venerdì 29 luglio 2011

Incontrare qualcosa che corrisponda alla nostra attesa




Julián Carrón*
Alfa y Omega, 28 luglio 2011

Quando penso a un giovane di oggi che si sta aprendo alla vita, sono invaso da una tenerezza infinita: come si orienterà in questa babele piena di opportunità e di sfide in cui gli tocca vivere? Basta vedere la televisione, o accostarsi a un’edicola o a una libreria per vedere la varietà di opzioni che si trova davanti. Scegliere quella giusta è un’impresa ardua.
Ma se da una parte è commovente pensare a un ragazzo che si trova davanti a una simile sfida, mi meraviglia ancor di più il fatto che colui il quale ci ha posto nella realtà non abbia avuto alcun ritegno nel correre un simile rischio. Fino al punto di scandalizzare coloro che vorrebbero risparmiarlo a se stessi e agli altri, figli, amici o alunni che fossero.
Il Mistero, tuttavia, non ci ha lanciato nell’avventura della vita senza fornirci di una bussola con cui potessimo orientarci. Questa bussola è il cuore. Nella nostra epoca il cuore è stato ridotto a un sentimento, a uno stato d’animo. Ma tutti noi possiamo riconoscere nella nostra esperienza che il cuore non si lascia ridurre, non si conforma a nessuna cosa. “L’uomo è veramente creato per ciò che è grande, per l’infinito. Qualsiasi altra cosa è insufficiente”, dice il Papa nel suo Messaggio. E noi lo sappiamo bene.
Perciò, chi prende sul serio il suo cuore, fatto per ciò che è grande, comincia ad avere un criterio per comprendere se stesso e la vita, per giudicare la verità o la falsità di qualunque proposta che spunti all’orizzonte della sua vita. “Vi vengono presentate continuamente proposte più facili, ma voi stessi vi accorgete che si rivelano ingannevoli, non vi danno serenità e gioia.”
C’è qualcosa che sia all’altezza delle nostre esigenze più profonde, che possa rispondere al nostro anelito, grande come l’infinito? Molti risponderanno che una cosa simile non esiste, vista la delusione che in tante occasioni hanno sperimentato riponendo la loro speranza in qualcosa che era destinato a deluderli. Ma nessuno di noi può fare a meno di sperare. È irrazionale questa aspettativa? E allora, perché speriamo? Perché è la cosa più razionale: nessuno di noi può affermare con certezza che non esiste.
Ma scopriremo che esiste solo se avremo l’opportunità di incontrare qualcosa che corrisponda veramente alla nostra attesa. Come i primi che incontrarono Gesù: “Non abbiamo mai visto nulla di simile!”.
Da quando questo fatto è entrato nella storia, nessuno che ne abbia avuto notizia ha più potuto o potrà stare tranquillo. Tutto lo scetticismo del mondo non potrà eliminarlo dalla faccia della terra.
Resterà là, sull’orizzonte della sua vita, come una promessa che rappresenta la più grande sfida che abbia dovuto affrontare. “Chi mi seguirà riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”. Solo chi ha il coraggio di verificare nella vita la promessa contenuta nell’annuncio cristiano potrà scoprire che esso è capace di rispondere alla sua attesa. Senza questa verifica non potrà esistere una fede all’altezza della natura razionale dell’uomo, vale a dire, capace di continuare a essere interessante per lui.

* presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

La forza di un nome di uomo

Cosa è essere la 40 esima o 41 esima vittima di una guerra lontana, in terra Afghana? Essere un nome che quasi nessuno ricorda se non chi lo ha sempre pronunciato e fissato in qualche luce del centro e del sud d'Italia. Essere la 40esima o 41esima vittima per una mina, un attacco, un cavolo di sbaglio o di fatalità in una guerra che non tocca le nostre case, di cui parlano giusto i politici tra loro (e quelli che hanno i nomi di questi uomini 40esimi, 41esimi cuciti nel sangue e nel sorriso e nel pianto) - essere qualcosa di secondario, di strano in questa cronaca che va dal possibile fallimento dello stato americano alle bustarelle possibili del Pd.
Qualcosa che però ha la forza di un nome inciso nella morte e nella guerra. Una forza che nessuna polemicuzza politica, nessuna caduta o resurrezione di governo ha. La forza di un nome d'uomo inciso nella morte e nella guerra. Una piastra di sole nella terribile perpetua micidiale guerra umana. Si chiamava David, 28 anni, di Ostia nuova. 41esima vittima. Sua madre ha accarezzato a lungo la bara, prima di lasciarla andare. Come una madre antica e futura.
Non è cronaca. E' l'eterno e il tempo che si uniscono e gridano insieme. E insieme possono anche cantare, anche in mezzo alla guerra.
dr - http://www.clandestinozoom.it

martedì 26 luglio 2011

Senza Cristo la ribellione al potere diventa follia»


Oslo, la manifestazione in memoria delle vittime.




di Aldo Trento
26/07/2011 - A Oslo, in un Paese dal "sistema perfetto", «si è inceppato l'uomo». Padre Aldo Trento dalle colonne del Foglio commenta la tragedia: «Ci vuole l'incontro con qualcuno per cui il cuore è fatto, per riprendere in mano la vita»


Mentre tutti sono in vacanza sognando di vincere lo stress di una vita sempre meno vita perché perfino il desiderio, come diceva mesi fa una statistica del Censis, sembra essersi spento nel cuore degli italiani, ci arriva dalla Norvegia la terribile notizia di due attentati con un centinaio di morti. Che schiaffo per tutti! Proprio dalla Norvegia, uno dei paesi più “perfetti” del mondo, dove l’onestà e l’organizzazione sociale sono additate come esempio, è accaduto un fatto che ha sconvolto tutti. Lo sgomento è grande come il dolore per le vittime e le loro famiglie, eppure non possiamo fermarci qui, non possiamo non cercare di capire che cosa si è inceppato in questa macchina “perfetta”.
Che cosa si è inceppato? L’uomo. Il cuore dell’uomo è sempre più stanco dei continui imbrogli cui è sottoposto da un potere dominante che, avendo eliminato Dio (o avendolo ridotto a un’ideologia) è riuscito ad anestetizzare l’uomo facendogli credere che la sua vita dipenda dal potere stesso. Ma quest’operazione, che Luigi Giussani definiva come “effetto Chernobyl”, non poteva e non potrà durare a lungo, perché non ci sarà potere al mondo che possa addormentare fino a ucciderlo il cuore dell’uomo. Anche se in Norvegia, come in ogni parte del mondo, il potere potrà far credere ai suoi concittadini che se vivono è grazie a esso e i cittadini potranno anche esserne grati. Una volta anestetizzati, quest’operazione che pretende di cambiare la genetica umana, non può durare per molto tempo, perché dentro ognuno di noi c’è un Icaro che non sopporta di rimanere impigliato in una gabbia che gli impedisce di volare.
L’uomo, il cuore dell’uomo, è fatto per volare. Perciò o questa esigenza incontra la sua libertà o si trasforma in follia. Non si può arginare quella sete e fame di felicità, di amore, di bellezza, di verità, di giustizia che costituiscono il tessuto del cuore umano. Uno potrà maledire questi battiti, ma non potrà non farci i conti. E se il potere dimentica questa verità, per quanto perfetti siano i suoi sistemi, e anche se l’uomo stesso si dimentica, arriva inevitabilmente il momento della follia e le conseguenze sono state visibili a Oslo. Una follia che può avere come origine anche un cristianesimo ridotto a ideologia. Quando uno non ha incontrato la presenza di Cristo come un fatto che risponde pienamente alle esigenze della ragione e del cuore umano, ma un’idea o un’ispirazione che usa di Cristo, è inevitabile la censura della ragione da cui derivano fanatismo e violenza. Quanti orrori si sono compiuti usando il nome di Cristo, dove Cristo in tutto questo non c’entra niente! Il cristianesimo è un avvenimento verificabile nella sua profonda ragionevolezza solo dentro la realtà vissuta interamente. Cristo ha bisogno dell’uomo nella sua interezza, e l’uomo ha bisogno di Cristo.
Allora di fronte a questa tragedia è urgente, affinché questi fratelli non siano morti invano, prendere sul serio il nostro cuore con i suoi desideri ben espressi nel Salmo 62: «Oh Dio, Tu sei il mio Dio, per te io mi sveglio all’alba, la mia anima ha sete di te, la mia carne ha ansia di te, come terra secca, piena di crepe senza acqua». O come ci ricorda Giuseppe Ungaretti: «Chiuso fra cose mortali (anche il cielo pieno di stelle finirà), perché bramo Dio?». L’uomo è relazione con l’eterno, è relazione con l’Infinito, e se il mio cuore non incontra questo Tu per cui è fatto, non ci sarà sistema sociale, per quanto perfetto sia, che potrà impedirgli la pazzia e tutto ciò che consegue. Se Dio non esiste o è ridotto a un idolo, a ideologia, tutto è possibile. Ma che Dio esiste è il cuore a dircelo! È il cuore che grida: voglio l’Infinito. Il potere moderno nasce prescindendo da Dio, nasce pretendendo di essere lui Dio, di essere lui ciò di cui il cuore ha bisogno, e allora è inevitabile che arrivino questi tsunami che ci fanno tremare. Non bastano i valori per vivere, e ancora meno la pretesa di essere onesti, come da decenni anche nella Chiesa ci ripetiamo. Ci vuole una marcia in più, ci vuole un incontro con qualcuno per cui il cuore è fatto, per riprendere in mano la vita. Ci vuole che riaccada adesso, in piena estate, mentre tutti sono sdraiati come polli senza piume sulle spiagge o come cerbiatti camminando in montagna, quanto è accaduto a Giovanni e Andrea, a Zaccheo, alla Maddalena. Ci vuole l’incontro con quello sguardo in cui il Mistero, ciò di cui è fatto il cuore, si è fatto carne. Ci vuole che lo sguardo di Cristo incroci il nostro. Quello sguardo che ci rende consapevoli che prima della follia c’è il perdono, c’è la misericordia.
È ciò che è accaduto a me quando l’illusione del potere nella sua espressione ideologica mi stava mangiando il cervello, convinto com’ero che Cristo non fosse sufficiente per liberare l’uomo dalla sua follia, e che continua ad accadermi riempiendomi di letizia ogni giorno. La tragedia accaduta in Norvegia interpella la responsabilità che abbiamo come cristiani dentro il mondo. La nostra esperienza di Cristo è il riaccadere di quanto è accaduto a Giovanni e Andrea o è un insieme di valori, una morale, incapace di resistere alle sfide che ci pone il mondo moderno? Chi ci guarda in questi giorni, osservando il nostro volto è affascinato per la bellezza di uno sguardo in cui è evidente la tenerezza di Cristo? Al fanatismo religioso si può rispondere solo mostrando nella vita quotidiana la ragionevolezza della nostra fede. Non c’è niente di più blasfemo che definire il cristianesimo di destra o di sinistra. II cristianesimo è solo Cristo, cioè uomo. Essere cristiano non è aggiungere un aggettivo alla parola “uomo”, ma è il nome proprio dell’uomo, direbbe Giussani, di quel livello della natura in cui la natura prende coscienza di sé.
di Aldo Trento
(da Il Foglio, 26 luglio 2011)

domenica 24 luglio 2011

XAVIER TILLIETTE - Il Gesù dei filosofi


Proprio oggi compie novant’anni Xavier Tilliette, padre gesuita francese, decano dei filosofi europei. Durante le sue originali ricerche s’è occupato di grandissimi pensatori, primo fra tutti Schelling, del quale non solo resta il maggior conoscitore vivente, ma colui che in assoluto è riuscito a scandagliare i recessi più ignoti, trovando il filo rosso per comprenderne il proteiforme, svettante e abissale pensiero. Ma il più grande filosofo, con cui ha dialogato intimamente e su cui ha scritto lungo tutta la sua vita, educando schiere di allievi - all’Institut Catholique di Parigi e all’Università Gregoriana a Roma - a scoprirne le profondità di interrogazione, è per Lui Gesù Cristo, il Cristo che è intrinsecamente filosofo. E con Cristo filosofo Tilliette sta ancora intrattenendo colloqui riservati, ora che vive ritirato dall’insegnamento e dalle pubbliche discussioni. Fra le sue opere ricordiamo, presso Queriniana, Filosofi davanti a Cristo (1989) e con Morcelliana La Settimana Santa dei filosofi (1992), Il Cristo della filosofia (1996), L’intuizione intellettuale da Kant a Hegel (2001).

Sono andato a trovarlo per rendergli omaggio, compiendo ancora una tappa del nostro dialogico cammino, intrapreso sulle orme di Schelling. Lo distolgo per qualche ora dalla meditante preghiera che sempre più sembra rapirlo. Ma per lui il colloquio filosofico rasenta spesso quello con Dio, entrambi altamente interrogativi.

Vorrei partire dalla "cristologia filosofica", il tema su cui lei ha più insistito nelle sue ricerche, essendone anche il primo formulatore...
«Il Cristo nella filosofia è una scoperta mia. C’è un Cristo teologico comprensibile solo con tutta la riflessione della filosofia anteriore, con una determinazione veramente filosofica della presenza di Cristo sia nella cultura sia nella filosofia. È importante non confondere la fede in Gesù Cristo, Dio fatto uomo, con il Cristo della cultura, personaggio storico. Il Cristo della filosofia è già un personaggio della cultura. Si passa da una conoscenza empirica, quasi fisica, accidentale, ad una presenza salda e forte nella filosofia. È questa la mia scoperta, il ruolo capitale di Cristo nella cultura umana e quindi prima nella filosofia».

Lei ha inoltre elaborato una distinzione ulteriore. Innanzitutto si è a lungo occupato dei filosofi che hanno studiato la figura di Cristo anche senza essere cristiani, senza provare la fede, da un punto di vista meramente culturale, cosa importantissima e che nessuno aveva precedentemente fatto, ma poi anche ha fatto vedere come ci sia una cristologia filosofica che in Cristo stesso trova il filosofo: Cristo filosofo, che si interroga e interroga noi, che è filosofo...
«Cristo si inserisce nella filosofia come un elemento misterioso ma motore: non solamente un fatto ma anche un atto. Per questo mi sembra che la filosofia, in segreto, sia una cristologia. Ma questo non lo si può dire così, senza ulteriori esplicazioni. Bisogna studiare il ruolo stesso di Cristo nella filosofia, tra i filosofi. L’avevo già fatto all’inizio, ma l’ho tematizzato dopo. I più profondi problemi cristologici appartengono alla filosofia. Come ad esempio la sofferenza. Perché per un filosofo che significa la sofferenza? Poca cosa, un mistero. Ma la filosofia dà la chiave».

La cristologia filosofica ci conduce anche all’escatologia: cosa ne sarà in futuro della sofferenza?
«La cristologia filosofica diventa anche una filosofia della sofferenza e inserisce la sofferenza nella stesura stessa della filosofia».

Escatologicamente parlando, della sofferenza ci sarà una memoria, oppure ci sarà soltanto un’apocatastasi che distrugga tutto il negativo?
«No, ci sarà la ragion d’essere».


Più volte papa Benedetto XVI ha richiamato con efficacia la questione ecologica, ribadendo l’importanza della riflessione teologica sulla salvaguardia del creato, di fronte alle possibilità incombenti di catastrofi ambientali, che possano risultare naturali o antropiche. Cosa può dire in merito una cristologia filosofica quale lei prospetta, ad esempio richiamandosi a quello straordinario passo di san Paolo (Romani, 8), in cui si parla di «attesa trepidante della creazione» per la redenzione dalla «schiavitù alla caducità» a cui è soggetta la natura stessa?
«La negatività, la sofferenza, la negazione, l’ignoranza anche: tutto quello che rimane nella riflessione senza essere realmente assimilato o accettato, tutto questo ricorda il nostro inserimento nel segreto, nel mistero del non conoscibile, concepibile, razionalizzabile. Dobbiamo inserire sofferenza, negazione, male in una forma specifica della filosofia, che è il suo mistero: negativo, non positivo. Questo credo che lo abbiano visto pochi filosofi. I filosofi che indagano la sofferenza, la difficoltà, la pena sono filosofi che appartengono a questa categoria speciale del pensiero, che fa parte della nostra vita».

Un altro grande tema che ha molto approfondito nei suoi studi è quello dell’intuizione intellettuale...
«L’intuizione intellettuale è anche l’intuizione della difficoltà, del male, della solitudine. Ho voluto rifarmi a questa zona negativa attorno alla filosofia e anche attorno al segreto, al mistero della vita, dell’esperienza. Credo che il mistero, il segreto, l’ignoto faccia parte della filosofia».

È il culmine del sapere come dotta ignoranza?
«O come ignoranza senza essere dotta. Bisogna lasciare alla filosofia qualcosa addosso che fa parte dell’al di qua, in cui essa si trova, con una concezione un po’ pessimista della vita. E vedere la filosofia come una scienza sempre in ricerca, in divenire».
Francesco Tomatis

sabato 23 luglio 2011

Risurrezione e fede cristiana - Il seme più piccolo della storia

«La fede cristiana — scrive Benedetto XVI in Gesù di Nazaret — sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere — una sorta di concezione religiosa del mondo —, ma la fede cristiana è morta». Il messaggio cristiano in questa prospettiva sarebbe abbandonato totalmente alla nostra interpretazione soggettiva e risulterebbe valido solo nella misura in cui ci convince. A questo è stato ridotto oggi il cristianesimo, e non meno dai cristiani che dai laici, volendolo rendere conforme alle esigenze della ragione.
Ma solo se Gesù è risorto «è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell’uomo». Infatti nella risurrezione di Gesù non si è trattato solo del miracolo di un cadavere rianimato, come nella risurrezione del giovane di Nain, della figlia di Giairo o di Lazzaro: essa ci interesserebbe solo fino a un certo punto. La risurrezione di Gesù — secondo le testimonianze neotestamentarie — è stata invece «l’evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire, ma posta al di là di ciò — una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini». Non è, dunque, un fatto che appartiene solo al passato: è una «mutazione decisiva», un «salto di qualità» dell’umano. «Nella risurrezione di Gesù è stata raggiunta una nuova possibilità di essere uomini, una possibilità che interessa tutti e apre (...) un nuovo genere di futuro per gli uomini».
Con essa accade un avvenimento che riempie di significato la vita degli uomini, inizia una presenza in cui l’esistere comincia ad avere il suo compimento, anche se tale presenza, «condizione definitiva e differente», si pone ancora «nel bel mezzo del mondo vecchio che continua ad esistere».
Si spiega così l’iniziale difficoltà a comprendere dei discepoli. Ma infine essi furono sopraffatti dalla realtà: «è veramente Lui; Egli vive e ci ha parlato, ci ha concesso di toccarlo, anche se non appartiene più al mondo di ciò che è normalmente è toccabile». Una esperienza del tutto incontestabile.
Nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, il vecchio Tiresia insegna al giovane Edipo che «essere cieco non è una disgrazia diversa dall’essere vivo», perché nel mondo non accade nulla di significativo, che valga la pena vedere, nulla a cui si possa dare il nome di bene o di male. «Tutte le cose sono un urto, non altro».
La risurrezione di Gesù si pone dentro il mondo come l’evento in cui ogni altro è riscattato dal non senso, trova consistenza e speranza di salvezza. Ma può veramente essere stato così? Possiamo noi moderni dar credito a una testimonianza del genere? Non è in contrasto con la scienza? La risposta del Papa sovverte queste domande: «Può veramente esserci solo ciò che esiste da sempre? Non può esserci la cosa inaspettata, inimmaginabile, la cosa nuova?». È come se sfidasse la ragione dell’uomo ad accogliere la suprema categoria del pensare, cioè l’apertura incondizionata alla realtà e a ogni possibilità: «Se Dio esiste, non può Egli creare anche una dimensione nuova della realtà umana?». E non è la creazione stessa, in fondo, attesa di questa ultima e più alta «mutazione», di questo definitivo «salto di qualità»? Ed essa non attende forse «l’unificazione del finito con l’infinito, l’unificazione tra l’uomo e Dio, il superamento della morte?».
Solo per una ragione in grado di aprirsi veramente — disponibile a riconoscere anche ciò che non aveva previsto né poteva prevedere — si compie la sua più intima attesa di un significato esauriente dell’esistenza. Certo, la risurrezione di Gesù è entrata nel mondo come qualcosa di «poco appariscente»: a prima vista, «è il seme più piccolo della storia». Reca tuttavia in sé le potenzialità infinite di Dio. E si giova della forza convincente della testimonianza cristiana che, con «coraggio assolutamente nuovo», dopo duemila anni si ripete: in essa albeggia quella condizione umana «definitiva e differente» iniziata nel Risorto. Così la risurrezione del Signore accade oggi.
Francesco Ventorino
Città del Vaticano, 23 luglio 2011. http://www.osservatoreromano.va

domenica 17 luglio 2011

Come salvaguardare il vero «otium».Celebrare l’inutile il segreto della vacanza.

Diceva Platone che gli dei condannarono l’uomo al lavoro e per compassione gli concessero intervalli di riposo per le feste, affinché l’uomo ricevesse in quelle occasioni la luce e la forza per vivere rettamente. La visione greca del lavoro è pessimista: fatica necessaria, da cui salvarsi grazie al culto. Otium, diranno i latini, per opporlo al neg-otium (ciò che otium non è): gli affari della vita quotidiana, priva della dimensione divina del vivere.

Gli antichi, interpreti del mondo caduto, avevano ragione, ma da quando il Verbo si è fatto carne il lavoro non è condanna, ma benedizione. Nel progetto originario l’uomo è posto nell’Eden per custodirlo e coltivarlo, prima della Caduta, che non ha determinato il lavoro, ma la fatica e la resistenza. La creazione resiste e aspetta nelle doglie del parto che l’uomo la faccia partorire attraverso il lavoro. Lo sa bene ogni artista, che prova a piegare parole, pietre, colori alla bellezza concepita. Cristo lavorò trent’anni da falegname e fece la redenzione tanto quanto gli ultimi tre, ma purtroppo troppo spesso quei trenta, a piallare tavoli a Nazareth, ce li dimentichiamo.

Il lavoro si è di nuovo impregnato della visione pagana. È schiavitù da cui fuggire o contenitore di auto-affermazione, non cura e salvezza di me, della parte di mondo che mi è affidata e delle persone che ci sono dentro. La visione tragica del lavoro origina l’otium come fuga e divertimento dionisiaco: un annullamento dell’io bisognoso di azzeramento, come si fa con il pc quando si sovraccarica. L’otium diventa così terreno fertile per la noia. Questa accidia è la rinuncia alle aspirazioni connaturali alla dignità umana, un ostinato non voler essere sé stessi che ci porta sino alla disperazione, l’altra faccia dell’attivismo workaholic (alcolismo da lavoro).

Ad accidia e attivismo si oppone il vero otium, che non è l’assenza esteriore di lavoro (le ferie), ma uno stato dello spirito, che riposa sia a lavoro sia in vacanza. È un atteggiamento di apertura quieta e silenziosa, di chi riceve in dono la realtà. Solo così si scopre che il lavoro, anche se stanca, non è fatica, ma riposo, e che la vacanza non è vuoto, ma pienezza.

Ne Il piccolo principe c’è un lampionaio che accende e spegne le luci sul suo pianeta, ma il pianeta ha cominciato a girare sempre più veloce e richiede un lavoro frenetico, pur di rispettare la consegna ricevuta. Il lampionaio disperato vorrebbe solo dormire e se ne lamenta con il bambino biondo, che gli suggerisce di «riposare lavorando»: camminare, invece di stare fermo, così da seguire il corso del sole, rimanendo fedele alla consegna, ma soprattutto a se stesso. Ci sono infiniti tramonti da contemplare, di cui il lampionaio si è dimenticato. Egli ha dimenticato il culto, la dimensione rituale dell’esistenza: godere senza possedere, lavorare riposando. Il culto sta al tempo, come il tempio allo spazio. Il tempio era il recinto sacro agli dei, separato dai terreni adibiti al lavoro. Il culto è il tempo strappato ai fini produttivi. Quello delle ferie, se vissuto utilitaristicamente per produrre divertimento diventa tempo senza riposo. Solo il culto protegge la vacanza da questa minaccia, in quanto tempo dedicato all’inutile. Separato dal culto, l’otium stanca.

Come raggiungere il vero otium? Festeggiando i beni del creato secondo i dettami del culto: godere della bellezza, celebrare l’inutile. C’è una razza di oche che dopo un lungo viaggio migratorio, distrutte dalla fatica, trovato lo specchio d’acqua che le salva, non si tuffano a capofitto a bere, ma inscenano una bellissima danza. Persino le oche celebrano ciò che è necessario, senza consumarlo subito. Con la e nella bellezza.

Siamo noi capaci di danzare, celebrare, gioire in questo tempo festivo, nel culto dei sacramenti (da leggere il recentissimo libro di A.Mardegan, «Il sacramento della gioia», per riscoprire che la confessione è una festa) e nella bellezza dei doni del creato, o abbiamo già riempito di disperazione il nostro otium?
Alessandro D’Avenia
Copyright 2011 © Avvenire

sabato 16 luglio 2011

Un dovere da condividere.La legge sulle Dat è un testo vero, utile, concreto



Oggi, una certa corrente di pensiero ritiene che la vita in certe condizioni si trasformi in un accanimento e in un calvario inutile, dimenticando che un’efficace presa in carico e il continuo sviluppo della tecnologia consentono anche a chi è stato colpito da patologie altamente invalidanti di continuare a guardare alla vita come a un dono ricco di opportunità e di percorsi inesplorati prima della malattia. In questi tempi in cui si parla sempre più, con scarsa chiarezza, di diritto alla morte, del principio di autodeterminazione, di autonomia del paziente, si deve lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano che deve essere il punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia e la disabilità non siano (o diventino) criteri di discriminazione sociale e di emarginazione.

Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Questo è un compito prezioso che conferma il senso della nostra professione medica, non esaurito dall’eliminazione del danno biologico.

La medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società, forniscono quotidianamente delle risposte ai differenti problemi posti dal dolore e dalla sofferenza: risposte che devono essere implementate e potenziate e che sono l’esplicita negazione dell’eutanasia, del suicidio assistito e di ogni forma di abbandono terapeutico. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive una condizione di malattia: questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, e favorisce decisioni rinunciatarie.

La legge sulle Dat, va vista anche come uno strumento che ci porterà a riflettere su temi eticamente sensibili, che stimolerà la cultura verso la malattia, la fragilità, la vulnerabilità, la disabilità. Ma sempre più quando si parla di questa nuova legge su vari quotidiani leggiamo che «la posta in gioco è libertà e dignità della vita» che non vererbbero tutelate... Ed ecco, allora, che – come cittadino, come persona con disabilità, come medico – io dico: diritto di morire o libertà di vivere? Eutanasia o accanimento terapeutico? Autodeterminazione o relazione clinica? Il confronto serio e costruttivo con tutti i protagonisti del dibattito in corso passa da una condizione preliminare: intendersi sulle parole, imbastire sine ira ac studio un lessico condiviso. La sensazione, però, che si stia andando in un’altra direzione. A svolgersi è sempre quello che io chiamo "il tema del benpensante", secondo la cui tesi in determinate situazioni di fragilità o di malattia la vita non è più degna di essere vissuta. I benpensanti perdono di vista il nucleo del problema: la vita umana,l’essere umano, la persona.

Si dovrebbe guardare alla vita umana come mistero non riducibile al suo livello biologico e non manipolabile da nessuno. È una questione totalmente e radicalmente "laica" che ha riguardato e riguarda ognuno di noi. La legge proposta guarda in modo incondizionato al bene del paziente, ribadisce l’inviolabilità e l’indisponibilità della vita umana, il "no" sia all’abbandono sia all’accanimento terapeutico, il "no" all’eutanasia e al suicidio assistito. Ed è necessaria, questa legge, perché il valore della vita e la salvaguardia della libertà e della dignità della persona umana non possono più essere lasciate a una qualche decisione dei giudici. È sbagliato dipingerla come una legge che divide, perché può, anzi deve, diventare uno strumento di condivisione per un obiettivo comune: lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano come punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza.

Un Paese che voglia veramente dirsi civile deve essere in grado di mettere tutti i propri cittadini nella condizione di vivere con dignità anche l’esperienza della malattia e della grave disabilità, promuovendo l’inclusione e non l’esclusione sociale o, peggio ancora, l’isolamento e l’abbandono. Basta nascondersi dietro a falsi ideologismi pregiudiziali sulla definizioni di dignità della vita. La dignità della vita, di ogni vita, è un carattere ontologico che non può dipendere dal concetto di qualità di vita "misurata" in base a un processo utilitaristico. Basta affermazioni del tipo nutrizione e idratazione sono atti terapeutici, artificiali, no, sono semplici strumenti di supporto vitale. Dovremmo però essere anche noi medici a contribuire, assieme alle Istituzioni, a rinsaldare nel nostro Paese la certezza che ognuno riceverà trattamenti, cure e sostegni adeguati.

Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno. L’indipendenza e l’autonomia del medico, che è un cittadino al servizio di altri cittadini, potranno garantire che le richieste di cura e le scelte di valori dei pazienti siano accolte nel continuo sforzo di aiutare chi soffre e ha il diritto di essere accompagnato con competenza, solidarietà e amore nel percorso di fine vita.

Mario Melazzini - Presidente nazionaleAssociazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica (AISLAOnlus), Direttore scientifico Centro clinico NeMo-Milano
© riproduzione riservata

mercoledì 13 luglio 2011

Dalla novità cristiana uno sguardo davvero ecumenicoIn vista della Giornata per la pace e la giustizia del 27 ottobre ad Assisi.


di JULIÁN CARRÓN
Presidente della Fraternità
di Comunione e liberazione



La "Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo", convocata ad Assisi il prossimo 27 ottobre da Benedetto XVI, è un gesto audace, così come lo fu venticinque anni fa l'iniziativa del beato Giovanni Paolo II.
"In nome di che cosa (papa Wojtyla) può chiamare gli esponenti di tutte le religioni a pregare insieme ad Assisi?", si chiese di slancio don Luigi Giussani venticinque anni fa. E rispose. "Ecco: se uno capisce che la natura dell'uomo, il cuore dell'uomo, è il senso religioso, è proprio nel senso religioso che tutti gli uomini trovano una uguaglianza e una identità. L'istanza più profonda del cuore umano è il sentimento religioso, il senso del destino da una parte e dell'utilità del presente dall'altra. Se si vuole usare un termine giusto, il senso religioso è l'unico senso veramente cattolico, che vuol dire adatto a tutti, che è di tutti".
Il senso religioso - questo nucleo originale di esigenze ed evidenze (di verità, di bellezza, di giustizia, di felicità) con cui ogni uomo è lanciato nell'impatto con il reale - è ciò che accomuna gli uomini di ogni tempo e di ogni spazio. Esso esprime la coscienza di originale dipendenza dal Mistero che fa tutte le cose. Per questo don Giussani ci ha sempre insegnato a stimare la "creatività religiosa considerando la dignità di questo sforzo dell'uomo. Ogni essere umano ha una inevitabile esigenza di cercare quale sia il senso ultimo, definitivo, assoluto del suo punto contingente. Ogni costruzione religiosa riflette il fatto che ognuno fa lo sforzo che può ed è proprio questo che tutte le realizzazioni religiose hanno in comune di valido: il tentativo. Tutto ciò che di differente hanno è il modo d'espressione, che dipende da molti fattori; ma tali varianti mai intaccano il valore detto" (Luigi Giussani, All'origine della pretesa cristiana, Milano, Rizzoli, 2001, p. 18).
Questa perseguita serietà fa anche emergere nel tempo l'ambiguità con cui l'essere umano realizza il rapporto oggettivo col proprio senso religioso. Quest'ultimo, che dovrebbe essere come la luce che illumina gli uomini nel cammino della vita, si trova - essendo il suo oggetto ancora mistero e la ragione umana ferita dal peccato - alla mercé dell'interpretazione del singolo, così che l'imponenza concreta della vita quotidiana lo fa facilmente dimenticare o ridurre. Il rischio di "eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti", è sempre in agguato, come ci ha ricordato di recente Benedetto XVI (Udienza generale, 1 giugno 2011). Come l'uomo può avere la coscienza chiara e l'energia affettiva per aderire al Mistero fintanto che questo Mistero resta mistero ignoto? Fino a quando l'oggetto è oscuro ciascuno può immaginare quel che vuole e può determinarsi nel suo rapporto con quell'oggetto secondo la propria interpretazione. Come efficacemente dice san Tommaso d'Aquino all'inizio della sua Summa Theologiae: "La verità che la ragione potrebbe raggiungere su Dio sarebbe di fatto per un piccolo numero soltanto, e dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori" (I, 1, 1).
Pensiamo all'esperienza amorosa: una persona desidera di amare ed essere amata, ma fin quando il volto della persona amata è sconosciuto che cosa fa? Quello che ritiene soggettivamente più opportuno. È soltanto quando il volto compare che introduce realmente una possibilità di calamitare l'io. Perché io so che desidero l'infinito, che questo infinito c'è perché ho sempre nostalgia di lui - come diceva Lagerkvist - ma ogni giorno afferro il particolare, vado dietro a qualunque oggetto che poi mi lascia insoddisfatto.
E questo è il destino dell'uomo, a meno che capiti quel che ipotizza Wittgenstein: "Hai bisogno di redenzione, altrimenti ti perdi (...). Occorre che entri una luce, per così dire, attraverso il soffitto, il tetto sotto cui lavoro e sopra cui non voglio salire. (...) Questo tendere all'assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena... mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che "Dio" non mi visiti" (Ludwig Wittgenstein, Movimenti di pensiero, Macerata, Quodlibet, 1999, p. 85). Per vivere all'altezza del senso religioso, da uomini veramente religiosi, e affinché ciascuno non si esaurisca nel fissare lo sguardo sulle cose terrene, occorre che "Dio" ci visiti. Come? "Ciò che occorre è un uomo, / non occorre la saggezza, / ciò che occorre è un uomo / in spirito e verità; / non un paese, non le cose, / ciò che occorre è un uomo, / un passo sicuro, e tanto salda / la mano che porge che tutti / possano afferrarla e camminare / liberi, e salvarsi" (Carlo Betocchi, "Ciò che occorre è un uomo", in Dal definitivo istante, Milano, Bur, 1999, p. 247).
Con Gesù di Nazaret, "il Mistero è diventato un fatto umano, è diventato un uomo, un uomo che si muoveva con le gambe, che mangiava con la bocca, che piangeva con gli occhi, che è morto: questo è il vero oggetto del senso religioso. Allora, scoprendo questo fatto di Cristo mi si rivela, mi si chiarisce in modo grandioso anche il senso religioso" (Luigi Giussani, L'autocoscienza del cosmo, Milano, Bur, 2000, p. 17) ci ha detto don Giussani ricordando l'incontro di Giovanni e Andrea con Lui. E il retore romano Mario Vittorino descrive esattamente in questi termini la propria conversione: "Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo" (In Epistola ad Ephesios, II, 4, 14).
Ancora don Giussani sottolinea che "Cristo è venuto nel mondo per rendere l'uomo a se stesso ed è in Lui che il senso religioso ha acquistato il suo significato puro, è diventato lucido, limpido, senza possibilità di equivoco. Per questo è nella fede cristiana che il richiamo ad ogni cuore umano trova il suo centro preciso, inconfondibile. La fede, cioè, svolge, afferma questa cattolicità del senso religioso". Con Gesù, il Figlio di Dio, il Mistero di Dio personale è diventato "presenza affettivamente attraente", al punto di accendere il desiderio umano e di sfidare come nessun altro la sua libertà, cioè la sua capacità di adesione. All'uomo basta cedere all'attrattiva vincente della Sua persona, alla Sua attrattiva, come accade all'uomo innamorato: è la presenza affascinante della persona amata che desta in lui tutta la sua energia affettiva. Basta cedere al fascino di chi si ha davanti.
Come afferma don Giussani, "una valorizzazione profonda della sostanza del cuore dell'uomo può essere fatta in modo mirabile, lucido, solo nella coscienza destata da Cristo, solo nella coscienza cristiana". Chi altri, infatti, può compiere il senso religioso se non Colui che ne è l'oggetto proprio? Ecco il punto di partenza di ogni autentico dialogo interconfessionale e interreligioso: nel Suo rapporto col Padre Gesù Cristo non attua un superamento del senso religioso - relegandolo in un "già saputo", riducendolo quasi a una premessa, sminuendolo a momento propedeutico - bensì lo fa "esplodere" in tutta la sua potenzialità. Solo un cristianesimo che conserva la sua natura originale, i suoi tratti inconfondibili di presenza storica contemporanea - la contemporaneità di Cristo - può essere all'altezza del reale bisogno dell'uomo, ed è perciò in grado di compiere il senso religioso (cfr. Dominus Iesus).
Non si tratta di un postulato da accettare, ma di una novità umana da sorprendere in atto: l'annuncio cristiano si sottopone a questa verifica, al tribunale dell'umana esperienza. Se nell'uomo che accetta di appartenere a Cristo attraverso la realtà della Chiesa accade quello che egli stesso con le sue forze non è in grado di raggiungere - un impensabile risveglio e compimento dell'umano in tutte le sue dimensioni fondamentali - allora il cristianesimo si rivelerà credibile e si renderà verificabile nella sua pretesa.
"Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto" (Luca, 6, 44): ecco il formidabile criterio di verifica che Gesù stesso ci offre. Il cambiamento generato dal rapporto con Cristo presente è tale che san Paolo non esita a esclamare: "Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" (2 Corinzi, 5, 17). La creatura nuova è l'uomo in cui il senso religioso si realizza nella sua - altrimenti impossibile - pienezza: ragione, libertà, affezione, desiderio! Questo è il contributo che il cristiano che vive veramente la sua fede può dare agli uomini veramente religiosi, testimoniando il compimento della religiosità nel riconoscimento e nell'adesione amorosa a Dio, in modo tale che possa diventare "tutto in tutto" (cfr. Efesini, 1, 23) e offrendo loro un criterio di giudizio per vagliare la propria esperienza religiosa.
Questa novità umana diventa uno sguardo veramente ecumenico, nel senso che l'antichità cristiana dava alla parola, in quanto "vibra di un impeto che lo rende capace di esaltare tutto il bene che c'è in tutto ciò che si incontra, in quanto glielo fa riconoscere partecipe di quel disegno la cui attuazione sarà compiuta nell'eternità e che in Cristo ci è stato rivelato" (Luigi Giussani - Stefano Alberto - Javier Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Milano, Rizzoli, 1998, p. 157). Per questo l'ecumenismo non si riduce, come in tanti equivoci tentativi, a una tolleranza generica che può lasciare l'altro ultimamente estraneo, ma "è un amore alla verità che è presente, fosse anche per un frammento in chiunque. Ogni volta che il cristiano incontra una realtà nuova l'abborda positivamente, perché essa ha qualche riverbero di Cristo, qualche riverbero di verità" (Ivi).
Questa è l'esperienza maturata in questi ultimi anni del quasi sessantennale cammino del movimento di Comunione e liberazione, non solo con i nostri fratelli ortodossi in Russia, i protestanti in Germania e negli Stati Uniti, gli anglicani nel Regno Unito, ma anche attraverso incontri inaspettati con amici ebrei, musulmani e buddisti. Come non citare la vicenda più che ventennale dei rapporti con i monaci del Monte Koya in Giappone, esponenti del buddismo shingon che già aveva colpito per il senso del mistero il grande missionario san Francesco Saverio? Come non essere grati della presenza nella nostra vita del professore egiziano Wael Farouq e dei suoi amici che è sfociata nell'ottobre 2010 nel grande Meeting del Cairo? Come non accogliere con gratitudine e sempre nuovo stupore la testimonianza di commovente fedeltà quotidiana all'Alleanza di tanti "fratelli maggiori" ebrei in Italia, in Israele, negli Stati Uniti, a cominciare dal professore Joseph Weiler di New York?
È una rete di rapporti in cui ciascuno aiuta l'altro a essere sempre di più se stesso, protagonista di quella pace - per cui "chi è in cammino verso Dio non può non trasmettere pace, chi costruisce pace non può non avvicinarsi a Dio" (Benedetto XVI, Angelus, 1 gennaio 2011) - di quella tensione alla bellezza, di quell'impeto di amore che diventa generatività e affermazione del Destino buono, di quel Dio che noi riconosciamo mentre si curva su di noi e ci abbraccia: Cristo.
(©L'Osservatore Romano 14 luglio 2011)

domenica 10 luglio 2011

SUDAN, GLORIA DI UNA CHIESA CROCIFISSA E MISERIE DELL’IDEOLOGIA



Da oggi il sud del Sudan è finalmente uno stato libero e indipendente (se non verrà strozzato nella culla).

Lì è stato perpetrato l’ultimo genocidio del Novecento, ma un genocidio ignorato dai media e dal “partito umanitario” nostrano. Forse perché le vittime non erano “politically correct”, trattandosi di neri cristiani e animisti.
Autore di quell’orrore è stato il regime arabo- musulmano del nord che ospitò negli anni novanta anche Osama bin Laden e che, da qualche anno, è in combutta con la Cina comunista interessata al petrolio sudanese.
I media si sono occupati del Sudan solo di recente, quando è scoppiata l’emergenza Darfur, che derivava da un conflitto non religioso (erano tutti musulmani).
Invece per la Jihad – la guerra santa islamica – che per decenni ha sterminato il Sud cristiano e animista non hanno avuto tempo.
Eppure le cifre sono terrificanti: due milioni di vittime, tre milioni di profughi, migliaia di donne e bambini catturati e venduti come schiavi nel Nord islamico del Paese.
Il regime di Karthoum ha fatto del Sudan – che sarebbe ricchissimo di petrolio e altre risorse – uno dei paesi più poveri della terra (è al 150° posto su 182), un paese dove si vive ancora in capanne di fango, seminudi e si muore come mosche per fame e malaria. Per questo molti fuggono, cercando di arrivare all’Italia e in Europa.
Siccome scrivo e parlo del genocidio sudanese da quindici anni, su giornali e in tv (prendendomi anche qualche insulto), permettetemi di togliermi un po’ di sassolini dalle scarpe.
Perché il “caso Sudan” è un’occasione preziosa per riflettere sulla famosa coscienza “umanitaria” a intermittenza che caratterizza questa sinistra che ci è toccata in sorte e i nostri media che in gran parte vengono culturalmente da lì.
Piazze urlanti
C’era una volta il Vietnam. Ricordate? E’ stato il mito fondativo della sinistra sessantottina la quale poi ha riempito giornali e tv continuando l’intossicazione ideologica con altre armi.
Quella del Vietnam è stata la madre di tutte le cause umanitarie della sinistra e conteneva tutte le sue contraddizioni e le sue ipocrisie.
Per anni manifestazioni, cortei, assemblee, articolesse, indignazione a senso unico.
Uno dei famosi inviati, Giorgio Bocca, anni dopo, confessò: “feci dei servizi che piacquero alla sinistra italiana: in parte perché raccontavo la verità sulla formidabile guerriglia vietnamita, in parte perché mi autocensuravo”.
Poi spiega: “la mitizzazione della rivolta vietnamita e la demonizzazione degli americani erano giunte a un tale livello che non era possibile raccontare una verità che avesse però il marchio di informazione Usa”.
Non c’era posto per la verità. E questa era la stampa libera e indipendente.
Finalmente i comunisti del Nord conquistarono il Sud Vietnam e iniziarono dittatura e massacri: di colpo nessuno degli indignati più si curò del Vietnam e di quello che stava capitando ai vietnamiti “liberati” dai comunisti di Ho Chi Min.
Migliaia di quei poveri vietnamiti – a cui avevamo imposto di subire la conquista comunista – fuggirono dal “paradiso marxista” su barche di fortuna. Molti annegarono, altri furono divorati dagli squali. Alcuni furono soccorsi. E cosa dicevano i compagni italiani di quei “boat people”?
Rossi di vergogna
Posso testimoniarlo in prima persona. A quel tempo frequentavo il liceo a Siena.
Collaboravo con la Caritas per organizzare l’ospitalità in Italia per quei profughi che riuscirono ad arrivare vivi e ricordo bene che distribuendo i volantini in piazza a Siena ci prendevamo gli insulti dei compagni che chiamavano quei profughi “fascisti e reazionari”.
Essendo in fuga dal comunismo, agli occhi loro quei profughi non erano da considerare come oggi consideriamo quelli che arrivano con i barconi a Lampedusa.
Questa era la coscienza umanitaria della sinistra. Che in questi mesi, peraltro, vede i profughi e ne reclama l’accoglienza, ma non vede le cause della loro fuga: per esempio quell’orrida guerra contro la Libia tanto voluta dal compagno-presidente Napolitano.
Anche in questo caso la coscienza umanitaria e pacifista dei compagni è andata in vacanza (bombardiamo pure Tripoli, il pacifismo pensa all’abbronzatura).
Errori e orrori
Torno al Vietnam. L’altro mito gemello del ‘68 fu la Cambogia. Anche quella doveva essere “liberata” dall’okkupazione americana. “I Khmer rossi ci sembravano l’unica via d’uscita dall’incubo della guerra”, scriverà anni dopo Tiziano Terzani in un famoso articolo su “Repubblica” intitolato “Pol Pot, tu non mi piaci più”.
Questo articolo di revisione uscì nel 1985 e ormai già si sapeva tutto del genocidio di due milioni di cambogiani innocenti perpetrato dai Khmer rossi.
Quello che il “grande inviato” avrebbe dovuto fare e non fece era raccontare prima, quando era sul posto, mentre accadevano i fatti, la mostruosità sanguinaria dei guerriglieri comunisti.
Ma sebbene abbia visto, non credette a quei “massacri comunisti”. Sospettò che fossero manipolazioni della Cia. E oggi viene celebrato dal pensiero conformista come un grande giornalista testimone delle atrocità del Novecento.
Chi invece, come il missionario padre Gheddo, denunciò le stragi comuniste in Indocina mentre accadevano, negli anni Settanta, si prese del “reazionario” e “finanziato dalla Cia”. “Nessuno mi credette”, ricorda. E nessuno poi gli ha riconosciuto il coraggio della verità, né ha chiesto scusa.
Nei decenni successivi la “sinistra umanitaria” ha continuato ad alimentare le sue mitologie, sebbene più in sordina. Ma sempre con un’accurata selezione ideologica.
Contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan dei primi anni Ottanta – per esempio – non fiatarono (a quel tempo scendevano in piazza per protestare contro gli euromissili americani, risposta a quelli sovietici).

Ma contro la guerra di Bush all’Afghanistan dei talebani e di Bin Laden hanno scatenato il finimondo (ovviamente senza mai chiedere il parere delle donne afghane).
Contro la Cina che massacrava gli studenti in piazza Tien an men nessuna manifestazione, né indignazione di massa. Così pure sull’oppressione del Tibet. Silenzio anche sui lager cinesi tuttora funzionanti.
Invece è divampata la polemica su Guantanamo e, da anni, la protesta contro Israele che sarebbe reo di opprimere i palestinesi.
Gli “umanitari” indignati infine hanno protestato per anni contro gli Stati Uniti rei di aver posto l’embargo a Cuba (ovviamente senza denunciare la schifosa dittatura comunista di Fidel Castro).
Perciò, con tutte queste “cause umanitarie” che permettevano loro di sentirsi buoni e puri, denunciando come oppressori Stati Uniti e Israele, gli umanitari progressisti di casa nostra non ebbero tempo di accorgersi del genocidio sudanese, cioè della “più lunga guerra del ‘900” (dal 1956 al 2005) nel paese più grande dell’Africa.
Erano tutti distratti e così in Italia nessuno sa qualcosa di quel genocidio che è stato definito dall’africanista Giampaolo Calchi Novati“la più dura operazione di islamizzazione forzata del ‘900”.
Solo la voce della Chiesa
L’unica voce, inerme e martire, come al solito, è stata quella della Chiesa, una “Chiesa crocifissa”, come l’ha definita Giovanni Paolo II.
Una Chiesa che ha il volto del grande vescovo missionario monsignor Mazzolari, che “comprende in sé una capacità di denuncia del male unita a un’indomita fantasia di bene che ha costruito scuole, ospedali, missioni, chiese, dispensari, vite future di ragazzi un tempo schiavi e poi laureatisi a Oxford”, come scrive Lorenzo Fazzini nel bel libro “Un Vangelo per l’Africa”, dedicato a Mazzolari e al Sudan.
Il cristianesimo è arrivato nei regni nubiani addirittura nel VI secolo. Poi ha portato libertà e dignità umana in Sudan, nell’Ottocento, con un grande santo, padre Comboni.
Oggi la Chiesa accompagna questo popolo alla libertà e all’indipendenza. Il cristianesimo si conferma come culla di umanità e come l’unica vera forza liberazione dei popoli. Mentre i nostri intellettuali gli riservano (oggi come ieri) parole sprezzanti…
Antonio Socci
Da “Libero”, 10 luglio 2011

venerdì 1 luglio 2011

Il cammino al vero, un'esperienza



Appunti dalla sintesi di Julián Carrón all’incontro con il Centro nazionale degli universitari di Comunione e Liberazione. Milano, 18 giugno 2011
1. IL SORGERE DELLA DOMANDA
Questa mattina ci veniva ricordato il cammino compiuto insieme in questi mesi, iniziato il 26 gennaio con «Il senso religioso, verifica della fede» e sviluppato poi in tutte le altre tappe: «La sorgente del giudizio», «L’urgenza del giudizio» e gli Esercizi della Fraternità. Avrò modo in altra occasione di tornare su questa traiettoria. Ma ora sarei curioso di sentire cosa rispondereste se io vi domandassi: in che cosa stamattina abbiamo percepito che il senso religioso è la verifica della fede? Per me, ascoltando i vostri interventi, il segno più palese davanti ai nostri occhi dell’esperienza della fede che stiamo facendo è stato il sorgere della domanda.
Penso a quello che diceva il nostro amico verso la fine dell’assemblea. Quante volte avrà ripetuto certi discorsi come cose già sapute! Invece oggi, a un certo momento, ha ammesso: «Tutto quello che ci diciamo è verissimo; infatti sono qui, non metto in discussione niente, continuo ad andare a messa, faccio tutto quello che mi viene proposto; ma se devo dire che il fatto che Cristo c’è è il punto di partenza di tutto quello che vivo nella mia giornata, è l’ipotesi con cui entro nel reale, non posso dirlo, non è così. Io lo desidero con tutto il cuore, ma non ci riesco, vedo che sono mancante in tutto e vedo che a volte anche il nostro stare assieme lo è, cioè è mancante di Cristo. Tu ci hai parlato di un cammino e la mia disponibilità a farlo c’è. Ma mi domando: come si fa questo cammino?». Dobbiamo ringraziarlo per la semplicità con cui ha posto la domanda: è un aiuto per tutti, perché ci rende consapevoli di qual è la sfida, di quanto don Giussani colga il punto della questione. Possiamo, infatti, stare insieme per anni e alla fine constatare che manca l’essenziale. Oppure penso a quello che metteva in luce un altro di voi subito dopo: «Mi sono capitati tanti fatti belli, ma non è cambiato il sentimento di me. Quando parlavi di quello che è accaduto alla Madonna, di quel “sentimento di sé profondo, misterioso: una venerazione di sé, un senso di grandezza pari soltanto al senso del suo niente”, io mi dicevo: “Ma questo sentimento di me io non ce l’ho!”. Come si fa ad averlo?».
Innanzitutto, ecco il primo punto, incominciamo a non dare le cose per scontate, iniziamo a vedere emergere la nostra esigenza e a capire che non ci basta stare insieme in un certo modo per rispondervi. Proprio questo ridestarsi del senso religioso, del nostro io, accorgerci che non ci basta ripetere un discorso o una formula, è il segno della contemporaneità di Cristo in mezzo a noi. Tale risveglio è, infatti, la cosa meno scontata che ci sia. Anzi, tante volte, noi stessi possiamo essere, pur vivendo tra noi, come appiattiti. Allora il sorprendere l’emergenza di certe domande in noi, il fatto che uno non fugga davanti a esse, oppure che incominci a non dare per scontato che un altro domandi, mostra una differenza in atto, è il segno che qualcosa nel nostro io incomincia a muoversi, a ridestarsi.
Questo è anche ciò che consente di entrare in dialogo con l’altro, come dimostra l’incontro di una di noi con una signora al mercato, riferito da un intervento stamattina. «Nel ricevere il volantino Pronti a rendere ragione della speranza che è in noi - ha detto chi è intervenuto -, una signora ha risposto di botto: “Nella mia vita non c’è nessuna speranza; da quando mio figlio è morto l’esistenza mia e di mio marito è distrutta; sto cercando, attraverso delle terapie, di superare quello che è successo, perché riesco a vivere solo quando non ci penso”. Allora la ragazza che le ha dato il volantino, che ha avuto una esperienza analoga nella sua vita, si è fermata e le ha detto: “Ma io ho incontrato persone che di fronte alla morte non hanno dovuto censurare, che possono stare coscientemente, con tutte le domande che hanno, di fronte a quello che è successo”. A questo punto, la signora ha cambiato atteggiamento: “Io ho incontrato solo persone che hanno cercato di consolarmi, dicendomi che prima o poi tutto sarebbe passato, oppure hanno cominciato ad evitarmi perché non riuscivano a starmi di fronte. Anch’io vorrei tanto fare l’esperienza di cui mi parli. Se è vero che tu hai incontrato le persone che hai descritto, dimmi: dove vi posso trovare?”. E la ragazza l’ha invitata alla tua Scuola di comunità».
Una testimonianza come questa mette in evidenza che cosa è l’io e ci fa capire perché non ogni risposta è adeguata alla domanda che siamo. Alcuni cercavano di consolarla, come se il suo fosse un problema sentimentale, altri non erano in grado di starle davanti: ma a lei non bastava la consolazione, non bastava la fuga. Che cosa è in grado di rispondere alla sua esigenza? Di fronte alla ragazza si è domandata: «Voi avete una risposta? Dove vi trovate?».
Attenzione, neanche a noi, al di là delle nostre intenzioni, serve una consolazione a buon mercato, un modo sentimentale di vivere la compagnia. Quando l’io incomincia a ridestarsi non possiamo ridurlo a nostro piacimento, come se ne fossimo i padroni. Il cuore è oggettivo e infallibile, come ci siamo detti citando don Giussani, l’esigenza che lo definisce non è manipolabile, tanto è vero che quella signora può ricevere una consolazione, ma non le basta e sente tutta l’insufficienza della risposta, come la sentiamo noi, che possiamo stare insieme, ma questo stare insieme non ci basta, neanche se diciamo che stiamo insieme per Cristo, se Cristo lì non c’è!

2. L’URGENZA DI UNA STRADA
Allora, è come se emergesse sempre di più, dall’interno della nostra esperienza, l’urgenza di trovare una strada, di avere chiaro un cammino.
«Come si fa?» - hanno chiesto i nostri amici stamattina -. È significativo che, dopo l’incontro, uno continui a domandarsi: come si fa? Vuol dire che ciò che è accaduto nell’incontro non è ancora nostro. Uno incomincia a rendersi conto che ha un desiderio di verità, di pienezza, ma non riesce ad attuarlo, vede tutta la sproporzione tra il desiderio e la riuscita. Ma proprio quando questo inizia a farsi largo in noi con la consapevolezza con cui è venuto a galla oggi, incominciamo veramente a capire di che cosa abbiamo bisogno. Di che cosa abbiamo bisogno? Abbiamo bisogno di una strada, di un cammino. Come identificare questa strada, questo cammino? Dobbiamo riandare a quello che ci è capitato. Dove si è cominciata a inoltrare una ipotesi di risposta? Nell’incontro. Nell’incontro ha incominciato ad apparire davanti ai nostri occhi una promessa, il presentimento di una strada.
Ora, come abbiamo detto agli Esercizi della Fraternità, nessun potere può evitare che l’incontro accada, ma può evitare che esso diventi strada, che esso diventi storia. Questa è la consapevolezza che dobbiamo avere dell’influsso del potere: possiamo essere qui, senza che l’incontro diventi strada, diventi storia; così, dopo anni, ci domandiamo ancora: come si fa? Non lo dico per un rimprovero, ma perché possiamo renderci sempre più consapevoli di qual è la lotta in cui siamo immersi. Dobbiamo imparare da quello che vediamo accadere in noi, senza spaventarci. Quello che sta emergendo è una grazia - è il Mistero, infatti, che ci dà questa consapevolezza - e dobbiamo usarlo per il nostro cammino, per continuare nella lotta, per collaborare a quella lotta che il Mistero stesso ha incominciato con noi nel Battesimo. Come dice don Giussani, il Signore, come vir pugnator, nel Battesimo ha incominciato una lotta con ciascuno di noi «per l’invasione della nostra esistenza». Non dobbiamo spaventarci, ma far tesoro di quello che il Signore ci dà, attraverso la lucidità che rende possibile in noi, per renderci consapevoli di quale sia il punto: il fatto che noi ci domandiamo «come si fa» ci dice che è come se noi non avessimo preso veramente e fino in fondo sul serio l’ipotesi che si è affacciata a noi nell’incontro. Si vede dal fatto che, come si diceva prima, tante volte noi entriamo nel reale senza partire da essa, anzi, questa è l’ultima cosa che ci passa per la testa. Magari prendiamo quell’ipotesi per fare certi gesti, perché ce lo propone il movimento, ma nel resto della vita, nell’affrontare tutto, l’affezione, il lavoro, lo studio, il problema del compimento, della soddisfazione, noi usiamo l’ipotesi di tutti. Per questo, dopo anni, possiamo essere qui e domandare: «Come si fa?», quasi fossimo smarriti come tutti, confusi come tutti.
La prima sfida, dunque, è cogliere la novità che si è inoltrata in noi nell’incontro. Lì è successo qualcosa, abbiamo presentito qualcosa, e dobbiamo con semplicità riandare a quel momento, a che cosa è successo in noi, per ripescare ora, nel presente, oggi, quello che con l’incontro si è inoltrato in noi e riprenderlo come ipotesi per entrare nel reale. Dobbiamo renderci più consapevoli di quello che è successo, perché è come se in quel momento non avessimo capito fino in fondo quello che era successo. Adesso incominciamo a diventare più coscienti di quale grazia ci è stata data, per quel barlume che è entrato in noi; ma perché diventi storia occorre riprendere ciò che è accaduto come «ipotesi di lavoro» - secondo l’espressione bellissima utilizzata da don Giussani -, occorre che quello che è successo diventi un’ipotesi di lavoro nel rapporto con tutto il reale.
Soltanto chi prende sul serio l’ipotesi può, a un certo momento, come diceva l’autrice della lettera citata stamattina, accorgersi che questa ipotesi non è più solo un’ipotesi. Ne rileggo un brano. «Da sempre ho negli occhi l’incapacità delle cose di soddisfarmi, fin da quando ero piccola, e da sempre mi sono accorta che posso anche impegnarmi ad essere felice, ma non ne sono capace. Di fronte a questa inconsistenza delle cose e del mio tentativo, il mio cuore però non si è mai arreso. Mi sono sempre ripetuta: “Non può essere così la vita, ci deve essere altro”. E sotto l’impeto di questo desiderio, per l’educazione ricevuta e per il mio primo incontro con il movimento, ho preso sul serio l’ipotesi che quest’altro potesse essere Gesù Cristo. Così ho iniziato ad affidarmi a “Lui”, seppure rimanesse sostanzialmente uno sconosciuto. Accogliere questa ipotesi ha scandito la mia vita fino ad ora. Ma era pur sempre un’ipotesi. All’ultima Scuola di comunità, invece, mentre una persona raccontava la sua esperienza, mi sono accorta con una chiarezza impensata che io ora non vivo più per un’ipotesi. Qualche giorno fa, come la maggior parte dei miei giorni, ero d’imbarazzo a me stessa, con il cuore ferito, mancante, da restare ammutolita. Non riuscivo a guardarmi con nessun tipo di tenerezza, non sapevo nemmeno come prendermi, come ricominciare a muovere un dito (ogni tanto sono talmente triste che non faccio nulla). Ma, in questa situazione solita, in maniera chiarissima, un volto - quello di una certa amica - ha squarciato la mia solitudine. Ho pensato: “Comunque, lei c’è”, e quasi me ne sono stupita io stessa; prima che io sia capace di portare il peso di questo mio cuore, di risolverlo, di riconvertirmi alla Sua presenza, prima che io ceda, che io chieda perdono, prima che torni a respirare, a sorridere, ad amare, prima di tutto questo, lei, con la sua vita tutta tesa a Cristo, c’è e per questo suo rapporto con Lui mi ama; solo perché Lui c’è, infatti, lei può amarsi così e amare me e io immedesimarmi nel suo sguardo e amarmi. Se prima vivevo con la tensione ad affidarmi a uno sconosciuto, adesso mi accorgo che posso immedesimarmi con quello sguardo di amore su di me. Per questo Cristo non è più un’ipotesi per me, è una presenza che mi raggiunge: in un modo misterioso, devo ammetterlo, ma c’è».

3. IL CAMMINO AL VERO È UN’ESPERIENZA
Ora, che cosa fa diventare un’ipotesi non più solo un’ipotesi? Un cammino. Occorre che io abbia fatto un’esperienza, abbia fatto un cammino, abbia verificato l’ipotesi nel rapporto con il reale. Così uno scopre che non è più soltanto un’ipotesi, ma è una certezza. Per questo la risposta alla domanda che è emersa non è una formula: come ci ha detto sempre don Giussani, il cammino al vero è un’esperienza. Capite ora perché negli ultimi mesi abbiamo insistentemente ripreso la formidabile provocazione di don Giussani: «Mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva l’opposto» (Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 20). La strada al vero, alla certezza - ci dice don Giussani -, è questa esperienza, la fede come esperienza presente: solo questo fa sì che l’ipotesi non sia più solo un’ipotesi.
La compagnia che ci facciamo non è per sostituire l’esperienza che ciascuno deve fare, ma per testimoniarcela l’un l’altro e sfidarci a farla. Ciascuno ha bisogno per sé di questa esperienza, non possiamo vivere soltanto dell’esperienza di un altro, perché sono io che devo fare l’esame di latino, sono io che devo stare davanti alla morosa, non è l’altro, non siamo noi tutti insieme. Davanti al dramma del vivere ci sono io. Per questo, la formula che abbiamo utilizzato: «Aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità, che elida la vostra fatica, che renda meccanica la vostra libertà» (L. Giussani, “Raduno nazionale maturati”, Rimini, 28-30 settembre 1982, Archivio Cl), è un gesto di carità di don Giussani verso ciascuno di noi. È come se ci dicesse: guardate che se voi pensate di cavarvela semplicemente eludendo la vostra responsabilità, non coinvolgendovi in una verifica dell’ipotesi inoltrata dall’incontro, non sarà mai vostro quello che ci diciamo. Don Giussani è così realista, è così amante del nostro destino, che non ci promette che uno possa arrivare a compiersi eludendo la propria libertà. Ci dice al contrario: se voi pensate di andare avanti senza coinvolgervi personalmente nella verifica dell’ipotesi cristiana, non soltanto in certe iniziative, ma in ogni particolare del vivere, non potrete resistere neanche qui, perché «se non sei teso a capire e se non sei teso ad amare la vita e il suo destino, allora ci lascerai» (L. Giussani, “Raduno nazionale maturati”, cit., Archivio Cl). Neanche il movimento resterà per noi interessante. Invece, chi fa una esperienza, chi compie la verifica, incomincia «a guardarsi nello specchio e sentire il proprio volto più consistente, sentire il proprio io più consistente e il proprio cammino tra la gente più consistente, non dipendente dagli sguardi altrui, ma libero, non dipendente dalle reazioni altrui, ma libero, non vittima della logica di potere altrui, ma libero».
Allora, tutto quanto ci capita nella vita è per compiere questo cammino con quella ipotesi negli occhi. Perché i fatti irrompono nella vita, e in questi tempi non sono mancati dei fatti. L’avete vissuto tante volte in questa tornata elettorale, ogni incontro vi chiamava in gioco, chiamava in gioco la vostra ragione e la vostra libertà: la vostra ragione, per non fermarvi all’apparenza, per vedere la realtà come segno che ci chiama oltre; la vostra libertà, per aderire a quell’oltre. Così uno comincia a trattare tutto diversamente, comincia a trattare le cose non «come se fossero “dei”», come richiamavo all’amico che ci raccontava la sua esperienza davanti all’esame di latino. Infatti, «se si trattano le cose come se dicessero: “Io sono tutto”», non si possiedono veramente. Quando godi di più dei fiori che ti hanno regalato? Quando dici: «I fiori sono tutto» o quando li guardi dicendo: «Non è qui, non è per questo, è più in là», quando cioè i fiori ti rimandano alla persona cara che te li ha mandati? Se noi ci fermiamo all’apparenza, identificando persone e cose con il tutto, «come se fossero “dei”», il rapporto diventa menzogna, perché non sono dei. Il Papa questa settimana ha parlato proprio di questo, degli idoli, riferendosi al profeta Elia (Benedetto XVI, Udienza generale, 15 giugno 2011). Un idolo che cos’è? È qualcosa che tu affermi come un dio quando non è dio. Tale affermazione è una menzogna, che nel tempo viene smascherata e allora la cosa rivela la sua faccia vera. E la sua faccia vera non ti può che deludere, è piena di tristezza. Il problema è «non vivere i rapporti come se fossero “dei”, come se fossero rapporti con il divino; sono rapporti con il segno, perciò non possono compiere, possono diventare strada, passaggio, segno, possono rimandare, come diceva Clemente Rebora [...]: “Non è qui, non è per questo”; tutte le cose che prendi ti dicono: “Non è qui, non è per questo, non è per questo!”» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro. 1986-1987, Bur, Milano 2010, p. 385). Non basta quindi accorgersi dell’insufficienza delle cose, perché le cose sono segno.
C’è, allora, una seconda parte della questione: tu puoi avere un possesso vero delle cose solo se quello a cui esse rimandano è diventato così presente, se è così presente ora, da renderti possibile quel modo nuovo di rapporto con esse che si chiama verginità.
La verginità - che è questo modo nuovo, vero, di trattare le cose - è l’espressione ultima della carità; non della carità come qualcosa che facciamo noi, ma della carità come qualcosa che noi riceviamo, secondo il suo vero senso: «Ti ho amato di un amore eterno e ho avuto pietà del tuo niente» (cfr. Ger 31,3). Ma se incontro uno che ha pietà del mio niente, io sono così commosso di questo che, sotto la pressione di questa commozione, investito da questa commozione, investito da questa presenza, io posso trattare tutto in un modo nuovo. Altrimenti, rimane soltanto quello che ti manca. È qui la verifica della fede, ragazzi: davanti al latino, davanti alle elezioni o davanti alla malattia - perché il treno della vita arriva sempre puntuale alla stazione -, tu fai il test di quello che prevale, vedi se quello che prevale in te è ciò che manca o è la sovrabbondanza della Sua presenza. O è l’uno o è l’altro, non si scappa. E se prevale una cosa o l’altra non lo stabiliamo noi, ma lo sorprendiamo, basta essere attenti: non possiamo, infatti, cambiare al momento una cosa con l’altra, utilizzando delle interpretazioni o dei commenti o un potere o il mettersi d’accordo. In quel momento verifico se in me la fede è un’esperienza presente oppure no, verifico cioè, come dice il Volantone di Pasqua, se Cristo mi sta accadendo ora. Non verifico quello che so o quello che ho, ma se quello che so e quello che ho è un’esperienza presente ora. E ciò si documenta in come vivo il reale, qualsiasi pezzo di esso, a partire dallo svegliarsi al mattino. Il riconoscimento della Sua presenza ora, infatti, è quello che «impedisce la nostra distrazione come uomini, […] introduce la nostra vita all’accento della felicità, sia pure intimidita e piena di una reticenza inevitabile».
Come vedete, pedagogicamente percorriamo una strada, mettiamo un punto dopo l’altro, ma nell’esperienza succede tutto in contemporanea. O ci sono tutti gli elementi dell’esperienza cristiana o io tratto le cose come “dei”, e questo inevitabilmente porta a una menzogna, a una delusione. Può succederti con il latino, può succederti con la morosa, può succederti con il lavoro, può succederti con un progetto che hai in testa, può succederti con tutto. L’alternativa è se tu ti aspetti la salvezza da quello che riesci a fare, se la salvezza è quello che tu sei in grado di fare, il tuo tentativo, o se la salvezza è quello che ti è capitato e che capita per grazia, come una cosa assolutamente inaspettata. Ecco la questione. E perché ci diciamo che occorre un cammino? Perché soltanto uno che s’impegna in un cammino può vedere accadere il miracolo nella sua vita. Solo se mi impegno nella verifica personale dell’ipotesi cristiana, io posso arrivare a dire: ma che cosa è questo che ho incontrato, che neanche la malattia lo sconfigge, neanche il male lo ferma, nessuna cosa lo vince? Chi sei Tu, che fai questo miracolo in me, che realizzi in me questo altrimenti impossibile cambiamento? La fede diventa, perciò, un’esperienza presente, che non mi posso più togliere di dosso, qualunque cosa faccia o affronti. Quante volte, invece, noi mettiamo in contrapposizione cammino e miracolo, libertà e avvenimento, libertà e grazia!

4. LA SEMPLICITÀ DEL SEGUIRE
Per vivere l’esperienza descritta basta avere la semplicità del cammino, cioè di vivere quello che ha proposto Gesù. Fare un cammino, infatti, si chiama seguire: «Chi mi segue farà questa esperienza del vivere, anche sbagliando mille volte». L’esempio di Pietro è spettacolare. Lui ha deciso di seguire, ha sbagliato tante volte, è ricaduto, ne ha dette di tutti i colori, Gesù l’ha dovuto rimproverare come nessun altro, ma alla fine: «Mi ami tu?». Qual è stato il miracolo? Cristo era entrato fin nel midollo di Pietro: «Guarda, Signore, io non so come, ma tutta la mia simpatia umana è per te, tutta la mia vibrazione umana è per te, lo sai che ti amo; è diventata a tal punto tutt’uno con me la tua presenza, che io davanti a te non posso non dire: “Ti voglio bene”, anche se fra cinque minuti posso ancora tradire». L’ha seguito e ha assistito al miracolo: un Pietro più umile, meno presuntuoso, per niente presuntuoso, provato da tutto il proprio male, ma non sconfitto. Il male in lui non ha prevalso. La sua affezione a Cristo, la sua simpatia umana per Cristo, gli aveva talmente preso le viscere, ogni fibra del suo essere, che il male fatto non aveva potuto prevalere. Per staccare la presenza di Cristo dalle fibre dell’essere di Pietro occorreva ammazzarlo; poteva sbagliare mille volte, ma per staccarlo da Lui occorreva ammazzarlo. Quello di Pietro è stato un cammino, umanissimo. E lo stesso è per noi. Allora incominciano a stare nel reale in un modo nuovo, con un possesso nuovo; altrimenti prevale il possesso di tutti, la tristezza di tutti, viviamo tutto come tutti. Che cosa supera questo? Si tratta di essere disponibili a fare una strada, proprio per non perdere il meglio.
È soltanto se noi facciamo l’esperienza di cui abbiamo parlato che Cristo può entrare in ogni fibra del nostro essere e noi possiamo vedere che la frase che abbiamo letto nel volantone non è per modo di dire: Cristo è qualcosa che sta accadendo in me, e lo vedo nel modo in cui affronto le domande più eclatanti, più sfidanti, nella libertà che ho davanti a un esame, nella capacità di guardare la morosa diversamente, in una modalità nuova di stare insieme. Sono tutti segni della novità che Cristo introduce nella nostra vita.
Allora Cristo non è più un’ipotesi, ma un’esperienza. E questo genera un soggetto unito (lo dicevate prima: «Voglio una vita che sia piena e unita»), non a pezzi. Quello che rende unito il soggetto non è trattare sempre una cosa sola, perché questo è impossibile; trattiamo tante cose diverse: rapporti, studio, famiglia, amici, ma quello che unisce tutto è un Fattore preponderante. Senza questo Fattore la vita è a pezzi, come dicevate prima, e non risolviamo la frattura perché mettiamo più ordine, cercando un equilibrio tra i diversi aspetti. C’è un punto che unisce tutto, che attira tutto a sé, che mi fa riprendere tutto: affrontare tutto dall’interno del Suo sguardo, da quel punto sorgivo che è la Sua presenza amata, unifica la vita. E così l’affezione a Cristo cresce e uno non lo può più lasciare fuori, non lo può non sentire vibrare quando sbaglia o quando è davanti a un dramma o quando è davanti a una malattia o a una circostanza avversa.
È soltanto se il Signore introduce in noi una vera libertà nel vivere tutto, se si rende così presente, se invade così totalmente la nostra vita da renderci liberi, che noi possiamo non avere vergogna di Cristo, in qualunque circostanza. Non perché diciamo la parola «Cristo» - a volte non occorre dire la parola -, ma perché, come ha detto uno di voi, non possiamo non guardare l’altro, neanche uno che tutti rifiutano per il male che ha commesso, sotto la pressione della commozione dell’amore di Cristo per noi: «Ti ho amato di un amore eterno, ho avuto pietà del tuo niente» (cfr. Ger 31,3). Soprattutto, non possiamo più guardare noi stessi, se non sotto la pressione di questa commozione. Ma ci rendiamo conto di che cosa è la vita quando riusciamo, per grazia, per l’imponenza della Sua presenza, a guardarci sotto la pressione della commozione per l’amore di Cristo? Chi non desidera questo?
Noi siamo insieme perché la sovrabbondanza della Sua presenza prevalga in noi: è questo, infatti, che ci fa essere presenti nel reale con una diversità, ci fa essere una presenza, che è tale esattamente perché ha dentro questa diversità. Quello che è più affascinante è che il Signore ci fa vivere tutte le circostanze proprio per farci fare l’esperienza di che cosa vuol dire Lui, di chi è Lui. Come Lo conosciamo? Io mi rendo conto di chi è Cristo non perché faccio riflessioni in astratto o perché leggo dei libri, ma perché faccio esperienza di Lui nella vita e tutto diventa diverso. Allo stesso modo, gli altri non hanno bisogno dei nostri discorsi, non hanno bisogno dei nostri progetti, ma hanno bisogno di sentire su di loro lo stesso sguardo che ha afferrato noi, hanno lo stesso bisogno che abbiamo noi.
Propongo, perciò, di usare come tema delle vacanze la frase che abbiamo richiamato di don Giussani: il cammino al vero è un’esperienza. Essa ci fa penetrare in quello che dicevamo prima: «Aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità»; contiene la risposta all’urgenza che è emersa oggi: «Ma come si fa?». La risposta di don Giussani è sintetica: il cammino al vero è un’esperienza (l’ipotesi deve diventare esperienza). Questa frase riassume tutto quello che abbiamo detto: ha dentro l’urgenza più volte richiamata: «Una fede che non diventa un’esperienza presente non potrà resistere»; ha dentro la provocazione di quell’«aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità, [...] la vostra libertà» (L. Giussani, “Raduno nazionale maturati”, cit., Archivio Cl); ha dentro il senso della parte finale degli Esercizi: il segno palese che stiamo facendo il cammino è la libertà; ubi fides ibi libertas («Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», suppl. a Tracce-Litterae Communionis, n. 5, 2011, Società Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2011, p. 35).
Abbiamo, dunque, abbondante carne al fuoco per le nostre vacanze e per l’estate. Come ci diciamo sempre, la vacanza, il tempo libero, è prezioso per noi; prezioso per la verifica della fede. La verifica della fede non avviene soltanto nelle elezioni o nella preparazione dell’esame. È soprattutto nel tempo libero che viene fuori che cosa abbiamo di più caro. Perciò, questo periodo di vacanze sarà per noi un’occasione stupenda. Potremo poi ritrovarci all’Equipe di settembre e dirci: ma cosa è successo? Che cosa abbiamo vissuto? Che esperienza abbiamo fatto rispetto all’ipotesi di cui abbiamo parlato?
Quello che abbiamo detto oggi è un punto sintetico per le nostre vacanze. Come vedete, non viene lasciato fuori niente. Anzi, si evidenzia sempre di più che le due lezioni degli Esercizi della Fraternità - su cui lavoreremo - vanno necessariamente tenute insieme, contemporaneamente, perché soltanto chi ha una domanda viva può rendersi conto che non è sufficiente qualsiasi risposta e perciò capire che razza di grazia è incontrare Cristo. Allora uno è contento perché Lui c’è, è lieto che ci sia Cristo, che noi non siamo da soli con il nostro niente. E proprio perché Cristo c’è, c’è un cammino, possiamo cioè rispondere in modo vero, non ipotetico soltanto, non come un’immagine che noi ci costruiamo, tra le tante che l’uomo religioso può costruire. Il cristianesimo non è una delle possibili costruzioni della religiosità umana, ma la strada tracciata dal Mistero. Per questo, nel vangelo, Gesù riassume tutto il cammino in una parola: «Seguimi». È la sequela. Una volta che Lui ha proposto la strada, l’unica vera sfida per la ragione e la libertà è seguire, per poter verificare nell’esperienza la verità della proposta. Questo è il grande vantaggio da quando il Verbo si è fatto carne: che possiamo verificare se è vero o non è vero quello che ci viene detto, e perciò raggiungere una certezza sempre più grande. Allora è una bellissima occasione quella che abbiamo davanti. Aiutiamoci a non sprecarla.