venerdì 4 dicembre 2009

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón -Milano, 2 dicembre 2009

Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 259-270
• Canto “Favola”
• Canto “My Song is Love Unknown”
Cominciamo il nostro lavoro di Scuola di comunità; vi ricordo sempre di essere sintetici, con il giudizio dell’esperienza che facciamo.
Io parto da un’esperienza che ho fatto quest’estate. Durante un’assemblea con te, a un certo punto,mi sono messo a piangere perché è stato come se avessi avuto per la prima volta in maniera così chiara l’evidenza di chi sono, perché lì io mi sono detto: «Tu hai tutto. Questa è l’unica cosa vera della tua vita». Se ci fosse stato lì un mago e mi avesse detto: «Realizzo qualsiasi tuo desiderio», io non avrei saputo cosa chiedere. Questo ha generato una commozione enorme, mai provata prima;
la sorpresa è stata da quel giorno in poi dove, non certo come coerenza, ma come sorpresa in atto, mi sono ritrovato di fronte alle circostanze solite della vita, i rapporti con le persone più care o con quelli mai visti, con dentro quella commozione che generava un’attesa rispetto a quella circostanza che non c’era mai stata; un’attesa che dentro quella circostanza, dentro quel rapporto Lui si
manifestasse, per cui le cose hanno cominciato a prendere un peso che nella mia vita non avevano mai avuto, perché è come se prima avessi sempre affrontato le cose e i rapporti rispetto a degli interessi: nel lavoro avevo certi interessi, in famiglia altri, con i miei amici altri. Da quel momento io ho un unico interesse nella vita: che riaccada l’esperienza di Lui, per rivivere la coscienza che Lui è tutto e che io ho tutto. Prendere in mano dopo qualche mese il capitolo sulla povertà ha fatto
come esplodere questo, per cui parlo oggi, anche per quel poco di cui mi sono reso conto, di quel che mi sta accadendo facendo la Scuola di comunità sulla povertà, che in me desta un fascino enorme, un po’ perché è l’inizio di quello che sto vivendo, e un po’ perché un rapporto così – come lì vive Giussani con la realtà – è la cosa più affascinante che io ho incontrato nella vita.

Spiegami bene che cosa vuol dire questo rapporto nuovo con la realtà, quando tu dici che le cose acquistano un peso mai avuto prima. Ti dico questo perché una delle domande che sono arrivate per e-mail è: «Reagisco al capitolo sulla povertà con una breve domanda: “Quanto più si vuol bene tanto più diventa lieve, leggero, libero il rapporto”. Ma come il rapporto può essere libero e nello stesso tempo pienamente coinvolto con chi ho davanti? La domanda nasce dall’esperienza in cui, con la scusa della libertà e della povertà, appunto con la scusa di trattare tutto e tutti per il destino, ho visto il rischio di trattare male il presente, di passar sopra alle persone presenti; il destino ultimo in fondo è lontano. Questo porta con sé un rischio di distanza, di non fare pienamente i conti con mia moglie, di buttare tutto dietro alle spalle, invece di vivere pienamente quella condizione per la fatica che chiede [parla della condizione con la moglie]; in sintesi, mi sembra che rischiamo di vivere la povertà come una riduzione e dimenticanza, invece che come una pienezza di tutta la nostra umanità». Quello che stai dicendo tu è un’altra cosa, mi sembra.

Sì, nel senso che quando dicevo che io ho un unico interesse, quando sono cosciente di me, vuol dire che non c’è più circostanza che mi interessa di meno o mi interessa di più, perché intuisco che ogni circostanza è occasione di esperienza di commozione per la Sua presenza, per cui questo genera un’affezione più grande alle cose e alle persone, perché ciò che domina è l’attesa che Lui si riveli dentro lì, per andare al fondo di quel rapporto lì.

Grazie. Non semplicemente non viene meno il rapporto con il reale, ma è più intenso, perché quando uno è così preso tutto parla, tutto acquista uno spessore che prima non aveva. Per questo dobbiamo essere attenti a quello che succede nell’esperienza, perché tante volte, quando la descriviamo, non tornano i conti.
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Racconto un fatto che mi è successo proprio ieri. È venuta nel mio ufficio una signora di circa quarant’anni, che viene a trovarmi per lavoro, e mi dice subito che ha bisogno della mia assistenza perché deve divorziare. Io resto sorpreso dalla sua determinazione e le chiedo da quanto è sposata; lei mi dice: «Da quasi vent’anni, abbiamo anche tre figli»; allora le chiedo perché vuole divorziare, se è successo qualcosa di così grave, e lei mi dice che è a causa di problemi con la suocera che si protraggono da molti anni e che non può più accettare perché coinvolgono la serietà della famiglia, e dice che il marito non ha mai preso posizione contro la madre perché le è troppo legato, e lei sente in questo che lui le vuole meno bene, che non le vuole bene. Dice: «Nel tempo questo ha fatto subentrare una rabbia, un odio, e ho perso ogni speranza». Io, mentre lei parlava, pensavo: «Cosa le posso dire?»; e quando ha detto così ho pensato che c’entrava proprio con la
Scuola di comunità. Ci sono due passaggi che mi avevano colpito tantissimo, per esempio a pagina 257: «La speranza è la certezza in Cristo che fonda la certezza nel futuro; si oppone alla speranza la certezza riposta in qualcosa che fisso io, presente o futuro». O alla fine: «Questa certezza nel futuro mi viene da un presente, possiedo Cristo […]. Ciò che si oppone a questa speranza è qualunque cosa con cui l’uomo fissa in una cosa determinata da lui, la sua certezza». Ma se questo
è vero per me, è vero anche per lei; non è una verità per ciellini, è la verità per l’umano. Mi è stato come evidente, all’improvviso, che avrei dovuto provare a sfidare lei e anche me a fare tutto il percorso della ragione che tu ci stai aiutando a fare; allora le chiedo: «Qual è la vera origine del tuo desiderio di divorziare?». Dice: «La rabbia e l’odio»; io le obietto che da quello che lei stessa
sta dicendo non è così, che la prima mossa, l’origine di questo disagio a me sembra che sia il bisogno di essere amata (che in qualche modo lei sente tradito). E le dico che è delusa perché sta riponendo la sua speranza in un’immagine di come questo suo desiderio di essere amata deve compiersi, in un certo atteggiamento del marito verso la madre, per esempio. Allora la invito a ripartire da quello che sente come più vero, le dico: «Davvero desideri separarti? O solo essere amata di più, essere amata all’infinito?». Lei resta un attimo senza parole e mi dice che, certo,
desidererebbe essere amata da suo marito, poi resta sorpresa e mi dice: «Adesso riconosco questo, ma da sola come faccio a sostenere questa cosa quando tornerà la rabbia la prossima volta?». Lì non potevo più indugiare e le ho detto che il Mistero, quello che il suo cuore desidera e di cui suo marito è pallido segno, è diventato compagnia all’uomo proprio per questo, perché non ce la faremmo da soli. Allora le ho detto se le faceva piacere e l’ho invitata a cena domenica sera con i
miei amici, lei e suo marito, dicendole che io le parlavo così perché io stesso sono stato preso da una compagnia dove un Altro mi ha fatto riconoscere come sono fatto io, e poi le dico anche: «Ma voi vi siete sposati in chiesa?». «Sì». «E ha mai letto il Vangelo?». Mi dice di sì. «Adesso sei determinata dalla rabbia, ma nel Vangelo chi stava davanti a Gesù da che sentimento era determinato? Dalla letizia, dalla speranza, mentre chi era determinato dalla rabbia? I nemici di Gesù». Allora le ho detto: «Suggerisco, uscendo di qui, di andare a confessarti, cioè di chiedere
l’abbraccio del Mistero che il cuore desidera dicendo: “Non riesco a voler bene a mio marito”, e poi tornare a casa e dire a tuo marito: “Non voglio più divorziare”. Proverai che corrisponde di più a quel che desideri». A me ha impressionato perché questa si è messa a piangere in quel momento lì, e mi ha detto che avrebbe fatto assolutamente così, e mi ha detto che voleva aderire domenica all’invito. Io le ho detto l’ultima cosa che mi è venuta in mente, perché ha sorpreso me mentre gliela dicevo: quelle parole non gliele stavo dicendo io, ma attraverso di me, attraverso il
fragile segno che ero io, era Colui che aveva parlato a Giovanni e Andrea e che aveva raggiunto lei. A me ha impressionato, perché è la sorpresa di un fatto che non avevo immaginato, e io mi sono sentito sfidato dal percorso che abbiamo fatto a riconoscere ancora una volta l’evidenza di quello che corrisponde a me e alla sorpresa di come corrisponde al cuore dell’uomo: questa si è commossa e tutto è stato rimesso in moto; è uscita di lì dicendo che non divorziava più, e questo è
impressionante.

Grazie, perché è soltanto se facciamo un’esperienza che possiamo veramente diventare compagni e approfittare di qualsiasi punto per dare un contributo reale.
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Credo di rientrare nella categoria di quelli che se guardano all’esperienza, vedono che c’è qualcosa che non torna. Nella mia vita ho mille evidenze che Cristo c’è, pensa a me e mi vuole bene; questa è un’esperienza che se negassi, dovrei negare metà delle cose che compongono la mia vita. Anche quando sono in difficoltà, non mi è mai capitato di andare a letto la sera disperata, cioè pensando che la vita fa schifo e non c’è soluzione, magari affranta, in ansia, ma sempre con un ultima energia che chiede a Dio di sostenere quello di cui io non sono capace. Quindi è dalla mia esperienza che posso trarre il giudizio che Cristo c’è e compie, perché l’ho visto tante volte. Però, adesso, mi scontro con questa cosa della letizia che dice don Giussani: da quello che ho capito da quello che ho letto, è una specie di leggerezza data dalla certezza che è Dio che compie. Sebbene io non possa non affermare che è vero, perché nella vita l’ho visto, io questo sentimento (perché lui lo chiama proprio sentimento: «dalla libertà dalle cose nasce un sentimento che nessun altro ha se non chi è povero») lo provo pochissimo, invece spesso vince in me l’ansia e l’apprensione e quindi dico: cosa c’è che non torna nella mia esperienza?
Cosa c’è che non torna?
Lasciamo la domanda aperta: cosa c’è che non torna? Perchè sono due cose che non possono stare staccate. Cosa c’è che non torna? Lasciamo aperta la questione.
L’altro giorno quando ho letto l’ultimo paragrafo sulla povertà, l’ultima osservazione («per conoscere occorre un distacco per vedere le cose e quindi per usarle e goderne di più»), ho avuto realmente un sentimento di abbandono e mi sono detto: «Fino a qua va bene tutto, ma questo non puoi chiedermelo, su questo no, non penso proprio di farcela». Mi stride troppo questa cosa e mi chiedo: ma come è possibile veramente distaccarsi dalle cose e persone e poterne godere di più, come è possibile amare la realtà e i rapporti fino in fondo, e non rischiare di essere superficiali? Io vorrei veramente viverli fino in fondo, e non mi sembra automatico dire che più mi distacco e più li amo fino in fondo. Per cui mi chiedo: è questa una condizione necessaria o spesso che capita per poter vivere questo distacco?

Lasciamo aperte queste domande, vediamo se dagli interventi vengono fuori delle risposte.
A me capita che solo nel momento in cui io vivo un rapporto che è irrinunciabile per me – quando io dico di una persona: «Io non posso più vivere senza di te» –, io sono libera da quella persona. Perché per me il dire questo è il frutto di qualcosa che si è imposto ai miei occhi e cioè che in quella vicenda lì, con quella persona lì, è emersa in modo evidente, senza possibilità di equivoco, la verità di me, e quindi solo quando emerge la verità di me (cioè quel che compie me), è solo in quel
momento che io sono libera, cioè povera.

Spiega bene questo.
Che quando uno fa un’esperienza travolgente con quella persona lì (e di quella persona lì tu dici: «Sei irrinunciabile, non potrei vivere più senza di te»), a un certo punto, emerge evidente che è in questa esperienza che Cristo è inconfondibile.
Perché?
Perché neanche questa persona compie me, perché è nel rapporto con questa persona che emerge la verità di me e quindi quel che compie me.
Ma questo succede in quel momento lì, o perché tu hai avuto l’incontro con Cristo?
Questo succede perché ho avuto l’incontro con Cristo, perché sono già stata segnata, c’è già una cicatrice in me che fa emergere questa esperienza che è sempre una novità, che è nuova, che però è il frutto di un rapporto, di una storia.

Quello che dice – non so se avete capito – secondo me è fondamentale, perché è proprio nel momento culminante del rapporto dove io mi rendo conto del limite di quel rapporto: non quando le cose non vanno, ma quando vanno. Allora lì, in quel momento, appare con tutta evidenza che l’altra persona (a cui mi sento così legato fino al punto di poter dire che senza di lei non potrei vivere) è insufficiente. E questo succede al massimo del successo, non quando le cose non tornano: quando
tornano. E allora, nel massimo della pienezza è quando uno capisce qual è la diversità tra questo e Cristo. Noi tante volte pensiamo che è lo stesso, ma quanto più inconfondibile è un’esperienza così,

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affettiva, tanto più si mette in evidenza qual è la diversità di Cristo, perché se l’uomo non potesse fare questo tipo di esperienza non potrebbe riconoscere qual è la diversità, come tra tanti volti io riconosco quel Volto; e questo lo posso cogliere soltanto se è un’esperienza. Quando arriviamo a quel punto, incomincia il dramma del vivere. Dice, a questo proposito, una lettera: «Vorrei chiedere cosa vuol dire questa posizione della povertà, soprattutto nei rapporti affettivi. Quando ho letto il pezzo in cui Giussani chiede, riferendosi a quello che possiamo vedere e toccare: “Ma se la felicità, la giustizia, la verità, la bellezza è oltre quello che noi possiamo vedere, quello che possiamo vedere e toccare, cosa ci importa?”, e poi: “Ci importa soltanto in quanto Dio ce lo fa trovare ‘tra i piedi’ e
dobbiamo usarlo per il nostro lavoro”, sinceramente mi ha ribollito il sangue nelle vene e ho detto: “Ma come?”. Tutto quello che ho, il mio lavoro, le mie figlie, mio marito, tutto questo non può essere qualcosa “tra i piedi”; non mi basta dire che queste cose non sono le più care che ho, non mi compiono anche se è un’esperienza che faccio tutti i giorni. Allora, mi puoi aiutare? A cosa servono le cose? Qual è questo lavoro? E come posso voler bene a mio marito e alle miei figlie, al mio
lavoro come vuole loro bene Dio? E come non può essere che queste cose servano solo per renderti conto che non è lì il tuo compimento e quindi cerchi un Altro? Perché allora Dio ne ha messe così tante e varie e belle?». Questa è la domanda: qual è il rapporto vero con le cose e con le persone?
Guardate che se rileggete tutto l’inizio, da pagina 256, don Giussani ha una parola che ripete in continuazione lungo tutte queste due pagine: un certo possesso, certo possesso, certo, certo, certo, cioè «la povertà è non sperare da un certo possesso». E «certo vuol dire fissato da noi, previsto da noi, scelto tra quello che è comodo a noi, scelto tra quello che più persuade noi, scelto tra quello che più ci dà ricchezza e quindi sicurezza economica». «Certo è quello fissato da noi»; perché? Perché nel momento più decisivo dell’esperienza, come abbiamo visto, questo non ci rende compiuti. E questo perché? Per due cose. Primo: per la natura del desiderio; mai come in questa esperienza viene fuori che il mio desiderio è più grande di tutto quanto io trovo, che le cose non sono in grado di compiere perché tutte quante sono limitate. Per questo aspettarsi il compimento dal possesso delle cose o delle persone si rivela sempre di più incapace di compiere (tanto è vero che basterebbe
pensare un attimo che la maggioranza delle persone, come dirà dopo, il 99,99%, vivono il rapporto aspettandosi tutto, come se tutto fosse lì). Come è possibile che un’esperienza così – per cui all’inizio diciamo: «Io non posso più vivere senza questa persona qua» –, nel tempo, può poi diventare qualcosa che non mi dice più niente, fino al punto di divorziare? Questo non vuol dire che io per questo debba trattenermi. Io devo vivere la verità di quel rapporto, e la verità di quel rapporto
io la posso vivere per Cristo presente, che lo rende possibile nella sua verità. Se io non riesco a vivere il rapporto nella sua verità, il tempo e le circostanze e la insufficienza lo fanno venir meno come interesse della vita; non perché io voglia che venga meno, ma perché non è in grado di prendermi tutto, perché si palesa che non è quello per cui io sono fatto, che non è quello per cui è fatto l’altro. Allora la questione è come vivere il rapporto in modo tale da vivere nella prospettiva di
quello che riempie tutti e due; e questo dobbiamo testimoniarcelo a vicenda: come io vivo un rapporto in modo tale che questo diventi sempre interessante e non venga meno? Perché se viene meno, vuol dire che c’è una modalità di vivere le cose, un certo possesso delle cose e delle persone che portano inevitabilmente a riporre la speranza del mio compimento lì, come nell’esempio del ragazzo: «La ragazza ha il ragazzino: è a posto! Passano qualche mese o qualche anno con la certezza di avere tutto: questo è un rapporto non povero. Non perché una non debba avere il ragazzino in modo serio ma perché ripone lì la certezza della sua speranza, la certezza del suo
futuro; e così accade al novantanove per cento… virgola novantanove». Su questo mi sembra che tutti abbiamo conferme dall’esperienza; per questo vivere un rapporto nella sua verità è proprio per evitare che decada, non per togliertelo da dosso; per evitare che questo affetto, che questa cosa bella che è accaduta nella vita, venga meno.

Pensando anche a poco fa, è chiarissimo cosa torna a te e cosa pian piano sta iniziando a tornare anche a noi. E questo per me è stato evidente anche al tuo intervento alla Compagnia delle Opere dell’altra domenica, quando citi Giussani che afferma che «per potere amare se stessi, per potere (5)
operare tanto, bisogna essere insieme; per potere essere insieme bisogna riconoscere un amore a sé che permetta di amare anche gli altri, e quindi che operi il cambiamento grande che è l’amore alla gente e a se stessi considerati come rapporto al destino; ma questo non è possibile se non per una Presenza, non è possibile se Cristo [...] non è risorto, cioè non è contemporaneo. Allora, riconoscere questo contemporaneo, questa presenza al mio gesto, questa compagnia al mio cammino, è il primo fondamentale gesto di libertà che permette tutti gli altri, anzi, che permette e incita tutti gli altri».

È questa la cosa che colpisce, che sta iniziando – pensando a quello che è stato detto prima –: qualcosa inizia a tornare e uno, essendo preferito, inizia a preferire. Questa è un’altra questione che appare nelle vostre domande. «Leggendo Si può vivere così? mi ha colpito questo pezzo scritto nella sintesi sulla povertà: “Siamo chiamati a fare un lavoro: questo è un concetto che dovete aggiungere all’ultima volta. La povertà non è automatica, non è quella di uno coi pidocchi e con i panni strappati addosso che sta lì ai margini di una strada. La povertà è l’uso della realtà secondo il destino che con sicurezza ci è proposto e ci attende”. Mi ha colpito il fatto che la povertà, come ne parla il Gius, non è un possedere, ma un possedere nel modo giusto [come dicevamo prima], non è un non usare, ma un usare nel modo giusto, cioè tenendo conto del destino di tutta la realtà. Inoltre ti chiedo un chiarimento su che cosa è questo lavoro che ci è chiesto
per diventare più poveri, perché questo pezzo contraddice frasi pronunciate da persone per me autorevoli del tipo: “La cosa più immorale è impegnarsi con la realtà perché tutto è frutto di grazia”. A me sembra, invece, che il lavoro della povertà sia proprio questo continuo strapparci da ciò che ci fermerebbe nella sequela e nella domanda di Cristo presente attraverso la nostra compagnia. Questa è una questione che si ripropone con frequenza». Queste domande mostrano che c’è una fatica
diffusa a cogliere il rapporto tra la grazia e la libertà, a cogliere che la povertà è frutto della speranza. Perché essendo io certo che c’è la Presenza che compie, posso essere libero nel trattare le cose; questo è un percorso che succede come una grazia, come conseguenza di una grazia. Allora, se è una grazia, vuol dire che non è anche iniziativa mia? Cioè: quando io uso le cose in un modo diverso, non le uso io? Le uso io. Ci sono due cose che tante volte si mettono in contrapposizione:
se c’è una cosa che accade come grazia, vuol dire che l’io non fa niente. Pensate che cosa di maggior grazia c’è che innamorarsi, e ditemi se dopo che vi siete innamorati, non fate più niente; è anzi quando incominciate a fare qualcosa, è proprio il contrario! Uno si rende conto che gli è successo qualcosa, proprio perché prende iniziativa rispetto a questo. Tu l’innamoramento te lo dai te? No, è grazia pura. Questo vuol dire forse che tu vuoi bene all’altro senza di te? Ma neanche per
sogno! Sei tu a dire: «Ti voglio bene», e sei tu che la cerchi, sei tu che la chiami. Sono due cose che non possono mai essere in contrapposizione; io posso essere sempre più libero dalle cose, e proprio perché sono più libero posso prendere l’iniziativa di usare le cose in un modo più vero; chi me lo impedisce? E questo non è in contraddizione, è semplicemente che io, per grazia, posso aver
acquistato una libertà rispetto alle cose che mi fa usare tutto quello che uso secondo una modalità diversa da quella che adoperavo prima. E questo lo faccio io (come colui che risponde alla persona amata lo fa lui e prende iniziativa lui, non la prende il vicino). Per questo, che sia allo stesso tempo un percorso di grazia e che questo uno lo desideri sempre di più per sé, mette in moto tutta la mia
libertà: e che metta in moto la mia libertà è il segno che mi è successo qualcosa che non voglio perdere, e allora voglio usare le cose sempre più così. Per questo non c’è questa contraddizione delle cose, è semplicemente espressione di quel dinamismo che non potremmo essere noi stessi a darci, ma che, per grazia, si introduce nel modo di rapportarci alle cose e alle persone.


Mio figlio ha fatto un compito per la scuola, aveva da rispondere a delle domande e in una ha risposto che si chiede perché va a scuola, poi si risponde e dice: «Per conoscere cose nuove, per conoscere», e che vorrebbe parlare con qualcuno di queste domande fondamentali. Per me questa è stata una botta, perché io per lui ci sono sempre, lui ha undici anni, va a scuola alle medie, gli preparo il pranzo tutti i giorni, lo aiuto a studiare, ci sono sempre tutti i pomeriggi anche per il
lavoro che faccio, lo accompagno da tutte le parti eccetera, ma lui in questa risposta che ha dato ha espresso un bisogno più grande, più costitutivo e per questo lo ringrazio perché probabilmente
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io gli sto addosso spesso, lo aiuto, quasi vorrei risolvergli i problemi della vita e mi dimentico, mi rendo conto che probabilmente mi dimentico che è un Altro invece quello di cui lui ha bisogno; e allora capisco, o almeno provo a capire, il distacco in un rapporto di cui parla Giussani, e capisco che devo fare come un passo indietro e guardare il suo vero bisogno, il suo vero desiderio così probabilmente riesco anche a conoscerlo di più, conoscere di più lui e me.
Grazie.

A me ha colpito, rivedendo il capitolo della povertà, che a un certo punto, nella parte finale, si ribadisce una cosa di fondo, cioè che la povertà appartiene alla conoscenza, cioè è una legge dinamica della conoscenza. Ci sono tante intuizioni morali molto affascinanti dentro questo capitolo, però lui dice che è un dinamismo della conoscenza, esattamente come la fede. Allora dico: se è così, bisogna applicarlo, verificarlo e ho provato ad applicarlo su una mia situazione di vita,
di lavoro. Io sono in un gruppo di lavoro in questo momento che ha delle difficoltà con il nostro dirigente; siamo un gruppo di lavoro che ha ragione e il capo ha torto, questo è chiaro a tutti. Tranne al capo...
Però c’è un particolare: siamo talmente convinti di avere ragione che siamo arrabbiati, la letizia non esiste dentro questo gruppo di gente che dice di aver ragione e probabilmente ha ragione; allora qualcosa non torna, evidentemente. Allora ho detto: «Provo a mettermi in dialogo, applicando quel metodo lì», cioè la povertà come metodo di conoscenza; io voglio capire il perché di questa cosa, e invece di continuare a mettere l’accento sul fatto che ho ragione, lo metto su quello che dice Giussani: la letizia si perde perché uno è tutto concentrato sul fatto che ti è dovuto il riconoscimento per il tuo lavorare bene. Ci ho provato, ed effettivamente è venuta fuori la cosa, cioè funziona, nel senso che sono riuscito a rapportarmi perché l’altro, da cattivo cui ti opponi (in fondo pensando solo a tenere strette le tue ragioni), diventa una possibilità per un dialogo concreto; e questa settimana è diventata più vivibile della precedente proprio perchè ho scommesso. Ci ho provato in questo; adesso ci provo con mia moglie e con i figli, e poi magari più
avanti racconto come va a finire.
Ma, secondo te, dobbiamo aspettare l’esito di questo?
No.

La questione è se noi, quando le cose non ci tornano, siamo liberi o no. Questa è la questione. E che cosa consente di essere liberi ora, non quando le cose torneranno (io desidero che tornino, per carità)? Dico: e se il capo si incastra e non va né avanti né indietro? O l’altro non vuole cambiare o la moglie non so cosa, o l’amico, il figlio? E se questo non succede, come tante volte non succede? O uno che ha una malattia, uno che ha una situazione che non cambia: che cosa introduce quel
percorso? In che cosa si vede che siamo poveri lì? Da dove viene la nostra libertà in quella situazione? Cosa che consente, poi, di ripartire? Perché tu, in fondo, per dire questo, sei dovuto ripartire per un’altra cosa. Secondo me è interessante renderci conto di questo, perché altrimenti, come succede sempre, in fondo aspettiamo la corrispondenza dal successo. Ma questo vuol dire: che
cosa introduce la fede come esperienza reale? Noi reagiamo come tutti: quando le cose vanno bene reagiamo bene, quando vanno male ci incastriamo.
Tra l’altro la complicità è molto facile quando si è tutti insieme contro un obiettivo. Evidentemente. In quel caso la libertà è un bene molto scarso perché tutti sono lì, presi da quella cosa. Ritorneremo su questo.


Da quando sono rientrata al lavoro dopo l’ultima maternità, per una carenza di personale mi trovo a dover lavorare molte ore; tuttavia, invece che sentirmi stanca, mi sento sempre più contenta, addirittura lieta. Una mia amica mi chiedeva perché e io stessa non sapevo rispondere. Dopo la scorsa Scuola di comunità mi sembra di aver capito. Al mattino, quando cammino dal parcheggio alla porta d’ingresso dell’ospedale dove lavoro, mi chiedo dove scorgerò Cristo oggi; però, a fine
giornata, mi sembra sempre di non averLo visto da nessuna parte. Allora, perché questa letizia? Ho realizzato che sono lieta perché stupita di quello che accade. In tutti questi mesi di lavoro non
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c’è situazione in cui io non agisca diversamente da come avrei fatto prima; da quando da oltre due anni ci stai accompagnando in questo percorso affascinante, so di essere cambiata, ma non immaginavo quanto; sono tanti i momenti della giornata in cui di fronte a situazioni usuali io non mi comporto in un modo da me stessa prevedibile, per cui sono costretta a chiedermi chi mi fa essere diversa da come sono sempre stata, chi mi sta facendo in quel momento. Così mi sono accorta che non servono fatti eclatanti (o che ho in mente io) per scorgere Cristo che accade; solo
ora ho capito che la letizia che ho nasce dal vedere come cambia me nei vari momenti del giorno, che è Lui presente che mi fa. E questo – perché accade a me, e non a un altro! – non cesserà mai di stupirmi e mi fa chiedere che accada sempre, in ogni istante e dovunque.

Questo è ciò che dà libertà. E così ci aiutiamo a capire. La questione della povertà non la possiamo staccare come se fosse una cosa isolata dall’io; e qual è la natura del nostro io? Che il nostro io è esigenza di compimento e noi questa esigenza di compimento, questo quid animo satis? di cui parla alla fine, con che cosa possiamo riempirlo? Con che cosa tutti gli uomini cercano di riempirlo? Con
le due cose possibili: le cose o le persone. Per questo noi ci aspettiamo la pienezza dal possesso, degli uni o degli altri, o del figlio o del marito o della moglie o dei lavoratori che lavorano con me o dei colleghi, o dall’accumulo delle cose. Perché succede così? Perché non posso togliermi da dosso questa esigenza di pienezza, è impossibile. Allora perché i valori non bastano? Perché con essi io
non posso evitare di desiderare tutto, e perciò niente è sufficiente. Per questo, se io non ho un’esperienza di risposta positiva a questa domanda (cioè che succeda qualcosa nel presente che riempia il vuoto di cui sono fatto, che sia in grado di compiere il desiderio), io mi posso scordare di avere un rapporto libero con le persone o con le cose. La povertà non è un valore che si può staccare
dal percorso della fede, è soltanto Cristo che rende possibile un rapporto diverso; se noi stacchiamo il valore della povertà da Cristo, diventa qualcosa di impossibile. Questa è la grandezza del percorso che ci fa fare don Giussani: che questo è l’esito della fede e della speranza perché io vivo con questa certezza. Lui lo dice in tanti modi: «Io posso essere libero per il possesso di Cristo presente»,
perché soltanto Cristo presente è in grado di corrispondere a tutta l’attesa, e per questo posso rapportami al marito o ai figli non come qualcosa da gestire, ma guardarli per quello che veramente sono, non usandoli come mezzi per riempire i miei vuoti esistenziali; posso trattarli nella loro verità, in accordo con il loro destino, trattare le cose per il loro destino. Se no è soltanto un tentativo mio,
un tentativo – ancora al livello del mero senso religioso – di liberarmi da questo vuoto. Ma non riesco. Perché non riesco? Posso riuscire a vivere con meno soldi, ma non a essere libero e a essere lieto. Le tre caratteristiche che dice don Giussani sono decisive per capire se stiamo parlando di un’esperienza cristiana; guardate: libertà dalle cose, letizia, possesso del necessario. E ciascuno deve fare il confronto con questo, perché altrimenti è qualcosa di impossibile. Infatti, o questo mi è dato come grazia, come l’esito di questa Presenza che mi si impone, o sono impossibili questa libertà e questa letizia. Dio, avendoci preferito, ci ha fatto partecipi di quella pienezza che ci consente un rapporto libero, gratuito; altrimenti sarebbe impossibile. Questo è quello che impressiona dell’esperienza cristiana: per gli antichi gli dei non potevano amare, perché l’unico concetto di amore che avevano era l’eros (il concetto di desiderio): c’è qualcosa che desidero
perché manca. E questo sarebbe introdurre nella divinità un limite, una mancanza; secondo questo concetto gli dei non potevano amare, perché per definizione non poteva mancare loro qualcosa. Il cristiano ha dovuto inventare un’altra parola: caritas, per esprimere che l’amore con cui Dio ci ama nasce da una sovrabbondanza. E questo l’essere umano non avrebbe potuto capirlo senza la venuta di Cristo. Ma noi non siamo Dio; per questo la prima mossa che dobbiamo fare per essere liberi è
accettare di essere bisognosi; soltanto Dio può vivere una pienezza così grande da essere gratuito nel rapporto, da amare le cose per il loro destino, perché Lui coincide con la pienezza. Noi siamo bisognosi, e perciò abbiamo necessità di accogliere questa caritas, questa carità assoluta del Mistero nei nostri confronti, questa preferenza del Mistero per noi, in modo tale da poter imitare Dio, da
poter dare, nel rapporto con tutti, ciò che trabocca di quello che riceviamo. Questo è il test del percorso che stiamo facendo. In che cosa si vede? Primo: se sono libero. Poi: se prendo l’iniziativa, se mi incomincio a rapportare con le cose in un modo nuovo, per quella capacità non mia che
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introduce il Mistero (come ha detto il Papa nella Caritas in veritate: noi possiamo diventare protagonisti di questa carità proprio per la carità che riceviamo da Dio). Per questo il fondo ultimo a cui arriveremo sarà quando parleremo della carità, perché senza di essa nulla è possibile. Ma se noi non cogliamo tutti questi passaggi, affermiamo a ogni momento un singolo particolare dimenticandoci dell’insieme. Perché è l’io che ha tutto il desiderio di pienezza! O c’è Lui che lo
riempie in continuazione, o io mi posso scordare di rapportarmi in un modo libero, gratuito e lieto con le cose e con le persone, qualsiasi proposito abbia fatto. Chiaro? La vera decisione è se io accetto di entrare in questo rapporto così costitutivo con Cristo che mi consente un’esperienza del vivere così piena e così lieta che mi fa rapportate gratuitamente con tutto.
• Veni Sancte Spiritus

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