martedì 29 dicembre 2009

Quella nostalgia verso l'infinito

Il volantone di Natale di CL

«Il Natale è l’annuncio che questo ignoto Mistero è diventato una presenza familiare, senza la quale nessuno di noi potrebbe rimanere uomo a lungo, finirebbe travolto dalla confusione...»
Caro Direttore,
c’è una frase di Dostoevskij che mi accompagna in questi tempi, dovendo parlare del cristianesimo alle persone più diverse in Italia e all’estero: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?». Questa domanda suona come una sfida a ciascuno di noi. È precisamente dalla risposta ad essa che dipende la possibilità di successo della fede oggi. In un discorso del 1996, l’allora cardinale Ratzinger rispose che la fede può sperare questo «perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito». E con ciò indicava anche la condizione necessaria: che il cristianesimo ha bisogno di trovare l’uomo che vibra in ciascuno di noi per mostrare tutta la portata della sua pretesa.
Eppure in quante occasioni siamo tentati di guardare l’umanità concreta che ci troviamo addosso - per esempio, il disagio, l’insoddisfazione, la tristezza, la noia - come un ostacolo, una complicazione, un intralcio alla realizzazione di ciò che desideriamo. E così ci arrabbiamo con noi stessi e con la realtà, soccombendo sotto il peso delle circostanze, nell’illusione di andare avanti tagliando via qualche pezzo di noi. Ma disagio, insoddisfazione, tristezza, noia non sono sintomi di una malattia su cui intervenire coi farmaci, come accade sempre più spesso in una società che confonde l’inquietudine del cuore col panico e con l’ansia. Sono piuttosto segni di quale sia la natura dell’io. Il nostro desiderio è più grande di tutto l’universo. La percezione del vuoto in noi e attorno a noi di cui parla Leopardi («mancamento e voto») e la noia di cui parla Heidegger sono la prova dell’inesorabilità del nostro cuore, del carattere smisurato del nostro desiderio - niente è in grado di darci soddisfazione e pace -; possiamo dimenticarlo, tradirlo, ingannarlo, ma non possiamo togliercelo di dosso.
Per questo il vero ostacolo al cammino non è la nostra concreta umanità, ma la trascuratezza di essa. Tutto in noi grida l’esigenza di qualcosa che riempia il vuoto. Lo intuiva perfino Nietzsche, che non poté evitare di rivolgersi al “dio ignoto” che fa tutte le cose: «Rimasto solo, levo le mie mani/ (…) “Al dio ignoto”:/ (…) Conoscerti io voglio - te, l’Ignoto,/ Che a fondo mi penetri nell’anima,/ Come tempesta squassi la mia vita,/ Inafferrabile eppure a me affine!» (1864).

Il Natale è l’annuncio che questo ignoto Mistero è diventato una presenza familiare, senza la quale nessuno di noi potrebbe rimanere uomo a lungo, finirebbe travolto dalla confusione, vedendo decomporsi il proprio volto, perché «solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura e del suo destino» (don Giussani).
Il segno più persuasivo che Cristo è Dio, il miracolo più grande da cui tutti rimanevano colpiti - più ancora che le gambe raddrizzate e la cecità guarita - era uno sguardo senza paragoni. Il segno che Cristo non è una teoria o un insieme di regole è quello sguardo, di cui è pieno il Vangelo: il Suo modo di trattare l’umano, di entrare in rapporto con coloro che trovava sulla sua strada. Pensiamo a Zaccheo e alla Maddalena: non ha chiesto loro di cambiare, li ha abbracciati così com’erano, nella loro umanità ferita, sanguinante, bisognosa in tutto. E la loro vita, abbracciata, si ridestava in quel momento in tutta la sua profondità originale.
Chi non desidererebbe essere raggiunto da un simile sguardo ora? Infatti «non si può rimanere nell’amore a se stessi senza che Cristo sia una presenza come è una presenza una madre per il bambino. Senza che Cristo sia presenza ora – ora! –, io non posso amarmi ora e non posso amare te ora» (don Giussani). Sarebbe l’unica modalità per rispondere da uomini del nostro tempo, ragionevolmente e criticamente, alla domanda di Dostoevskij.

Ma come sappiamo che Cristo è vivo ora? Perché il Suo sguardo non è un fatto del passato. Continua nel mondo tale e quale: dal giorno della Sua resurrezione la Chiesa esiste solo per rendere esperienza l’affezione di Dio, attraverso persone che sono il Suo corpo misterioso, testimoni nell’oggi della storia di quello sguardo capace di abbracciare tutto l’umano.
di Julián Carrón
(Corriere della Sera, 24 dicembre 2009

giovedì 24 dicembre 2009

BUON NATALE

C'è un annuncio che corre per l'aria della storia e giungerà fino alla fine. È l'eco di un avvenimento, di un fatto talmente originale che in coloro che più ne sono stati investiti esso significa "Dio fatto uomo". Il Natale è l'annuncio dell'avvenimento più impensabile, più apparentemente irrazionale, più contraddittorio che abbia attraversato la storia. Se Dio, cioè il Mistero premuroso, con le sue mani crea le fattezze del piccolo uomo, perché questo stesso Dio non può - proprio come suo metodo sistematico - avere con l'uomo un rapporto familiare? Così che la sua conoscenza sia, innanzitutto, attenzione a questa presenza familiare piuttosto che un grintoso affronto di una realtà enigmatica e lontana. Perché non potrebbe essere così?
Per noi cristiani il metodo attraverso il quale il Mistero persegue il suo notificarsi alla creatura che Egli ha dotato di coscienza, di autocoscienza, di ragione, di cuore, è un metodo innanzitutto familiare: un bambino, Gesù di Nazareth, nato nel seno di una giovane donna, Maria. Come permane questo avvenimento nella storia? Questo è il problema, il problema della vita essendo il rapporto, il nesso tra l'istante effimero e il compimento eterno di esso. L'istante umano, infatti, ha una densità che null'altro ha di così corrispondente. Il problema dei problemi è come quell'avvenimento "stia" nel tempo. Se un avvenimento non permane nel tempo, non è un avvenimento, è un ricordo. E tutta la lezione che abbiamo imparato da Charles Péguy sul significato della parola "avvenimento" è l'indicazione del fenomeno in cui un nuovo emerge. Senza avvenimento, nessuna novità. Che nesso hanno tutte queste cose con l'oggi del mondo? Il principale influsso della coscienza cristiana, della temperie cristiana, di una mentalità cristiana, sulla realtà che ci circonda - famiglia, amici, luogo di lavoro, paese, ambito sociale -, è la versione festosa di una cosa altrimenti ripugnante o lagrimosa. Che cosa rende festoso o traduce in termini festosi anche la situazione più amara - e ognuno di noi può vedere in questo momento padre Kolbe scendere dentro la fogna in cui morirà con gli altri: scendere, liberamente offertosi al posto di quel padre di famiglia nel lager, con una serenità non frenata e non obiettata da niente -? Quell'Avvenimento che è compagnia permanente! La durata di quell'Avvenimento è l'esistenza della Chiesa, fino alla fine del mondo. Per questo è festoso il tempo: perché la speranza penetra e attraversa qualsiasi momento e situazione. È soltanto nella speranza, è soltanto laddove l'amore è possibile come esperienza reale, pura, verso quella gratuità, o carità, che è un ideale infinito, è soltanto nell'amore - che quell'Avvenimento protegge e sviluppa nel cuore di ognuno - che la speranza risulta una virtù irrefrenabile, invincibile. Come scrive Péguy: delle tre virtù, la più piccola e indifesa è la speranza, ma la più grande e la più importante è proprio la speranza. Senza speranza, l'unica disperata prospettiva sarebbe quella descritta da Giosuè Carducci quando, in Su Monte Mario, immagina l'ultimo uomo e l'ultima donna &laqno;che ritti in mezzo a' ruderi» vedono &laqno;con gli occhi vitrei» il sole calare per l'ultima volta &laqno;su l'immane ghiaccia ».
Col Natale entra in scena una cosa assolutamente occulta a tutti, vale a dire il reale, la realtà. La grande Presenza. Il presente esaurisce la verità dell'uomo, e un fattore che non sia nel presente, non esiste: non "non esiste più", ma "non è mai esistito". Questo è un problema di ragione. Perciò, paradossalmente, il primo problema che noi avvertiamo verso la cultura moderna è che ci sentiamo come mendicanti dell'idea di ragione, poiché è come se nessuno più avesse il concetto di ragione, e comprendiamo - di rovescio - che la fede ha bisogno che l'uomo sia ragionevole per poter riconoscere l'Avvenimento grazioso del Dio con noi.
L. Giussani

sabato 19 dicembre 2009

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón - Milano, 16 dicembre 2009

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Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón
Milano, 16 dicembre 2009
Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 278-289
• Canto “I Wonder”
• Canto “Aria di neve”
Io faccio l’infermiera e questa settimana c’era un mio paziente in reparto con cui io ero arrabbiata perché mi aveva preso in giro e davanti a lui, al di là dell’arrabbiatura, mi sono resa conto che mi ripugnava (non lo toccavo neanche) perché era un tossicodipendente, perché era alcolizzato.
Dopodiché io ho avuto l’opportunità di incontrare padre Aldo e lui, parlando del suo lavoro, mi ha subito colpito perché, raccontando dei suo pazienti, diceva: «Per me fare una cosa a quello lì era fare una cosa a Cristo». Questo mi ha sconvolta perché guardando quell’uomo io mi rendevo conto che lui viveva di Cristo. Dopo che è successo questo, ho avuto tutta l’amarezza di dire: «Guarda come ho trattato quello lì, come quello che non era: cioè come uno che mi faceva ribrezzo», e
infatti mi ha colpito questo pezzo della Scuola di comunità che dice che «non bisogna coltivare progetti di perfezione ma guardare in faccia Cristo», e mi sono resa conto di questo soprattutto perché tornando da questo paziente iniziava a non ripugnarmi più, ma iniziavo a guardarlo.
E perché? Che cosa è cambiato?
È cambiato che guardando padre Aldo mi sono resa conto di chi era veramente quello lì, che non era quello che io avevo in mente, ma che la verità di quell’uomo era un Altro.
Ma perché? Perché tu hai scoperto la verità di quell’uomo lì? Che cosa te l’ha fatto scoprire?
Me l’ha fatta scoprire l’esperienza di padre Aldo.
E perché? Padre Aldo è differente, è diverso, è più bravo?No.
Perché no?
Perché la vita di padre Aldo si fonda tutta sul rapporto con Cristo, per cui non è più una questione di bravura nel trattare l’altro, ma del fatto che tutta la tua vita è quel rapporto lì.
Questo è quello che dobbiamo cercare di capire: che cosa ti rende capace di abbracciare e guardare un uomo che ti faceva ripugnanza? Tante volte noi riduciamo la capacità di farlo proprio alla bravura: padre Aldo è un genio, è un santo, è uno più coerente di tutti noi, e noi siamo degli stupidi. Ma è questo il punto? Perché questo è il nocciolo della Scuola di comunità che stiamo guardando.
Lasciamo la questione aperta. Che cosa consente questo?

Io ho due figli handicappati che hanno quasi trent’anni, e una delle cose che ho sempre avuto dentro è: «Quando io non ci sarò più che fine faranno, chi si occuperà di loro, che destino potranno avere?». Ed è una domanda che ho sempre avuto dentro, ed era fonte di una forte preoccupazione anche psicologica, che mi ha accompagnato nella vita. Facendo il lavoro della Scuola di comunità è come se questa domanda si fosse acuita ancora di più, per cui ho dovuto prenderla sul serio e cercare di capire fino in fondo: ci deve essere una possibilità di risposta a
questa domanda, se no la mia vita sarebbe solo una sfortuna e basta. Ho capito che dovevo capovolgere un pochino tutta la questione, nel senso che paradossalmente ho pensato a me: qual è il mio di destino? Dove poggio io la mia vita, la mia esperienza? Ed è come se fossi stato costretto con la ragione a dare un giudizio su tutte le cose che nella vita mi sono capitate; ed è una cosa paradossale quello che ho scoperto: tutte le volte che Gli sono andato dietro, mi sono affidato, io non sono mai stato imbrogliato, ci ho guadagnato. Allora è come se avessi intuito che lì, in quell’affidarsi a un Altro, potesse essere il punto che mi dava fiducia anche verso i miei figli:
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perché ciò che compie me non capisco perché non debba compiere anche loro. E c’è una seconda cosa: ho visto che Chi cambiava me, cambiava tante persone intorno a me, amici che si sono messi a costruire opere partendo dall’incontro con Cristo, per cui anche da subito posso vedere che nel mondo ci sono persone che abbracceranno il destino dei miei figli.
Grazie, perché questo che dici mi sembra che contenga dei passaggi veramente importanti; perché il primo spostamento che tu hai dovuto fare è dalla domanda: «Che fine faranno i miei figli?» (e con questa domanda non ti toglievi tutta la preoccupazione, tutta l’ansia, anzi ti era acuita), alla domanda: «Dove poggia la mia vita?». E che cosa gli ha consentito di guardare la sua situazione
senza ansia? Il riconoscere che l’affidarsi a un Altro è l’unica possibilità di rispondere a questo; non è una bravura, ma, usando le parole della Scuola di comunità, è che uno «è sospeso non sul vuoto, ma sul pieno». Noi possiamo guardare al futuro in un altro modo non perché siamo più bravi (perché anche quando siamo più bravi non è che per questo abbiamo la tranquillità, perché, anche essendo bravi, che cosa impedisce che domani uno abbia un incidente?). La fiducia su che cosa
poggia? E che cosa occorre perché questa fiducia sia veramente un’esperienza? Uno che prende sul serio l’urgenza ha bisogno di fare il percorso. E per questo non deve fermarsi a se stesso: «Chi cambiava me cambiava anche gli altri, che hanno fatto delle opere, cioè hanno costruito realtà che possono rispondere all’esigenza dei miei figli anche quando io non dovessi esserci».

Nella mia vita è successo un fatto drammatico quando avevo undici anni, cioè la morte violenta di mio padre. Questo fatto per strane circostanze mi ha fatto incontrare il movimento, per cui ho potuto vivere questa cosa non come disperante, ma come una circostanza buona e positiva per la mia vita, per tutto quello che poi è venuto e che continua ancora adesso. A inizio settembre a mio suocero, che è stato un secondo padre per me, hanno diagnosticato un cancro, non era operabile ed
è morto poche settimane fa. Mio suocero era un falegname, era della Fraternità, faceva il gruppetto, faceva la caritativa, andava al Meeting, era un artigiano che creava col lavoro manuale.
Anche la sua vita è sempre stata molto dura: gli si è bruciata la bottega, è stato emigrato in Svizzera, aveva le dita tagliate. In questi due mesi io sono stato abbastanza con lui e l’ho accompagnato a salutare i suoi amici; lui, di fronte alla morte, con la povertà di spirito che lo contraddistingueva e la semplicità, rincuorava il suo medico, ha voluto farsi accompagnare dai suoi vecchi che abitavano in montagna per andarli a salutare a uno a uno, è morto dicendo: «Sono
pronto, non ho rimpianti», ed era veramente pronto. Io sono di Cesena, e quando si fanno i funerali dei cattolici la gente di campagna dal numero di preti che va a celebrare il funerale deduce quanto era importante la persona; c’erano otto preti e in questi giorni c’è stata tutta una vicinanza di gente. La luce di questa bontà che è rimasta, per noi è divenuta sempre più una concreta dimostrazione di come nella sua vita si era lasciato plasmare dalla fede. E quindi adesso, per noi,
più forte del dolore della perdita di questa persona cara, è il ringraziamento al Signore per avercelo donato; e non in un posto qualsiasi ma dentro questa compagnia.
Grazie. Uno che si lascia plasmare dalla fede può affrontare anche l’ultimo traguardo così, rincuorando il medico.
Volevo brevemente raccontare l’esperienza di questi ultimi mesi, che mi è stata più chiara facendo il lavoro della Scuola di comunità sulla povertà e sulla fiducia e anche lavorando su quello che t hai detto all’Assemblea della CdO. Da una decina di mesi io mi sono messo a fare l’imprenditore, ho dovuto prendere la decisione se continuare una cosa bella cominciata con amici e colleghi, o cominciare da solo da un’altra parte come manager, e allora ho scelto di provarci. Da subito la
faccenda si è fatta molto complessa con mille e uno problemi quotidiani; però, più le problematiche si ingigantivano, più io ero sereno ed è così anche oggi. Allora, facendo la Scuola di comunità in questo periodo, mi sono dato ragione di questa serenità: cioè che non è incoscienza di quello che accade o che può accadere, ma è fiducia, affidarsi a un Altro, non è essere sospesi nel vuoto, ma appoggiarsi su un pieno, cioè qualcosa in cui io consisto. Infatti, letteralmente, in ogni momento si
potrebbe capitolare, ma è vero che «tutto posso in Colui che mi dà la forza».
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E perché tu sei sicuro che sei su un pieno e non su un vuoto? Scusami, devo sfidarvi un attimo.
Perché anche quando tutto sembra crollare e tutto quello che io penso debba avvenire va al contrario, tutto si ricompone nel capire che io ultimamente mi sto affidando a un Altro, c’è un Altro che costituisce la mia vita e che se anche tutto andasse al contrario, come spesso va, questa cosa qui non discrimina la mia possibilità di felicità.
Cioè uno, l’unica cosa che non si può inventare, davanti a tutti i problemi, è l’essere in pace, l’essere sereno. E questo è una sorpresa, perché di solito quando siamo nella confusione succede il contrario. Uno in mezzo a tutti i problemi (non per incoscienza, perché uno è ben consapevole di tutti i fattori del reale) si sorprende di trovarsi addosso questa serenità, che non ha potuto darsi da se
stesso; allora, quale ne è la ragione? Perché è dall’interno dell’esperienza che uno può capire se quando parla della fiducia, di essere sospeso sul pieno e non sul vuoto, sta parlando di qualcosa di reale e di rasserenante. È questa l’esperienza che dobbiamo fare, ma non perché la possiamo generare noi, ma perché questo è il valore di certe situazioni che il Mistero non ci risparmia: per farci capire Chi è Lui. Se io in queste situazioni mi trovo con questa serenità, sorprendentemente,
questo ci dice la natura di Colui al quale mi affido, e che razza di consistenza può dare alla vita.

Stavo per descrivere una mia giornata tipo. Alle otto arrivo in ufficio con l’ottimismo e la positività del presente e del futuro; alle dodici guardo tutto quello che è accaduto, alla miseria mia e degli altri e dico: «Non ce la possiamo fare», poi penso: «Ma Signore, fin qui ci siamo arrivati, perché non può continuare così? E allora aiutaci Tu ad alzare lo sguardo», e si va avanti. Allora accade che alle otto di sera, quando esco dall’ufficio e guardo tutto quello che è accaduto, mi stupisco di come tutto sia ricomposto, e spesso accadono anche cose strabilianti delle quali non mi ero reso conto, preso dai mille e uno problemi che c’erano da sistemare. E così riprendo l’ottimismo e la positività dell’inizio, guardando al passato della giornata e penso a quanto è grande la Provvidenza: perché io lavoravo dieci ore al giorno prima e ne lavoro dieci anche adesso, mi sporcavo le mani prima e adesso me le sporco ancora di più con il lavoro, però c’è a fianco il Signore e fa in modo che tutto si ricomponga e non venga distrutto. Quando uno entra nella reception della clinica di padre Aldo in Paraguay c’è l’organigramma e c’è Cristo che è il “direttore generale” e padre Aldo è il vicario; io, da quando ho visto quel cartello, ho pensato che mettere Cristo a “direttore generale” della tua azienda è quel che ti solleva dal peso… Dall’ansia. Dall’ansia che sia una cosa tua quello che stai facendo. In questo periodo, tra l’altro, ho trovato anche tanti compagni nuovi di lavoro; a questi ora chiedo di più un’amicizia operativa che sostenga me (cioè il mio io) verso il destino, che comunque rimane misterioso, perché ultimamente
è verissimo quello che dicevi anche tu, che il mio destino rimane misterioso, oggi ci sono e sto facendo questo, domani non so.
Grazie. Guardate che lui ha descritto, perfino attraverso il racconto della giornata, il lavoro che è costretto a fare per stare in piedi; non è che i problemi ci distraggono, ma rendono più urgente la memoria, perché senza di questo uno getta la spugna. Per poter continuare la lotta fino alla fine della giornata senza mandare tutto a quel paese occorre un lavoro dentro il lavoro; quando noi
siamo tentati di ridurre tutto all’apparenza, uno deve di nuovo alzare lo sguardo – diceva – per non rimanere incastrato, e così tutto si ricompone, e guardare indietro ti riempie ancora di più gli occhi di quello che Lui ha fatto. Non è che, allora, da una parte va la vita e dall’altra va la fede, ma tutto quanto succede nella vita vissuta così fa parte della strada della fede, della consistenza della fede, della possibilità di essere certo: non nei miei pensieri, ma nel reale e nella storia dove si documenta e perciò dove cresce la fede.

Mi impressiona la consonanza tra questo capitolo sulla fiducia e la mia vita, sembra capitatoapposta, mentre lo leggevo in questi giorni mi continuavo a ripetere: «È per me, è per me!». In questo periodo sia io che mio marito, entrambi liberi professionisti, stiamo vivendo un po’ di fatica con il lavoro, una fatica che confluisce ogni tanto anche nel nostro rapporto, rendendoci tesi e a
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volte poco misericordiosi l’uno nei confronti dell’altro; se poi consideri anche l’abisso di diversità che ci caratterizza – io siciliana, lui belga –, lascio a te immaginare le conseguenze...
Dettagli non di poco peso.
Quest’anno, sia per la crisi che per alcuni problemi di salute, il mio percorso professionale ha iniziato una parabola discendente che è tutt’altro che la realizzazione del desiderio; a me viene l’impressione che, più che il compimento del desiderio, si tratti della mortificazione del desiderio, o
almeno io lo vivo così. Per quanto riguarda il capitolo sulla fiducia mi ha spiazzato ancora di più: «Non progetti di perfezione, ma guardare in faccia Cristo. [...] La felicità è seguire un Altro». È proprio su questo che ti chiedo un aiuto;per spiegarti meglio ti racconto una discussione proprio sul lavoro che ho avuto con mio marito qualche sera fa. A un certo punto, mi sono spazientita e gli ho detto: «Ma insomma, che cosa ci manca? Cosa manca al nostro curriculum per essere adeguato al mercato? Abbiamo una lunga esperienza, abbiamo un sacco di titoli, tu hai una lista di certificazioni che non finisce mai, parli quattro lingue, io due più il siciliano, insomma, cosa ci manca?». E lui mi ha veramente spiazzato perché mi ha risposto: «Forse non ci manca niente, forse è proprio questa la nostra ricchezza, cioè questo disagio, questo disagio per noi forse è proprio l’opportunità che ci viene data». Questa cosa qua è stata, come diciamo spesso, un contraccolpo, infatti mi sono venute le lacrime agli occhi. Allora, a questo punto, mi chiedo se andare al fondo di questo disagio, se stare di fronte a Cristo dentro questo disagio sia la domanda, sia il mendicare, o se è qualcos’altro; perché io in questo momento prego tutti i giorni, vado a messa tutti i giorni, chiedo agli amici, rompo le scatole, ma questo basta? Mi chiedo se la mia posizione è corretta.
E tu cosa dici, è corretta o no? Devi giudicare tu. Facciamo insieme il percorso, non ti preoccupare; è corretta o no?
La domanda sicuramente è ragionevole; la domanda fiduciosa e certa, però… Perché io in certi momenti non ho la certezza che Cristo compie il desiderio.
Partiamo da qui: compie o non compie? Ti sfido: anche in questa situazione che mi stai raccontando, Cristo compie o non compie il desiderio?
In realtà sì.
Perché?
Innanzitutto perché sta dando la possibilità a me e a mio marito di guardarci in faccia a questo livello di profondità.
Allora: tu avresti potuto pensare a un tipo di rapporto così al di fuori di questa situazione? E chi sta sostenendo questa strada? Questo che dici è molto importante, perché noi partiamo sempre dicendo:
«Dio dice che compie», ma in fondo stiamo pensando che è una mortificazione del desiderio. E io ti sfido proprio lì, perché tante volte il compimento del desiderio è un’immagine che noi abbiamo di come deve compiersi. Quando io ti faccio questa domanda, tu ti fermi e incominci a guardare più in profondità quello che di fatto sta succedendo e sta sostenendo il desiderio, in modo tale da arrivare a
un livello di profondità nel vostro rapporto che prima non vi sognavate. Non è un’opportunità?

Sì.
Non voglio perdere questo. Guardate che noi tante volte pensiamo il compimento del desiderio non drammaticamente, come se fosse qualcosa di meccanico, di automatico – metto l’euro ed esce la bibita –, dove tu non sei protagonista, dove tu e tuo marito non siete protagonisti, e questo non genera voi come persone; e se non vi genera, non c’è più rapporto intenso. Cristo non è venuto a risparmiarci la strada, ma a renderla possibile, a sostenerci in questa strada; in questo modo sta compiendo il desiderio molto di più di quello che noi avevamo in testa con una riduzione meccanica, perché se in questa strada voi non diventate più voi stessi, non c’è una crescita dell’io.
Meno male che Dio non ci prende in considerazione nelle nostre cavolate, perché se rispondesse in questo modo, sarebbe come tante volte pensiamo noi rispetto ai figli; ma questo risparmiare loro la strada per imparare non è il modo vero del compimento del desiderio, bensì una disgrazia. Perciò, come il Mistero compie il desiderio? Come sta compiendo il desiderio? Sostenendo una strada, rendendovi protagonisti di questa strada, facendovi crescere in questa strada e, come dici alla fine,
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dando una profondità a quel rapporto che prima non vi sognavate. E questo sta facendo crescere il vostro io, cioè sta compiendo il desiderio, facendovi diventare voi stessi sempre di più. Questo è il compimento del desiderio, o no? Ed è molto diverso dall’immagine meccanicista di questo compimento. Questo è il lavoro, l’aiuto che dobbiamo darci; tu hai fatto tutto questo e adesso puoi capire molto di più qual è la strada attraverso cui il Mistero ti sta portando, e capita lo stesso nei
rapporti, capita lo stesso nel lavoro, perché tutto è rapporto con la realtà, con le persone, con le circostanze, con il lavoro, con tutto, ma questo è quello che esalta l’io, non che lo appiattisce. Così ci rende sempre più noi stessi, perché adesso sei più in grado di affrontare il reale, di vivere nelle circostanze, perché sei cresciuta, perché hai una consistenza che prima non avevi. E questo ti dà una
capacità di affronto del reale che prima non ti sognavi.

È verissimo.
È verissimo. Allora, sta compiendo il desiderio in un modo tutto diverso. Meno male, dico io; allora, come sostenersi in questa positività? Attraverso questo lavoro che stiamo facendo insieme: un’amicizia operativa che ci sostiene costantemente sfidandoci, offrendoci una strada che ciascuno deve percorrere – perché questo non viene risparmiato a nessuno! –, dove uno vede che cosa succede nella vita quando segue la proposta di un altro che ha percorso per primo la strada.
Mi colpiva nella Scuola di comunità quando parla di essere sospesi su un vuoto o su un pieno, perché la settimana scorsa siamo andati con un po’ di amici a trovare i genitori di un mio amico morto vent’anni fa, e la cui malattia è stato il riconoscimento di Cristo nella sua vita. Però quello che succede in questi anni è che diventando familiari con loro abbiamo imparato a guardare questi due genitori, a incominciare a interrogarci su cosa volesse dire essere genitori. Racconto solo rapidamente che cosa è successo: avevo chiesto a un amico di portare una chitarra e quando siamo andati al cimitero abbiamo cominciato a suonare due o tre canzoni e la mamma di questo nostro amico ce ne ha chiesta un’altra; diciamo due preghiere, sua mamma ce ne chiede un’altra; stiamo per andare a casa loro a fare merenda, mi chiede: «Possiamo andare in chiesa o ho già chiesto troppo?». Le ho detto: «No, lo desideri? Andiamo e diciamo una preghiera». Tutta la giornata è andata avanti così, c’era un desiderio che non conosceva pause, però era sospeso, senza nessuna pretesa, chiedeva di fronte a quello che aveva davanti che eravamo noi, dei ragazzi. A un certo punto, ha detto questa frase: «Sapete, quando mi sono sposata io avevo paura di non essere capace di rispondere alla mia vocazione». Prima domanda sciocca nostra è stata: «Ma perché, sei bravissima»; e lei fa: «Sai, dedicare tutta la propria vita al proprio marito e ai propri figli, avevo proprio paura... Per fortuna che c’è Gesù che me l’ha fatto fare». Ho pensato a me che forse,intuitivamente, quando mi sono sposato davanti al prete, questo desiderio l’avevo ben chiaro anch’io. Ma dopo? Tornando a casa, era come se avessi visto un metodo che mi corrispondeva.
Quale?
Uno: mai mollare sul proprio desiderio (il tuo desiderio deve chiedere, sospeso, con tremore, ma non è che puoi non chiedere, se ci vuole un canto in più lo devi chiedere, se il tuo cuore chiede quello non ti puoi accontentare neanche di una cosa bella, tu sei lì per chiedere tutto). Due: la domanda di una coscienza della propria povertà, perché è un Altro che compie.
Grazie.
La domanda più ripetuta che è arrivata via e-mail è una cosa che è venuta fuori prima, ma che adesso ripeto. «Mi ha colpito rileggere nella Scuola di comunità che don Giussani dice: “Non bisogna coltivare progetti di perfezione, ma guardare in faccia Cristo”. Mi sono accorta improvvisamente che per anni ho cercato di evitare di guardare la realtà che mi feriva per cercare rifugio in Gesù, che era sempre altrove dalla realtà; così ho rincorso tante volte il mio progetto di perfezione fissandomi su dei particolari in cui cercavo di risolvere il dramma, ma non lo guardavo mai in faccia, e ogni volta il particolare fissato svanisce: l’innamoramento si dissolve, l’amico tradisce, il maestro muore, la casa crolla. Per questo la realtà mi ha sempre fatto paura, non sta su da sola, è come abitare un edificio pericolante; ma da quando ho iniziato a fare veramente il percorso
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della fede mi sono accorta che la realtà non sta su da sola, ma poggia su un pieno, e la posso guardare senza paura, anzi la devo guardare perché è l’unico modo che ho per guardare in faccia Cristo [il percorso della fede le ha fatto riconoscere che la realtà, quella cosa che sembra ovvia, ma che tante volte pensiamo che crolli, che non sta su da sola]. La realtà poggia su un pieno, non devo sostenerla io, posso rilassarmi perché poggia su un pieno, e perciò la posso guardare senza paura,
che è l’unico modo per guardare in faccia Cristo; e la domanda che ti voglio rivolgere è: come fai tu a guardare in faccia Cristo?».
Un’altra persona mi scrive da New York: «Stasera hai la Scuola di comunità; se fossi lì, ti vorrei fare questa domanda che mi porto dentro da settimane: cosa vuol dire davvero tenere lo guardo fisso su Cristo? O meglio, se non fossi troppo invadente, ti chiederei: chissà cosa significa per te tenere lo sguardo fisso su Cristo».
Per rispondere, vorrei incominciare ricordando quello che già abbiamo detto la volta scorsa, ma che adesso, in questo capitolo, si vede proprio. Come vedete, tutti abbiamo la tentazione di pensare «che questa povertà sia una grande insidia! Restiamo come sospesi ad un abisso, a un vuoto […] invece la fiducia è il contrario
dell’essere sospesi a un vuoto: è l’essere sospesi su un pieno». Allora la questione è che cosa ci consente di essere sospesi su un pieno? «L’oggetto scoperto dalla fede sostiene il peso di tutta la vita»; cioè non è una bravura etica, non è che noi possiamo avere fiducia come uno che si allena e si incoraggia la mattina facendosi forza da se stesso; no, quello che sostiene il peso è l’oggetto scoperto dalla fede. Guardate che importanza ha questo dal punto di vista del metodo: per parlarci
della fiducia, per renderci consapevoli su che cosa poggia, ci rimanda alla fede e dice ancora: «È quel Gesù [dice a pagina 280] che sentivano parlare, che Giovanni e Andrea guardavano in faccia, è quel Gesù lì che portava tutto il peso del loro futuro». Non è che loro erano più bravi o che avevano più capacità. Che è lo stesso di quando dicevano a don Giussani: «Ma che coraggio hai, ma che bravo sei», e lui si arrabbiava: «Io ho questo “sì” e basta». Tutta la sua forza non era in una bravura,
e questo è decisivo per noi, perché tante volte su questo incominciamo a difenderci da Gesù: «Siccome io non sono così bravo come padre Aldo, come Giussani, allora per me questo non va».
No, cercate un altro alibi, questo non serve! Perché loro poggiano su un’altra cosa, su quel “sì”: «Quell’uomo [attenzione: Gesù, non noi] creava in loro una fiducia cui Pietro diede voce nel sesto capitolo del vangelo di san Giovanni quando disse: “Maestro, ma se andiamo via da te, dove andiamo?”». Era Lui che generava in Pietro questa fiducia; e questo non è una cosa del passato
(«Che fortunati quei discepoli lì!»).
Vi leggo una delle ultime lettere che mi hanno scritto gli universitari dopo gli Esercizi del Clu. «Da questi Esercizi non si torna più indietro. Lavorando [su una certa cosa che non vi riassumo] era come se la tristezza aleggiasse sopra questo lavoro, come se tutto quello che abbiamo fatto in fondo in fondo non è quello di cui abbiamo bisogno. Ma io pensavo, da saccente che sono, che queste cose sono sentimentali. Ma non è assolutamente vero, ero io che le facevo diventare sentimentali, le eliminavo. Ma dopo un po’ uno non regge più, diventa per forza una domanda, un urlo che ti spacca. Questi Esercizi ne sono stati la conferma, perché non mi sono mai sentito così libero davanti a quello che mi succede, davanti a quello che devo fare, come in questi giorni; sono stati un punto
di non ritorno, ho visto veramente lo sguardo di cui tu parlavi, era Cristo. Faccio sempre fatica a dire il Suo nome perché ho sempre la paura di forzare le cose, ma ora la mia ragione si apre veramente alla fede come una possibilità di spiegare quello che ho visto [poggiava tutto su quella Presenza che aveva davanti]. E adesso si torna in università, si studia; ma non ritorno uguale, è proprio un punto di non ritorno perché ho la certezza di quello che ho visto, che non è niente altro
che quello di cui ho bisogno che abbraccia e guarda in un modo nuovo tutto quel che sono; e allora come faccio a tornare uguale a prima? Quello che ho più chiaro ora è che se ho visto uno sguardo del genere, questo deve essere vero per sempre, in ogni istante, ora, mentre scrivo, perché comincio a intuire che tutto si gioca su questo sguardo. È l’unico che è in grado di reggere tutto il peso dei miei limiti che di solito mi fermavano». È una Presenza che gli consente di guardare, perché è un Altro che porta tutto il peso. Perciò qual è la nostra forza? Uno così, uno come Giovanni e Andrea, che si abbandona come il bambino con la madre, sicuro. Lo dice don Giussani: «Giovanni e Andrea, mentre erano lì a sentirlo parlare [guardate che espressione usa], non potevano avere una paura della
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vita [non perché non potevano, è che era una Presenza che toglieva la paura della vita, che la toglieva!]. Era naturalmente pieno di ottimismo l’impeto che provavano verso la vita quando parlava quell’uomo [l’impeto per entrare nel reale, per il lavoro, per le circostanze, per quello in cui dobbiamo mettere le mani in pasta], un ottimismo che poggiava su di Lui [non su di noi, non sulla nostra capacità, non sulla nostra bravura: un ottimismo che poggiava tutto su di Lui] e Giovanni e
Andrea si sono abbandonati a quell’uomo […] erano diversi [non in quanto moralmente o
eticamente a posto], erano diversi perché erano tutti poggiati su quello che avevano visto e il giorno dopo sono andati a rivederlo, poi sono andati a rivederlo, poi sono andati a rivederlo, poi sono andati dietro». La vera nostra questione, la vera nostra decisione è se noi vogliamo andare ancora a rivederLo e andarGli dietro, non la preoccupazione se noi siamo a posto o meno. E fintanto che non si compie in noi questo spostamento, noi non possiamo poggiare su di Lui, e questo lo vediamo non
perché non siamo bravi, ma perché non siamo sereni, perché abbiamo l’impressione di essere sospesi sul vuoto. Allora questo spostamento è quello che diventa decisivo. «Non arzigogolare o tendere alla perfezione, ma guardare in faccia Cristo [come Giovanni e Andrea]: se uno guarda in faccia Cristo, se uno guarda in faccia una persona a cui vuol bene, tutto in lui si rimette a posto,
tutto corre a posto e si mette i capelli in un certo modo, e si allaccia il bottone, e ha vergogna delle scarpe sporche, e dice: “Scusami se sono così trasandato”. La sorgente della morale è voler bene a uno, non realizzare delle leggi». Questo è lo spostamento che facciamo più fatica a fare; tutto il resto è conseguenza del voler poggiare su di noi, tanto è vero che ci scandalizziamo degli sbagli, e la sicurezza totale è come se poggiasse sulla nostra capacità, sulla nostra coerenza, sulla nostra
energia. Invece «tutto posso in Colui nel quale è la mia forza». Questo, come potete capire, è possibile soltanto se la fede per noi è un’esperienza così reale che possiamo poggiare tutta la vita su quella Presenza. «Scusate, possiamo immaginarci l’origine della moralità in un modo più semplice di così? Non progetti di perfezione, ma guardare in faccia Cristo, guardare in faccia uno!
Semplicissimo, facilissimo… ma scomodissimo, scomodissimo perché non puoi più seguire te stesso». Questa è la nostra questione: se noi accettiamo di spostarci. E per questo quello che si diceva è fondamentale. Accetta questo spostamento chi ha tutto questo desiderio, chi ha la consapevolezza della propria povertà e si rende conto che spostarsi sull’oggetto della fede è l’unica salvezza. Allora uno ha la percezione di non perdere niente; anzi, il segno dell’abbandono è che uno
fa l’esperienza che tutto diventa suo, se niente è suo. «La felicità è seguire un Altro. Certo che guardare in faccia Cristo e non fare progetti di perfezione, vuol dire che si guarda in faccia Cristo desiderando veramente il bene, desiderando veramente di essere veri, desiderando veramente di voler bene […] è un tu che domina, non delle cose da rispettare». È l’esperienza dei discepoli (che erano come noi, con gli stessi limiti, con la stessa fragilità): pian piano Gesù, per la Sua presenza, ha spostato l’affezione verso di Sé. È quello che cerca di fare Gesù con noi; e questo è diverso che leggere soltanto il Vangelo. Dico la mia esperienza: tante volte io guardavo queste cose e mi emozionavo leggendole, ma adesso le vedo accadere nel presente, le vedo accadere davanti a me nei ragazzi del Clu, le vedo accadere quando in Africa vedo una donna che non può avere figli (che è
un’onta sociale gravissima in quella cultura), ma che non viene mollata dal marito perché lui è colpito da quel che vede accadere in lei. Su che cosa poggia questo marito per non mollare la moglie malgrado la pressione di tutta la famiglia? Su un pieno o su un vuoto? E vedo tante cose che il Signore mi dà da poter vedere, la testimonianza che tanti di voi date a me, che è la contemporaneità di Cristo; Lo vedo accadere in persone che stanno per separarsi e che cominciano ad accettare di seguire, a ricomporre quello che incominciava a dissolversi nel rapporto da sposati; o in uno che in situazioni di lavoro veramente complicate non molla, mostrando un’energia che non è sua. Tutto si sposta verso di Lui, e quando uno sbaglia deve riandare al: «Mi ami tu?». E uno sperimenta che tutto il peso lo porta Lui, e io posso poggiare tutto su di Lui, qualsiasi sia la situazione, qualsiasi sia la circostanza, perché Lo vediamo all’opera ora, non soltanto nel passato.
Questo ci porta a guardare e a leggere il Vangelo con una intensità clamorosa, come adesso mi dicono taluni tra di voi che scoprono, a partire da quello che sta succedendo, che il Vangelo incomincia a parlare loro in un altro modo, più potente, più attento ai dettagli. Come mi scriveva
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uno oggi, riferendosi all’episodio in cui Gesù dice di dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio: «Il Vangelo riferisce che tutti, soprattutto i farisei, erano stupiti e se ne andarono
zitti. Erano stupiti: non è che quelli che se ne andavano, cioè che non aderivano a Gesù, non erano stupiti. Ma non basta lo stupore, occorre desiderare di rimanere e seguire, non è meccanico; e quando uno Lo vede all’opera, come è possibile che non si fissi lo sguardo non su quello che manca, ma su quello che c’è? Come non spostare sempre di più lo sguardo in qualsiasi situazione a Lui? “E la Sua presenza mi riempie di silenzio”». Questo è quello che cambia la vita, e allora niente
è un ostacolo, neanche il male; perché è una festa, è sempre una festa, come dice la Scuola di comunità: «Così che se uno fosse triste e avvilito, la fiducia è l’ottimismo di ogni risveglio, ogni risveglio diventa festa». E io mi sentivo così travolto soltanto a rileggerlo che mi è venuta una gratitudine immensa per don Giussani, perché il Signore ci ha donato uno che si è travolto così e
continua a travolgerci così. Questa è la grandezza, l’utilità di questo lavoro che riempie la vita di letizia e genera un popolo per poterlo testimoniare. È questo che auguro a tutti per il Natale e lo riassumo in questa frase: che sia un Tu che domini questi giorni. Durante il periodo di Natale come lavoro personale si riprende l’assemblea sulla Fiducia, pagine 300-318 del testo. Alcuni oggi hanno fatto già riferimento all’intervento all’Assemblea Generale di Compagnia delle Opere, che è pubblicato su Tracce di questo mese. Si può riprendere, perché è una testimonianza sulla carità rispetto al lavoro, rispetto al mettere le mani in pasta. Per questo, essendo pubblicato su Tracce, possiamo già anche incominciare a leggerlo in questi giorni perché ci faccia compagnia.
È iniziata la campagna abbonamenti a Tracce per l’anno 2010. Vi suggerisco di tenerlo presente anche per i regali di Natale. Chi legge Tracce ha un esempio di affronto positivo della realtà con questo sguardo che noi impariamo, con cui ci sorprendiamo a guardare il reale. E questo non è poco nel contesto sociale che ci circonda (come abbiamo visto di recente). Inoltre è il modo migliore per
farsi un’idea di cosa è veramente il nostro movimento, al di là di quello che dicono o scrivono gli altri su di noi. Perciò è una bella occasione missionaria (per dire che cosa siamo) e personale (per imparare a guardarci per quello che siamo, non per quello che gli altri dicono che saremmo).
Leggere e avere questa consapevolezza è prima di tutto per noi, è una difesa dalla stupidaggine. Già che ci siamo, poi, ne approfitto per ribadire che internet è di per sé un’ottima modalità di comunicazione, ma che va usato con la consapevolezza che è uno strumento aperto a tutti. Non
iamo adito a cose che altri possano usare contro la verità. Evitiamolo.
Adesso come fine e in preparazione del Natale preghiamo tutti l’Angelus. Buon Natale a tutti.
• Angelus

venerdì 4 dicembre 2009

La vita è una favola raccontata da un idiota? -


Comunicato stampa
Sulla consultazione in merito al suicidio assistito

Di fronte alla consultazione indetta dal Procuratore Generale del Regno Unito sul suicidio assistito – in altre parole, su quando sia lecito porre fine a una vita giudicata non degna di essere vissuta – ci chiediamo: cosa è la vita, chi sono io, c’è qualcosa che rende questa vita degna di essere vissuta?
Qualcuno afferma che la vita non è più vita nel momento in cui un individuo dipende oltre misura da qualcun altro. Ma tutta la vita è dipendenza, strutturalmente dipendenza. Noi non decidiamo di nascere. Per rimanere in vita dipendiamo dal nostro mangiare, dal bere, dal respirare, dal clima. Tutta l’esistenza è dipendenza; la sola possibilità perché questa dipendenza non si trasformi in schiavitù è che Colui che dà la vita si renda nostro compagno, uno che possiamo incontrare, una presenza umana che inizia a rispondere al desiderio di amore infinito, di bene, di eternità che è racchiuso nel nostro cuore.

Tutti noi abbiamo bisogno di scoprire chi sta dietro a questo dono che è ciascuno di noi, che è la realtà. In caso contrario, la vita diviene, con le parole di Shakespeare, “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”, e quindi, ultimamente, una menzogna. Tutto il nostro essere grida il desiderio che la vita sia per sempre, che i rapporti permangano, che la gioia che la realtà che abbiamo davanti agli occhi suscita rimanga con noi per sempre. La semplice esistenza delle cose, e con esse dell’io, come “date” pone sull’orizzonte della vita una promessa di bene, di significato, di eternità.

Come è possibile per un uomo stare davanti al dolore, alla fatica, all’apparente contraddizione che sembra sottesa a una vita di pena e di sofferenza?

La pretesa del Cristianesimo è che il Datore di vita, il Creatore, si è fatto carne, come uno di noi; che è diventato bambino, ragazzo, adulto; che non gli fu risparmiata la sofferenza, fino alla morte sulla croce, ma che è risorto dalla morte; e che è presente qui e ora.

Questa presenza diviene qualcuno che possiamo incontrare attraverso una realtà umana che contiene qualcosa di così eccezionale che può spiegarsi solo introducendo il termine “divino”. Solo da qui può nascere la possibilità di non disperare di fronte alla morte – l’ultima contraddizione – nella storia umana. “Donna, non piangere” (Lc 7,13), come disse Gesù alla vedova che aveva perso il suo unico figlio.

Occorre essere sinceri, occorre dare risposta a ciò che il nostro cuore strutturalmente cerca; ma è una pietà umana, qualcuno che è pronto a porre fine alle nostre sofferenze in qualunque momento lo chiedessimo, o è qualcuno che ci ama di un amore così vero che può sconfiggere il tempo e lo spazio?

Comunione e Liberazione UK
3 dicembre 2009

PRESS RELEASE

Is life a tale told by an idiot?

Faced with the Director of Public Prosecutions’ consultation on assisted suicide – in other words, on when is it permissible to end a life deemed not worthwhile – we ask ourselves: what is life, who am I, is there anything that makes this life worthwhile?
Some say life is no longer life when an individual depends too much on someone else. But all life is dependence, structural dependence. We do not decide to be born. In order to remain alive we depend on eating, drinking, breathing, on the climate. All existence is dependence: the only possibility for it not to become slavery is that the giver of life makes himself our companion, someone we can encounter, a human presence who starts answering our heart’s desire for infinite love, for goodness, and for eternity.
Everyone needs to discover who is behind this gift that I am and that reality is. Otherwise, life becomes, as Shakespeare says, “a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing”, and so ultimately, a lie. Our whole being cries out with the desire that life be forever, that relationships last, that the joy aroused by reality before our eyes stay with us forever. The simple existence of things, including the self, as “given” casts a promise of goodness, meaning and eternity on the horizon of life.
How is it possible for a man to stay in front of pain, toil, and the apparent contradiction that a life of sorrow and suffering presents?
The claim of Christianity is that the Giver of life, the Creator, became flesh, like one of us; that he grew into a child, a youth, an adult; that he was not spared suffering, even death on a cross, but rose from the dead; and that he is present here and now.
This presence becomes someone we can meet through a human reality that contains something so exceptional that it can only be explained by introducing the word ‘divine’. Only this can introduce the possibility of not despairing in front of death – the ultimate contradiction – into human history. “Woman do not cry” (Lk 7:13), as Jesus said to the widow who had lost her only child.
Let’s be sincere and let’s answer what our heart is structurally looking for; but is it a human pity, somebody who is ready to terminate our sufferings at any moment should we so request, or is it somebody who loves us with a love so true that it can conquer time and space?

Communion and Liberation UK

Davanti a Lui


Tracce N.11, Dicembre 2009
EDITORIALE
La sfida, in fondo, è tutta lì, su quel foglio appeso al muro di un corridoio della facoltà di Fisica, a Milano. Il testo è il volantino che Comunione e Liberazione ha pubblicato sulla vicenda del crocifisso (lo trovate a pagina 15). Sopra, però, ci sono delle scritte fatte a penna da non si sa chi. Molte osservazioni (parecchie fuori luogo), qualche domanda. Ma soprattutto quella riga di sbieco a coprire una lettera, una sola, per cambiare tempo al verbo e alla storia: «Cristo è un uomo vivo, che ha portato nel mondo un giudizio…» è diventato «Cristo era (o proprio è?) un uomo vivo…», eccetera. «Era», passato. Qualcosa da mettere in archivio. Come - e più - del crocifisso. Perché sembra impossibile che sia.

La sfida è lì. In quello sgorbio che tante volte tracciamo anche noi, senza volerlo e quasi senza accorgercene. Basta poco. Basta fermarsi in superficie, alla nostra misura, e non rendersi conto fino in fondo di ciò che il Natale porta nel mondo: una novità assoluta. Qualcosa di mai visto né immaginato prima: un fenomeno umano - un punto della realtà - in grado di corrispondere senza paragoni alla profondità infinita del nostro animo. E qualcosa che entra nella storia per restarci, perché è capace di vincere il tempo e lo spazio per arrivare al cuore di chiunque e dovunque. Contemporaneo a chiunque e dovunque, al di là di culture e tradizioni e di tutti i vincoli che sembrano renderlo impossibile.

Lo si vede bene in tante pagine di questo Tracce. Dalla Terrasanta, dove quel Fatto continua a essere un misterioso fattore di speranza con cui tutti devono (e possono) fare i conti ora; all’Africa, ricca di testimoni cambiati ora da un incontro che ha perforato le resistenze della loro cultura; alla Mitteleuropa che quell’incontro cerca, appunto, di confinarlo nel passato, ma dove ci si imbatte in persone che non possono fare a meno di restare affascinate ora quando Cristo entra di schianto nelle loro vite. Tutte situazioni diversissime, quasi universi differenti, ma in cui quella Presenza fiorita nel modo più impercettibile che si possa immaginare (un bambino in una mangiatoia) sa stabilire ora un dialogo senza paragoni con il cuore dell’uomo. Fino a farlo suo - libertà permettendo. E a farlo sbocciare.
Perché che cosa sia il Natale lo si vede più di tutto il resto nell’esperienza che facciamo noi. Davanti a Lui, siamo noi a fiorire. A gustare la vita come non mai. A respirare davvero. Persino a diventare capaci di amare noi stessi e gli altri, come grida don Giussani nel Volantone che avete trovato in copertina: «Senza che Cristo sia presenza ora - ora! - io non posso amarmi ora e non posso amare te ora».
Invece accade. Lo vediamo accadere. E nessun fatto del passato può generare qualcosa del genere. Può farlo solo un uomo vivo, ora.
Buon Natale.

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón -Milano, 2 dicembre 2009

Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 259-270
• Canto “Favola”
• Canto “My Song is Love Unknown”
Cominciamo il nostro lavoro di Scuola di comunità; vi ricordo sempre di essere sintetici, con il giudizio dell’esperienza che facciamo.
Io parto da un’esperienza che ho fatto quest’estate. Durante un’assemblea con te, a un certo punto,mi sono messo a piangere perché è stato come se avessi avuto per la prima volta in maniera così chiara l’evidenza di chi sono, perché lì io mi sono detto: «Tu hai tutto. Questa è l’unica cosa vera della tua vita». Se ci fosse stato lì un mago e mi avesse detto: «Realizzo qualsiasi tuo desiderio», io non avrei saputo cosa chiedere. Questo ha generato una commozione enorme, mai provata prima;
la sorpresa è stata da quel giorno in poi dove, non certo come coerenza, ma come sorpresa in atto, mi sono ritrovato di fronte alle circostanze solite della vita, i rapporti con le persone più care o con quelli mai visti, con dentro quella commozione che generava un’attesa rispetto a quella circostanza che non c’era mai stata; un’attesa che dentro quella circostanza, dentro quel rapporto Lui si
manifestasse, per cui le cose hanno cominciato a prendere un peso che nella mia vita non avevano mai avuto, perché è come se prima avessi sempre affrontato le cose e i rapporti rispetto a degli interessi: nel lavoro avevo certi interessi, in famiglia altri, con i miei amici altri. Da quel momento io ho un unico interesse nella vita: che riaccada l’esperienza di Lui, per rivivere la coscienza che Lui è tutto e che io ho tutto. Prendere in mano dopo qualche mese il capitolo sulla povertà ha fatto
come esplodere questo, per cui parlo oggi, anche per quel poco di cui mi sono reso conto, di quel che mi sta accadendo facendo la Scuola di comunità sulla povertà, che in me desta un fascino enorme, un po’ perché è l’inizio di quello che sto vivendo, e un po’ perché un rapporto così – come lì vive Giussani con la realtà – è la cosa più affascinante che io ho incontrato nella vita.

Spiegami bene che cosa vuol dire questo rapporto nuovo con la realtà, quando tu dici che le cose acquistano un peso mai avuto prima. Ti dico questo perché una delle domande che sono arrivate per e-mail è: «Reagisco al capitolo sulla povertà con una breve domanda: “Quanto più si vuol bene tanto più diventa lieve, leggero, libero il rapporto”. Ma come il rapporto può essere libero e nello stesso tempo pienamente coinvolto con chi ho davanti? La domanda nasce dall’esperienza in cui, con la scusa della libertà e della povertà, appunto con la scusa di trattare tutto e tutti per il destino, ho visto il rischio di trattare male il presente, di passar sopra alle persone presenti; il destino ultimo in fondo è lontano. Questo porta con sé un rischio di distanza, di non fare pienamente i conti con mia moglie, di buttare tutto dietro alle spalle, invece di vivere pienamente quella condizione per la fatica che chiede [parla della condizione con la moglie]; in sintesi, mi sembra che rischiamo di vivere la povertà come una riduzione e dimenticanza, invece che come una pienezza di tutta la nostra umanità». Quello che stai dicendo tu è un’altra cosa, mi sembra.

Sì, nel senso che quando dicevo che io ho un unico interesse, quando sono cosciente di me, vuol dire che non c’è più circostanza che mi interessa di meno o mi interessa di più, perché intuisco che ogni circostanza è occasione di esperienza di commozione per la Sua presenza, per cui questo genera un’affezione più grande alle cose e alle persone, perché ciò che domina è l’attesa che Lui si riveli dentro lì, per andare al fondo di quel rapporto lì.

Grazie. Non semplicemente non viene meno il rapporto con il reale, ma è più intenso, perché quando uno è così preso tutto parla, tutto acquista uno spessore che prima non aveva. Per questo dobbiamo essere attenti a quello che succede nell’esperienza, perché tante volte, quando la descriviamo, non tornano i conti.
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Racconto un fatto che mi è successo proprio ieri. È venuta nel mio ufficio una signora di circa quarant’anni, che viene a trovarmi per lavoro, e mi dice subito che ha bisogno della mia assistenza perché deve divorziare. Io resto sorpreso dalla sua determinazione e le chiedo da quanto è sposata; lei mi dice: «Da quasi vent’anni, abbiamo anche tre figli»; allora le chiedo perché vuole divorziare, se è successo qualcosa di così grave, e lei mi dice che è a causa di problemi con la suocera che si protraggono da molti anni e che non può più accettare perché coinvolgono la serietà della famiglia, e dice che il marito non ha mai preso posizione contro la madre perché le è troppo legato, e lei sente in questo che lui le vuole meno bene, che non le vuole bene. Dice: «Nel tempo questo ha fatto subentrare una rabbia, un odio, e ho perso ogni speranza». Io, mentre lei parlava, pensavo: «Cosa le posso dire?»; e quando ha detto così ho pensato che c’entrava proprio con la
Scuola di comunità. Ci sono due passaggi che mi avevano colpito tantissimo, per esempio a pagina 257: «La speranza è la certezza in Cristo che fonda la certezza nel futuro; si oppone alla speranza la certezza riposta in qualcosa che fisso io, presente o futuro». O alla fine: «Questa certezza nel futuro mi viene da un presente, possiedo Cristo […]. Ciò che si oppone a questa speranza è qualunque cosa con cui l’uomo fissa in una cosa determinata da lui, la sua certezza». Ma se questo
è vero per me, è vero anche per lei; non è una verità per ciellini, è la verità per l’umano. Mi è stato come evidente, all’improvviso, che avrei dovuto provare a sfidare lei e anche me a fare tutto il percorso della ragione che tu ci stai aiutando a fare; allora le chiedo: «Qual è la vera origine del tuo desiderio di divorziare?». Dice: «La rabbia e l’odio»; io le obietto che da quello che lei stessa
sta dicendo non è così, che la prima mossa, l’origine di questo disagio a me sembra che sia il bisogno di essere amata (che in qualche modo lei sente tradito). E le dico che è delusa perché sta riponendo la sua speranza in un’immagine di come questo suo desiderio di essere amata deve compiersi, in un certo atteggiamento del marito verso la madre, per esempio. Allora la invito a ripartire da quello che sente come più vero, le dico: «Davvero desideri separarti? O solo essere amata di più, essere amata all’infinito?». Lei resta un attimo senza parole e mi dice che, certo,
desidererebbe essere amata da suo marito, poi resta sorpresa e mi dice: «Adesso riconosco questo, ma da sola come faccio a sostenere questa cosa quando tornerà la rabbia la prossima volta?». Lì non potevo più indugiare e le ho detto che il Mistero, quello che il suo cuore desidera e di cui suo marito è pallido segno, è diventato compagnia all’uomo proprio per questo, perché non ce la faremmo da soli. Allora le ho detto se le faceva piacere e l’ho invitata a cena domenica sera con i
miei amici, lei e suo marito, dicendole che io le parlavo così perché io stesso sono stato preso da una compagnia dove un Altro mi ha fatto riconoscere come sono fatto io, e poi le dico anche: «Ma voi vi siete sposati in chiesa?». «Sì». «E ha mai letto il Vangelo?». Mi dice di sì. «Adesso sei determinata dalla rabbia, ma nel Vangelo chi stava davanti a Gesù da che sentimento era determinato? Dalla letizia, dalla speranza, mentre chi era determinato dalla rabbia? I nemici di Gesù». Allora le ho detto: «Suggerisco, uscendo di qui, di andare a confessarti, cioè di chiedere
l’abbraccio del Mistero che il cuore desidera dicendo: “Non riesco a voler bene a mio marito”, e poi tornare a casa e dire a tuo marito: “Non voglio più divorziare”. Proverai che corrisponde di più a quel che desideri». A me ha impressionato perché questa si è messa a piangere in quel momento lì, e mi ha detto che avrebbe fatto assolutamente così, e mi ha detto che voleva aderire domenica all’invito. Io le ho detto l’ultima cosa che mi è venuta in mente, perché ha sorpreso me mentre gliela dicevo: quelle parole non gliele stavo dicendo io, ma attraverso di me, attraverso il
fragile segno che ero io, era Colui che aveva parlato a Giovanni e Andrea e che aveva raggiunto lei. A me ha impressionato, perché è la sorpresa di un fatto che non avevo immaginato, e io mi sono sentito sfidato dal percorso che abbiamo fatto a riconoscere ancora una volta l’evidenza di quello che corrisponde a me e alla sorpresa di come corrisponde al cuore dell’uomo: questa si è commossa e tutto è stato rimesso in moto; è uscita di lì dicendo che non divorziava più, e questo è
impressionante.

Grazie, perché è soltanto se facciamo un’esperienza che possiamo veramente diventare compagni e approfittare di qualsiasi punto per dare un contributo reale.
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Credo di rientrare nella categoria di quelli che se guardano all’esperienza, vedono che c’è qualcosa che non torna. Nella mia vita ho mille evidenze che Cristo c’è, pensa a me e mi vuole bene; questa è un’esperienza che se negassi, dovrei negare metà delle cose che compongono la mia vita. Anche quando sono in difficoltà, non mi è mai capitato di andare a letto la sera disperata, cioè pensando che la vita fa schifo e non c’è soluzione, magari affranta, in ansia, ma sempre con un ultima energia che chiede a Dio di sostenere quello di cui io non sono capace. Quindi è dalla mia esperienza che posso trarre il giudizio che Cristo c’è e compie, perché l’ho visto tante volte. Però, adesso, mi scontro con questa cosa della letizia che dice don Giussani: da quello che ho capito da quello che ho letto, è una specie di leggerezza data dalla certezza che è Dio che compie. Sebbene io non possa non affermare che è vero, perché nella vita l’ho visto, io questo sentimento (perché lui lo chiama proprio sentimento: «dalla libertà dalle cose nasce un sentimento che nessun altro ha se non chi è povero») lo provo pochissimo, invece spesso vince in me l’ansia e l’apprensione e quindi dico: cosa c’è che non torna nella mia esperienza?
Cosa c’è che non torna?
Lasciamo la domanda aperta: cosa c’è che non torna? Perchè sono due cose che non possono stare staccate. Cosa c’è che non torna? Lasciamo aperta la questione.
L’altro giorno quando ho letto l’ultimo paragrafo sulla povertà, l’ultima osservazione («per conoscere occorre un distacco per vedere le cose e quindi per usarle e goderne di più»), ho avuto realmente un sentimento di abbandono e mi sono detto: «Fino a qua va bene tutto, ma questo non puoi chiedermelo, su questo no, non penso proprio di farcela». Mi stride troppo questa cosa e mi chiedo: ma come è possibile veramente distaccarsi dalle cose e persone e poterne godere di più, come è possibile amare la realtà e i rapporti fino in fondo, e non rischiare di essere superficiali? Io vorrei veramente viverli fino in fondo, e non mi sembra automatico dire che più mi distacco e più li amo fino in fondo. Per cui mi chiedo: è questa una condizione necessaria o spesso che capita per poter vivere questo distacco?

Lasciamo aperte queste domande, vediamo se dagli interventi vengono fuori delle risposte.
A me capita che solo nel momento in cui io vivo un rapporto che è irrinunciabile per me – quando io dico di una persona: «Io non posso più vivere senza di te» –, io sono libera da quella persona. Perché per me il dire questo è il frutto di qualcosa che si è imposto ai miei occhi e cioè che in quella vicenda lì, con quella persona lì, è emersa in modo evidente, senza possibilità di equivoco, la verità di me, e quindi solo quando emerge la verità di me (cioè quel che compie me), è solo in quel
momento che io sono libera, cioè povera.

Spiega bene questo.
Che quando uno fa un’esperienza travolgente con quella persona lì (e di quella persona lì tu dici: «Sei irrinunciabile, non potrei vivere più senza di te»), a un certo punto, emerge evidente che è in questa esperienza che Cristo è inconfondibile.
Perché?
Perché neanche questa persona compie me, perché è nel rapporto con questa persona che emerge la verità di me e quindi quel che compie me.
Ma questo succede in quel momento lì, o perché tu hai avuto l’incontro con Cristo?
Questo succede perché ho avuto l’incontro con Cristo, perché sono già stata segnata, c’è già una cicatrice in me che fa emergere questa esperienza che è sempre una novità, che è nuova, che però è il frutto di un rapporto, di una storia.

Quello che dice – non so se avete capito – secondo me è fondamentale, perché è proprio nel momento culminante del rapporto dove io mi rendo conto del limite di quel rapporto: non quando le cose non vanno, ma quando vanno. Allora lì, in quel momento, appare con tutta evidenza che l’altra persona (a cui mi sento così legato fino al punto di poter dire che senza di lei non potrei vivere) è insufficiente. E questo succede al massimo del successo, non quando le cose non tornano: quando
tornano. E allora, nel massimo della pienezza è quando uno capisce qual è la diversità tra questo e Cristo. Noi tante volte pensiamo che è lo stesso, ma quanto più inconfondibile è un’esperienza così,

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affettiva, tanto più si mette in evidenza qual è la diversità di Cristo, perché se l’uomo non potesse fare questo tipo di esperienza non potrebbe riconoscere qual è la diversità, come tra tanti volti io riconosco quel Volto; e questo lo posso cogliere soltanto se è un’esperienza. Quando arriviamo a quel punto, incomincia il dramma del vivere. Dice, a questo proposito, una lettera: «Vorrei chiedere cosa vuol dire questa posizione della povertà, soprattutto nei rapporti affettivi. Quando ho letto il pezzo in cui Giussani chiede, riferendosi a quello che possiamo vedere e toccare: “Ma se la felicità, la giustizia, la verità, la bellezza è oltre quello che noi possiamo vedere, quello che possiamo vedere e toccare, cosa ci importa?”, e poi: “Ci importa soltanto in quanto Dio ce lo fa trovare ‘tra i piedi’ e
dobbiamo usarlo per il nostro lavoro”, sinceramente mi ha ribollito il sangue nelle vene e ho detto: “Ma come?”. Tutto quello che ho, il mio lavoro, le mie figlie, mio marito, tutto questo non può essere qualcosa “tra i piedi”; non mi basta dire che queste cose non sono le più care che ho, non mi compiono anche se è un’esperienza che faccio tutti i giorni. Allora, mi puoi aiutare? A cosa servono le cose? Qual è questo lavoro? E come posso voler bene a mio marito e alle miei figlie, al mio
lavoro come vuole loro bene Dio? E come non può essere che queste cose servano solo per renderti conto che non è lì il tuo compimento e quindi cerchi un Altro? Perché allora Dio ne ha messe così tante e varie e belle?». Questa è la domanda: qual è il rapporto vero con le cose e con le persone?
Guardate che se rileggete tutto l’inizio, da pagina 256, don Giussani ha una parola che ripete in continuazione lungo tutte queste due pagine: un certo possesso, certo possesso, certo, certo, certo, cioè «la povertà è non sperare da un certo possesso». E «certo vuol dire fissato da noi, previsto da noi, scelto tra quello che è comodo a noi, scelto tra quello che più persuade noi, scelto tra quello che più ci dà ricchezza e quindi sicurezza economica». «Certo è quello fissato da noi»; perché? Perché nel momento più decisivo dell’esperienza, come abbiamo visto, questo non ci rende compiuti. E questo perché? Per due cose. Primo: per la natura del desiderio; mai come in questa esperienza viene fuori che il mio desiderio è più grande di tutto quanto io trovo, che le cose non sono in grado di compiere perché tutte quante sono limitate. Per questo aspettarsi il compimento dal possesso delle cose o delle persone si rivela sempre di più incapace di compiere (tanto è vero che basterebbe
pensare un attimo che la maggioranza delle persone, come dirà dopo, il 99,99%, vivono il rapporto aspettandosi tutto, come se tutto fosse lì). Come è possibile che un’esperienza così – per cui all’inizio diciamo: «Io non posso più vivere senza questa persona qua» –, nel tempo, può poi diventare qualcosa che non mi dice più niente, fino al punto di divorziare? Questo non vuol dire che io per questo debba trattenermi. Io devo vivere la verità di quel rapporto, e la verità di quel rapporto
io la posso vivere per Cristo presente, che lo rende possibile nella sua verità. Se io non riesco a vivere il rapporto nella sua verità, il tempo e le circostanze e la insufficienza lo fanno venir meno come interesse della vita; non perché io voglia che venga meno, ma perché non è in grado di prendermi tutto, perché si palesa che non è quello per cui io sono fatto, che non è quello per cui è fatto l’altro. Allora la questione è come vivere il rapporto in modo tale da vivere nella prospettiva di
quello che riempie tutti e due; e questo dobbiamo testimoniarcelo a vicenda: come io vivo un rapporto in modo tale che questo diventi sempre interessante e non venga meno? Perché se viene meno, vuol dire che c’è una modalità di vivere le cose, un certo possesso delle cose e delle persone che portano inevitabilmente a riporre la speranza del mio compimento lì, come nell’esempio del ragazzo: «La ragazza ha il ragazzino: è a posto! Passano qualche mese o qualche anno con la certezza di avere tutto: questo è un rapporto non povero. Non perché una non debba avere il ragazzino in modo serio ma perché ripone lì la certezza della sua speranza, la certezza del suo
futuro; e così accade al novantanove per cento… virgola novantanove». Su questo mi sembra che tutti abbiamo conferme dall’esperienza; per questo vivere un rapporto nella sua verità è proprio per evitare che decada, non per togliertelo da dosso; per evitare che questo affetto, che questa cosa bella che è accaduta nella vita, venga meno.

Pensando anche a poco fa, è chiarissimo cosa torna a te e cosa pian piano sta iniziando a tornare anche a noi. E questo per me è stato evidente anche al tuo intervento alla Compagnia delle Opere dell’altra domenica, quando citi Giussani che afferma che «per potere amare se stessi, per potere (5)
operare tanto, bisogna essere insieme; per potere essere insieme bisogna riconoscere un amore a sé che permetta di amare anche gli altri, e quindi che operi il cambiamento grande che è l’amore alla gente e a se stessi considerati come rapporto al destino; ma questo non è possibile se non per una Presenza, non è possibile se Cristo [...] non è risorto, cioè non è contemporaneo. Allora, riconoscere questo contemporaneo, questa presenza al mio gesto, questa compagnia al mio cammino, è il primo fondamentale gesto di libertà che permette tutti gli altri, anzi, che permette e incita tutti gli altri».

È questa la cosa che colpisce, che sta iniziando – pensando a quello che è stato detto prima –: qualcosa inizia a tornare e uno, essendo preferito, inizia a preferire. Questa è un’altra questione che appare nelle vostre domande. «Leggendo Si può vivere così? mi ha colpito questo pezzo scritto nella sintesi sulla povertà: “Siamo chiamati a fare un lavoro: questo è un concetto che dovete aggiungere all’ultima volta. La povertà non è automatica, non è quella di uno coi pidocchi e con i panni strappati addosso che sta lì ai margini di una strada. La povertà è l’uso della realtà secondo il destino che con sicurezza ci è proposto e ci attende”. Mi ha colpito il fatto che la povertà, come ne parla il Gius, non è un possedere, ma un possedere nel modo giusto [come dicevamo prima], non è un non usare, ma un usare nel modo giusto, cioè tenendo conto del destino di tutta la realtà. Inoltre ti chiedo un chiarimento su che cosa è questo lavoro che ci è chiesto
per diventare più poveri, perché questo pezzo contraddice frasi pronunciate da persone per me autorevoli del tipo: “La cosa più immorale è impegnarsi con la realtà perché tutto è frutto di grazia”. A me sembra, invece, che il lavoro della povertà sia proprio questo continuo strapparci da ciò che ci fermerebbe nella sequela e nella domanda di Cristo presente attraverso la nostra compagnia. Questa è una questione che si ripropone con frequenza». Queste domande mostrano che c’è una fatica
diffusa a cogliere il rapporto tra la grazia e la libertà, a cogliere che la povertà è frutto della speranza. Perché essendo io certo che c’è la Presenza che compie, posso essere libero nel trattare le cose; questo è un percorso che succede come una grazia, come conseguenza di una grazia. Allora, se è una grazia, vuol dire che non è anche iniziativa mia? Cioè: quando io uso le cose in un modo diverso, non le uso io? Le uso io. Ci sono due cose che tante volte si mettono in contrapposizione:
se c’è una cosa che accade come grazia, vuol dire che l’io non fa niente. Pensate che cosa di maggior grazia c’è che innamorarsi, e ditemi se dopo che vi siete innamorati, non fate più niente; è anzi quando incominciate a fare qualcosa, è proprio il contrario! Uno si rende conto che gli è successo qualcosa, proprio perché prende iniziativa rispetto a questo. Tu l’innamoramento te lo dai te? No, è grazia pura. Questo vuol dire forse che tu vuoi bene all’altro senza di te? Ma neanche per
sogno! Sei tu a dire: «Ti voglio bene», e sei tu che la cerchi, sei tu che la chiami. Sono due cose che non possono mai essere in contrapposizione; io posso essere sempre più libero dalle cose, e proprio perché sono più libero posso prendere l’iniziativa di usare le cose in un modo più vero; chi me lo impedisce? E questo non è in contraddizione, è semplicemente che io, per grazia, posso aver
acquistato una libertà rispetto alle cose che mi fa usare tutto quello che uso secondo una modalità diversa da quella che adoperavo prima. E questo lo faccio io (come colui che risponde alla persona amata lo fa lui e prende iniziativa lui, non la prende il vicino). Per questo, che sia allo stesso tempo un percorso di grazia e che questo uno lo desideri sempre di più per sé, mette in moto tutta la mia
libertà: e che metta in moto la mia libertà è il segno che mi è successo qualcosa che non voglio perdere, e allora voglio usare le cose sempre più così. Per questo non c’è questa contraddizione delle cose, è semplicemente espressione di quel dinamismo che non potremmo essere noi stessi a darci, ma che, per grazia, si introduce nel modo di rapportarci alle cose e alle persone.


Mio figlio ha fatto un compito per la scuola, aveva da rispondere a delle domande e in una ha risposto che si chiede perché va a scuola, poi si risponde e dice: «Per conoscere cose nuove, per conoscere», e che vorrebbe parlare con qualcuno di queste domande fondamentali. Per me questa è stata una botta, perché io per lui ci sono sempre, lui ha undici anni, va a scuola alle medie, gli preparo il pranzo tutti i giorni, lo aiuto a studiare, ci sono sempre tutti i pomeriggi anche per il
lavoro che faccio, lo accompagno da tutte le parti eccetera, ma lui in questa risposta che ha dato ha espresso un bisogno più grande, più costitutivo e per questo lo ringrazio perché probabilmente
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io gli sto addosso spesso, lo aiuto, quasi vorrei risolvergli i problemi della vita e mi dimentico, mi rendo conto che probabilmente mi dimentico che è un Altro invece quello di cui lui ha bisogno; e allora capisco, o almeno provo a capire, il distacco in un rapporto di cui parla Giussani, e capisco che devo fare come un passo indietro e guardare il suo vero bisogno, il suo vero desiderio così probabilmente riesco anche a conoscerlo di più, conoscere di più lui e me.
Grazie.

A me ha colpito, rivedendo il capitolo della povertà, che a un certo punto, nella parte finale, si ribadisce una cosa di fondo, cioè che la povertà appartiene alla conoscenza, cioè è una legge dinamica della conoscenza. Ci sono tante intuizioni morali molto affascinanti dentro questo capitolo, però lui dice che è un dinamismo della conoscenza, esattamente come la fede. Allora dico: se è così, bisogna applicarlo, verificarlo e ho provato ad applicarlo su una mia situazione di vita,
di lavoro. Io sono in un gruppo di lavoro in questo momento che ha delle difficoltà con il nostro dirigente; siamo un gruppo di lavoro che ha ragione e il capo ha torto, questo è chiaro a tutti. Tranne al capo...
Però c’è un particolare: siamo talmente convinti di avere ragione che siamo arrabbiati, la letizia non esiste dentro questo gruppo di gente che dice di aver ragione e probabilmente ha ragione; allora qualcosa non torna, evidentemente. Allora ho detto: «Provo a mettermi in dialogo, applicando quel metodo lì», cioè la povertà come metodo di conoscenza; io voglio capire il perché di questa cosa, e invece di continuare a mettere l’accento sul fatto che ho ragione, lo metto su quello che dice Giussani: la letizia si perde perché uno è tutto concentrato sul fatto che ti è dovuto il riconoscimento per il tuo lavorare bene. Ci ho provato, ed effettivamente è venuta fuori la cosa, cioè funziona, nel senso che sono riuscito a rapportarmi perché l’altro, da cattivo cui ti opponi (in fondo pensando solo a tenere strette le tue ragioni), diventa una possibilità per un dialogo concreto; e questa settimana è diventata più vivibile della precedente proprio perchè ho scommesso. Ci ho provato in questo; adesso ci provo con mia moglie e con i figli, e poi magari più
avanti racconto come va a finire.
Ma, secondo te, dobbiamo aspettare l’esito di questo?
No.

La questione è se noi, quando le cose non ci tornano, siamo liberi o no. Questa è la questione. E che cosa consente di essere liberi ora, non quando le cose torneranno (io desidero che tornino, per carità)? Dico: e se il capo si incastra e non va né avanti né indietro? O l’altro non vuole cambiare o la moglie non so cosa, o l’amico, il figlio? E se questo non succede, come tante volte non succede? O uno che ha una malattia, uno che ha una situazione che non cambia: che cosa introduce quel
percorso? In che cosa si vede che siamo poveri lì? Da dove viene la nostra libertà in quella situazione? Cosa che consente, poi, di ripartire? Perché tu, in fondo, per dire questo, sei dovuto ripartire per un’altra cosa. Secondo me è interessante renderci conto di questo, perché altrimenti, come succede sempre, in fondo aspettiamo la corrispondenza dal successo. Ma questo vuol dire: che
cosa introduce la fede come esperienza reale? Noi reagiamo come tutti: quando le cose vanno bene reagiamo bene, quando vanno male ci incastriamo.
Tra l’altro la complicità è molto facile quando si è tutti insieme contro un obiettivo. Evidentemente. In quel caso la libertà è un bene molto scarso perché tutti sono lì, presi da quella cosa. Ritorneremo su questo.


Da quando sono rientrata al lavoro dopo l’ultima maternità, per una carenza di personale mi trovo a dover lavorare molte ore; tuttavia, invece che sentirmi stanca, mi sento sempre più contenta, addirittura lieta. Una mia amica mi chiedeva perché e io stessa non sapevo rispondere. Dopo la scorsa Scuola di comunità mi sembra di aver capito. Al mattino, quando cammino dal parcheggio alla porta d’ingresso dell’ospedale dove lavoro, mi chiedo dove scorgerò Cristo oggi; però, a fine
giornata, mi sembra sempre di non averLo visto da nessuna parte. Allora, perché questa letizia? Ho realizzato che sono lieta perché stupita di quello che accade. In tutti questi mesi di lavoro non
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c’è situazione in cui io non agisca diversamente da come avrei fatto prima; da quando da oltre due anni ci stai accompagnando in questo percorso affascinante, so di essere cambiata, ma non immaginavo quanto; sono tanti i momenti della giornata in cui di fronte a situazioni usuali io non mi comporto in un modo da me stessa prevedibile, per cui sono costretta a chiedermi chi mi fa essere diversa da come sono sempre stata, chi mi sta facendo in quel momento. Così mi sono accorta che non servono fatti eclatanti (o che ho in mente io) per scorgere Cristo che accade; solo
ora ho capito che la letizia che ho nasce dal vedere come cambia me nei vari momenti del giorno, che è Lui presente che mi fa. E questo – perché accade a me, e non a un altro! – non cesserà mai di stupirmi e mi fa chiedere che accada sempre, in ogni istante e dovunque.

Questo è ciò che dà libertà. E così ci aiutiamo a capire. La questione della povertà non la possiamo staccare come se fosse una cosa isolata dall’io; e qual è la natura del nostro io? Che il nostro io è esigenza di compimento e noi questa esigenza di compimento, questo quid animo satis? di cui parla alla fine, con che cosa possiamo riempirlo? Con che cosa tutti gli uomini cercano di riempirlo? Con
le due cose possibili: le cose o le persone. Per questo noi ci aspettiamo la pienezza dal possesso, degli uni o degli altri, o del figlio o del marito o della moglie o dei lavoratori che lavorano con me o dei colleghi, o dall’accumulo delle cose. Perché succede così? Perché non posso togliermi da dosso questa esigenza di pienezza, è impossibile. Allora perché i valori non bastano? Perché con essi io
non posso evitare di desiderare tutto, e perciò niente è sufficiente. Per questo, se io non ho un’esperienza di risposta positiva a questa domanda (cioè che succeda qualcosa nel presente che riempia il vuoto di cui sono fatto, che sia in grado di compiere il desiderio), io mi posso scordare di avere un rapporto libero con le persone o con le cose. La povertà non è un valore che si può staccare
dal percorso della fede, è soltanto Cristo che rende possibile un rapporto diverso; se noi stacchiamo il valore della povertà da Cristo, diventa qualcosa di impossibile. Questa è la grandezza del percorso che ci fa fare don Giussani: che questo è l’esito della fede e della speranza perché io vivo con questa certezza. Lui lo dice in tanti modi: «Io posso essere libero per il possesso di Cristo presente»,
perché soltanto Cristo presente è in grado di corrispondere a tutta l’attesa, e per questo posso rapportami al marito o ai figli non come qualcosa da gestire, ma guardarli per quello che veramente sono, non usandoli come mezzi per riempire i miei vuoti esistenziali; posso trattarli nella loro verità, in accordo con il loro destino, trattare le cose per il loro destino. Se no è soltanto un tentativo mio,
un tentativo – ancora al livello del mero senso religioso – di liberarmi da questo vuoto. Ma non riesco. Perché non riesco? Posso riuscire a vivere con meno soldi, ma non a essere libero e a essere lieto. Le tre caratteristiche che dice don Giussani sono decisive per capire se stiamo parlando di un’esperienza cristiana; guardate: libertà dalle cose, letizia, possesso del necessario. E ciascuno deve fare il confronto con questo, perché altrimenti è qualcosa di impossibile. Infatti, o questo mi è dato come grazia, come l’esito di questa Presenza che mi si impone, o sono impossibili questa libertà e questa letizia. Dio, avendoci preferito, ci ha fatto partecipi di quella pienezza che ci consente un rapporto libero, gratuito; altrimenti sarebbe impossibile. Questo è quello che impressiona dell’esperienza cristiana: per gli antichi gli dei non potevano amare, perché l’unico concetto di amore che avevano era l’eros (il concetto di desiderio): c’è qualcosa che desidero
perché manca. E questo sarebbe introdurre nella divinità un limite, una mancanza; secondo questo concetto gli dei non potevano amare, perché per definizione non poteva mancare loro qualcosa. Il cristiano ha dovuto inventare un’altra parola: caritas, per esprimere che l’amore con cui Dio ci ama nasce da una sovrabbondanza. E questo l’essere umano non avrebbe potuto capirlo senza la venuta di Cristo. Ma noi non siamo Dio; per questo la prima mossa che dobbiamo fare per essere liberi è
accettare di essere bisognosi; soltanto Dio può vivere una pienezza così grande da essere gratuito nel rapporto, da amare le cose per il loro destino, perché Lui coincide con la pienezza. Noi siamo bisognosi, e perciò abbiamo necessità di accogliere questa caritas, questa carità assoluta del Mistero nei nostri confronti, questa preferenza del Mistero per noi, in modo tale da poter imitare Dio, da
poter dare, nel rapporto con tutti, ciò che trabocca di quello che riceviamo. Questo è il test del percorso che stiamo facendo. In che cosa si vede? Primo: se sono libero. Poi: se prendo l’iniziativa, se mi incomincio a rapportare con le cose in un modo nuovo, per quella capacità non mia che
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introduce il Mistero (come ha detto il Papa nella Caritas in veritate: noi possiamo diventare protagonisti di questa carità proprio per la carità che riceviamo da Dio). Per questo il fondo ultimo a cui arriveremo sarà quando parleremo della carità, perché senza di essa nulla è possibile. Ma se noi non cogliamo tutti questi passaggi, affermiamo a ogni momento un singolo particolare dimenticandoci dell’insieme. Perché è l’io che ha tutto il desiderio di pienezza! O c’è Lui che lo
riempie in continuazione, o io mi posso scordare di rapportarmi in un modo libero, gratuito e lieto con le cose e con le persone, qualsiasi proposito abbia fatto. Chiaro? La vera decisione è se io accetto di entrare in questo rapporto così costitutivo con Cristo che mi consente un’esperienza del vivere così piena e così lieta che mi fa rapportate gratuitamente con tutto.
• Veni Sancte Spiritus

giovedì 3 dicembre 2009

“La carità non avrà mai fine” GIORNATA NAZIONALE DELLA COLLETTA ALIMENTARE: + 3%, RACCOLTE 8.600 TONNELLATE DI CIBO*.





CONTINUA AD AIUTARE LA RETE BANCO ALIMENTARE CON UN SMS AL 48547 fino al 15/12/2009




Milano, 2 dicembre 2009
Si è svolta sabato in oltre 7600 supermercati e ipermercati la XIII edizione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare. Grazie all'aiuto di più di 100.000 volontari sono state raccolte 8.600 tonnellate di prodotti alimentari* che saranno distribuiti agli oltre 8.000 enti convenzionati con la Rete Banco Alimentare che assistono 1,3 milioni di persone ogni giorno. Anche in un periodo di confusione e crisi come quello attuale, la generosità delle persone è stata immensa: il dono di una parte della propria spesa è entrato nel cuore della gente, diventando un vero e proprio gesto di popolo. La carità continua ad essere più forte della crisi economica e l'esperienza della Colletta Alimentare è una risposta concreta al bisogno materiale del povero e allo stesso tempo al desiderio di rompere la catena della solitudine che sempre più spesso attanaglia le persone. Si ringraziano inoltre: la Compagnia delle Opere – Opere Sociali, l’Associazione Nazionale Alpini, la Società San Vincenzo de Paoli e Comunione e Liberazione per il cospicuo contributo di volontari offerto durante la “Colletta Alimentare”, le catene dei supermercati per la loro disponibilità nell’ospitare i volontari e per le molte promozioni legate ai prodotti di cui era consigliato l’acquisto, la Presidenza della Repubblica, il coordinamento Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2009, il Segretariato Sociale RAI per la sensibilizzazione, i sostenitori nazionali: Intesa Sanpaolo, Banca Prossima, Aurora e Unipol (UGF Assicurazioni), Fastweb, Irge, Sky, Comieco, FNM, Poste Italiane Continua ad aiutare la Rete Banco Alimentare donando 2 euro con un sms al numero 48547 (rete mobile Tim, Vodafone, Wind, 3, rete fissa Telecom) *Il dato 2009 non può essere confrontato con il dato 2008 (8970 tonnellate raccolte) poiché il Banco Alimentare con sede a Caserta da gennaio non esiste più e solo da ottobre è ripartita l'attività del nuovo Banco Alimentare con sede a Salerno. Senza considerare la Campania l'incremento rispetto al 2008 è del 3%.

Ufficio Stampa: Francesco Lovati 334.64.08.185 ufficiostampa@bancoalimentare.it

La vita in carcere?È meglio con Giotto .Così al 'Due Palazzi' di Padova rinasce la speranza



Una cooperativa sociale ha portato nel penitenziario una 'rivoluzione culturale' Laboratori dove si assemblano biciclette, valigie e gioielli e si producono dolci e piastrelle. E rapporti umani che offrono un significato alla vita e alla detenzione. Anche per gli ergastolani
Franco monta selle, manubri e cerchioni sulle biciclette, Ble­dar assembla valigie, Angelo ri­sponde alle telefonate di chi vuole prenotare una visita medica alla Asl di Padova. Lavoratori infaticabili e fieri del mestiere che hanno impa­rato nel luogo dove meno se lo a­spettavano: la prigione. Hanno in co­mune la stessa condanna: ergastolo. O, come si dice in gergo carcerario, fine pena mai. Nella casa di reclu­sione Due Palazzi di Padova sono 80 i detenuti-lavoratori, il 10 per cento del totale, un record nel panorama penitenziario italiano. Altri venti la­vorano all’esterno curando il verde pubblico, i lavori cimiteriali e la pu­lizia delle strade. Tutto grazie all’in­ventiva e all’impegno degli operato­ri della cooperativa Giotto, che dal 1991 ha portato qui dentro una 'ri­voluzione culturale': il lavoro come strumento di riscatto. E così, quello che solitamente è un periodo di ab­brutimento e di degrado, per molti è diventato l’occasione per comincia­re una nuova vita. «Quando sono entrato avevo la neb­bia nel cervello e il cuore carico di rancore – racconta Angelo, ergasto­lano, condanne per omicidio e rapi­na a mano armata –. Non volevo neppure riconoscere di avere sba­gliato, da 12 anni non andavo a mes­sa, al frate che mi confessava dicevo che non ero stato io a uccidere, men­tivo persino con mia moglie. Qui ho incontrato gente che non mi ha chie­sto conto del mio passato, mi ha aiu­tato ad alzare lo sguardo e a metter­mi in azione. Ho fatto il corso per o­peratore di call center, lavoro sette ore al giorno al servizio di prenota­zione delle visite mediche per conto dell’Asl di Padova e per Fastweb. Ma soprattutto ho imparato a ricono­scere i miei errori e a fare pace con me stesso. E ho capito che Dio per­dona e ti dà sempre un’altra possi­bilità. Proprio come hanno fatto con me quelli di Giotto, che mi hanno of­ferto lavoro e amicizia». Come tutto il popolo delle carceri, anche Ange­lo è turbato dalla moltiplicazione dei suicidi di cui si ha notizia in questo periodo. «Certamente il sovraffolla­mento e il degrado in cui vivono tan­ti detenuti può spingere verso gesti estremi. In carcere ci sono tutte le condizioni per andare fuori di testa. Per farcela devi avere qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare an­che quando guardi i muri della tua cella. Io questo 'qualcosa' l’ho in­contrato proprio quando avevo toc­cato il fondo». È successo anche a Bledar, albanese di 36 anni, ergastolano pure lui, uno col coltello facile, che per questo è finito dentro sia al suo Paese, sia do­po essere emigrato in Italia, alla ri­cerca di un Eldorado che non ha mai trovato. Furti, rapine, spaccio, sfrut­tamento della prostituzione, fino al- l’omicidio. Quando la polizia lo ha fermato stava correndo a 150 all’ora, imbottito di alcol e droga. «Quei po­liziotti sono stati la mano di Dio che mi ha raggiunto prima che facessi la fine dei miei amici. Nella nostra ban­da eravamo in 12, gli altri 11 sono tutti morti in risse con bande rivali o incidenti stradali. Quando sono ar­rivato al Due Palazzi mi hanno mes­so nello stesso braccio di Franco, che mi ha fatto conoscere quelli di Giot­to. Grazie a loro ho cominciato a la­vorare e soprattutto a sperare». Ma­dre cristiana e padre musulmano, Bledar aveva sempre considerato la religione come un soprammobile, come tutti i giovani cresciuti nell’Al­bania dell’ateismo di stato. In carce­re ha conosciuto gente cambiata dal­l’incontro con Gesù, e anche lui ha cominciato a cambiare. «Ho chiesto il battesimo perché voglio vivere co­me loro, non posso fare a meno di a­mici così». Padre Luigi Caria, cappellano del car­cere, conferma che «anche nei luo­ghi più duri possono cominciare per­corsi di rinascita. I detenuti sono per­sone come noi, anche se nella men­talità comune si pensa che chi varca le porte del carcere diventa automa­ticamente una persona di serie B, un’entità irrecuperabile. Buttiamo via la chiave delle loro celle e li di­mentichiamo. Peccato che dopo un po’ questa gente esce, cerca casa e lavoro, cerca una normalità che le viene negata, e così molti tornano a delinquere».
Le cifre parlano chiaro: il 70% degli ex detenuti, una volta usciti com­mette altri reati. Ma la percentuale si abbassa al 20 per cento tra coloro che hanno usufruito di misure alter­native e scende a meno dell’1 per cento tra quanti hanno iniziato a la­vorare in carcere. «Lavoro vero, però, non lavoro assistito – tiene a preci­sare Nicola Boscoletto, presidente del Consorzio sociale Rebus e pio­niere dell’esperienza al Due Palazzi con la cooperativa Giotto –. In Italia i detenuti ’occupati’ all’interno del­le carceri sono 13mila su 66mila, ma solo 750 lavorano in cooperative so­ciali come la nostra che si muovono secondo logiche di mercato, accet­tando la concorrenza e cercando di realizzare profitti che poi vengono reinvestiti per creare nuova occupa­zione ». È la scommessa del 'privato sociale', che fa i conti con difficoltà burocratiche e diffidenze radicate, ma conta sull’aiuto di aziende che hanno visto ricambiata la loro fidu­cia in termini di qualità e affidabi­lità. I detenuti-dipendenti sono in­quadrati nel contratto delle coope­rative sociali, 900 euro al mese, con cui riescono anche ad aiutare le fa­miglie: una molla in più per 'muo­vere' il cuore e la mente.
La cooperativa, oltre a gestire la ri­storazione interna e un laboratorio di cartotecnica e ceramica, ha por­tato tra le mura del Due Palazzi no­mi importanti: assembla le valigie Roncato, i gioielli di Morellato, le bi­ciclette del gruppo Esperia con i marchi Torpado, Bottecchia e Fon­driest, ha allestito un call center per l’Asl di Padova e per Fastweb, men­tre per Infocert mette a punto le pen­drive col software per la firma digi­tale e cura la digitalizzazione di mi­gliaia di documenti cartacei. Il fiore all’occhiello sono i 'dolci di Giotto', che hanno acquisito notorietà a li­vello nazionale approdando persino nell’appartamento pontificio e sulla tavola dei grandi del G8 a L’Aquila.
Qui dentro Giotto non è solo un no­me, è una presenza: nei laboratori si fabbricano scatole, oggetti di can­celleria e piastrelle in ceramica ispi­rati agli affreschi della Cappella de­gli Scrovegni, il tesoro artistico del­la città. Riproduzioni dei dipinti campeggiano sulle pareti dei labo­ratori, e persino nella mensa è stata riprodotta una copia delle Nozze di Cana del pittore fiorentino. Com­menta Angelo, l’ergastolano addet­to al call center: «La Bellezza aiuta a vivere, ridà speranza. È vero per tut­ti, perché non dovrebbe esserlo an­che per noi?».

il direttore :
«Più lavoro per aprire la strada al recupero dei detenuti»


Il Due Palazzi era stato progettato per ospitare 350 detenuti.
Appena divenuto operativo, nel 1989, ne ha accolti 700. Oggi sono 810. Il direttore Salvatore Pirruccio non si scompone: «È quanto accade in molti altri penitenziari. Il sovraffollamento è un problema endemico».
Cosa si deve fare per ridurlo?
Incentivare le misure alternative: detenzione domiciliare a chi ha pene brevi o è arrivato vicino al 'fine pena', per reati che non siano di grande allarme sociale; affidamento in prova ai servizi sociali; percorsi di studio e di lavoro che offrono chance per il 'dopo' e riducono la recidiva. Ma soprattutto si deve modificare il sistema processuale: in carcere vivono oltre 32mila persone (quasi la metà del totale) in attesa di giudizio. Inoltre si dovrebbe incentivare la possibilità di scontare la pena nei Paesi di origine, qui abbiamo il 40 % di stranieri
Per mettere in pratica l’articolo 27 della Costituzione e promuovere dinamiche di riabilitazione della persona è importante avere a disposizione degli educatori. Quanti sono qui?
Cinque, presto dovrebbero arrivarne altri 4. Vuol dire che ciascuno si dovrebbe occupare di circa 90 detenuti. Troppo pochi, il numero ideale per poter fare un buon lavoro sarebbe 50.
Per l’osservazione scientifica della personalità del detenuto che porta poi alla redazione del programma di trattamento anche ai fini di un programma di riabilitazione, l’ordinamento penitenziario prevede 9 mesi: col personale che abbiamo a disposizione ne impieghiamo 13. Tutto ciò si ripercuote pesantemente sui tempi della riabilitazione.
Questo carcere è un’anomalia: 100 detenuti che seguono corsi scolastici, 20 iscritti all’università, una percentuale che lavora per aziende esterne (10%) ampiamente superiore alla media nazionale. Siete bravi o fortunati?
È il frutto di una sinergia con varie realtà presenti sul territorio: la cooperativa Giotto che promuove possibilità di lavoro dentro e fuori dal carcere in accordo con varie aziende, gli enti locali, la Asl, i magistrati di sorveglianza. Chi lavora percepisce un reddito e acquisisce un metodo che è fatto di professionalità, passione e rispetto delle regole, ingredienti essenziali per quando si esce dal carcere. È un lavoro di rete che si dovrebbe esportare in altre realtà. Il carcere deve dare a tutti almeno una possibilità per ripartire.

«Il segreto del nostro successo? Una sinergia con aziende presenti sul territorio, enti locali e magistrato di sorveglianza»
GIORGIO PAOLUCCI -Avvenire 03/10/09