martedì 28 aprile 2009

Oltre 26mila a Rimini per gli esercizi spirituali della Fraternità di Cl -Carrón: la fede come metodo per l’esistenza



Oltre 26mila a Rimini per gli esercizi spirituali della Fraternità di Cl Rilanciata la sfida del Papa e di Giussani contro la separazione tra fede e ragione
« P rofessore, è inutile che venga qui a insegnarci religione e a parlare di fede. Per fare scuola bisogna ragiona­re, e la fede non c’entra niente con la ragione, sono due rette sghembe che non s’incontrano mai». Nel 1954, ap­pena salito in cattedra per la sua pri­ma lezione al liceo Berchet di Milano, don Luigi Giussani era stato apostro­fato così da uno studente: mica male come inizio d’anno. E dalla decisione del giovane prete brianzolo di ri­spondere a quella sfida è nata l’espe­rienza di Comunione e liberazione, che scommette tutto sulla ragione­volezza della fede. A distanza di cin­quant’anni quella sfida (che Giussa­ni aveva profeticamente intercettato in un’Italia formalmente cattolica ma già minata dall’avanzata del secolari­smo) si è fatta molto più acuta. E ri­comporre la separazione tra sapere e credere, è la battaglia più ardua con cui oggi la cristianità si cimenta. Og­gi che le antiche sicurezze religiose sono crollate, oggi che la fede è ridot­ta a sentimento, a presidio morale di valori sempre meno praticati, a di­mensione che nulla c’entra con la co­noscenza.
Per tre giorni, da venerdì a domenica, don Julián Carrón – guidando gli an­nuali esercizi spirituali della Frater­nità di Comunione e liberazione da­vanti a 26mila persone convenute a Rimini da tutta Italia e in collega­mento via satellite con 63 Paesi – ha rilanciato la scommessa di Giussani: «Dalla fede il metodo» è stato il titolo della tre giorni. Di fronte alle sfide del­la vita – la crisi economica, la trage­dia dell’Abruzzo, la vicenda di Eluana Englaro e dell’eutanasia – abbiamo tutti bisogno di incontrare una diver­sità umana, nella quale il cristianesi­mo si rende incontrabile come avve­nimento, qualcosa che ri-accade og­gi come risposta alla domanda di fe­licità che abita il cuore di ognuno. Co­me ha di recente detto Benedetto X­VI, i cui interventi sono più volte riecheggiati in questi giorni di lavoro e di preghiera: «Nel mi­stero dell’incarnazione del Verbo, nel fatto che Dio si è fatto uomo co­me noi, sta sia il conte­nuto che il metodo del­l’annuncio cristiano». La fedeltà a questo metodo scelto da Dio, argo­menta il presidente della Fraternità di Cl, rende testimoni della novità cri­stiana di fronte alla crisi generata dal­la frattura tra fede e ragione. E può rendere presente all’uomo di oggi – tanto apparentemente sicuro di sé nella rivendicazione della sua auto­nomia quanto smarrito e vittima di un’'anestesia dell’io', di una trascu­ratezza di sé – il volto misericordioso di Cristo.
La separazione tra il sapere e il crede­re, tra la ragione e la fede, non è frut­to soltanto di una dinamica esterna alla Chiesa. È un germe che si è insi­diosamente annidato nel suo stesso corpo, e ha reso il cristianesimo sem­pre più estraneo alle attese dell’uo­mo. Una realtà magari riconosciuta come fatto storico ma che non inci­de, non morde, in ultima analisi non conta. Carrón dice provocatoriamen­te che «è come se la fede avesse una data di scadenza». Cristo diventa un soprammobile da esporre nel salotto buono dei valori, piuttosto che una presenza viva incontrabile e a tutti proponibile. Un devoto ricordo, piut­tosto che una realtà che accade 'qui e ora'. Invece l’uomo ha bisogno di qualcosa che gli sia contemporaneo, che fondi la sua speranza. E per spe­rare, scrive Péguy, bisogna avere rice­vuto una grande grazia.
Perché il cristianesimo continui a es­sere un’attrattiva vivente servono te­stimoni credibili, gente che seguendo Gesù renda credibile che, come reci­ta il titolo del libro di Giussani che quest’anno guida la catechesi del Mo­vimento,
Si può vivere così. Il cardi­nale Stanislaw Rylko, presidente del Pontificio Consiglio per i laici, inter­venuto sabato alla celebrazione eu­caristica, ha rilanciato l’ammoni­mento di Benedetto XVI: «Il cristia­nesimo non può essere ridotto a una morale, cristiani si è solo se si incon­tra Cristo. Per questo servono testi­moni che lo rendano incontrabile, e voi oggi lo siete».
Avvenire - DI GIORGIO PAOLUCCI

mercoledì 22 aprile 2009

“Paolo educatore alla libertà”.Don Luigi Giussani nelle parole di don Massimo Camisasca


L’educazione è l’introduzione alla realtà totale». Basterebbe questa sola citazione di don Luigi Giussani per intuire che il suo nome dovrà figurare tra i grandi della pedagogia. Anche se il termine “pedagogo” appare molto riduttivo: Benedetto XVI ha definito l’educatore come «testimone della verità e del bene» (Lettera sul compito urgente dell’educazione). Una distinzione, questa, molto cara anche a san Paolo. Abbiamo chiesto a don Massimo Camisasca – amico di don Giussani, autore di una sua importante biografia e della trilogia dedicata alla storia di Comunione e Liberazione – di raccontarci il rapporto tra l’Apostolo e l’educatore.

«Comunione» e «libertà» sono due termini chiave nell’epistolario paolino. San Paolo occupa un posto particolare nella riflessione e nell’esperienza di don Giussani?

«Penso che, assieme a san Giovanni, san Paolo sia l’autore di tutto il Nuovo Testamento più citato da don Giussani. Non è un caso. Da san Giovanni Giussani traeva la penetrazione del mistero dell’incarnazione; da san Paolo l’identità del cristiano come persona resa nuova dall’immersione nell’evento di grazia della morte e resurrezione di Gesù. Quando si avranno a disposizione le ricorrenze bibliche dell’intera opera di Giussani certamente un posto particolare occuperà la Lettera ai Galati: “Tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28)… “Ciò che conta è l’essere nuova creatura” (Gal 6,15)… “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Gal 2,20). Giussani ha commentato tutto san Paolo, ma questi temi che ho citato sono stati quelli centrali della sua predicazione, soprattutto durante gli anni ’70 e ’80, quando l’ontologia cristiana sembrava dissolversi in un’azione per gli altri che aveva perso le proprie radici. Per questo, giustamente, il nome che il movimento prenderà, dal 1969 in poi, è un’endiadi di due parole paoline. La comunione, affermata come la vera strada per la salvezza dell’uomo, dono di Dio agli uomini, è proprio quell’essere uno in Gesù Cristo di cui parla Paolo. E la liberazione, termine nuovo con cui esprimere la parola salvezza, rivela l’attualità dell’umanesimo cristiano. Come ai tempi di Paolo, anche oggi la libertà è l’esperienza più attesa e interessante per l’uomo».

San Paolo dimostra la ragionevolezza della fede e la necessità di aprirsi all’Altro. Nei tre volumi del PerCorso trovo citati per ben 3 volte questi testi paolini: il discorso all’Areopago e Romani 7,24 («Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?»).

«L’insegnamento e l’opera educativa di Giussani sono tesi a mostrare che la fede è il vertice della conoscenza. Certo, un vertice che è dono di Dio all’uomo, ma che non smentisce in nulla le esigenze della ragione. Le compie soltanto. Anzi, la fede è un rapporto fiduciale con un testimone che mi comunica qualcosa o qualcuno che conosco attraverso di lui. Un testimone a cui debbo fiducia, perché so che non sbaglia e non vuole mentirmi. è l’itinerario della nostra stessa vita quotidiana a essere permeato da questa dinamica. Ecco il cuore dell’insegnamento di Giussani sul senso religioso, sulla moralità nei rapporti umani, sull’educazione che Dio ha operato nel suo popolo d’Israele, e infine su quella che Gesù ha vissuto presso gli apostoli e i discepoli, e più in generale verso coloro che incontrava. È ancora oggi l’educazione di cui la Chiesa si sente responsabile verso gli uomini del nostro tempo. Ripercorrendo e commentando l’episodio del discorso di Paolo all’Areopago, Giussani aveva modo, già durante le lezioni ai liceali del Berchet che ho potuto ascoltare nella mia giovinezza, di mostrare in Paolo i fili di questa pedagogia: “Ciò che voi attendete, anche senza saperlo, io l’ho visto, l’ho incontrato. E voglio testimoniarlo”».

Paolo aggiunge che la ragione – senza la fede – può smarrire se stessa. Ne Il senso religioso, Giussani riprende Rm 1,22-31 dove si afferma che la ragione o giunge naturalmente alla conoscenza di Dio, o si chiude nei «vani ragionamenti» delle idolatrie… ovvero delle ideologie.

«Nel primo capitolo della Lettera ai Romani san Paolo denuncia il pervertimento della ragione andando ben al di là di un’accusa al mondo pagano di allora. Non è un caso che Giussani si appoggiasse proprio a quel testo per mostrare i possibili rischi della ragione che perde il senso del proprio limite e così anche della propria grandezza. La ragione che vaneggia nei suoi ragionamenti, che rifiuta di riconoscere Dio, che non sa più stupirsi di fronte alle sue perfezioni, di fronte alla perfezione delle opere da lui compiute. È ciò di cui parla san Paolo ai cristiani di allora, ma è anche la lettura che Giussani fa della crisi della ragione nell’epoca moderna. C’è una straordinaria continuità tra il discorso giussaniano sulla ragione e quello condotto da Benedetto XVI in questi primi anni del suo pontificato».

San Paolo, uomo sempre aperto al Mistero di una realtà inesauribile, ci sorprende con un’affermazione attualissima: «Se qualcuno crede di conoscere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere» (1Cor 8,2).

«Ciò che Paolo vuole colpire è la superbia degli intellettuali. Di coloro cioè che ritengono la conoscenza superiore a ogni carità. Mentre, all’opposto, è soltanto l’amore che conosce. C’è un filone molto importante, anzi decisivo, per comprendere l’animo e il pensiero di don Giussani.

Ed è quello della conoscenza affettiva. Per lui veramente solo l’amore conosce. Da ragazzi ci ricordava questa espressione di sant’Agostino: nemo cognoscitur nisi per amicitiam, nessuno è conosciuto se non attraverso l’amicizia. È l’ipotesi positiva con cui guardare alla vita che abbiamo visto in lui, con cui guardare agli uomini, soprattutto a quelli nuovi, sconosciuti, attraverso cui la novità entra nella nostra esistenza, quel nuovo orizzonte che sa parlarci di Dio. Non dobbiamo dimenticare la definizione di cultura che ha dato don Giussani, tratta proprio da san Paolo: “Vagliate ogni cosa, trattenete il valore” (cfr. 1Ts 5,21)… così lui amava tradurre».

In Filippesi 4,8 Paolo invita a considerare ciò che è «vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato…». Qual è stata la novità pedagogica di don Giussani nel parlare all’uomo contemporaneo?

«L’atmosfera giussaniana è molto vicina a questo versetto della Lettera ai Filippesi, come anche di quelli che lo precedono. Si parla di “gioia nel Signore”, determinata dalla certezza della sua presenza. E non è un caso che Giussani abbia commentato più volte questi testi, proprio nell’imminenza del Natale. In particolare il versetto 8 indica l’apertura dell’animo di Paolo, dell’animo cristiano. Il cristianesimo non è una rinuncia, è un’affermazione. San Paolo – che pure dirà “considero tutto spazzatura di fronte a Cristo” – sa benissimo che quella frase è l’espressione di una positività di tutto, e non di un’esclusione. Proprio perché in Cristo c’è tutto e tutto trova il suo valore, si può rinunciare a ciò che non c’entra con lui. Giussani ha saputo parlare all’uomo contemporaneo innanzitutto perché gli ha mostrato che seguire Cristo è un atto vitale, in cui tutto ciò che è interessante per l’uomo trova la sua pienezza e la sua fioritura. La letteratura – soprattutto la poesia, la pittura, la musica, il cinema, il teatro… tutto l’umano insomma – era oggetto dell’attenzione e dell’interesse di don Giussani. Nulla sentiva estraneo al dialogo fra l’uomo e Cristo. E tutto era espressione dell’uomo che cerca o dell’uomo che infine ha trovato».

Proprio come Paolo, Giussani non è stato solo un “pedagogo” eccezionale, ma un vero “padre in Cristo”. Può darci una sua testimonianza personale?

«L’insegnamento e l’opera educativa sono stati inscindibilmente l’anima di tutta la vita di don Giussani. La sua scuola di religione, come amava dire, prima al Berchet e poi all’Università Cattolica, è stata certamente il fuoco di tutta la sua vita, il luogo da cui tutto è partito. Ma quel fuoco, quelle parole, dovevano poi scendere nell’animo e nella mente dei ragazzi, dovevano diventare giudizio, passione, costruzione. Da qui la sua tensione di educatore, che si sviluppava sia nel dialogo personale, sia – e soprattutto – nella creazione di luoghi umani in cui le persone potessero trovare quella compagnia quotidiana che fa sperimentare le parole nell’impatto con la vita di tutti i giorni. È nella comunità, infatti, che lo Spirito plasma la nostra persona, soprattutto attraverso la docilità a Dio, cioè la preghiera, attraverso la grazia dei sacramenti, attraverso la carità dei fratelli, attraverso la testimonianza di Cristo negli ambienti della vita dell’uomo. Sono rimasto talmente affascinato dall’opera di don Giussani come insegnante ed educatore che ho cercato di mettermi sulle sue tracce. Con lui ho deciso di iscrivermi alla facoltà di Filosofia, dopo la terza liceo. Volevo allora diventare domenicano. Poi ho incominciato a insegnare nei licei e all’università. L’insegnamento nelle scuole è stata una delle passioni della mia vita, purtroppo vissuta solo in modo frammentario. Altre occupazioni, infatti, mi hanno allontanato dalla scuola. Ma, per fortuna, sono sempre state occupazioni legate all’educazione dei ragazzi. Così, anche quando non insegnavo a scuola, ero pur sempre un insegnante per coloro che sceglievano di partecipare alla mia stessa vita. In un libro recentemente pubblicato su don Giussani [Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio, San Paolo 2009], che è una prima sintesi di tutto il suo pensiero, mi sono permesso di scrivere che l’educazione è la cifra riassuntiva dell’intera esistenza del sacerdote di Desio. E ho invitato a rileggere Il rischio educativo, un libro nato addirittura nel 1960, ma sempre attuale».

…e proprio nell’omonima conferenza del 1985, Giussani affermava che – per lui – la più bella frase della Bibbia è il motto paolino In spe contra spem, riferito alla sempre incerta risposta alla proposta educativa.

«Non è un caso che Giussani abbia intitolato quella raccolta di suoi scritti sull’educazione con un’espressione che coinvolge la parola “rischio”. L’animo battagliero di Giussani si è riconosciuto bene in questa frase di san Paolo: sperare contro ogni speranza, sperare cioè oltre l’apparente fallimento di ogni speranza umana. I francesi hanno due belle parole: espoir e esperance. Noi, in italiano, non abbiamo questa sfumatura. Don Giussani sapeva che il cammino dell’uomo è pieno di cadute, di ribellioni, di drammi, di rivolte, di sangue. Ma sapeva anche molto bene che Dio non viene meno nelle sue promesse. Per questo, allontanato dal suo movimento nel 1965, ha atteso pazientemente il momento e la possibilità di ritornarvi. Criticato da molti, ha visto infine l’abbraccio della Chiesa nel riconoscimento pontificio del 1982. Nel maggio 1998, ormai quasi impossibilitato a muoversi, in Piazza San Pietro a Roma si è inginocchiato davanti al Papa, nel momento conclusivo della sua vita pubblica, quando veniva riconosciuto non soltanto attraverso un decreto della Santa Sede, come 16 anni prima, ma sotto gli occhi di tutto il mondo. Don Giussani ha visto la crisi del proprio movimento, nel 1965-68, ma non ha dubitato che potesse continuare. “La nostra comunione – disse allora – inizia con un inizio che rimane per l’eternità. Dio, infatti, non fa le cose per togliere. L’unico vero delitto, dal punto di vista del comportamento storico, può essere l’impazienza”».

La Fraternità missionaria San Carlo da lei fondata a partire dal carisma di CL è oggi presente in 20 Paesi di quattro continenti. Si parla del problema delle vocazioni… ma lei, quando guarda negli occhi un giovane che dice il suo “Sì!”, cosa vede? cosa fa lasciare tutto per andare in capo al mondo?

«Il problema delle vocazioni è per me unicamente un problema dei responsabili delle comunità. Dio, infatti, chiama ed attrae sempre. Ma chiama attraverso gli uomini e quando gli uomini non sono più credibili il suo richiamo, la sua voce, giunge stentorea, e non affascinante. Per questo, di fronte al bene delle nostre comunità, siamo in campo soprattutto noi, i responsabili, la nostra fede e la nostra carità. Quando arriva un nuovo seminarista nel mio seminario, quando uno di loro conclude il suo itinerario e viene ordinato, quando mi dice “Sì” rispetto a una nuova destinazione missionaria, ciò che vedo è esattamente il mondo nel giorno della Creazione. Ogni sì è il primo sì, quando dal nulla assoluto tutto è uscito, quando nel dialogo misteriosissimo fra il Padre e il Figlio a un certo punto è scaturito l’universo, e in esso l’uomo, la natura, le cose. Penso poi al sì di Maria, che è lo spazio eterno e temporale di ogni sì. Ogni vocazione scaturisce e viene accompagnata permanentemente da quella obbedienza. Anch’io mi chiedo ogni volta, e mi sono chiesto soprattutto quando ho visto partire i primi missionari per la Siberia, e poi quelli per Taiwan: “Che cosa può permettere a un ragazzo di andare così lontano, e per sempre?”. Soltanto la scoperta che egli, in realtà, ha ottenuto una tale pienezza di vita e di doni da non perdere nulla. Da questo punto di vista la vita comune è un grande dono. Nella carità affettiva di una comunità come la nostra non sono eliminate le differenze, né le difficoltà, le tensioni o le liti, ma è assicurato un luogo in cui il cuore può trovare la propria pace. Chi va lontano scopre che questa è la modalità per essere vicino, perché ogni vicinanza è assicurata nel tempo soltanto dal sacrificio».
pubblicata sul decimo numero della rivista “Paulus

venerdì 10 aprile 2009

PASQUA/ La “follia” della Resurrezione



Mons. Massimo Camisasca venerdì 10 aprile 2009




Ho ritrovato gli appunti che avevo scritto durante le meditazioni che don Giussani tenne a Varigotti nella settimana santa del 1964. Li ho riletti in questi giorni, li ho rivissuti, e ho pensato di offrirli a voi come traccia per introdurci negli eventi di questa settimana santa. La morte e la resurrezione di Gesù non ci allontanano da ciò che accade nel mondo e nella nostra casa, nella nostra vita personale. Tutto è intimamente collegato. Ciò che accade a Gesù è la radice, l’origine e la fine, la chiave segreta per entrare in ciò che accade a noi. Allora, la cosa più importante è uscire dalla distrazione e dalla paura che ci chiudono in noi stessi o ci alienano nelle cose da fare.

Per questo sono andato a rileggermi quegli appunti. Per questo, molti tra noi hanno partecipato alle via crucis in tante città nel mondo. Hanno cercato attraverso le parole del vangelo, attraverso la musica, attraverso i segni scritti o parlati di testimoni, di essere portati dentro questi avvenimenti che non sono avvenimenti del passato.

A lungo preparati dalla storia bimillenaria del popolo di Israele, e prima ancora dalla volontà stessa di Dio che per questo ha creato l’uomo e il mondo, la passione, morte, e resurrezione di Gesù sono accadute in un preciso momento della storia, ben documentato da scritti e testimonianze. Ma nello stesso tempo, a differenza degli altri avvenimenti storici, irrimediabilmente chiusi nel tempo in cui sono accaduti, al di là della risonanza che possono avere per secoli nel cuore degli uomini, i giorni della Pasqua di Gesù sono a noi contemporanei. E’ questa la “folle” pretesa di quell’uomo. Essere risorto vuol dire essere contemporaneo ad ogni momento della storia futura, ad ogni attimo di ogni uomo. Non semplicemente come un qualunque altro contemporaneo, ma come uno che è alla radice di ogni nostra azione e che attrae il nostro sguardo e il nostro cuore per rivelarci il senso e il peso di tutto ciò che avviene.

In quelle lontanissime meditazioni del 1964, Giussani, a noi ragazzi di quattordici - quindici anni, parlò della Trinità. All’origine di tutto c’è la comunione. Questa comunione, che è Dio, ha voluto uscire da sé, ha voluto noi, e poi non ci ha lasciato soli. Ha voluto comunicarsi a noi, si è reso commensale con noi.

Le parole di don Giussani erano illuminate da una grande riproduzione della Trinità di Andrei Rublev. Era la prima volta che la vedevo. Tre angeli, prefigurazione della stessa Trinità, vanno a visitare Abramo nella sua tenda. Sono da lui accolti, e finiscono per mangiare assieme ciò che Abramo prepara per quei ospiti inattesi e straordinari.

E’ una immagine stupenda di ciò che è la risurrezione: l’inizio della comunione definitiva fra gli uomini e Dio, fra gli uomini, il creato, e il creatore. Anche i sassi sulla riva del mare (eravamo a Varigotti, sulla riviera ligure), anche le foglie che spuntavano in quell’inizio di primavera sui cespugli delle colline erano tirati dentro da don Giussani in quella comunione cosmica. Così imparavamo che tutto ha una sorgente, un’origine: il Padre. Da lui tutto dipende, da lui discende il mondo. Egli è colui che ci genera anche adesso, in questo istante, come ha generato per sempre il Figlio durante l’alba della resurrezione, e noi siamo partecipi di quella rinascita che non finirà più. “Noi siamo un eco gratuito e libero di quella generazione, di quel Figlio”.

Don Giussani ci parlava, e continuerà a parlarci dopo, di quel dialogo infinito e continuo fra Dio e l’uomo che è la vita. Dialogo non facile, addirittura talvolta terribile, perché porta dentro la nostra vita una misura nuova che può sconvolgere ogni nostro piano, ogni nostra sicurezza, e che rimane infine irriducibile a noi. Giussani allora ricordò Giacobbe, che dovette combattere con Dio, apparso anche a lui sotto forma di un angelo. In questi giorni di lutto per tutto il nostro paese, segnato dal terremoto, siamo costretti a tenere aperta questa strada, la strada della croce, della sofferenza, della conversione. La strada di Maria, che più di ogni altro ha vissuto dentro di sé lo strappo terribile del Figlio innocente condannato e ucciso, torturato, svillaneggiato. Proprio per questa sua obbedienza ha potuto vedere l’alba della risurrezione.

“Avvenga di me quello che tu vuoi, sono disponibile a quello che tu vuoi”. Noi sappiamo che Dio vuole il nostro bene, anche se le strade della sua realizzazione sono talvolta molto ardue, e addirittura dolorose

martedì 7 aprile 2009

P A S Q U A 2 0 0 9


La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. La promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza.
Benedetto XVI

Noi diciamo quello che dovrebbe essere o quello che non va e “non si parte dall’affermazione che Cristo ha vinto”. Che Cristo ha vinto, che Cristo è risorto, significa che il senso della mia vita e del mondo è presente, è già presente, e il tempo è l’operazione profonda e misteriosa del suo manifestarsi.
Luigi Giussani

Redención se ofrece a nosotros en el sentido de que se nos ha dado la esperanza, la esperanza fiable, en virtud de la cual podemos enfrentar nuestro presente: el presente, incluso un presente fatigoso se puede vivir y aceptar si lleva hacia una meta y si este objetivo, podemos estar seguros, si esta meta es tan grande como para justificar el esfuerzo del viaje. La promesa de Cristo no es sólo una esperanza, sino una presencia real.
Benedicto XVI

Nosotros decimos lo que debe o lo que está mal y "no empezar por afirmar que Cristo ha ganado." Que Cristo ha ganado, que Cristo ha resucitado, quiere decir que el sentido de mi vida y el mundo está presente, ya está presente, y el tiempo es la profunda y misteriosa operación de su ocurrencia. Luigi Giussani

C O M U N I O N Y L I B E R A C I Ó N

Abruzzo visitato dal Mistero nei giorni della croce



Avvenire 07/04/09
Q uando accade un terremoto il Mistero prende posto tra gli uomini. O meglio, rivela d’essere tra gli uomini. Perché il Mistero, se avessimo gli occhi e il cuore aperti, lo vedremmo tra noi anche in ogni nascita di bambino o di foglia, in ogni evento minimo che procura gioia o stupore. Ma quando il petto ci viene così scosso allora siamo tutti disposti a riconoscere la sua presenza. Siamo tutti richiamati. E in questi casi alziamo gli occhi per vedere se questo Mistero che ci tiene in mano ha gli occhi o è cieco. Se ha le orbite vuote, piene di buio, o se ha un volto buono. Se fa le cose a caso.
O se ci guarda con predilezione. Nel dolore è più difficile guardare. Lo sappiamo, è più difficile.
Il dolore tende a far calare le tenebre sullo sguardo e siamo portati a vedere solo la nostra pena. È naturale, è umano che sia così. E a veder le case, quelle costruite magari con pena e sudore di anni chiudersi addosso agli abitanti, ai ragazzi, ai piccoli traditi nel sonno lo sguardo si appanna.
Viene quasi da pensare che se si abitava ancora in capanne, meno agi meno morte... Ma sono pensieri inutili. Vani.
Mentre arrivano le notizie orrende dall’Abruzzo, terra cristiana, piena di luoghi di miracoli, dove vive tanta bella gente, viene da fissare il fondo delle cose, il fondo dei perché dei terremoti, come il perché delle gemme e dei bambini, il fondo del fondo delle cose che vediamo con i nostri occhi, pronti a illuminarsi di gioia o a velarsi di pianto. Viene da affacciarsi a un pozzo che ora ci appare buio e cieco e gridare: cosa vuol dire tutto questo? Occorre farlo.
Se non lo facciamo significa che la nostra coscienza e la nostra intelligenza fatta per leggere i segni della vita sono ottuse. Se non lo facciamo, pur a costo di avere capogiri dell’anima, significa solo che siamo meno uomini, non più cristiani. Perché il cristiano non è fatalista. Il cristiano fa domande in faccia a Dio.
Tratta Dio come Dio. Non crede a una natura madre che diventa matrigna così, tanto per gioco.
Francesco, il santo e poeta, lo sapeva bene. Loda le creature, ma non chiama mai madre la natura.
Sapeva che gli uccellini sono belli, ma anche che il lupo è feroce, che l’acqua è chiara ma sapeva che la lebbra da baciare è orrenda lebbra. Che la natura è sorella, ha bellissimi pregi che indicano una creazione buona, ma è anche piena di difetti, come noi. Sorella, non madre. E Francesco loda gli uomini, tra le creature, che sanno perdonare e sopportare il male in nome di Dio. Perché sono suoi. Perché non sono della natura, ma di Dio.
I cristiani di Abruzzo prendano Francesco come guida in queste ore dolenti. Il cristiano nella settimana in cui Cristo si fa esporre sanguinoso sulla Croce dove grida in faccia a suo Padre «perché mi hai abbandonato?», grida con lui. E chi grida al Padre, anche nelle ore del dolore, non solo nelle ore della pace, sarà ascoltato. Invece il vento, le macerie, un cielo pensato come vuoto no, non ascoltano nessuno. E ricacciano ciascuno nella propria disperazione soltanto. Già lo straordinario impeto di amicizia, di soccorso di queste ore è il primo segno che il cuore dell’uomo è fatto per il bene, per donare. Il segno che il Mistero che nostro Padre ci ha inciso nel cuore è il bene.
Perché è un Dio buono. Tale affermazione, in queste ore, è la più desiderata e necessaria. Può non essere uno scandalo solo fissando la croce e i segni del bene. Può essere ragionevole e umano, tra le macerie, affidarsi a un Dio buono.
Dall’Abruzzo visitato dal Mistero, terra ferita e splendida, dove dimorano le ossa dell’apostolo Tommaso e i segni di tanti miracoli, può venire a tutti noi, così vacui e distratti troppe volte, un richiamo potente. Ed estremo. A essere uomini.
Davide Rondoni