ascoltate, sono forti della forza di Dio. http://www.sancarlo.org/it/?p=5737 di Massimo Camisasca ·

Il vero realismo. La preghiera non si perde

Non sembrerebbe un momento granché propizio, questo, per una visita del Papa in Libano. Benedetto XVI parte nel momento in cui dal Mediterraneo, dal Nord Africa al Medio Oriente, si alzano nuove vampate di incendio. L’immagine del cadavere straziato dell’ambasciatore americano in Libia è un cupo monito a chi sperava un nuovo corso in quel Paese. E poi le tensioni in Egitto; e a Nord del Libano, la Siria dei massacri; a Sud, Israele, così piccolo sulla carta geografica tra i colossi arabi, così perennemente inquieto; e ancora, a Est, lontana eppure vicina, l’oscura minaccia dell’Iran. Il Papa parte. Come, con cosa nel cuore, per un viaggio così? Il testo della Udienza di mercoledì scorso, dedicato alla preghiera nel libro dell’Apocalisse, suona singolarmente vicino a quel può avere nell’anima un cristiano pellegrino per tormentati Paesi. La strada per saper leggere i fatti della storia, ha esordito il Papa, è «il rapporto costante con Cristo». Solo in questo rapporto – che è poi la preghiera – impariamo a vedere le cose in modo nuovo. Cristo «guida a una lettura più profonda della storia»: e lo fa anzitutto invitandoci a «considerare con realismo il presente». Già questa annotazione devia parecchio da ciò che noi, semplici cristiani, abitualmente facciamo. Per riuscire a vivere tendiamo a non voler vedere la realtà com’è, appena fuori dal fragile recinto del nostro Primo Mondo – e spesso anche dentro, magari sulla soglia di casa. Se un tg diligentemente ci raccontasse ogni sera di tutte le violenze, persecuzioni, carestie che tormentano il pianeta, non lo tollereremmo. Per vivere abbiamo bisogno di non sapere, di non vedere ogni cosa; giacché messi a davanti alla opaca mole di dolore e male che ogni giorno opprime l’umanità, la maggior parte di noi sarebbe disperata (a volte non sembra quasi che per poter vivere occorra illudersi?). Invece secondo Benedetto XVI proprio dal rapporto con Cristo viene la spinta a uno sguardo realista. Ma come si fa a tenere questo sguardo? Chi scrive tornò, anni fa, da un viaggio per gli orfanotrofi di un Paese dell’Est, annientata dalla quantità di dolore incontrata. Soli in sé stessi, guardare e reggere il male e il dolore è impossibile. Eppure «come cristiani siamo chiamati a non perdere mai la speranza, a credere fermamente che l’apparente onnipotenza del Male si scontra con la vera onnipotenza, che è quella di Dio Occorre dunque credere davvero nella Croce, e nella pietra di sepolcro divelta – in Cristo risorto. Non però in uno sforzo eroico della volontà. Invece, dice il Papa, è proprio la preghiera che alimenta in noi «questa visione di profonda speranza». La speranza dunque nasce nel rapporto con Cristo; come quando un padre prende un bambino per mano, e quello lo segue anche per una strada buia, dove da solo non andrebbe mai. In virtù di questo rapporto con Cristo, «come cristiani non possiamo mai essere pessimisti»; nella certezza di un padre che conduce la storia, per i suoi tormentati e straziati sentieri, verso un destino misterioso ma buono. Pregare, dunque – questa attività agli occhi del mondo così immateriale, così astratta, inutile – come vertice del realismo. Pregare, e come? Nella fatica, nella povertà, di quale preghiera saremo capaci, se non monca, o zoppa? Ma «tutte le nostre preghiere», ha assicurato Benedetto «vengono quasi purificate e raggiungono il cuore di Dio. Non esistono preghiere inutili; nessuna va perduta». Nessuna preghiera che apra almeno uno spiraglio a Cristo, va perduta. E in questa certezza sovrana il successore di Pietro, a 85 anni, parte, pellegrino in una regione sofferente sotto a mali opprimenti, sotto a una violenza cieca. Quasi implicitamente chiedendo, per questa missione fra uomini a noi estranei, da noi lontani, preghiere. Povere, magari; o balbettanti. Quel che sappiamo fare. Non importa: nessuna, dice il Papa, andrà perduta. Marina Corradi

venerdì 7 settembre 2012

Cl e il cardinale, due voci, un solo pezzo di umanità ferita

La morte di un uomo di Dio, non solo un ecclesiastico, ma proprio di uno spirito evidentemente religioso, è sempre l’occasione per ricordare quanto possa essere decisivo il rapporto con il Mistero. E martedì mattina la lettera del presidente della Fraternità di Cl, Julián Carrón, ha come arricchito questa opportunità. Sulla morte del cardinale Carlo Maria Martini, per 22 anni guida della Diocesi di Milano, gesuita e grande studioso della Bibbia, si sono infatti scritti fiumi di parole. Come spesso accade in Italia, essa è diventata a volte un pretesto per strumentalizzare, dividere, persino per denigrare la Chiesa cosiddetta "arretrata", contrapponendola ad una presunta “Chiesa illuminata”, rispolverando l’immagine distorta di un “anti Papa” milanese, così lontano e diverso da Roma. Carrón invece con la sua lettera al Corriere ha tagliato di netto il nodo di questa (un po’ odiosa e ingiusta) polemica. Ribaltando la prospettiva, che nella geopolitica ecclesiastica avrebbe visto sempre Cl da una parte e l'arcivescovo di Milano, appena scomparso, dall’altra. C’è qualcosa di geniale e necessario, anche per tutti noi, in questo cambiamento di atteggiamento. E forse anche di profetico. È giusto forse allora entrare meglio nella logica della lettera. Quando infatti Carrón ricorda il cuore dell’insegnamento martiniano, cita la Resurrezione, “il momento culminante” della vita di Gesù. Personalmente devo proprio ad un piccolo libretto di Martini sulla Sindone di Torino (intitolato “Il Dio nascosto”) la messa a fuoco, semplice e profonda, della discrezione con cui Gesù Cristo risorge, quasi tornando a riprendersi quel corpo umano, che il rifiuto violento degli uomini gli aveva negato fino allo strazio della Croce. Ecco perché non esisterà mai una prova schiacciante, scientifica e definitiva della Resurrezione. Toccherà per sempre ogni giorno, ad ogni essere umano, decidere se credere o no. Il Dio onnipotente non si è imposto, come pure avrebbe potuto, ma ha voluto proporsi all’uomo, conquistando la sua libertà. L’ecumenismo di Martini, la sua capacità di dialogo coi non credenti, coi lontani, nasce da qui. Da una grandissima fede nella Resurrezione e insieme nella libertà umana. Quella “tensione del Cardinale a intercettare ogni briciolo di verità che si trova in chiunque incontriamo” è il primo punto che il presidente di Cl ricorda. Don Giussani a volte raccontava l’episodio dell’incontro casuale su un aereo diretto in Brasile col grande filosofo Jean Paul Sartre. Sartre, visto che gli avevano assegnato il posto nel velivolo vicino a don Giussani, riconoscendo il colletto di quel giovane prete sconosciuto, aveva chiesto di sedersi da un’altra parte. “A me invece”, raccontava il Gius, “sarebbe piaciuto molto conoscerlo e parlargli e questo dice oggettivamente qual è la posizione umana migliore…”. Il secondo punto ricordato dalla testimonianza di Carrón è la carità: “Dobbiamo fare”, ha scritto “tesoro di questo desiderio di intercettare questo bisogno degli uomini che l’Arcivescovo incontrava lungo il cammino della vita”. La dimensione dell’azione umana evocata non come un progetto, una pretesa, una “lezione”. “La nostra epoca ha bisogno di testimoni più che di maestri”, ha ricordato citando Paolo VI. Gli uomini di oggi non hanno bisogno di egemonia ma di presenza. Chi non è testimone non è neanche vero maestro. Chi non è dentro un disegno, propone se stesso. Usiamo pure la parola un po’ consunta “servizio”: chi non è al servizio del Mistero può anche costruire e agire ma lo farà, volente o nolente, fatalmente per conto del Potere, magari pensando di farlo per se stesso. Martini era “un uomo di Dio” e anche come tale, prima di lasciare il suo lungo incarico ambrosiano, aveva affrontato la questione dei rapporti coi Movimenti e le associazioni laicali: “Chiedo perdono ai gruppi, alle associazioni, ai movimenti che si fossero sentiti poco valorizzati o sostenuti da me. Ho sempre goduto di fronte a testimonianze autentiche di vangelo vissuto, dovunque si trovassero, ma ho avuto anche difficoltà nel comprendere alcune logiche che mi sembravano particolaristiche e autoreferenziali”, aveva scritto in una lettera pastorale. Per poi aggiungere: “Come Vescovo ho sentito una istintiva preferenza per la centralità della pastorale diocesana e parrocchiale”. E infine: “affido alla misericordia di Dio la maturazione dei semi di bene lanciati nel dialogo che mi pare avere sempre cercato”. Le parole scritte ieri da Carrón sul Corriere sembrano in qualche modo allora “rispondere” nel dialogo “sempre cercato” fra Martini e Cl: “Ci rincresce e ci addolora”, ha scritto il presidente della Fraternità, “se non abbiamo trovato sempre il modo più adeguato di collaborare alla sua ardua missione e se possiamo aver dato pretesto per interpretazioni equivoche del nostro rapporto con lui, a cominciare da me stesso”. Un “dialogo” commovente che, semmai ce ne fosse ancora bisogno, ci fa stupire. La Chiesa è quel pezzo di umanità (e anche di santità) che fra mille peccati e nefandezze resta un luogo privilegiato di Grazia. Viene da dire: Grazie Signore che costruisci la tua Chiesa anche attraverso il nostro nulla, le nostre povere e a volte meschine diatribe, attraverso grandi testimoni, “uomini di Dio”, che hanno lasciato il segno nelle nostre vite. Come il cardinal Carlo Maria Martini. di Alessandro Banfi - http://www.ilsussidiario.net

libera la Chiesa dall'equivoco della politica

La scomparsa del Cardinale Martini – una figura ascetica e autorevole nella doppia e non divergente fedeltà a Dio e all’uomo, nella sua capacità di dialogo e di accoglienza – ha stimolato riflessioni e commenti, esami di coscienza e testimonianze, che, a loro volta, hanno animato dibattiti, talora pertinenti e adeguati. Anche questa è l’eredità di una grande anima, che ha servito la Chiesa e ha affrontato seriamente i problemi dell’ora presente: sarebbe bello che non la lasciassimo disperdere, travolti dalle false urgenze imposteci dai vortici della cronaca. I pensieri, di gratitudine e di memoria, che Don Juliàn Carron ha confidato alle pagine del Corriere della sera, ci aiutano a sviluppare alcune considerazioni e provocano a domande che non dovrebbero trovare risposta solo in analisi intellettuali e concettuali, ma potrebbero muovere a un’esperienza vissuta, in quanto uomini e in quanto cristiani. Di Martini si ricorda la capacità di valorizzare tutto il bene e il vero presente in chi si incontra, affinché mai si corra il rischio che qualcosa di positivo vada perduto o che qualcuno non sia raggiunto dallo sguardo che comprende e dall’abbraccio che accoglie. Si apprezza l’urgenza, avvertita sin dagli inizi del suo ministero milanese, di incontrare il bisogno degli uomini, gli ultimi e i reietti, per offrire a tutti il dono della speranza e richiamare tutti alla possibilità della salvezza e di un riscatto. E, con grande onestà, ci si rammarica di non aver forse colto tutte le occasioni di collaborazione, pur non avendo mai fatto mancare l’obbedienza al Vescovo. Naturalmente queste parole hanno suscitato e susciteranno dibattiti e polemiche sulle diverse anime presenti nella Chiesa e in essa confliggenti, che sarebbero ormai arrivate a determinare un punto di rottura così radicale da mettere forse in pericolo la stessa unità sostanziale della comunione ecclesiale. Credo che un’impostazione di questo tipo, pur ponendo una questione essenziale ed invitando a una chiarificazione opportuna, non sia adeguata a comprendere quella realtà viva e complessa, ma del tutto peculiare, che è la Chiesa. Essendo un organismo, essa è fatta di molte parti, di membra diverse con funzioni e doni, carismi e sensibilità differenti, destinati però a interagire e collaborare all’unità dell’insieme, giacché solo in questa unità ciascuno può pienamente realizzarsi e vivere. Ma anche il paragone con un organismo vivente, analogicamente assai adeguato, può trarre in inganno se si dimentica che pur sempre di un “corpo mistico” si tratta. Un’analisi sviluppata solo con categorie naturali o in una prospettiva meramente politica è riduttiva e fuorviante. La dialettica politica implica un rapporto tra forze, che reciprocamente si escludono e che nel conflitto e attraverso esso pervengono a una sintesi superiore, la quale, come tale, supera e oltrepassa le componenti opposte (è l’immane potenza del negativo, di hegeliana memoria!). E questo superamento, che il conflitto genera, urge a un esito finale che assorbe e annulla le singole parti, nella loro individualità. Se si interpreta la vita della Chiesa in questi termini, la si snatura, in quanto la si riduce a qualcosa di altro da quello che essa è, o è chiamata ad essere. Nella Chiesa le diverse sensibilità, la varietà dei carismi non si collocano in un rapporto dialettico di forze, ma in una logica di comunione, in cui ciascuno porta un contributo prezioso e insostituibile, che, mentre afferma e realizza se stesso, deve tendere all’unità sinfonica, non monotona, alla reciproca integrazione complementare. In questa tensione unitiva i singoli individui e gruppi non annullano se stessi, smarrendo le loro peculiarità e i loro carismi, perché solo in essa possono farli crescere e rendere fecondi. Il movimento, che qui si determina, ancorché apparentemente affine, è assai diverso rispetto alla dialettica precedentemente ricordata. Qui ognuno deve vivere con intensità totale il proprio carisma e dare il proprio contributo, nella consapevolezza che è unico e irripetibile (come lo è ogni persona umana), ma insieme sa anche di essere un servo inutile e che solo nell’accogliente apertura agli altri egli può fiorire. Sembra un paradosso: quanto più sono me stesso, tanto più sono capace di accogliere, e viceversa. La logica dell’opposizione viene superata nella logica dell’amore. E questa non è facile: la carnalità e fisicità delle nostre presenze ci rende spesso orgogliosi, spigolosi e scontrosi, invita alla frammentazione, suscita e stimola a contrapposizioni, che non valorizzano il positivo, ovunque esso sia, ma si appagano solo della critica distruttiva. Il compito che il cristiano ha di fronte non solo è difficile, ma sarebbe letteralmente impossibile, se fosse affidato alle sole forze umane e se non giungesse come dono di grazia. L’amore, che lo Spirito suscita nella Chiesa, aiuta a valorizzare i vari carismi nella loro pluralità, che la tensione all’unità esalta e completa. In questo cammino, che è storico – e, come tale, comporta cadute, arretramenti, soste, avanzamenti repentini e inattesi – , ai pastori, cioè ai vescovi in comunione con il Papa, compete la missione di confermare nella fede, cioè di fare sintesi vissuta (e non solo teoricamente affermata) in dimensione orizzontale, diacronica e sincronica, e, soprattutto, in dimensione verticale, guardando a Cristo, che del Corpo mistico è il Capo. E anche una tale sintesi, una tale comunione vissuta accade nella storia e implica complessità; non è un automatismo meccanico, ma ha i tempi, le cadenze, le difficoltà, le gioie e le sorprese della vita. Per questo occorre pregare perché il Signore assista i pastori in un compito che, allo sguardo umano, apparirebbe impossibile o, peggio, si risolverebbe esclusivamente in mediazioni politiche. Come ricordava Benedetto XVI nella bella omelia, tenuta, lo scorso 2 settembre, al ristretto circolo dei suoi ex-allievi, non abbiamo la verità come nostro possesso, ma siamo dalla verità afferrati: essa ci possiede come qualcosa di vivente. La saggezza, data al cristiano da Dio, non è frutto della genialità umana, ma dono e regalo: ricordando questo, si prova “la gioia umile di Israele”, che rifugge sia dal trionfalismo arrogante, sia dalla deriva della frammentazione autoreferenziale. Michele Lenoci http://www.ilsussidiario.net/

martedì 4 settembre 2012

Carròn: «Sono addolorato, potevamo collaborare di più» «Ci spiace di non aver sempre trovato il modo adeguato di partecipare alla sua ardua missione»

Caro direttore, la morte del cardinale Martini mi consente di riflettere su alcune parole-chiave della sua vita e sul rapporto con don Giussani e col movimento di Comunione e liberazione. La mia vuole essere una semplice testimonianza. Ecumenismo. La sua capacità di entrare in rapporto con tutti testimonia la tensione del cardinale a intercettare ogni briciolo di verità che si trova in chiunque incontriamo. Chi ha incontrato Cristo non può non avere questa passione ecumenica. Mi ha colpito come il cardinale rispondeva a chi gli domandava quale considerava il momento culminante della vita di Gesù (il discorso della montagna o l'ultima cena o la preghiera nell'orto degli ulivi): «No. Il momento culminante è la Resurrezione, quando scoperchia il suo sepolcro e appare a Maria e a Maddalena». È la certezza che introduce la resurrezione di Cristo che spalanca lo sguardo del cristiano. L'antico termine oikumene sottolinea che lo sguardo cristiano vibra di un impeto che lo rende capace di esaltare tutto il bene che c'è in tutto ciò che si incontra, come ricordava don Giussani: «L'ecumenismo non è allora una tolleranza generica, ma è un amore alla verità che è presente, fosse anche per un frammento, in chiunque. Nulla è escluso di questo sguardo positivo. Se c'è un millesimo di verità in una cosa, lo affermo». Solo una tensione così può generare una vera pace fra gli uomini, anche questa una preoccupazione costante del cardinale Martini. Carità come condivisione dei bisogni. Noi dobbiamo fare tesoro di questo desiderio di intercettare il bisogno degli uomini che l'Arcivescovo incontrava lungo il cammino della vita. La Chiesa non può essere mai indifferente alle domande e ai bisogni degli uomini. Queste domande, che sono le nostre, sono una sfida per noi credenti, perché solo così ci rendiamo conto se abbiamo qualcosa nella nostra esperienza da comunicare a chi ci chiede ragione della nostra speranza. Questo è il vantaggio del tempo presente per noi credenti: non è sufficiente la ripetizione formale delle verità della fede, come ci ricorda continuamente Benedetto XVI. Gli uomini attendono da noi la comunicazione della nostra esperienza, non un discorso astratto, sia pure corretto e pulito. Come ci richiamò Paolo VI: la nostra epoca ha bisogno di testimoni, più che di maestri. Solo il testimone può essere maestro. Sono sicuro che il cardinale Martini, dal Cielo, ci accompagnerà a condividere i bisogni degli uomini e a trovare strade per risponderne che siano all'altezza delle loro domande. Quanto al rapporto con Cl, don Giussani ci parlava sempre della paternità del cardinale Martini, che aveva abbracciato e accettato nella diocesi di Milano una realtà come Cl. Nel suo cuore di pastore sempre c'è stato spazio per noi. Ricordo la gratitudine di don Giussani quando l'Arcivescovo gli concesse di aprire una cappella in uno dei locali della sede centrale del movimento a Milano, così da avere il Signore presente sempre. E come l'arcivescovo Montini, che inizialmente confessava di non capire il metodo di don Giussani ma ne vedeva i frutti, anche il cardinale Martini ci incoraggiava ad andare avanti. Mi commuovono ancora le parole che rivolse a don Giussani nel 1995, durante un incontro di sacerdoti, quando ringraziò «il Signore che ha dato a monsignor Giussani questo dono di riesprimere continuamente il nucleo del cristianesimo. "Ecco, tu, ogni volta che parli, ritorni sempre a questo nucleo, che è l'Incarnazione, e - con mille modi diversi - lo riproponi"». Per questo ci rincresce e ci addolora se non abbiamo trovato sempre il modo più adeguato di collaborare alla sua ardua missione e se possiamo aver dato pretesto per interpretazioni equivoche del nostro rapporto con lui, a cominciare da me stesso. Un rapporto che non è mai venuto meno all'obbedienza al Vescovo a qualunque costo, come ci ha sempre testimoniato don Giussani. Sono sicuro che, insieme a don Giussani, ci accompagnerà dal Cielo a diventare sempre di più quello per cui lo Spirito ha suscitato proprio nella Chiesa ambrosiana un carisma come quello di Cl. La morte del cardinale Martini e di don Giussani costituiscono un richiamo per tutti noi che, nella varietà di sensibilità, abbiamo a cuore la Chiesa ambrosiana. Mi auguro che non ci stanchiamo mai di cercare quella collaborazione che è indispensabile - soprattutto oggi - per la missione della Chiesa, così come ne parlava il cardinale nel 1991: «La "novità" della cosiddetta "nuova evangelizzazione" non va cercata in nuove tecniche di annuncio, ma innanzitutto nel ritrovato entusiasmo di sentirsi credenti e nella fiducia dell'azione dello Spirito Santo», così da «evangelizzare per contagio... da persona a persona». JULIÁN CARRÓN presidente della Fraternità di Cl 4 settembre 2012 | 10:41

Ma che ne sapete voi dell’amore «Non ti amo perché è giusto» |

I rotocalchi, le tv, i libri (con cinquanta sfumature o mille) parlano d’amore. Fan bene. Lo han sempre fatto anche i cristiani. È ora che ricomincino a farlo. Non si può non fare. Perché l’amore è forte come la morte, come dice il Cantico dei Cantici. Spiazza e attrae tutti. Non ha misura. In Romagna, dove il Cantico dei Cantici non è certo la lettura più diffusa, si usava però la stessa parola, “trasporto”, per indicare l’innamoramento e il funerale. In entrambi i casi sei portato da qualcosa a cui non ti puoi opporre. Per questo l’amore – come la morte – non è giusto. Non sta in nessuna giustizia che non sia una strana giustizia “ingiusta” secondo le misure umane. Siamo tutti amati “ingiustamente”. Per fortuna. Quale bacio, abbraccio, quale perdono e quale “ti amo” meritiamo? Che razza d’amore sarebbe quello che non riesce a essere un po’ ingiusto… Lo dice la splendida Violaine. personaggio chiave de L’Annuncio a Maria, capolavoro di Paul Claudel, ignorato in Italia se non fosse per le letture che ne ha mosso don Luigi Giussani. Violaine, il personaggio in cui il poeta adombra la sua amata e sfortunata sorella, la gran scultrice Camille, a un certo punto dice al suo fidanzato Giacomo: «Io non ti amo perché è giusto». Verso dinamitardo. Da scrivere sugli stipiti delle porte di ogni genere di casa, di famiglia o convento, di don Giovanni o di consacrati. Cent’anni fa mentre a Parigi veniva rappresentato per la prima volta L’Annuncio, uno strano personaggio, figlio di gente ombrosa, tentato dal suicidio e però definito da Oscar Wilde “poetry itself”, la poesia stessa, dava alle stampe un dramma teatrale. Oscar Vladislas Milosz scrive la vera storia del personaggio che ha ispirato la figura di don Giovanni, il nobiluomo di Siviglia Miguel Mañara. Colui che nel 1619, dopo aver collezionato un catalogo di ogni tipo di femmina (per abbracciare le infinite possibilità, dice), sposa Girolama. Anche nel destino di don Giovanni amore e morte si incontrano, come nel Cantico dei Cantici. Due cose ingiuste e ugualmente forti. Da comprendere e vivere veramente fino in fondo nella loro “ingiustizia”. I mormoratori naturalmente oppongono a questa idea il fatto che l’amore vero corregge, cerca di condurre a giustizia, alla misura giusta le cose. Non è così. La vita è un continuo debordare nostro dalla giustizia, e tali debordamenti sono da correggere, sì, ma amando. Forse è giusta l’esuberanza erotica di un diciassettenne, forse è giusto l’invecchiamento che tutti assale? O la ritrosia della bella ragazza? Tutto giusto e ingiusto insieme, una misura con una dismisura dentro. Non si capisce bene, perciò occorre parlarne di continuo. «Possiamo soltanto amare/ il resto non conta/ non funziona». I poeti ne parlano sempre, anche per chi non ne ha più voglia, non si azzarda, o crede che non ci sia più niente da dire. Ma l’amore, finché lo si vive, mobilita parole. Siamo la patria della canzone d’amore. Non abbiamo mai preso troppo sul serio quelli che pensano che il diavolo abbia la minigonna. Mio nonno a ottantatré anni inventava soprannomi per mia nonna. Non era stato di certo un marito perfetto. Aveva una concezione romagnola del matrimonio (che è durato 65 anni, fino alla morte). Ma inventava nomi per lei. Nessuno come il cristiano sa d’amore che impasta i destini, gli attimi di uomini e donne con paradisi e inferni. Così mentre settimanali e rotocalchi ne parlano in modo superficiale e soprattutto d’estate per riempire vuoti e pascersi lettori annoiati con storielle e gossip, ecco che Tempi, settimanale catto-corsaro, e d’ora in poi catto-amoroso, chiede a me di parlarne, mentre le ferie finiscono e riprende la vita di tutti i giorni. Perché la vita di tutti i giorni senza amore inaridisce. Del resto, i grandi autori (cristiani) hanno sempre parlato d’amore. Quindi lo posso far anch’io, il minimo. Dante non scrive mica la Commedia perché voleva lasciarci un malloppone sintetico sulla cultura e sull’universo medievale. Ma perché ha incontrato Beatrice. E capisce che in quella esperienza si sintetizza il grande dibattito e il grande dramma d’esperienza dei teologi del secolo precedente e dei poeti. Gli uni discutevano se si conosce Dio amandolo, gli altri inventano la grande poesia provenzale e stilnovista cantando un oggetto “imprendibile” come Dio (le dame sono sempre sposate o d’altri), amando il quale l’uomo si nobilita e si conosce. Dante compie la sintesi: amando Beatrice, che sua non è, e che gli viene sottratta dalla morte, arriva a conoscere Dio, la stoffa dell’Essere. Senza voler insegnare niente Dire “ti amo” non significa dire sei mio o mia. Pochi come il cristiano Baudelaire, che dedicava poesie come a una principessa alla sua prostituta mulatta Jeanne, sono penetrati nel dramma misterioso dell’amore. E non è il cattolico Manzoni il primo grande autore italiano di telenovela (lui, lei, l’altro che la vuole…) mettendo in scena il dramma di Renzo, Lucia e don Rodrigo? Sia Dante che Manzoni san bene, senza bisogno di fare letteratura banale, i legami misteriosi tra corpo, amore, tra desiderio sessuale e legame. Tra corpo e anima amanti. Il cattolico Ungaretti scrive tra le più belle poesie d’amore e di desiderio. E il filosofo accademico di Francia Jean-Luc Marion sta da tempo riflettendo sulla conoscenza erotica. Certo, rispetto al fuoco della poesia, spesso gli uomini di Chiesa hanno parlato dell’amore – tranne rare eccezioni tra cui Wojtyla e il Papa in carica – in modo banale, spesso untuoso e complessato. È ora di voltare pagina. Senza voler insegnare niente, se non quello che tutti, in fondo, sappiamo. Ci state? Davide Rondoni