domenica 29 agosto 2010

MEETING 2010, VOGLIA DI RIPRESA -Cercando cose grandi per il bene di tutti



In un’Italia che a molti fa venire un poco di nausea, perché appare ripiegata, il Meeting ha fatto vedere migliaia di persone soprattutto giovani interrogarsi sul desiderio e sul cuore, e sulla ripresa di energia nella vita.

Rispetto a una serie di eventi, polemiche che avviliscono i cuori e la mente, l’appuntamento a Rimini è uno di quelli che rimettono in circolo un’aria nuova. Uno spettacolo, come dicono tutti coloro che passano da qui –qualunque posizione abbiano e in qualunque impegno siano presi. Uno spettacolo in una Italia che a volte fa cadere le braccia. Che sembra voler mortificare ogni slancio.

Il Meeting fa vedere per una settimana quel che in molti cercano sempre. I promotori sanno bene che questo non è merito loro. Si tratta piuttosto di una sorpresa a cui si assiste, accettando di mettere al centro una provocazione che viene dalla genialità umana e cristiana di don Giussani. La mole incredibile di incontri, che qui è avvenuta, è uno spettacolo. E, ieri sera, a una cena dietro le quinte, tra esponenti di primo piano della cosa pubblica, del mondo ebraico, del mondo musulmano con i cristiani promotori del Meeting si respirava un’aria di amicizia. Si è celebrato l’arrivo del sabato come nella fede ebraica, e si discuteva su progetti comuni. Intorno al tavolo gente di ogni tipo, alti politici e bambini. Una allegria e una compagnia fondata sul comune desiderio del cuore. Cene così, col panino sui gradini, davanti a una piadina romagnola o al Grand Hotel, qui ne sono avvenute tante, tra conferenze, mostre, letture, concerti. Come in uno spettacolo del desiderio umano di cose grandi. Questo è il contributo generale del Meeting e della sua gente all’Italia. Sì, il Meeting colpisce chi passa di qui per un motivo fondamentale. Insieme a tutti i contributi di particolare interesse nei campi della scienza, dell’arte, della politica e dell’economia che a Rimini vengono sviscerati, il generale contributo del Meeting è in questa energia di ripresa. Di cui l’Italia ha bisogno come e più del pane. Perché l’Italia, in tutta la sua prodigiosa storia di arte, cultura e creatività sociale, è segnata da tale energia di ripresa e di grandezza. Non saremmo più noi senza questi elementi. Questo è il dato politico, pubblico, direi anche morale, più importante del Meeting di questo anno. Che somma in sé, comprendendo anche tutte le inevitabili contraddizioni e limiti, i molti contributi e tentativi in campo culturale, sociale, economico qui messi a fuoco. Al Meeting la vita di tantissimi, giovani e non più giovani, trova questo punto di ripresa e di energia costruttiva. Tutto il contrario di un vago spiritualismo, di un consolatorio credersi i migliori o di un facile moralismo. L’Italia ha bisogno di gente in ripresa.
E la fede è, in questo senso, un contributo civile importante. Lo è sempre stato, molto più di quanto sterili dibattiti estivi sugli schieramenti cattolici a sostegno di questo o quel partito possono far credere. Il Meeting ha volato alto, ed è stato un grande gesto popolare. Non è solo una dimostrazione di vitalità di un movimento, ma un movimento vitale che è una risorsa per tutti. Per questo il Meeting, a differenza di altre kermesse in cui una parte celebra se stessa o convoca i propri aderenti per rinfocolarsi, si presenta secondo la natura stessa del cattolicesimo come un servizio perché ciascuno – e ciascuna parte – possa essere più autenticamente se stessa, cercando cose grandi e per il bene di tutti.
Davide Rondoni

sabato 28 agosto 2010

Desiderare Dio. Chiesa e post-modernità



di Angelo Scola
25/08/2010 - Il Patriarca di Venezia ha tenuto uno degli incontri più significativi del XXXI Meeting di Rimini. Ecco il suo intervento, dal sito Angeloscola.it
1. Desiderio di Dio e realtà
Molti di voi avranno visto Matrix, il celebre film dei due fratelli polacchi Wachowski. Il cinema è la lingua franca della nostra società. È un mezzo formidabile per indagare la verità sul mondo. Spalanca la nostra esperienza in modo assai spesso più efficace di tanti discorsi e di tanti libri.
Ad ogni modo, in Matrix viene descritto il nostro mondo di tutti i giorni, ma si fa l’ipotesi che sia solo un paravento per nascondere la realtà vera. Quale sarebbe? L’umanità sopravvissuta dopo un disastroso evento cosmico, per continuare ad esistere ha avuto bisogno di speciali macchine. E queste hanno finito per prendere il sopravvento. E chi le controlla ha preso il potere. L’umanità quindi vive nell’illusione. Gli uomini non sono più liberi. Nessuno è a conoscenza del tempo che è passato da quando il potente neurosimulatore matrix ha assegnato una data fittizia allo scorrere della storia. Solo Neo, con l’aiuto del pirata informatico Morfeo e della bella Trinity, può tentare di scoprire la verità e far ritrovare agli uomini la libertà. In cosa consiste la verità? Lo dice con chiarezza Morfeo accogliendo Neo sulla sua bislacca nave in lotta per la libertà: «Benvenuto nel mondo reale». Riflettiamo un istante su questa affermazione in cui sono presenti due elementi fondamentali.
Il primo è identificato dall’espressione mondo reale, cioè le cose come veramente sono. Quelle che i miei sensi percepiscono – questo bicchiere, il microfono, il cielo, il mare – e quelle di cui mi offrono qualche indizio perché la mia intelligenza possa riconoscerli: lo sguardo di chi ho di fronte, il sorriso dei figli, il volto dell’amata, il gusto del lavoro, la sofferenza per il male fisico, il dolore per quello morale, la paura della morte, l’angoscia annoiata del vivere senza senso… Il mondo reale appunto!
Ma l’affermazione di Morfeo contiene anche un altro decisivo fattore, concentrato nella parola composta: “Benvenuto”. È bene che tu Neo sia entrato nel mondo reale: è bene per te, ed è bene per noi! Non è forse questo il senso dei primi sorrisi di una madre al suo bambino? Sorrisi che questi impara subito a ricambiare. Cosa significano se non “è bello che tu sia venuto al mondo (reale), è bene per te, è bene per tutti”? Nessuno sfugge a questa esperienza.
Al mondo reale io mi rapporto sempre e inevitabilmente secondo quella dinamica, tipicamente umana, che possiamo identificare col termine desiderio. Non si comprende la parola desiderio, tanto meno se si parla di desiderio di Dio, se non la si concepisce come il tendere di tutto il mio io all’incontro, inevitabile ed insuperabile, con il mondo reale. Infatti, secondo la definizione semplice ma completa del vocabolario, desiderio è il “volgersi con affetto a qualcosa che non si possiede e che piace”. Vedete che, come in una calamita, sono sempre presenti due poli. La dinamica del desiderio implica sempre e inseparabilmente la cosa che non si possiede e che piace e il volgersi ad essa con affetto. Sottolineo “con affetto”, vale a dire con la mente, col cuore, con la totalità del nostro io.
E Dio che c’entra?
Ve lo dico con una citazione formidabile, tra le più potenti di tutta la storia del pensiero, che si trova in un grande libro, ancora oggi, dopo 1600 anni, il più ristampato (se si toglie la Bibbia). «Tu ci hai creati per te ed il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». Agostino usa la parola cuore per esprimere il desiderio nella sua ampiezza totale costituita dai due poli prima identificati: l’io che anela all’infinito nell’incontro con la realtà totale. Viene subito in mente la suggestiva etimologia della parola desiderio di don Giussani: de-sidera, dalle stelle.
Il termine cuore è decisivo in tutta la Sacra Scrittura e perciò in tutta la tradizione giudaica e cristiana. In particolare noi occidentali non riusciamo a prescindere dall’impiegare il termine cuore secondo tutta l’intensità che lo connota. Qual è? “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Per dire il carattere necessario, imprescindibile del cuore don Giussani scomoda una parola dura, oggi assai discussa, ma insuperabile: natura. Potremmo dire che la natura piena del desiderio è rivelata in ognuno di noi dal cuore. Il cuore quindi è ciò che ci permette di volgerci con affetto a ciò che non si possiede. Soprattutto alle cose grandi!
E cosa c’è di più grande di Dio? Quella realtà di cui non si può pensare niente di più grande? A tal punto che non si trova pace (inquietum cor) fin che non si riposa in Lui. Desiderare Dio è la grande aspirazione dell’uomo: «Il tuo volto, Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto» (Sal 26, 8-9).
Come ha affermato uno dei più grandi filosofi viventi, il tedesco Robert Spaemann: anche se in tutti i tempi qualcuno o molti pensano, teoricamente o praticamente, che Dio sia morto, perché allora la diceria di Dio è immortale? Perché non si riesce a metterla a tacere? Perché la natura del cuore, cioè il desiderio profondo di ogni uomo e di ogni donna, si porta dentro, come un quotidiano, ineliminabile rumore di fondo, questa presenza? La risposta si impone in qualche modo da sé: senza questa presenza alla fine nessuno potrebbe dirti: “Benvenuto nel mondo reale”!
Infatti, ogni uomo identifica con questo vocabolo il termine ultimo del proprio desiderio: ciò per cui vale la pena fino in fondo vivere, anche solo cinque minuti, ciò per cui la vita nel mondo reale è un bene e non un male.

2. Come riconoscere Dio che ci parla?
Fino a quindici anni fa circa si parlava dell’eclissi di Dio, giungendo anche ad affermare che la sfera religiosa sarebbe del tutto sparita dalla società. Oggi, se si eccettuano taluni tentativi di elaborare un “nuovo ateismo , giudicati dai critici come più stravaganti che oggettivamente pertinenti, siamo di fronte ad una grossa sorpresa: Dio è tornato. Anzi, osserva il sociologo Casanova, «le religioni di tutto il mondo», quelle tradizionali piuttosto che i «nuovi movimenti religiosi», «stanno facendo il loro ingresso nella sfera pubblica» e partecipano alle lotte per la ridefinizione dei confini tra sfera pubblica e privata, tra sistema e mondo vitale, tra legalità e moralità, ecc.
Quella che era la questione centrale della fine dell’epoca moderna, il binomio eclissi/ritorno di Dio assume, nella post-modernità, un’altra, forse più adeguata, formulazione (utilizziamo la parola post-modernità nel suo significato più semplice, per indicare il nuovo mondo che si sta spalancando davanti a noi dopo la caduta dei muri (1989), un mondo che presenta una forte discontinuità con il precedente, cioè con la modernità). Oggi la domanda cruciale non è più: “Esiste Dio?”, ma piuttosto: “Come aver notizia di Dio?” E quindi: “Come Dio si comunica a noi così che si possa narrare Dio, e comunicarlo in quanto Dio vivo all’uomo reale che vive nel mondo reale? Come nominare questo Dio perché l’uomo post-moderno -cioè ciascuno di noi – lo percepisca significativo e quindi conveniente?”.
Nell’ottica occidentale, influenzata radicalmente dal giudaismo e dal cristianesimo, Dio è Colui che viene nel mondo. Se viene nel mondo è distinto da esso, ma questo non esclude la possibilità che gli uomini lo colgano come familiare. Allora per parlare di Dio all’uomo post-moderno, «si deve azzardare l’ipotesi che sia Dio stesso che viene nel mondo ad abilitare l’uomo a divenirgli familiare». È necessario domandarsi prima se c’è una familiarità tra Dio e l’uomo ed interrogarsi su di essa perché Dio possa essere veramente conosciuto. Un problema di sempre, è divenuto particolarmente acuto nella post-modernità che non è interessata ai discorsi sui massimi sistemi, sulle mondovisioni, ma è sempre più presa dai problemi del vivere quotidiano. Per l’uomo di oggi la questione non è tanto se esiste Dio, ma se esiste cosa ha a che fare con me ogni giorno. Mi è familiare?
Ebbene la convinzione che Dio si è fatto conoscere e si è reso familiare perché si è compromesso con la storia degli uomini è nel Dna della mentalità occidentale.
Se le cose stanno così – e al di là di tutte le apparenze che sembrano contraddire questa affermazione, stanno veramente così – allora cerchiamo di scoprire come la presenza di Dio ci diventa quotidianamente familiare, giungendo a colmare, in modo del tutto gratuito, il desiderio in senso pieno, sciogliendo l’inquietudine di cui parlava Agostino, rinnovando per me, per te e per tutti gli uomini, in ogni circostanza ed in ogni rapporto, l’invitante saluto: “Benvenuto nel mondo reale”. In questo modo la parola desiderio acquista tutto il suo spessore, che non si lascia ridurre, come quasi sempre noi rischiamo di fare, ad una pura aspirazione soggettiva, ma vive nella sua pienezza bipolare, come il tendere con tutte le nostre forze al reale, il cui orizzonte ultimo è l’infinito e propriamente parlando Dio stesso.

3. La familiarità di Dio all’uomo
La possibilità di aver notizia di Dio e di narrare di Lui sta nell’ascolto di quanto Egli ha voluto liberamente comunicarci. E conviene dire subito che la comunicazione gratuita e piena del Dio Invisibile ha un nome proprio, è una persona vivente: Gesù Cristo, l’Interprete di Dio. Il Vangelo di Giovanni lo dice fin dall’inizio a chiare lettere: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18).
In Gesù, morto e risorto, Dio ci viene incontro in quanto Dio. Hans Urs von Balthasar ricorda che «Dio ha reso breve la sua Parola (Verbo, Figlio, l’ha abbreviata» (Is 10,23; Rm 9,28). Il Figlio stesso che è «il Logos eterno si è fatto piccolo… Si è fatto bambino, affinché diventi per noi afferrabile» . In caso contrario sarebbe stato impossibile andare al di là della conoscenza, anche questa confusa e non senza errori, della Sua esistenza.
Per dire Dio occorre, quindi, approfondire la lingua (in senso forte) della creatura che il Verbo incarnato ha voluto liberamente assumere. È necessario comprenderne, per così dire, la grammatica. Quella grammatica che è capace di narrarci il Divino.
Così, non solo il cristiano sarà in grado di confessarlo come il suo Signore e Dio, ma ogni uomo, anche colui che si dice non credente, lo potrà riconoscere. Almeno nei termini indicati da Paolo nella Lettera ai Romani , quando, parlando di Abramo, dice: «Come sta scritto: “Ti ho costituito padre di molti popoli”; (è nostro padre) davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17). Con questa stupenda espressione Dio è descritto, nello stesso tempo, come creatore ed operatore di salvezza. E l’Apostolo sa bene Chi è il Dio di cui vuol parlare. Dio è «colui che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono». Infatti, nel primo capitolo della stessa Lettera ai Romani, l’apostolo aveva ammonito che non ha alcuna scusa chi non riconosce «ciò che di Dio si può conoscere… perché Dio stesso lo ha manifestato. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo per le opere da Lui compiute» (Rm 1, 19-20). Ciò che di Dio si può conoscere, dice Paolo. Cioè: di Dio non si può conoscere tutto, ma quel che di Dio si può conoscere lo possono conoscere tutti.
La notitia Dei, cioè accogliere ed ascoltare Dio che è tra noi e comunicarLo, continua ad essere possibile ed è del tutto pertinente anche alla condizione dell’uomo post-moderno . Si tratta per questo di imparare la grammatica della lingua con cui Dio ci parla, cioè di considerare quali siano i luoghi essenziali dell’umano in cui continuamente si attua il Suo rapporto con noi. Quei luoghi che Egli ha assunto per dirsi all’uomo. Sono quelli attraverso i quali ogni uomo, se ne renda conto o meno, cerca di soddisfare la natura profonda del proprio cuore, di colmare il suo autentico desiderio. Ci limitiamo ad indicarne tre che ci sembrano fondamentali.
Riflettiamo sul desiderio non in astratto riducendolo alle nostre aspirazioni soggettive, ma lo esaminiamo nel suo concreto attuarsi nella nostra realtà quotidiana.

a) L’esperienza umana nella sua semplicità
Memento è un film del 2000 diretto da Christopher Nolan. In esso Leonard Shelby, tentando di salvare la moglie da due malviventi, rimane gravemente ferito alla testa. Tale trauma gli causa l’impossibilità di accumulare nuovi ricordi. Tutti i contenuti recenti ed immediati della sua memoria svaniscono dalla sua mente pochi minuti dopo averli accumulati. Si ricorda solo quel che gli è successo prima dell’incidente. Sa da dove viene e come affrontare la vita di ogni giorno: come mangiare, come guidare, come scrivere, ma non appena si mette al volante non sa più perché è salito in auto, quando entra in un ristorante non si ricorda perché ci è andato, se incontra una persona conosciuta da poco non riesce più a ricordare di averla già incontrata. Siccome dal momento dell’incidente, che resta anche l’ultimo ricordo fissato nella sua memoria, l’unico scopo nella sua vita è trovare e punire l’uomo che ha violentato e ucciso sua moglie, determinato e consapevole del suo problema, Leonard prende ossessivamente appunti, fino a farsene tatuaggi, e fotografa con la Polaroid tutto quello che gli può essere utile perché ormai sa che lo dimenticherà dopo pochi minuti.
Questo film mi sembra descrivere efficacemente un tratto rilevante dello stile di vita di noi uomini post-moderni. Uno stile di vita spesso confuso nel suo desiderio di soddisfare la conoscenza del mondo reale che ha il suo vertice nel desiderio di Dio. Come il Leonard di Memento noi viviamo frammentati nella miriade di informazioni, conoscenze e saperi a tal punto che quando affrontiamo un aspetto della nostra vita è come se di tutti gli altri non avessimo più memoria, quasi non esistessero. Facciamo riferimento a logiche (esperienze) autonome fra loro praticamente non comunicanti, perché non integrate in un sistema di valori onnicomprensivo. Ci comportiamo come se non avessimo un’ipotesi esistenziale che ci renda capaci di interpretare unitariamente il reale. Siamo ossessivamente attaccati ad ogni particolare, fino a tatuarcelo sul cuore. E per questo ci appoggiamo all’enorme potenza di memoria quantitativa nei nuovi media, ma a ben vedere questa non è la vera memoria, quella dell’uomo che li usa. Siamo dominati di volta in volta da una “logica etica” (in genere collocata nel piano di una coscienza che non ammette tribunali), da una “logica economica” (il più delle volte totalmente sganciata da quella del bene umano), una “logica tecnica” (in cui la sofisticazione e la complessità sono beni in sé indipendentemente dalla loro utilità), una “logica artistica” (ars gratia artis), una “logica politica” (del potere per il potere) e così via. Non possiamo ovviamente negare che, in Occidente, l’espansione di queste logiche particolari ha favorito un’enorme efficienza di tutti i processi di sviluppo. Ma ciò che è tipico della variante “post-moderna” mi pare il fatto che sia venuto a mancare qualsiasi quadro di riferimento onnicomprensivo, almeno ampiamente condiviso, nel quale le diverse logiche possano trovare contrappesi e reciproche compensazioni. Vale di fatto il contraddittorio principio: “tutto differente, tutto uguale”. Forse è soprattutto in questo senso che la “fine delle grandi narrazioni” produce un effetto diretto e immediato nei modi di vita delle persone.
Eppure anche questa pratica di vita, che diventa poi teoria, deve fare i conti con il riaffiorare nel reale dell’inaffondabile grammatica dell’umano, attraverso la quale il Dio che si è coinvolto con la storia continua instancabile a darci notizia della sua presenza tra noi.
Non a caso alla fine del film Leonard Shelby giunge ad affermare: “Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente, devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che, anche se chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci… Sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo, io non sono diverso…”.
Sì, anche tenendo conto di tutte le obiezioni possibili, derivanti dalla complessità di vita propria dell’uomo post-moderno, si deve concludere con Karol Wojtyla: «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza comune dell’uomo» , di ciascun uomo. Essa ne attesta anzitutto l’integralità e l’elementarità, cioè la sua indistruttibile semplicità. Infatti, «questa esperienza nella sua sostanziale semplicità supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità» .
Troviamo qui una significativa convergenza con la dottrina cattolica sull’uomo secondo la quale l’umana natura, pur ferita dal peccato originale, non si è mai corrotta fino a perdere i suoi tratti essenziali, né mai si potrà corrompere completamente. Dio, dopo il peccato originale, non ha “scaricato” né il mondo, né gli uomini. Al contrario, come insegna la Bibbia, ravvisando nell’arcobaleno il segno di un’alleanza imperitura di Dio nei confronti degli uomini e di tutti i viventi dopo il diluvio, ai tempi di Noè (cfr. Gen 9, 9-17), la condizione creaturale non è stata e non sarà mai distrutta per iniziativa divina, a castigo per i nostri peccati.
Perciò ad uno sguardo limpido e leale sarà sempre possibile riconoscere ed indagare i tratti tipici dell’esperienza umana che nella sua originaria semplicità costituisce la prima comunicazione di Dio ed apre la possibilità di narrare Dio al “fratello uomo”, perché tale esperienza universale identifica la nostra condizione creaturale così come Dio l’ha voluta e conservata pur nel suo indebolimento per il peccato. La permanenza di questa condizione creaturale è, di per se stessa, “testimonianza” che Dio rende a Sé stesso e, quindi, via sicura per riconoscere che Egli è nel mondo reale. Egli è il Dio con noi.
Qual è il contenuto sostanziale di questa esperienza? In cosa consiste questo primo elemento della grammatica propria della lingua con cui Dio e l’uomo si parlano?
Innanzitutto nella stessa ragione (uso qui il termine in senso generale), con la sua capacità (trascendentale) di ospitare il reale che pertanto si rivela come intelligibile : L’uomo, con la sua ragione, è capace di attingere il vero che sempre fa tutt’uno con il bene ed il bello. Ma va subito aggiunto che la ragione comprende il reale restando in connessione inscindibile con la volontà. È questa, a ben vedere, la natura del cuore. In esso si uniscono conoscenza e affettività. Mediante questa struttura comune a tutti uomini il mondo reale si offre come fonte di stupore e di meraviglia e rinvia oltre le “cose” che appaiono (differenza ontologica) aprendo la strada al riconoscimento che Dio ci parla. Si intravvede in tal modo quanto sia letteralmente vero che Dio costituisce l’implicazione ultima di ogni esperienza umana.
Questa è, dunque, l’esperienza umana integrale ed elementare colta nella sua radicalità che permette ad ogni uomo di ricominciare ogni mattina, affrontando circostanze e rapporti in modo costruttivo. Il memento, cioè la memoria, non è l’ossessivo prodotto della nuova forma di scrittura, che consiste nella pretesa di trattenere tutto attraverso l’ingigantirsi dell’archivio dei files dei computers, vivendo nel contempo, come Leonard, frantumati e dimentichi, di volta in volta, dell’uno o dell’altro aspetto essenziale della nostra esistenza. La memoria è quel legame tra passato e futuro reso possibile da un io che, spalancandosi completamente. sempre può incontrare il mondo reale se ascolta fino in fondo il suo cuore.
Questa esperienza comune ad ogni uomo – questo primo e fondamentale luogo della comunicazione e della narrazione di Dio – possiede due implicazioni di radicale importanza.
In primo luogo la coscienza che Dio non è “altrove” rispetto alla realtà, ma è “dentro” la realtà. E questo nel senso preciso che la costituisce qui ed ora, la crea facendola partecipare del Suo stesso essere: «Il mondo è stato fatto per mezzo di Lui» (Gv 1,10). Un Dio fuori dalla realtà sarebbe un puro prodotto della nostra immaginazione. Sarebbe un nome vuoto, come spesso affermano gli uomini di oggi quando, interrogati, non negano l’esistenza di Dio. Sarebbe un Quid incomunicabile, non suscettibile di essere conosciuto da tutti gli uomini.
In secondo luogo, se Dio è “dentro” la realtà, se Egli costituisce l’implicazione ultima di ogni esperienza umana, allora nessun uomo è lontano da Dio, né, lo voglia o meno, può minimamente allontanarsi da Lui. Ovviamente non perché la bestemmia non resti sempre una tragica opzione, bensì perché la negazione di Dio implicherà sempre la censura o il rifiuto della propria esperienza umana integrale ed elementare.
Su questa base di esperienza umana comune, nel descrivere l’intervento gratuito della rivelazione in Cristo, San Giovanni può dire con verità «venne fra i suoi» (Gv 1, 11).

b) Io-in-relazione
La grammatica della lingua in cui comunicano il Verbo incarnato e la creatura ha però altre articolazioni essenziali. Farò ora brevemente riferimento ad un dato che con facilità ognuno di noi si trova in qualche modo addosso, perché fa parte dell’esperienza comune ad ogni uomo. Se ben riflette egli scopre di essere uno – per questo si può dire io -, ma sempre e solo nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di persona-comunità. L’unità dell’uomo è quindi segnata da un’insopprimibile tensione drammatica – come la tensione tra i due poli di una calamita – che mette sempre in gioco la libertà del singolo in ogni suo atto. Ebbene anche attraverso questo dato antropologico essenziale Dio narra Se stesso.
Ed è per questo che nella manifestazione della corrispondenza, per grazia, tra l’esperienza umana nella sua semplicità originaria e l’avvenimento dell’auto-comunicazione salvifica del Dio Trinità in Gesù Cristo si illumina il percorso di ogni uomo.
Per ovvii motivi di tempo ho scelto di soffermarmi solo sull’ultima delle tre polarità costitutive, quella di persona-comunità, proprio perché la nostra epoca è contraddistinta da un individualismo psicologico e sociale di vasta portata. Esso rende fragili i rapporti umani, specialmente la trasmissione del significato della vita tra le generazioni. Questo non è più vissuto come un ovvio patrimonio dell’umanità.
Nel post-moderno l’individualismo prende forme inedite e più radicali. È inteso anzitutto in senso neutro, non sarebbe né buono né cattivo, è meccanica ed ossessiva attenzione al valore singolare della persona. Anche in questo caso si tratta di un processo iniziato nell’età moderna, che però ha avuto il suo culmine nell’età contemporanea grazie all’estesa possibilità di controllo delle nascite che ha prodotto quello che un celebre sociologo francese ha chiamato l’arretramento della morte . Il fatto che in Occidente l’età della morte si sia elevata di molto in breve tempo ha prodotto come effetto clamoroso, tra gli altri, il dato che il figlio sia diventato, nei fatti e nell’immaginario collettivo, fondamentalmente un individuo prodotto di una riduttiva aspirazione soggettiva (desiderio in senso restrittivo). La grave conseguenza di questo fatto è la seguente: ha gradualmente riformulato la percezione che le persone hanno di se stesse: non si sentono più anzitutto chiamate a far parte della catena delle generazioni, ma anzitutto a realizzare la propria autonomia; non si considerano più anzitutto responsabilmente inserite in un tessuto di compiti e doveri, ma piuttosto in una trama di voglie e aspirazioni (desideri puramente soggettivi), che considerano indiscutibili quanto si pretende indiscutibile il desiderio riduttivo che ha portato alla loro esistenza .
Le conseguenze combinate di tutto ciò sono particolarmente rilevanti soprattutto sul piano educativo. Da una parte, un insieme di logiche sconnesse rende impossibile la trasmissione di punti di riferimento coerenti (da accettare, discutere, migliorare, eventualmente respingere). Dall’altra, la frammentazione dei legami generazionali e tradizionali finisce per svuotare, riducendola a caricatura, la conquista moderna del concetto di “diritti dell’uomo”, mette in questione la stessa liceità delle dinamiche educative, almeno nella misura inevitabile in cui esse sono di natura limitativa e costrittiva. Come efficacemente sintetizza Yonnet, ogni atto educativo viene sempre ipotecato dal sottinteso rimprovero: «Se io sono solo un prodotto dei vostri desideri [desiderio in senso riduttivo], perché io non dovrei fare ciò che a mia volta desidero, ciò di cui ho voglia?».
Se nel post-moderno il vuoto lasciato dal crollo dagli assoluti mondani scopre e rende più evidente il vuoto dell’individualismo, sarà soprattutto su questo terreno che prenderà forma l’invocazione del ritorno di Dio: esso non potrà fiorire a partire da programmi culturali astratti, tanto meno sulla base di automatismi sociali, ma solo grazie alla paziente ricostruzione di relazioni buone (da quelle più intime e spontanee a quelle più istituzionalizzate e indirette) nelle quali imparare a vivere e a compiere il bene attraverso pratiche virtuose. Per educare non è sufficiente proclamare i valori ma è necessario far fare l’esperienza dei valori.
E questo – ecco che emerge di nuovo la testimonianza che Dio rende di Se stesso nell’esperienza dell’uomo – è possibile anche nel mondo frammentato ed esasperatamente individualista di oggi. Ancora una volta possiamo far ricorso ad un bel film per averne un’idea. Mi riferisco al divertente capolavoro Fratello, dove sei? Nei titoli viene spiegato che l’ispirazione è l’Odissea. Tre galeotti evadono alla ricerca di un grosso bottino nascosto e danno così vita ad una grande avventura on the road. Ulisse-Everett, Delmar e Pete incontrano un vecchio cieco che prevede che la loro ricerca, che non avrà come esito il milione di dollari sperato, finirà quando vedranno una mucca su un tetto. Sulla strada, simbolo del cammino della vita, scoprono i diversi tratti dell’umano, incarnati, di volta in volta, da un gruppo di fedeli che vengono battezzati in un fiume; da un nero che ha venduto l’anima al diavolo per suonare la chitarra; poi incidono una canzone su un disco rudimentale. Partecipano a una rapina con un pazzo gangster Faccia d’angelo, si fanno derubare da un venditore di bibbie. Sconvolgono una manifestazione del Ku Klux Klan. Cedono alla seduzione di tre sirene canterine. Sono coinvolti nella campagna elettorale del solito politicante disonesto in una variegata rassegna di volti e di situazioni.
Alla fine, però Ulisse ritrova l’ex moglie, Penelope (con le sei figlie), sul punto di sposarsi con un altro… Vengono ripresi dalle guardie che li hanno sempre inseguiti, stanno per essere impiccati, ma si salvano perché la valle viene sommersa dal fiume, per via di una centrale elettrica che tutto trasformerà. Ed ecco apparire la famosa mucca sul tetto. Nel frattempo erano all’oscuro dell’enorme successo del loro disco: I’m A Man of Constant Sorrow. Sì, in qualche modo va tutto a posto. E così il chiacchierone Ulisse-Clooney ha efficacemente spiegato all’America della depressione, la stupidità, il desiderio, la speranza. Si concretizzano nell’esperienza comune: una bella famiglia con qualche amico sincero, con la libertà carica di dignità e di rispetto, al di là della fragilità. Lo sbilenco Ulisse dei fratelli Coen cerca risposte. E le risposte le dà solo qualcuno, un volto presente che interloquisce con te. Qui, al di là delle mille contraddizioni, si vede bene che l’unità duale tra anima-corpo, uomo-donna e persona-società è un elemento insopprimibile della grammatica dell’umano. E che il vero nome del nostro io è io-in-relazione.
Voglio osservare che almeno un frammento di questa semplice esperienza umana resiste in ogni situazione. E a partire da esso si può sempre ritrovarla nella sua integralità e semplicità. Questo suggerisce il film Fratello dove sei? Non si potrà mai abbandonare questo linguaggio perché è quello che Dio, venuto nel mondo per essere la via alla verità e alla vita, continua ad indicarci come la lingua attraverso la quale il Creatore ci parla. Ma ogni desiderio che tesse la trama quotidiana dell’umana esperienza – il desiderio di avere la vita salva, di amare e di essere amato, di edificare la città – rinvia “più in là”, oltre il suo contenuto particolare, perché ogni circostanza ed ogni rapporto costituiscono per l’uomo che vive il reale un richiamo, sono un passo che riaccende il cor inquietum, lo tende a Dio. Del resto Omero non dice nell’Odissea: “Tutti gli uomini hanno bisogno degli dei”? Questa è la ragione per cui la Chiesa considera i desideri autentici dell’uomo validi alleati per l’annuncio di Gesù Cristo che non a caso ha promesso felicità e piena libertà (cfr. Mt 19,21; Gv 8,36b). Genialmente Gómez Dávila, forse il più grande autore di aforismi, ha scritto: «Non è la sensualità che allontana da Dio, ma l’astrazione» .

c) Domanda di salvezza e di redenzione
In terzo luogo è opportuno affrontare la questione da sempre collegata alla domanda su Dio e la Sua presenza nel mondo. Si tratta, della domanda circa la fragilità umana e soprattutto circa il male, in particolare circa il peccato, il male compiuto da me. Esso, con il suo seguito di sofferenza, di dolore e di morte ha l’inconfondibile marchio della divisione fino alla scomposizione. Il male separa e distrugge, rompe, come ha mostrato la storia del XX° secolo con le sue tragiche utopie che hanno infittito il buio dell’eclissi di Dio fino al suo grado più tenebroso .
Ma il dato da cui troppo spesso si prescinde è che l’esperienza umana della fragilità, della sofferenza e del male è sempre attraversata – e non può non esserlo – dalla domanda di salvezza e di redenzione. Non importa la modalità con cui questa redenzione venga immaginata o descritta. Taluni, con erronea ingenuità, continuano a concepirla come frutto delle proprie forze, come autosoteria in senso prometeico. Altri, ascoltando le sirene di certe vulgate dell’estremo Oriente, la identificano con la “fuga dalla realtà”. Né mancano coloro che tentano di convincerci che “si vive e basta”, che in verità il problema della salvezza e della redenzione non esiste. Eppure, il loro desiderio si ripropone sempre.
Forse la domanda di salvezza e di redenzione è il luogo dove si identifica in modo più evidente il suo essere frutto di un dono, la sua gratuità. Per questo, risulta decisivo riconoscere la possibilità del perdono e della misericordia, unica sorgente dell’unità della persona e dell’unità tra le persone.
Il luogo per eccellenza della manifestazione della salvezza e della redenzione è il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con Dio. La nuova Alleanza, nel sangue di Gesù, riconferma l’Alleanza di Dio con i patriarchi, con Mosè, e la porta a definitivo compimento. Dall’interno di questo infinito gesto di misericordia, di cui il Nuovo Testamento è la documentazione e l’annuncio, parlano. Precisi sono i segni che li rendono presenti: dal Crocifisso fino all’azione del memoriale eucaristico (e degli altri sacramenti) e ai gesti di testimonianza vissuta nei diversi ambiti dell’umana esistenza. Nel perdono efficace dei peccati degli uomini si può ritrovare l’unità perduta a cui tutti, in vario modo anelano, come vediamo nelle multiformi espressioni culturali ed artistiche di ogni civiltà. Guardare Cristo, guardare il Crocifisso glorioso è l’invito conveniente da riproporre a noi stessi e ad ogni nostro fratello uomo.
Anche chi non vive la fede in Cristo si porta dentro questo desiderio indistruttibile di salvezza e di redenzione. Anch’esso è parte della grammatica della lingua in cui Dio e l’uomo comunicano. L’esperienza della misericordia piena, il Crocifisso glorioso, costituisce, per così dire, il vertice dell’esperienza che ogni uomo può fare. Infatti, proprio in forza dell’essere perdonato l’uomo non si vede costretto all’autogiustificazione attraverso la negazione del male compiuto: il male è tale e nulla può giustificarlo. Eppure, il peccato, la cui potenza distruttiva non sfugge a nessuno, non è più l’ultima parola sull’uomo se lo si riconosce e se ne domanda il perdono. L’uomo non è ultimamente definito dall’evidenzadisperante del suo male, ma dal suo desiderio di salvezza.
Questo implica la sconfitta di ogni tentazione utopica e totalitaria. Innanzitutto perché ci aiuta a comprendere che non si dà il male assoluto: ogni giudizio definitivo viene lasciato all’unico Giudice della storia, il Crocifisso Risorto. E poi perché permette di cogliere che la redenzione è sempre un dono, mai l’esito della presunzione da parte dell’uomo di costruire sistemi così perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono.

4. La via della testimonianza
Il percorso compiuto ha voluto delineare le condizioni per il re-incontro tra la domanda religiosa post-moderna e Dio, che alla fine è il Dio di Gesù Cristo. Di tali condizioni sono decisivi tanto i contenuti, quanto il metodo.
Di contenuti, purtroppo sinteticamente presentati, ne abbiamo individuati tre:
1. l’uomo (ragione-libertà) è capace di conoscere e accogliere la verità perché il reale è intelligibile e noi possiamo ospitarlo. In ogni atto umano possiamo costatare e toccare con mano il desiderio del bene, del vero, dell’uno e del bello, desiderio che muove la libertà. Questa nella sua semplicità è l’esperienza umana integrale ed elementare comune a tutti gli uomini;
2. la natura del soggetto è relazionale: l’io-in-relazione è il soggetto umano in senso pieno; perché l’io nella sua insopprimibile unità è sempre unito di due: anima-corpo, uomo-donna, persona-comunità.
3. l’unità dell’io, fragile per natura e minata alla radice dall’esperienza del male, grida il bisogno di salvezza e di redenzione, a cui risponde pienamente il perdono che, per misericordia, ricostituisce l’unità dell’io con Dio, con se stesso e con gli altri.
Queste tre condizioni dell’umana esistenza ci aiutano a guardare la Persona del Verbo incarnato come Persona salvifica e redentrice. Egli ci conduce al Padre, Padre Suo e Padre nostro, affinché il nostro cuore di creature passi progressivamente dall’inquietudine al riposo compiuto del cielo che già si anticipa quaggiù. Questa è la ragione della venuta di Dio nel mondo. Perciò essa giustifica l’interesse per la persona storica di Gesù Cristo agli occhi dell’uomo contemporaneo. Seguendolo si impara quella ginnastica del desiderio (Agostino) che conduce a Dio. Perché? Perché in Gesù Cristo il desiderio integrale dell’uomo, cioè il suo cuore, incontra piena soddisfazione. Emerge così l’interesse per l’uomo nuovo – senza il quale l’interesse per Cristo resta nominale – e, nello stesso tempo, si evidenzia l’interesse per Cristo, senza il quale l’interesse per l’uomo resta ultimamente vuoto. La questione dell’interesse per, che riprende il tema della con-venientia di Tommaso, è sempre più pedagogicamente attuale ma, a mio giudizio, è sempre meno proposta, per cui si rischia di non vederne né la preziosità, né l’impegno che richiede alla fede.
Nel nostro percorso abbiamo però anche seguito un metodo su cui ora intendo dire un’ultima parola. Domandiamoci qual è il metodo inaugurato dal Dio che si è reso a noi familiare e ci parla lasciandosi dire nella lingua umana? Si chiama Gesù Cristo, testimone degno di fede (cfr. Ap 1,5), Colui che ci ha amati per primo e ci ama in ogni istante come se fosse l’ultimo.
Se Cristo è venuto per rendere testimonianza alla verità, all’uomo tocca dar testimonianza a Lui e di Lui, Verità vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di «incanalare Cristo, quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima» . Invece la «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare» . Continua a tener desto per il nostro bene l’Inquietum cor.
Per questo l’in-contro con il fratello uomo non potrà mai evitare il contro, vale a dire l’urto di una originalità irriducibile ad ogni tentativo di addomesticare la presenza reale di Dio nella famiglia umana e nella sua storia. Della compagnia di Dio nessuno dovrà avere timore. Soprattutto se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia ed attingendo al metodo testimoniale di Gesù, sapranno fare della loro differenza specifica la via di una proposta umile e tenace. Incontreranno in tal modo l’insopprimibile desiderio di Dio che si manifesta, magari in modo confuso e contraddittorio, nel linguaggio antropologico di cui abbiamo portato tre esempi e che ogni creatura non può, in ogni circostanza ed in ogni rapporto, non continuare a parlare. Il desiderio di Dio, infatti, è come la fenice. Rinasce sempre dalle proprie ceneri.
Lo rivelano le parole finali con cui la protagonista del film Il Concerto (di Radu Mihailenau, 2009) confessa la propria sofferta, ma indomabile ricerca del volto dei suoi genitori naturali che le era sempre stato tenuto nascosto. Il racconto coinvolge profondamente, come solo la passione per il destino umano sa fare, in una prospettiva di rinascita e redenzione che soltanto l’apertura all’infinito (qui potentemente evocata dalla bellezza della musica) riesce ad esaltare. Anne Marie Jacquet, divenuta ormai una violinista di fama mondiale, afferma: “Cerco lo sguardo dei miei genitori da quando ero bambina, per strada, ovunque. Quando suono vorrei sentirmi addosso il loro sguardo, per un istante, solo un istante”. Perché ho fatto ricorso a questa citazione? Per dire che il desiderio di Dio, che non è pura aspirazione soggettiva a un Dio astrattamente inteso, ma si esprime sempre in concreto nei suoi due poli – incontro tra tutto l’io con tutto il reale a cui tende -, attraverso il linguaggio dell’esperienza comune, dell’io-in-relazione e del bisogno di salvezza e redenzione, è sempre riscontrabile, almeno in suo frammento, in ogni persona. Nessuno può parlare altra lingua che questa. E questa è l’elementare forma del desiderio Dio nel quotidiano. Abita da sempre e per sempre il cuore dell’uomo. Nel caso della protagonista del Concerto si esprime nell’insopprimibile, dolorosa ricerca della figliolanza-paternità. Il dono della fede in Gesù Cristo conferma il desiderio naturale di Dio, nel momento stesso in cui, per pura grazia, trova la via maestra al suo compimento.

Questa fede ci viene donata nella Chiesa. Volutamente il nostro titolo parla di Chiesa e post-modernità, e non di “cristianesimo”. Vuole richiamare ad una dimensione più concreta e storica.
La Chiesa viva è sempre santa al di là dei peccati, talora terribili, del suo personale, come lo chiamava Maritain. La Chiesa come soggetto cristiano personale e comunitario. Quella che, per dirla con Guardini, avviene nelle anime (persone). Ed è santa perché nasce permanentemente dal dono della redenzione: santa perché redenta. Questo soggetto può proporre – senza pretese egemoniche, lo ripeto -, anche in una società plurale e complessa come la nostra, l’avvenimento di Cristo in tutte le sue implicazioni – necessarie e contingenti, certe ed opinabili – antropologiche, sociali e cosmologiche. Cristo è dentro, è il Dio incarnato nel nostro quotidiano. E, a partire da queste implicazioni – ne abbiamo descritte tre di natura antropologica – ogni uomo può, in grazia e libertà, giungere fino al riconoscimento esplicito di Gesù Cristo, via alla verità e alla vita (Agostino).
Questo però domanda testimoni. La grammatica del narrare Dio può essere solo testimoniale. Chiede qui ed ora un cambiamento radicale di mentalità nella pratica e nella concezione della vita, secondo la geniale intuizione di Massimo il Confessore: «Io penso che abbia l’intelletto di Cristo chi pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte le cose». Amare Dio, ma in ogni cosa e sopra ogni cosa: questo è il punto. Perché tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio (1Cor 3, 22).
Diventa allora necessario liberare la categoria di testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime riducendola, per lo più, alla coerenza di un soggetto ultimamente autoreferenziale. La testimonianza brilla, invece, in tutta la sua integrità, come metodo, cioè pratica di conoscenza e di comunicazione della verità. Così intesa essa rappresenta il terreno base da cui fiorisce ogni altra forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filosofica, teologica, artistica, ecc.
In concreto per il cristiano la testimonianza consiste nell’obiettiva sequela di Gesù, carica del coraggio di riconoscerLo di fronte al mondo, come fece Lui stesso chiamato a giudizio da Pilato. Così fecero il vecchio Simeone, Giovanni il Battista, gli Apostoli e, soprattutto, come fece Sua Madre custodendo «ogni cosa nel suo cuore» (cfr. Lc 2, 51) e accogliendoLo, pietà elargita a tutto il genere umano, cadavere tra le sue braccia per poi salutarLo risorto.

Solo la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo invita efficacemente alla decisione. Si diventa testimoni – ha ricordato efficacemente Benedetto XVI – quando «attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica»; nella testimonianza «la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale»; in essa «Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo» .

La Chiesa, in modo diretto o indiretto, diventa condizione indispensabile per desiderare Dio, perché Essa è il luogo umano, il popolo che rende possibile la testimonianza come esperienza quotidiana. «Vieni e vedi». Che cosa? L’uomo nuovo: l’io-in-relazione, non un io ridotto al puro esperimento di se stesso. Come lo imparo? Anzitutto attraverso l’Eucaristia e la liturgia, luogo primario dell’amore familiare di Dio, esperienza di un sàpere, gusto, che diventa sapere. Luogo in cui è permanentemente generato il popolo nuovo, il popolo del Signore in cui ognuno è chiamato a dire non son più io che vivo (gratuità), perché ormai ho gli stessi sentimenti di Cristo (il pensiero di Cristo).
La Chiesa che ogni mattina, con il semplice segno di croce, mi ripete il saluto carico di speranza: “Benvenuto nel mondo reale!”. Questa Chiesa che ci permette la più esaltante delle esperienze umane: desiderare Dio. Questa esperienza non si può fare in solitaria come un’avventura estrema sull’impervia parete rocciosa della vita o solcando l’oceano periglioso dell’esistenza. Né si può farla in pienezza vivendo comunità che restano di fatto riferite solo a se stesse. Questa esperienza si fa solo e sempre in solidale compagnia con il “nostro fratello uomo” (Karl Barth) che, nei mille modi dell’esistenza, viene al nostro incontro. Qui si vede chi è il testimone. Colui che, condividendo di persona anche l’ultimo frammento del desiderio che permane sempre in ogni uomo, ridesta nel suo cuore la nostalgia del desiderio di Dio, cioè del compimento della propria felicità. Questa nostalgia ha un nome semplice e luminoso. Si chiama santità.
Da http://angeloscola.it

giovedì 26 agosto 2010

MEETING/ Stefano Alberto: il cuore si identifica con la ragione, ci fa conoscere la realtà - Il tema dell'edizione 2010



Cos’è il cuore e cos’è questo leopardiano “misterio eterno dell’esser nostro”? Quali riduzioni subisce di continuo? Quale risposta può avere il suo “desiderio di abbracciare le infinite possibilità del reale”, come grida il Miguel Mañara di Oscar Milosz? Il compito di spiegare il titolo del Meeting di quest’anno spetta a don Stefano Alberto, docente di Introduzione alla teologia all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, che si è messo per strada con due grandi compagni di viaggio: Giacomo Leopardi e monsignor Luigi Giussani. Senza trascurare, comunque, l’incontro con altri prestigiosi viandanti: da Claudel a Camus, da Nietzsche a Pavese. Anche se era chiaro che quello che teneva per mano tutti, nel senso che ne illuminava le parole e ne approfondiva le ragioni, era monsignor Giussani, ampiamente citato lungo tutta la lectio.
Introdotto dallo storico dell’arte Marco Bona Castelletti, don Alberto ha parlato per un’ora, in un auditorium gremito, al pari dell’ampio spazio antistante il salone. Il suo intervento è stato trasmesso dal maxi schermo della Hall Sud e da altri impianti sparsi per la Fiera; la vita del Meeting ha subito un improvviso rallentamento. A don Giussani appartiene la definizione del “cuore” come quel complesso di evidenze ed esigenze originali (di felicità, verità, bellezza, bontà, giustizia) con cui l’uomo è lanciato dalla natura nell’universale paragone con se stesso, con gli altri e con le cose. Un cuore che, nell’incontro con la realtà, si scopre insoddisfatto, domanda l’impossibile. Come il Caligola di Camus, che chiede la luna, o comunque “qualcosa che non sia di questo mondo”. Una natura insoddisfatta che nasce da una sete inestinguibile.
Il Leopardi dei Pensieri scopre «il maggior segno di grandezza e di nobiltà» dell’uomo proprio nel «trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo». Intuizione che il poeta ripropone in Sopra il ritratto di una bella donna: le circostanze destano desideri infiniti ma basta «un discorde accento» perché tutto venga meno. Un “misterio eterno” che non può essere liquidato come «confusa velleità di un adolescente» (Sapegno docet), come domande giovanili che poi i filosofi allontanano da sé come assurde. Anzi. La pianista russa Marija Judina, grande “ospite” di questo Meeting, sosteneva il contrario: «La grandezza dell’uomo non sta principalmente nelle sue doti bensì nell’impulso ad osare, nel suo cuore che ha sete di infinito».
Questo impulso, questa tensione all’infinito, come già asserito da Leopardi, non regge però ai limiti e alla contraddittorietà delle realizzazioni storiche per cui, non arrivando la risposta che ciascuno tende ad immaginare, «si finisce – ha affermato don Alberto – per ridurre o svuotare di senso le domande ultime costitutive del mio umano». La “saggezza”, allora, diventa quella delle colonne d’Ercole dell’Ulisse dantesco: bisogna restare entro la misura stabilita dall’individuo o dalla mentalità che lo circonda.
Nella confusione odierna, in cui si nega ogni elemento spirituale e si riduce il desiderio ad istinto, è ancora Leopardi, con Il pensiero dominante, a mettere al centro il cuore, che se ne sta, gigantesco, conficcato dentro l’uomo «siccome torre in solitario campo». Nel suo capolavoro, Il senso religioso, Giussani spiega che il cuore non è un’astrazione filosofica, una creatura dell’alienazione umana: è un dato, un criterio di giudizio posto dentro di noi per sapere che cosa mi corrisponde della realtà. È chiaro che il cuore di don Giussani, e del Meeting, non ha nulla a che vedere con certe riduzioni sentimentali che lo contrappongono alla ragione. «Si può affermare – ha chiarito don Stefano – che per Giussani cuore si identifica con ragione, che è coscienza della realtà nella totalità dei suoi fattori».
Ma allora, perché chiamarlo cuore? Risponde don Giussani: «Perché il cuore è il luogo dell’affectus, ma l’affectus non è antitetico a ragione, è l’aspetto ultimo della ragione». Per cui «il cuore è la sede delle evidenze ed esigenze originali che proiettano l’individuo sulla realtà, cercando di registrare come essa è». «La ragione - incalza il fondatore di Cl - coglie la realtà sostenuta dall’affettività propria di un giudizio di corrispondenza tra la realtà e il cuore, le esigenze del cuore». Don Alberto, poi, ha chiarito cosa voglia dire fare esperienza, spiegando che è cosa diversa dal semplice provare: «Ciò che si prova diventa esperienza quando è giudicato dai criteri del cuore: se è veramente vero, veramente bello, veramente buono, veramente felice».
Il docente della Cattolica non si è fermato alla definizione del cuore. Sempre in compagnia dei suoi due amici, è andato oltre, raccontando l’esempio del bambino che aveva smontato una sveglia e alla fine aveva tutti i pezzi dell’orologio ma non era più capace di rimetterli insieme, perché l’idea della sveglia non era un altro pezzetto ma un’altra cosa. Spiega Giussani: «Senza il riconoscimento del Mistero come fattore della realtà non c’è esperienza. Il reale ci sollecita a ricercare qualcosa d’altro che è il significato ultimo di ciò che appare. È la dinamica del segno. Bloccare questa dinamica all’apparenza sarebbe soffocare irragionevolmente l’impeto originale con cui il cuore, provocato, si protende sul reale».
Leopardi, secondo Giussani, non era andato molto lontano dal capire questo. In Alla sua donna parla di una “Cara beltà”, sempre desiderata e mai raggiunta ma non per questo inesistente, forse viva in altri mondi. Una beltà alla quale far giungere il suo inno di “ignoto amante”. Per Giussani, «Gesù era profetizzato dal genio di Leopardi milleottocento anni dopo la sua esistenza». Quel Gesù nel quale tutte le esigenze elementari del cuore si sono fatte carne.

«Gesù Cristo – è ancora il pensiero di don Giussani ad emergere – si rivela come una presenza che corrisponde in modo eccezionale ai desideri più naturali del cuore e della ragione umani. Davanti al suo ‘vieni e seguimi’, pescatori, mafiosi, prostitute, sapienti, politici sono chiamati a decidere se aderire al vero più che alla propria idea o al proprio tornaconto».
Ma c’è una condizione indispensabile per rispondere a Cristo: prendere coscienza di se stessi e delle proprie esigenze. Altrimenti Cristo diviene un puro nome. «Realisticamente – ha detto don Alberto – senza l’aiuto di Cristo l’uomo non riesce a vivere a lungo senza farsi del male». Una fragilità di cui il potere approfitta per ridurre l’ampiezza infinita dei desideri dell’uomo e illuderlo che possa trovare soddisfazione in risposte parziali. «Mentre l’attrattiva che tutte le circostanze hanno – scrive don Giussani – è qualcosa di provvisorio che rimanda all’attrattiva definitiva ed ultima della grande Presenza».
Questa contemporaneità di Cristo, che da battezzati i cristiani vivono nella Chiesa, è la condizione per la rinascita dell’io, per la trasformazione dei normali connotati dell’esistenza umana: l’amore, l’amicizia, il lavoro, la politica. Dice Benedetto XVI che «il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa chiave di giudizio e di trasformazione». Don Alberto conclude con una lettera di Andrea Aziani, un suo caro amico, missionario laico di Cl, morto due anni fa. «Occorre che qualcuno si innamori di ciò che ha innamorato noi – scrive fra l’altro Aziani, e la voce di don Alberto si incrina – ma per questo noi dobbiamo bruciare, letteralmente ardere di passione per l’uomo, perché Cristo lo raggiunga».
ilsussidiario.net

MEETING/ Stefano Alberto: il cuore è infallibile



Lezione di don Stefano Alberto dedicata al tema del Meeting, «Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore».1. “Siate realisti, domandate l’impossibile”(…) “..Io non sono folle - dice il Caligola di Camus nel suo dialogo col fido Elicone - e non sono mai stato così ragionevole come ora, semplicemente mi sono sentito all’improvviso un bisogno d’impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti….Ora so. Questo mondo così come è fatto non è sopportabile. Ho dunque bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità, insomma di qualche cosa che sia forse insensato, ma che non sia di questo mondo”. Camus stesso riprende l’apparente paradosso nell’affermazione, cara al ’68 francese: “Soyez réalistes, demandez l’impossible”. Di quale realismo stiamo parlando? Non è piuttosto un’utopia, addirittura una pazzia?
Ecco la risposta di Giussani, proprio nel commento al passo appena citato di “Caligola”: “Non è realistico che l’uomo viva senza agognare l’impossibile, senza questa apertura all’impossibile, senza nesso con l’oltre: qualsiasi confine raggiunga”. In questo senso “l’impossibile” indica l’infinito e l’insoddisfazione insaziabile di Caligola esprime la tensione a questo infinito.

2. “Misterio eterno dell’esser nostro”
Tale insaziabilità, l’inesauribilità dei desideri e delle domande ultime dell’uomo esaltano la contraddizione fra l’impeto delle esigenze e il limite della misura umana nella ricerca. E’ la drammatica consapevolezza espressa da Giacomo Leopardi in uno dei suoi Pensieri: “Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana”. Il sentimento di questa sproporzione è per Leopardi il contenuto di quella che egli chiama ‘la sublimità del sentire’.
“La circostanza - nota Giussani - crea l’input, dà l’input per il grande sentimento, la stessa circostanza porta l’impossibilità a proseguirlo per la delusione che incute. Questa è la situazione che interessa Leopardi, che lui ha colto in se stesso”.

3. L’impossibilità moderna: “Non avanzeremo di un passo di là da noi stessi”
Nel dramma di questo contrasto insanabile tra l’aspirazione ideale, la grandezza del proprio desiderio e la contraddittorietà delle realizzazioni storiche, l’uomo tende a cedere, per stanchezza e fragilità, per l’impazienza dell’attesa di una risposta compiuta o per la presunzione di essere lui stesso a darsela. Perché non riconosco la possibilità della risposta, tendo a ridurre o a svuotare di senso le domande ultime costitutive del mio umano. Dapprima è una disarticolazione tra la vita e suo Destino, poi una separazione, infine una disperata negazione. La “saggezza” sta nel rimanere entro la propria misura: il non andare oltre se stessi diventa condizione necessaria per vivere.
L’uomo che si rinchiude nei propri limiti finisce, orgoglioso o disperato, a coltivare questa illusione di autonomia, questa pretesa di autosufficienza in cui nulla è più veramente atteso: “Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà…La lentezza dell’ora è spietata, per chi non aspetta più nulla” (C. Pavese, Lo steddazzu 1936).
È chiaro che negare la possibilità che la vita sia movimento, impeto verso un compimento oltre se stessi, pone radicalmente in crisi la nozione di natura umana. La separazione tra Destino e vita, alla base del dualismo conoscitivo su cui tanto si è soffermato in questi ultimi tempi Julián Carrón (separazione tra sapere e credere) si riverbera nella crisi stessa del concetto di natura umana. Robert Spaemann ha evidenziato la “situazione di stallo” attuale a cui porta il dualismo di ermeneutica e scientismo rispetto alla questione di cos’è l’uomo.
Il filosofo tedesco individua due estremi possibili, l’uno nella posizione di Sartre, l’altro in quella del biologo molecolare Dawkins. Da un lato, Sartre concepisce l’uomo come assoluta libertà priva di essenza e di essere: non c’è più natura come dato originale, essa è il prodotto, per così dire dello sguardo dell’uomo su di sé, senza possibilità di legami, anzi ribellione allo sguardo dell’altro (“l’inferno sono gli altri”).
All’altro estremo l’uomo è ridotto deterministicamente ai suoi antecedenti biologici e genetici e considerato solo come urgenza di conservare e diffondere i suoi geni egoisti. “Sto considerando - scrive Dawkins - una madre come una macchina programmata a fare qualcosa in suo potere per propagare copie dei geni che porta dentro di sé”, giacché “noi siamo macchine da sopravvivenza - robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste nate sotto il nome di geni”.

4. Il cuore infallibile
Il cuore: Giussani rilegge come nessun pensatore contemporaneo in modo nuovo e geniale questa nozione biblica, che tradizionalmente indica la sede dell’impeto originale della persona, in una concezione potentemente unitaria che, salvando la centralità del soggetto come criterio del giudizio, così cara alla sensibilità moderna e contemporanea, mette in luce l’oggettività, il dato strutturale di queste esigenze ed evidenze. E’ un dato primordiale, “esperienza elementare” che costituisce il volto dell’uomo nel suo raffronto con tutta la realtà.
Essa dunque è il criterio di giudizio che è dentro di noi, ma che non decidiamo noi. Io ho dentro di me il criterio per sapere che cosa veramente mi corrisponde della realtà. In che cosa consiste, dunque, questo cuore o “esperienza elementare”? E’ “un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste. La natura lancia l’uomo nell’universale paragone con se stesso, con gli altri, con le cose, dotandolo - come strumento di tale universale confronto - di un complesso di evidenze ed esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che l’uomo dice o fa da esse dipende…”.
Qui sono poste le radici per il superamento di quell’esasperato soggettivismo, di quella affermazione di sé all’infinito (anarchia) che rappresenta la tentazione più affascinante, “ma è tanto affascinante quanto menzognera. E la forza di tale menzogna sta appunto nel suo fascino, che induce a dimenticare che l’uomo prima non c’era e poi muore… E’ molto più grande e vero amare l’infinito, cioè abbracciare la realtà e l’essere, piuttosto che affermare se stessi di fronte a qualsiasi realtà… Perché in verità l’uomo afferma veramente se stesso solo accettando il reale, tanto è vero che l’uomo comincia ad affermare stesso accettando di esistere: accettando cioè una realtà che non si è data da sé”.
Non mi sono dato da me, sono fatto; è questa la prima evidenza che si ridesta nell’impatto con il reale (cfr. cap. X del Senso religioso). E’ nell’impatto con il reale che il cuore, questa complessa e pur semplice esperienza, è messo in moto, immediatamente. Esso emerge come “imponenza dei criteri con cui la ragione giudica se stessa (auto-coscienza)”, come “i principi a cui essa si affida per essere e per esistere. In ogni singola esperienza, nella rilevazione dei criteri che giudicano l’esperienza stessa e con cui dall’esperienza si può giudicare il mondo, questa emergenza dei criteri ultimi per la ragione è immediatamente sensibile, è immediata, è automatica”.
Si può affermare che per Giussani cuore si identifica con ragione, che è coscienza della realtà nella totalità dei suoi fattori, nel suo senso pieno. E’ intelligenza, conoscenza affettiva, è la luce dell’intelligenza che viene colpita, affecta. La ragione si attua quando è colpita, non quando si impone. “Perché chiamarlo cuore invece di ragione? Perché il cuore è il luogo dell’affectus, ma l’affectus non è antitetico a ragione, è l’aspetto ultimo della ragione, della dinamica ragionevole. Per cui il cuore è la sede di quelle evidenze e esigenze originali che proiettano l’individuo sulla realtà…. cercando di registrare come essa è - rendersi conto, l’autocoscienza - secondo la totalità dei suoi fattori… La ragione coglie la realtà sostenuta dall’affettività propria di un giudizio di corrispondenza tra la realtà e il cuore, le esigenze del cuore …Poi entra in gioco la spada della libertà, che può accettare questo (e l’accettazione è amore, afferma l’essere, dice tu), o non accettare (questa è menzogna, perché la logica di questo non accettare è il niente)”.
Il contenuto dell’esperienza è la realtà, ma l’esperienza non è, come normalmente tutti ritengono, il semplice provare qualcosa. Ciò che si prova diventa esperienza quando è giudicato dai criteri del cuore: se è veramente vero, se è veramente bello, se è veramente buono, se è veramente felice…
”Ogni esperienza implica l’esperienza elementare, cioè ogni esperienza è giudicata da qualcosa che c’è in essa e che si chiama esperienza elementare. È la percezione inevitabile di ciò che l’uomo in tutte le cose cerca: per la soddisfazione di sé (satisfacere): per essere completo”.
L’uomo è educato dall’esperienza, non da ciò che prova. I criteri del cuore, come criteri, sono infallibili. Sono infallibili come criteri, non come giudizi, ci può essere una infallibilità applicata male, o non applicata affatto, addirittura contraddetta, come tante volte ciascuno di noi sperimenta. Ma in ogni circostanza della vita, in ogni momento la realtà fa balzare fuori i criteri del cuore, l’esigenza ultima di essere veramente se stessi. Basta un istante, una delicatissima, ultima possibilità.

Facciamo un passo ulteriore. Abbiamo detto che la ragione, coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori, rigenera continuamente e utilizza come criterio ultimo che giudica il rapporto tra l’uomo e la realtà che sta sperimentando, principi che sono dentro di lui, il suo cuore.
Domandiamoci: è proprio vero che questo è tutto? Per rispondere riprendiamo il famoso esempio della sveglia proposto da Giussani: “C’era dunque sul tavolo di casa sua una sveglia. Siccome lui era un bambino molto intraprendente e attivo, curioso, siccome il papà e la mamma erano andati via e c’era soltanto la sorella minore… ha visto la sveglia…, si è guardato attorno, ha preso la sveglia e l’ha smontata tutta. I pezzetti che si potevano contare… contati tutti erano 353… La sveglia era fatta di 353, ma quei 353 fattori non è più capace di metterli insieme. Perché? Perché gli manca l’idea della sveglia. Era un piccolo bambino e non un orologiaio svizzero… La ragione - che è la mente del bambino - non è capace di fare la sveglia… manca un fattore, ...l’idea della sveglia….
In tal modo la ragione implica l’affermazione dell’esistenza del mistero, intendendo per mistero un fattore presente in ogni esperienza, che non appartiene ai fattori sperimentabili, numerabili, calcolabili, dell’esperienza stessa. L’idea della sveglia è oltre il livello dei pezzi. Non è un altro pezzetto, è un’altra cosa”.
Senza la percezione e il riconoscimento del Mistero come fattore della realtà non c’è esperienza, di qualunque cosa si tratti. Il reale ci sollecita a ricercare qualcosa d’altro oltre quello che immediatamente ci appare, qualcosa d’altro che è il significato ultimo di ciò che appare. E’ la dinamica del segno. Bloccare questa dinamica alla reazione immediata, all’apparenza, come tante volte accade, sarebbe soffocare irragionevolmente l’impeto originale con cui il cuore, provocato, si protende sul reale.

5. “Di te ha detto il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’; il tuo volto Signore io cerco” (Sal 27). Cristo, l’impossibile corrispondenza

Quando Gaetano Corti commentò in prima teologia la frase del Prologo del Vangelo di S. Giovanni “Il Verbo si è fatto carne” il presentimento avuto da Giussani alla lettura dell’inno fu chiaro: “il Verbo si è fatto carne vuol dire che la Bellezza si è fatta uomo, la Giustizia si è fatta uomo, la Bontà si è fatta uomo, la Verità si è fatta uomo. ‘Quid est veritas? Vir qui adest’. Cos’è la verità? Un uomo presente. Gesù era profetizzato dal genio di Leopardi milleottocento anni dopo la sua esistenza”.
Mai l’uomo avrebbe potuto immaginare una risposta così al grido del suo cuore: “Di Te ha detto il mio cuore: cercate il suo volto, il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 27). Risposta tanto impossibile a immaginarsi prima che accadesse come avvenimento storico, quanto supremamente conveniente nel suo libero e totalmente gratuito manifestarsi. Per Giovanni e Andrea, per i primi che lo seguirono “Gesù Cristo… si rivela come una presenza che corrisponde in modo eccezionale ai desideri più naturali del cuore e della ragione umani. Egli mostra la propria eccezionalità perché è l’uomo di fronte a cui il cuore umano avverte la corrispondenza per cui è naturalmente fatto, e che non prova mai, neanche di fronte alle cose più coinvolgenti e belle della sua esistenza - se non altro per un sospetto di brevità che adombra un’ultima tristezza.
Nell’incontro con Cristo l’io sperimenta una passione per il proprio destino, una tenerezza verso la propria sete di felicità impensabili da parte di chiunque, che si condensano in quella domanda che nessun uomo ha mai rivolto a un altro uomo: “Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà tutto il mondo e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?” (Mt 16,26; cfr. Mc 8,3ss.; Lc 9, 25s.). E’ nell’appartenenza a Lui che il cuore dell’uomo che cerca il suo Destino percepisce la corrispondenza ultima, altrimenti impossibile: “Rimanete in me e io in voi… perché senza di me non potete fare nulla” (Gv 15,4.6).

6. “Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi” (Gv 14, 12)
“Rimanete in me e io in voi” è l’esperienza possibile oggi nell’appartenenza, attraverso il Battesimo, alla compagnia della Chiesa, in cui si manifesta la contemporaneità di Cristo, l’unica in grado di consentirci di stare davanti al reale da uomini.“Essere contemporanei a Cristo è l’unica condizione perché inizi realmente la conoscenza di Lui come consistenza di tutte le cose (Col 1), come inizio di un popolo nuovo (Gal 3), come criterio con cui affrontare la totalità dell’esperienza (cattolicità), e come origine di posizione culturale, di un punto di vista che permette di vagliare tutto e trattenere ciò che vale (1Ts 5)”.
La compagnia cristiana è il luogo in cui l’esperienza di quella novità di vita, altrimenti impossibile altrove, inizia a manifestare nel tempo, come albore, non come giorno pieno, la realtà della promessa fatta da Cristo ai suoi, che corrisponde alla grandezza delle attese del nostro cuore: “Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi” (Gv 14,12).
L’opera più grande a cui accenna Cristo è, in ogni tempo, in ogni cultura, in ogni frangente storico, il cambiamento, la rinascita dell’io nell’incontro con Cristo e la sua libera appartenenza a Lui, che investe - spiega Carrón - “il modo stesso di guardare, di percepire, di giudicare, di sentire di manipolare, di trattare la realtà (personale, sociale, culturale, politica”. Cristo stesso insiste nella sua promessa. ‘Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del Vangelo, che non riceva già nel presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni e nel futuro la vita eterna’ (Mc 10, 29s.)