martedì 29 settembre 2015

L’arcivescovo di Milano: «Il Papa non è populista, non bisogna strumentalizzarlo»

Angelo Scola (Fotogramma)

Cardinale Scola, domenica prossima si apre il Sinodo conclusivo sulla famiglia. Un anno fa lei disse al «Corriere»: niente comunione ai divorziati risposati; il Papa non potrà fare altrimenti. Conferma?
«Avevo espresso un auspicio, vedremo come andrà a finire. Se mi si vuol far dire che personalmente non ho trovato ragioni adeguate per accettare la proposta del cardinale Kasper, va bene, fate pure i vostri grafici distinguendo “chi sta con il Papa”, “chi non sta con il Papa”... Però la mia preoccupazione è di natura completamente diversa. Ho l’impressione che si stia “pensando” poco. A tutti i livelli». 

Si è passati dall’intellettuale Ratzinger al populista Bergoglio? 
«No, Ratzinger è un “umile servitore della vigna” e Francesco non è per nulla un populista. È un grande uomo di fede che, fin dal primo giorno, ha innovato in due direzioni. Ha capito che se non ci si coinvolge di persona non si risulta autorevoli; per questo papa Francesco dà grande importanza ai gesti. E la sua idea della povertà teologica è fondamentale». 

Povertà teologica? 
«Sì. Il Papa dice: se, seguendo il Vangelo, osserviamo la realtà partendo dalla periferia, dall’esperienza concreta dei poveri, lo vedremo secondo una visuale più completa che facendo il contrario, partendo dal centro e andando verso la periferia. Le due cose dimostrano che ha un fortissimo senso del popolo, un carisma straordinario di coinvolgimento con tutta quanta la realtà. Ed esprime una visione teologica e culturale efficace. Che abbia potuto imparare questa attitudine in un Paese come l’Argentina, dove il popolo ha avuto un peso storico rilevante, senza cadere in facili cortocircuiti — peronismo o non peronismo —, questo è pure un dato importante. Non a caso Bergoglio ha contribuito a far evolvere la teologia della liberazione in una teologia di popolo, liberandola dal rischio dell’ideologia. Se mi è permesso un paragone ardito, la gente diceva di Gesù: “è uno che parla con autorità”. Perché era coinvolto con quello che diceva. Il Papa è così: il populismo non c’entra niente. Semmai il problema è l’uso che si può fare di questo papato».

Che cosa intende? 
«Bisogna vigilare sulle strumentalizzazioni esterne, che potrebbero reintrodurre nella Chiesa una logica ideologica, in un momento in cui c’è più che mai bisogno di “mescolare le carte”, di superare le sterili dispute, di ascoltarsi reciprocamente. Se invece si ricade nella logica degli schieramenti contrapposti: “Ecco, avevamo ragione noi che dicevamo certe cose prima”, oppure “No, questo non si deve neppure dire”, è finita. Questa è la sfida che tocca alla Chiesa italiana». 

A cominciare dal Sinodo. Lei aveva proposto, anziché scontrarsi sulla comunione, di rendere più agevole la dichiarazione di nullità del matrimonio. Finirà così?«Resta una differenza qualitativa tra i due problemi. Un conto è snellire la verifica di nullità, cosa che il Santo Padre ha già fatto con il motu proprio, un conto è riammettere alla comunione sacramentale i divorziati risposati, perché la verifica della nullità non ha mai un esito scontato. Se si appura che il matrimonio c’era, c’è. Il rapporto tra Cristo e la Chiesa, entro il quale i due sposi esprimono davanti alla comunità cristiana il loro consenso, non è un modello esteriore da imitare. È il fondamento del matrimonio che nasce. Io, sposo, non potrei mai fondare il “per sempre”, l’indissolubilità, sulle sabbie mobili della mia volontà. E come posso fidarmi in maniera definitiva che mia moglie mi sarà fedele sempre? Cosa succede nel consenso reciproco espresso all’interno dell’atto eucaristico? Che io voglio il dovere del “per sempre” e decido non sulla base della mia fragile volontà, ma radicandomi nel rapporto nuziale tra Cristo e la Chiesa. È questo che, attraverso il sacramento, fonda il matrimonio». 

Sta dicendo che la comunione non è un accessorio, ma un fondamento stesso del matrimonio?«Esattamente». 

Ma legare la nullità del matrimonio alla mancanza di fede di uno degli sposi non è un ammorbidimento del vincolo? 
«È chiaro che la dimensione soggettiva della fede non è verificabile: io non mi posso permettere di giudicare quanta fede hai o non hai tu. Però la fede non è un fatto individualistico, è inserita organicamente nella comunione. Gesù ha detto: “Quando due o tre di voi si riuniranno in nome mio io sono in mezzo a loro”. L’Eucaristia è il vertice espressivo di questa natura comunionale della fede. Pertanto, rispettando fino in fondo la coscienza di ogni singolo, si può valutare se egli intende o meno fare ciò che la Chiesa fa quando unisce due in matrimonio. L’urgenza prioritaria, per me, è che il Sinodo possa suggerire al Santo Padre un intervento magisteriale che unifichi semplificandola la dottrina sul matrimonio. Un intervento teso a mostrare il rapporto tra l’esperienza di fede e la natura sacramentale del matrimonio». 

Don Carron dice che sulle unioni omosessuali serve il dialogo, non il muro. Lei cosa ne pensa?
«Ho già detto che nel riconoscimento pieno della dignità personale di quanti provano attrazione per lo stesso sesso anche noi cristiani siamo stati un po’ lenti. Ma la famiglia è qualcosa di unico, con una fisionomia molto specifica, legata al rapporto fedele e aperto alla vita tra un uomo e una donna. Non reputo conveniente una legislazione che, nei principi o anche solo nei fatti, possa produrre confusione a questo livello. Tra l’altro non sono molto convinto che lo Stato debba occuparsi direttamente di queste cose e sono anche un po’ seccato di fronte a questo Parlamento europeo, perché non ha il diritto di premere sui singoli Stati in favore di una normativa in campo etico. Ho piuttosto l’impressione che, essendo povero di poteri reali, si occupi di queste cose a sproposito, senza tener conto delle differenze tra gli Stati. L’Italia non è certo la Svezia o l’Olanda». 

I cattolici dovrebbero far sentire di più la loro voce?
«Sì, attraverso la testimonianza, anche pubblica, del bell’amore. Bisogna distinguere bene la questione delle unioni omosessuali dalla famiglia, essendo però estremamente attenti al percorso che le persone con questa attrazione compiono. Qualche giorno fa ho ricevuto esponenti di una associazione molto interessante, Courage, promossa nel 1980 dal cardinal Cooke, allora arcivescovo di New York. Persone che si impegnano a vivere la castità in questo tipo di attrazione...». 

Se ad esempio due omosessuali vivessero insieme in modo casto, la Chiesa non li condannerebbe? «Certo che no. In questo campo non esiste il bianco e il nero. Come nella situazione dei divorziati e risposati: ogni caso è personale. Tutto ciò che ha a che fare con la dimensione sessuale dell’io è personale e può essere trattato solo singolarmente. Non esiste la categoria degli omosessuali o la categoria dei divorziati e risposati. Ognuno di noi, che sia omosessuale o eterosessuale, da quando nasce a quando muore deve fare i conti con questa dimensione. È quello che taluni psicoanalisti chiamano “il processo di sessuazione”. Allora, tutti noi dobbiamo essere rispettosi fino in fondo del cammino sia degli omosessuali sia degli eterosessuali. A me non piacciono le semplificazioni esasperate, per cui tutto il Sinodo si riduce al problema dell’ammissione dei divorziati alla comunione sacramentale, per cui quando si parla di unioni omosessuali tutto si riduce al diritto di essere famiglie, e non si entra mai in un pensiero forte, non si toccano mai le questioni che ci sono dietro, le uniche in grado di promuovere la dignità di tutti e la loro equilibrata libertà». 

Per questo dice che si pensa poco? 
«Certo. Guardi anche all’immigrazione». 

Una famiglia di migranti in ogni parrocchia: è d’accordo?
«A Milano abbiamo iniziato da tempo a muoverci in questa direzione. La Chiesa fa il buon Samaritano: accoglie, cura. Ma si sta affrontando in profondità il problema? Non è più solo un’emergenza, è un fenomeno strutturale, e nei prossimi 30-40 anni diventerà imponente. Non sarà qualche commissione di tecnocrati che a tavolino risolverà tutto. Potrà essere utile anche quella, ma c’è bisogno di una visione politica che sappia valorizzare i dati dell’esperienza. Preparando i “Dialoghi di vita buona” che faremo a Milano con varie voci della società civile — rettori delle università, imprenditori, filosofi — una domanda era ricorrente: “Siamo tutti davanti all’evidenza che un’epoca sta finendo. E adesso?”. Stiamo entrando in una fase in cui la discontinuità sarà un elemento ineludibile. Si incrociano fattori dirompenti gravemente sconnessi tra di loro, dalle bioingegnerie genetiche alle neuroscienze, alla civiltà delle reti, al meticciato, alla mutazione antropologica, a un modo di valutare i comportamenti individuali e i comportamenti sociali. E tuttavia non c’è mai il puro frammento. Questa inedita discontinuità va governata riconoscendo la rottura, ma nello stesso tempo cercando di cucire quel che può essere cucito. Altrimenti non riusciremo ad andare oltre lo smarrimento della domanda: “E adesso cosa succede?”»
Intervista di Aldo Cazzullo

giovedì 24 settembre 2015

Costruire il bene comune, no ad ogni forma di violenza.DISCORSO DEL SANTO PADRE ALL'ASSEMBLEA PLENARIA DEL CONGRESSO USA


Washington. Francesco al Congresso
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VISITA AL CONGRESSO DEGLI STATI UNITI D'AMERICA
DISCORSO DEL SANTO PADRE
ALL'ASSEMBLEA PLENARIA DEL CONGRESSO DEGLI STATI UNITI D'AMERICA
Washington, D.C.
Giovedì, 24 settembre 2015

Papa Francesco alla Plenaria del Congresso degli Stati Uniti - EPA

Signor Vicepresidente,
Signor Presidente della Camera dei Rappresentanti,
Onorevoli Membri del Congresso,
Cari Amici,
Sono molto grato per il vostro invito a rivolgermi a questa Assemblea Plenaria del Congresso nella “terra dei liberi e casa dei valorosi”. Mi piace pensare che la ragione di ciò sia il fatto che io pure sono un figlio di questo grande continente, da cui tutti noi abbiamo ricevuto tanto e verso il quale condividiamo una comune responsabilità.
Ogni figlio o figlia di una determinata nazione ha una missione, una responsabilità personale e sociale. La vostra propria responsabilità come membri del Congresso è di permettere a questo Paese, grazie alla vostra attività legislativa, di crescere come nazione. Voi siete il volto di questo popolo, i suoi rappresentanti. Voi siete chiamati a salvaguardare e a garantire la dignità dei vostri concittadini nell’instancabile ed esigente perseguimento del bene comune, che è il fine di ogni politica.
Una società politica dura nel tempo quando si sforza, come vocazione, di soddisfare i bisogni comuni stimolando la crescita di tutti i suoi membri, specialmente quelli in situazione di maggiore vulnerabilità o rischio. L’attività legislativa è sempre basata sulla cura delle persone. A questo siete stati invitati, chiamati e convocati da coloro che vi hanno eletto.
Il vostro è un lavoro che mi fa riflettere sulla figura di Mosè, per due aspetti. Da una parte il patriarca e legislatore del popolo d’Israele simbolizza il bisogno dei popoli di mantenere vivo il loro senso di unità con gli strumenti di una giusta legislazione. Dall’altra, la figura di Mosè ci conduce direttamente a Dio e quindi alla dignità trascendente dell’essere umano. Mosè ci offre una buona sintesi del vostro lavoro: a voi viene richiesto di proteggere, con gli strumenti della legge, l’immagine e la somiglianza modellate da Dio su ogni volto umano.
Oggi vorrei rivolgermi non solo a voi, ma, attraverso di voi, all’intero popolo degli Stati Uniti. Qui, insieme con i suoi rappresentanti, vorrei cogliere questa opportunità per dialogare con le molte migliaia di uomini e di donne che si sforzano quotidianamente di fare un’onesta giornata di lavoro, di portare a casa il pane quotidiano, di risparmiare qualche soldo e – un passo alla volta – di costruire una vita migliore per le proprie famiglie. Sono uomini e donne che non si preoccupano semplicemente di pagare le tasse, ma, nel modo discreto che li caratterizza, sostengono la vita della società. Generano solidarietà con le loro attività e creano organizzazioni che danno una mano a chi ha più bisogno.
Vorrei anche entrare in dialogo con le numerose persone anziane che sono un deposito di saggezza forgiata dall’esperienza e che cercano in molti modi, specialmente attraverso il lavoro volontario, di condividere le loro storie e le loro esperienze. So che molti di loro sono pensionati, ma ancora attivi, e continuano a darsi da fare per costruire questo Paese. Desidero anche dialogare con tutti quei giovani che si impegnano per realizzare le loro grandi e nobili aspirazioni, che non sono sviati da proposte superficiali e che affrontano situazioni difficili, spesso come risultato dell’immaturità di tanti adulti. Vorrei dialogare con tutti voi, e desidero farlo attraverso la memoria storica del vostro popolo.
La mia visita capita in un momento in cui uomini e donne di buona volontà stanno celebrando gli anniversari di alcuni grandi Americani. Nonostante la complessità della storia e la realtà della debolezza umana, questi uomini e donne, con tutte le loro differenze e i loro limiti, sono stati capaci con duro lavoro e sacrificio personale – alcuni a costo della propria vita – di costruire un futuro migliore. Hanno dato forma a valori fondamentali che resteranno per sempre nello spirito del popolo americano. Un popolo con questo spirito può attraversare molte crisi, tensioni e conflitti, mentre sempre sarà in grado di trovare la forza per andare avanti e farlo con dignità. Questi uomini e donne ci offrono una possibilità di guardare e di interpretare la realtà. Nell’onorare la loro memoria, siamo stimolati, anche in mezzo a conflitti, nella concretezza del vivere quotidiano, ad attingere dalle nostre più profonde riserve culturali.
Vorrei menzionare quattro di questi Americani: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton.
Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario dell’assassinio del Presidente Abraham Lincoln, il custode della libertà, che ha instancabilmente lavorato perché “questa nazione, con la protezione di Dio, potesse avere una nuova nascita di libertà”. Costruire un futuro di libertà richiede amore per il bene comune e collaborazione in uno spirito di sussidiarietà e solidarietà.
Siamo tutti pienamente consapevoli, ed anche profondamente preoccupati, per la inquietante l’odierna situazione sociale e politica del mondo. Il nostro mondo è sempre più un luogo di violenti conflitti, odi e brutali atrocità, commesse perfino in nome di Dio e della religione. Sappiamo che nessuna religione è immune da forme di inganno individuale o estremismo ideologico. Questo significa che dobbiamo essere particolarmente attenti ad ogni forma di fondamentalismo, tanto religioso come di ogni altro genere. È necessario un delicato equilibrio per combattere la violenza perpetrata nel nome di una religione, di un’ideologia o di un sistema economico, mentre si salvaguarda allo stesso tempo la libertà religiosa, la libertà intellettuale e le libertà individuali. Ma c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci: il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi. Sappiamo che nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere tentati di alimentare il nemico interno. Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate.
La nostra, invece, dev’essere una risposta di speranza e di guarigione, di pace e di giustizia. Ci è chiesto di fare appello al coraggio e all’intelligenza per risolvere le molte crisi economiche e geopolitiche di oggi. Perfino in un mondo sviluppato, gli effetti di strutture e azioni ingiuste sono fin troppo evidenti. I nostri sforzi devono puntare a restaurare la pace, rimediare agli errori, mantenere gli impegni, e così promuovere il benessere degli individui e dei popoli. Dobbiamo andare avanti insieme, come uno solo, in uno spirito rinnovato di fraternità e di solidarietà, collaborando generosamente per il bene comune.
Le sfide che oggi affrontiamo, richiedono un rinnovamento di questo spirito di collaborazione, che ha procurato tanto bene nella storia degli Stati Uniti. La complessità, la gravità e l’urgenza di queste sfide esigono che noi impieghiamo le nostre risorse e i nostri talenti, e che ci decidiamo a sostenerci vicendevolmente, con rispetto per le nostre differenze e per le nostre convinzioni di coscienza.
In questa terra, le varie denominazioni religiose hanno contribuito grandemente a costruire e a rafforzare la società. È importante che oggi, come nel passato, la voce della fede continui ad essere ascoltata, perché è una voce di fraternità e di amore, che cerca di far emergere il meglio in ogni persona e in ogni società. Tale cooperazione è una potente risorsa nella battaglia per eliminare le nuove forme globali di schiavitù, nate da gravi ingiustizie le quali possono essere superate solo grazie a nuove politiche e a nuove forme di consenso sociale.
Penso qui alla storia politica degli Stati Uniti, dove la democrazia è profondamente radicata nello spirito del popolo americano. Qualsiasi attività politica deve servire e promuovere il bene della persona umana ed essere basata sul rispetto per la dignità di ciascuno. “Consideriamo queste verità come per sé evidenti, cioè che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità” (Dichiarazione di Indipendenza, 4 luglio 1776). Se la politica dev’essere veramente al servizio della persona umana, ne consegue che non può essere sottomessa al servizio dell’economia e della finanza. Politica è, invece, espressione del nostro insopprimibile bisogno di vivere insieme in unità, per poter costruire uniti il più grande bene comune: quello di una comunità che sacrifichi gli interessi particolari per poter condividere, nella giustizia e nella pace, i suoi benefici, i suoi interessi, la sua vita sociale. Non sottovaluto le difficoltà che questo comporta, ma vi incoraggio in questo sforzo.
Penso anche alla marcia che Martin Luther King ha guidato da Selma a Montgomery cinquant’anni fa come parte della campagna per conseguire il suo “sogno” di pieni diritti civili e politici per gli Afro-Americani. Quel sogno continua ad ispirarci. Mi rallegro che l’America continui ad essere, per molti, una terra di “sogni”. Sogni che conducono all’azione, alla partecipazione, all’impegno. Sogni che risvegliano ciò che di più profondo e di più vero si trova nella vita delle persone. Negli ultimi secoli, milioni di persone sono giunte in questa terra per rincorrere il proprio sogno di costruire un futuro in libertà. Noi, gente di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri, perché molti di noi una volta eravamo stranieri. Vi dico questo come figlio di immigrati, sapendo che anche tanti di voi sono discendenti di immigrati. Tragicamente, i diritti di quelli che erano qui molto prima di noi non sono stati sempre rispettati. Per quei popoli e le loro nazioni, dal cuore della democrazia americana, desidero riaffermare la mia più profonda stima e considerazione. Quei primi contatti sono stati spesso turbolenti e violenti, ma è difficile giudicare il passato con i criteri del presente. Tuttavia, quando lo straniero in mezzo a noi ci interpella, non dobbiamo ripetere i peccati e gli errori del passato. Dobbiamo decidere ora di vivere il più nobilmente e giustamente possibile, così come educhiamo le nuove generazioni a non voltare le spalle al loro “prossimo” e a tutto quanto ci circonda. Costruire una nazione ci chiede di riconoscere che dobbiamo costantemente relazionarci agli altri, rifiutando una mentalità di ostilità per poterne adottare una di reciproca sussidiarietà, in uno sforzo costante di fare del nostro meglio. Ho fiducia che possiamo farlo.
Il nostro mondo sta fronteggiando una crisi di rifugiati di proporzioni tali che non si vedevano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Questa realtà ci pone davanti grandi sfide e molte dure decisioni. Anche in questo continente, migliaia di persone sono spinte a viaggiare verso il Nord in cerca di migliori opportunità. Non è ciò che volevamo per i nostri figli? Non dobbiamo lasciarci spaventare dal loro numero, ma piuttosto vederle come persone, guardando i loro volti e ascoltando le loro storie, tentando di rispondere meglio che possiamo alle loro situazioni. Rispondere in un modo che sia sempre umano, giusto e fraterno. Dobbiamo evitare una tentazione oggi comune: scartare chiunque si dimostri problematico. Ricordiamo la Regola d’Oro: «Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te» (Mt 7,12).
Questa norma ci indica una chiara direzione. Trattiamo gli altri con la medesima passione e compassione con cui vorremmo essere trattati. Cerchiamo per gli altri le stesse possibilità che cerchiamo per noi stessi. Aiutiamo gli altri a crescere, come vorremmo essere aiutati noi stessi. In una parola, se vogliamo sicurezza, diamo sicurezza; se vogliamo vita, diamo vita; se vogliamo opportunità, provvediamo opportunità. La misura che usiamo per gli altri sarà la misura che il tempo userà per noi. La Regola d’Oro ci mette anche di fronte alla nostra responsabilità di proteggere e difendere la vita umana in ogni fase del suo sviluppo.
Questa convinzione mi ha portato, fin dall’inizio del mio ministero, a sostenere a vari livelli l’abolizione globale della pena di morte. Sono convinto che questa sia la via migliore, dal momento che ogni vita è sacra, ogni persona umana è dotata di una inalienabile dignità, e la società può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannati per crimini.
Recentemente i miei fratelli Vescovi qui negli Stati Uniti hanno rinnovato il loro appello per l’abolizione della pena di morte. Io non solo li appoggio, ma offro anche sostegno a tutti coloro che sono convinti che una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della speranza e l’obiettivo della riabilitazione.
In questi tempi in cui le preoccupazioni sociali sono così importanti, non posso mancare di menzionare la serva di Dio Dorothy Day, che ha fondato il Catholic Worker Movement. Il suo impegno sociale, la sua passione per la giustizia e per la causa degli oppressi, erano ispirati dal Vangelo, dalla sua fede e dall’esempio dei santi.
Quanto cammino è stato fatto in questo campo in tante parti del mondo! Quanto è stato fatto in questi primi anni del terzo millennio per far uscire la gente dalla povertà estrema! So che voi condividete la mia convinzione che va fatto ancora molto di più, e che in tempi di crisi e di difficoltà economica non si deve perdere lo spirito di solidarietà globale. Allo stesso tempo desidero incoraggiarvi a non dimenticare tutte quelle persone intorno a noi, intrappolate nel cerchio della povertà. Anche a loro c’è bisogno di dare speranza. La lotta contro la povertà e la fame dev’essere combattuta costantemente su molti fronti, specialmente nelle sue cause. So che molti americani oggi, come in passato, stanno lavorando per affrontare questo problema.
Va da sé che parte di questo grande sforzo sta nella creazione e distribuzione della ricchezza. Il corretto uso delle risorse naturali, l’appropriata applicazione della tecnologia e la capacità di ben orientare lo spirito imprenditoriale, sono elementi essenziali di un’economia che cerca di essere moderna, inclusiva e sostenibile. «L’attività imprenditoriale, che è una nobile vocazione, orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune» (Enc. Laudato si’, 129). Questo bene comune include anche la terra, tema centrale dell’Enciclica che ho recentemente scritto, per «entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune» (ibid., 3). «Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti» (ibid., 14).
Nell’Enciclica Laudato si’ esorto ad uno sforzo coraggioso e responsabile per «cambiare rotta» (ibid., 61) ed evitare gli effetti più seri del degrado ambientale causato dall’attività umana. Sono convinto che possiamo fare la differenza e non ho dubbi che gli Stati Uniti - e questo Congresso – hanno un ruolo importante da giocare. Ora è il momento di azioni coraggiose e strategie dirette a implementare una «cultura della cura» (ibid., 231) e «un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura» (ibid., 139).  Abbiamo la libertà necessaria per limitare e orientare la tecnologia (cfr ibid., 112), per individuare modi intelligenti di «orientare, coltivare e limitare il nostro potere» (ibid., 78) e mettere la tecnologia «al servizio di un altro tipo di progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale» (ibid., 112). Al riguardo, ho fiducia che le istituzioni americane di ricerca e accademiche potranno dare un contributo vitale negli anni a venire.
Un secolo fa, all’inizio della Grande Guerra, che il Papa Benedetto XV definì “inutile strage”, nasceva un altro straordinario Americano: il monaco cistercense Thomas Merton. Egli resta una fonte di ispirazione spirituale e una guida per molte persone. Nella sua autobiografia scrisse: “Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contraddittori desideri”.  Merton era anzitutto uomo di preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa. Egli fu anche uomo di dialogo, un promotore di pace tra popoli e religioni.
In questa prospettiva di dialogo, vorrei riconoscere gli sforzi fatti nei mesi recenti per cercare di superare le storiche differenze legate a dolorosi episodi del passato. È mio dovere costruire ponti e aiutare ogni uomo e donna, in ogni possibile modo, a fare lo stesso. Quando nazioni che erano state in disaccordo riprendono la via del dialogo – un dialogo che potrebbe essere stato interrotto per le ragioni più valide – nuove opportunità si aprono per tutti. Questo ha richiesto, e richiede, coraggio e audacia, che non vuol dire irresponsabilità. Un buon leader politico è uno che, tenendo presenti gli interessi di tutti, coglie il momento con spirito di apertura e senso pratico. Un buon leader politico opta sempre per «iniziare processi più che possedere spazi» (Esort. ap.Evangelii gaudium, 222-223).
Essere al servizio del dialogo e della pace significa anche essere veramente determinati a ridurre e, nel lungo termine, a porre fine ai molti conflitti armati in tutto il mondo. Qui dobbiamo chiederci: perché armi mortali sono vendute a coloro che pianificano di infliggere indicibili sofferenze a individui e società? Purtroppo, la risposta, come tutti sappiamo, è semplicemente per denaro: denaro che è intriso di sangue, spesso del sangue innocente. Davanti a questo vergognoso e colpevole silenzio, è nostro dovere affrontare il problema e fermare il commercio di armi.
Tre figli e una figlia di questa terra, quattro individui e quattro sogni: Lincoln, libertà; Martin Luther King, libertà nella pluralità e non-esclusione; Dorothy Day, giustizia sociale e diritti delle persone; e Thomas Merton, capacità di dialogo e di apertura a Dio.
Quattro rappresentanti del Popolo americano.
Terminerò la mia visita nella vostra terra a Filadelfia, dove prenderò parte all’Incontro Mondiale delle Famiglie. È mio desiderio che durante tutta la mia visita la famiglia sia un tema ricorrente. Quanto essenziale è stata la famiglia nella costruzione di questo Paese! E quanto merita ancora il nostro sostegno e il nostro incoraggiamento! Eppure non posso nascondere la mia preoccupazione per la famiglia, che è minacciata, forse come mai in precedenza, dall’interno e dall’esterno. Relazioni fondamentali sono state messe in discussione, come anche la base stessa del matrimonio e della famiglia. Io posso solo riproporre l’importanza e, soprattutto, la ricchezza e la bellezza della vita familiare.
In particolare, vorrei richiamare l’attenzione su quei membri della famiglia che sono i più vulnerabili, i giovani. Per molti di loro si profila un futuro pieno di tante possibilità, ma molti altri sembrano disorientati e senza meta, intrappolati in un labirinto senza speranza, segnato da violenze, abusi e disperazione. I loro problemi sono i nostri problemi. Non possiamo evitarli. È necessario affrontarli insieme, parlarne e cercare soluzioni efficaci piuttosto che restare impantanati nelle discussioni. A rischio di banalizzare, potremmo dire che viviamo in una cultura che spinge i giovani a non formare una famiglia, perché mancano loro possibilità per il futuro. Ma questa stessa cultura presenta ad altri così tante opzioni che anch’essi sono dissuasi dal formare una famiglia.
Una nazione può essere considerata grande quando difende la libertà, come ha fatto Lincoln; quando promuove una cultura che consenta alla gente di “sognare” pieni diritti per tutti i propri fratelli e sorelle, come Martin Luther King ha cercato di fare; quando lotta per la giustizia e la causa degli oppressi, come Dorothy Day ha fatto con il suo instancabile lavoro, frutto di una fede che diventa dialogo e semina pace nello stile contemplativo di Thomas Merton.
In queste note ho cercato di presentare alcune delle ricchezze del vostro patrimonio culturale, dello spirito del popolo americano. Il mio auspicio è che questo spirito continui a svilupparsi e a crescere, in modo che il maggior numero possibile di giovani possa ereditare e dimorare in una terra che ha ispirato così tante persone a sognare.
Dio benedica l’America!


Parole del Papa a braccio dalla terrazza del Congresso
Buongiorno a tutti voi! Vi ringrazio per la vostra accoglienza e la vostra presenza. Ringrazio i personaggi più importanti che ci sono qui: i bambini. Voglio chiedere a Dio che li benedica! Signore, Padre di tutti noi, benedici questo popolo, benedici ciascuno di loro, benedici le loro famiglie, dona loro ciò di cui hanno maggiormente bisogno. E vi prego, per piacere, di pregare per me. E se tra voi c’è qualcuno che non è credente, o non può pregare, vi chiedo – per favore – di augurarmi cose buone. Grazie di cuore. E Dio benedica l’America!



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giovedì 17 settembre 2015

Carrón, la bellezza (di Dio) ci salverà


Il successore di Don Giussani mostra la continuità fra Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio. Senza temere il dissenso

Ricordo la sperdutezza di don Julián Carrón dopo il suo primo intervento da capo di Comunione e Liberazione a Roma, poco dopo la morte di don Luigi Giussani, nel febbraio del 2005. Aveva appena presentato un libro di interviste del suo predecessore ( Un caffè in compagnia , Rizzoli) che aveva fermamente voluto lui, proprio lui, prete dell'Estremadura, figlio di contadini, che a dieci anni entrò in seminario sentendo la chiamata mentre raccoglieva le patate con suo papà sotto un tetto di ciliegi.Era una serata piovosa. Passeggiavamo nelle stradine intorno al Pantheon, quella cupola enorme, perfetta, e lui silenzioso, imperfetto, con la sua giubba nera sulle spalle di teologo-contadino, e mia moglie gli diede un bacio, improvvisamente, per dirgli grazie, coraggio, come per aiutarlo a portare un peso immane, quasi come Frodo a cui il Destino assegnò l'anello e la cosa gli era capitata, non l'aveva voluta, ma accettava il compito.
Quel peso era ed è guidare Comunione e Liberazione. Qualcosa da esserne schiacciati. Dagli attacchi esterni, sì. Ma questo è il meno. Il movimento ci ha fatto il callo. A essere squassante è la responsabilità di indirizzare i cuori, di indicare la strada non della politica o dell'economia, ma del destino personale di tantissima gente in cento Paesi del mondo. E non solo del loro, ma di quelli che costoro incontreranno. Venendo poi dopo un gigante come don Gius la tentazione irresistibile poteva essere quella di quietarsi nell'esistente, piluccando dal grandioso patrimonio giussaniano il pizzino giusto al momento giusto, imitandolo in tono minore, conservando, mantenendo, agitando il turibolo sul carisma pietrificato del fondatore.
Carrón non si è fatto stritolare. Non dice forse il Vangelo «il mio carico è leggero, il mio giogo è dolce»? Così ha appoggiato quel peso sulle ali dello Spirito Santo. Non sto facendo mistica a buon mercato. Parlo dello Spirito Santo che prende la carne e ossa di un cardinale recalcitrante e lo fa successore di Pietro. Carrón invece che copiare per risparmiarsi la fatica, si è immedesimato con il metodo di don Giussani. Amare la bellezza, farsi colpire da essa, comunicarla al mondo perché ciascun uomo trovi la risposta alla domanda che ha in cuore, lasciandosi guidare a sua volta dal Papa. Non semplicemente essere approvati dal Papa, ma averlo come padre, farsi leggere il carisma, che è la forma dell'adesione alla fede, dal successore di Pietro, lui che è successore di don Gius. Questo gli ha consentito una straordinaria scoperta, che nessuno fa mai: la continuità assoluta tra gli insegnamenti e il magistero di Benedetto XVI e quelli di Francesco. Entrambi constatano che non siamo più in un'età di lotta al cristianesimo (vedi le sedi di CL incendiate a centinaia negli anni '70 nel silenzio dei mass media), dove era importante una presenza vigorosa nell'arena pubblica. E neppure siamo in età semplicemente post-cristiana. Siamo in un mondo a-cristiano, resta qualche baluginio, ma non è più possibile fare riferimento all'evidenza di certi valori, pretendere che siano riconosciuti al di fuori della fede. Non perché non siano attingibili dalla ragione. Ma senza che sia allargata dalla fede, essa non ragiona più. L'unico modo di scuotere la ragione è la testimonianza disarmata della bellezza, che ferisce con uno stupore inatteso chiunque conservi, seppellita sotto i detriti di civiltà morte, «quella domanda a cui solo Dio è risposta» (Wojtyla). Oggi sono «crollate le evidenze morali» (Ratzinger), occorre affacciarsi su questo panorama desolato con la fiaccola della misericordia senza alcuna precondizione (Bergoglio). Solo la testimonianza vale. Un incontro tra persone, del tipo di quelli al tempo dei pagani, prima che la Chiesa avesse il potere. Nella libertà, mai nella costrizione.
Questo è il punto. Sia i laudatores sia gli “scomunicatores” sostengono che Francesco ha rotto con Benedetto, Giovanni Paolo e la tradizione. Mentre Carrón racconta e dimostra come Bergoglio trovi e applichi soluzioni nuove sviluppando l'autocoscienza della Chiesa, che resta se stessa, con il suo intatto patrimonio dottrinale.
Scrisse Romano Guardini nella sua Essenza del cristianesimo : «Nell'esperienza di un grande amore tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito». Il Tu di cui qui si parla è Gesù Cristo, bellezza disarmata, come l' Ecce Homo .
Tutto questo per dire che esce il primo libro italiano di questo prete spagnolo ed è una cosa importante. Il titolo del volume è spiazzante rispetto allo stereotipo dei «panzer di Dio». Si intitola La bellezza disarmata (Rizzoli, pagg. 364, euro 18). La bellezza è Cristo, disarmato l'autore. E vuole che siano disarmati, senza alcuna volontà di dominio e neppure di egemonia, i suoi ciellini e con loro tutti i cristiani. Non impugna la spada, neanche quella della polemica dialettica, se non contro coloro che, appunto, pretendono di affermare il primato dei valori nati dal cristianesimo a prescindere dalla bellezza disarmata di Cristo, dalla sua inermità.
Rispetto all'idea di un movimento ecclesiale con la testa indietro, girata verso epiche battaglie in piazza, pronto a denunciare relativismo culturale e laicismo, c'è un gran salto. La domanda è: questo balzo di coscienza chiesto da Carrón è temerario o è piuttosto temerario e disperante cozzare ostinatamente contro la porta chiusa? Il metodo della bellezza disarmata di Ratzinger-Bergoglio-Carron somiglia a quello di Cristo in Palestina o hanno ragione quelli che avvertono tutto ciò come un tradimento, addirittura come una violenta mutazione genetica della stessa sostanza del cristianesimo?
Giudichi il lettore. Secondo me, gli verrà voglia di incontrare Carrón.

«La bellezza disarmata» in un mondo dove crollano le evidenze - recensione di A. TORNIELLI


La copertina del libro
LA COPERTINA DEL LIBRO

Esce oggi il primo libro italiano di don Julián Carrón, il successore di don Giussani alla guida di Comunione e Liberazione: nella società che non riconosce più i valori come tali i cristiani non possono creare nulla di nuovo se non con la loro testimonianza di vita.



«Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell'abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile». Chi l'ha scritto? «Sorprende che a pronunciare queste parole - afferma Julián Carrón - sia un Papa e non un accanito relativista».

Il Papa in questione è Benedetto XVI, la citazione è tratta dal discorso del Pontefice al Bundestag, e serve a don Carrón per ricordare che «il crollo delle evidenze è la cifra della crisi attuale, della condizione umana nell'Occidente di oggi»: non si può più dare per scontato ciò che scontato non è. E ogni tentativo di presenza cristiana, se non riparte dall'essenziale, cioè da una personale testimonianza della «bellezza disarmata» della fede, è destinato non soltanto a fallire, ma anche a rendersi repellente.

«La bellezza disarmata» (Rizzoli, pp. 374, € 18) è il primo libro italiano di don Julián Carrón, dal 2005 alla guida del movimento di Comunione e Liberazione. Il sacerdote spagnolo ha rielaborato, riscritto e sistematizzato in questo volume in libreria da oggi vari suoi interventi di questo primo decennio come successore di don Giussani. Ma ci sono anche capitoli del tutto inediti, come quello nel quale Carrón riflette su «verità e libertà» nella società occidentale, caratterizzata dal «crollo delle evidenze» e dunque dal mancato riconoscimento di quei valori che hanno costruito la civiltà cristiana. «La questione che ci si pone - scrive l'autore - è quale sia la strada di una positiva riscoperta di ciò che appartiene alla verità dell'esperienza umana, in vista di una rinnovata fondazione della vita comune nella nostra società plurale».

Carrón valorizza il passaggio dell'«Evangelii gaudium», nel quale Papa Francesco rileva come i cristiani non possano insistere solo su questioni legate alla morale in ambito personale e sociale, ma sia il tempo di un annuncio missionario che si concentri sull'essenziale. Un giudizio, quello del Papa, che mette in discussione quelle modalità di presenza e di predicazione monotematiche, fissate soltanto su alcune battaglie.

«Come nella nota parabola - scrive l'autore nel libro - si vorrebbe togliere la zizzania dal campo, perché essa è pericolosa per la libertà. Il padrone del campo ha invece un pensiero ben diverso. Egli lascia crescere tutto, perché sa che il positivo sarà vincitore. È la certezza di Gesù: la potenza del seme sarà più grande».

Nella società caratterizzata dal crollo delle evidenze, la situazione dei cristiani di oggi è per certi versi più simile a quella dei primi cristiani, e alla loro testimonianza della bellezza delle fede incontrata e della novità di vita che ne scaturiva. Un messaggio, quello contenuto nel libro, che valorizza l'insegnamento di don Giussani, ed è destinato ad alimentare il confronto anche all'interno dello stesso movimento di CL.

Carrón, i cristiani e il letargo dell'Occidente


Un percepibile malessere permea le nostre città occidentali. Una crisi demografica senza precedenti – come di gente che non ha più voglia di continuare la sua storia. Il diritto a nascere, ad avere un padre e una madre, il senso del matrimonio, la stessa differenza biologica fra uomo e donna, tutto viene messo in discussione. Si può pensare di “affittare” l’utero di una donna per averne un figlio, o chiedere, e ottenere, di essere aiutati a morire. Le evidenze che fino a cinquanta anni fa erano il fondamento del nostro convivere, si sgretolano. Assistiamo a un moltiplicarsi di pretesi “diritti” individuali, come l’esasperazione del tentativo di autodeterminarsi, nell’illusione di essere, così, più felici.
C’è tra i cristiani chi si affanna a ribadire i valori della tradizione, ma sembra a volte una fatica di Sisifo, che non ferma l’avanzare del “nuovo mondo”. Quello che profeticamente don Luigi Giussani intuì già nel 1985, quando scrisse: «È come se non ci fosse più nessuna evidenza reale se non la moda, perché la moda è un progetto del potere». Julián Carrón, erede di Giussani alla guida di Comunione e liberazione, nel suo La bellezza disarmata (Rizzoli, pagine 364, euro 18.00) da oggi in libreria, ripercorre questa crisi, questi, come li chiamò Heidegger, «sentieri interrotti». Una riflessione profonda sull’oggi e su quello che i cristiani hanno a fare, a fronte di ciò che l’autore definisce, senza sconti, un «crollo delle evidenze» in cui le generazioni precedenti hanno vissuto. Il «misterioso, denso letargo» in cui galleggiano molti occidentali è, secondo Carrón, il risultato di una riduzione dell’Io, dell’originario desiderio di vita e felicità dell’uomo, ad opera di una cultura dominante che, come avvertiva già Bernanos, logora, impoverisce, confonde. Il pericolo attuale è insomma quello denunciato da Giovanni Paolo II, quando ventilò l’abolizione dell’uomo, del desiderio del cuore dell’uomo, da parte del potere. 
Minaccia a fronte della quale non basta contrapporsi dialetticamente, o richiamarsi a valori non più universalmente condivisi. La sfida è più radicale, e secondo Carrón ci porta al centro della Evangelii gaudium di Francesco, quando vi si afferma che per alcuni la battaglia per la difesa dei valori è divenuta più importante rispetto alla comunicazione della novità di Cristo. Osservazione da meditare, alla luce del richiamo di Francesco: Cristo “primerea”, viene prima, precede ogni cosa. Da meditare anche nell’eco di Giovanni Paolo I: «Il vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo con delle regole».
Abbiamo bisogno, è stato detto, di testimoni, più che di maestri. Di uomini che abbiano incontrato Cristo e siano capaci di mostrare la bellezza di questa sequela. La umana bellezza del cristianesimo, o come nel titolo di questo libro, “la bellezza disarmata”. Quel fascino che si trasmette senza proclami, che non spinge l’altro a difendersi, ma semplicemente si contagia, se incontriamo qualcuno che vive in un modo diverso, e più umano. «Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo diritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità»: questo è Ratzinger. È interessante come la voce di pontefici diversi riecheggi nel libro come in un’unica assonanza, riassumibile nella sintesi delle parole di Benedetto XVI all’inizio della Deus caritas est: il cristianesimo non è una decisione etica, ma un incontro.
Parola, quest’ultima, cara a don Giussani e ai suoi, incontro come scintilla che fa nascere una domanda, e intravedere il principio di una risposta. Il testo di Carrón pare dunque un tornare sulle righe de Il senso religioso, il libro fondante di Giussani, e rivisitarlo, mostrandone tutta la profezia, oltre quarant’anni dopo; alla luce di Francesco, del suo travolgente “Cristo primerea”, del ricordarci che prima di ogni parola o legge o valore c’è Cristo, e l’incontrarlo nella faccia di un uomo. Dalle parole di Giussani a Ratzinger a Francesco, il filo di un ritorno all’essenziale. 
Perché questa è in verità l’unica forma in cui il cristianesimo si tramanda, di madre in figlio, da professore ad alunno, da amico a amico: attraverso un uomo. Tutto il resto viene dopo, dentro a questa pienezza: il desiderio di avere dei figli cui trasmettere questa certezza, o di sposarsi per sempre, contando sulla grazia di Cristo, che ci accompagni. Quanto fragili sono le parole, anche le più dotte, a fronte di chi ci testimonia che si può vivere così, più intensamente uomini, in Cristo. Carrón cita il teologo e mistico bizantino Nicolas Kabasilas: ci occorrono «uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura (..) Questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso. Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale, e l’intensità del desiderio Chi sia colui che ha scoccato il dardo». 
A una tale bellezza i cristiani sono convocati. A questo dovremmo educare, nella accezione più ampia del termine, i nostri figli. Non a piccoli desideri, a un tranquillo quieto vivere. Ma a riconoscere nella realtà il segno buono che la marchia nel profondo, e a lasciarsi, dalla “bellezza disarmata” di Cristo, sedurre e condurre, per i suoi sentieri. Marina Corradi

venerdì 11 settembre 2015

Vera accoglienza significa fermare la guerra


Profughi dalla Siria
«Dico che il punto centrale non è accogliere e ospitare i profughi, ma è fermare il conflitto alle radici. Tutti devono essere coinvolti, dall’Occidente alle nazioni arabe, dalla Russia agli Stati Uniti. Questo è ciò che aspettiamo, la pace… Non parole sui migranti e discorsi sull’accoglienza. Mai più la guerra». Più chiaro di così il patriarca melchita, Gregorio III Laham, non poteva certo essere, e la sua non è certo una voce isolata: da anni ormai i vescovi iracheni e siriani continuano a chiedere un intervento militare dai paesi occidentali per porre fine alle sofferenze della popolazione, e le voci si sono alzate ancora di più in queste settimane che vedono i cattolici italiani ed europei concentrati soltanto sull’accoglienza.
Già, l’accoglienza. È l’invito pressante che sta facendo il Papa, per soccorrere quanti sono arrivati sui barconi e non solo. «Una famiglia per parrocchia», aveva chiesto nell’Angelus di domenica scorsa: una preoccupazione anche educativa, perché tutti si impari a non voltare lo sguardo da un’altra parte davanti a queste tragedie personali e collettive.
Eppure le parole di Gregorio III non possono lasciarci indifferenti; non abbiamo imparato nulla se ci giriamo dall’altra parte o mettiamo i tappi nelle orecchie quando questi vescovi siriani e iracheni intervengono. Non dicono di mettere da parte l’accoglienza, ma ci dicono che c’è un concetto più ampio e profondo di accoglienza, che non si limita a provvedere un tetto e un piatto a coloro che ormai sono già nelle nostre città. Compito importantissimo anche questo, ci mancherebbe, ma non esaurisce l’orizzonte dell’accoglienza, che è farsi carico di tutti i bisogni della persona che si ha davanti. «Davanti alle guerre che stravolgono il Medio Oriente, il nostro desiderio come cristiani e come Chiesa è quello di rimanere nel nostro Paese, e facciamo di tutto per tener viva la speranza». Così ha spiegato in questi giorni all’agenzia Fides il gesuita mons. Antoine Audo, vescovo di Aleppo dei Caldei e Presidente di Caritas Siria.
Bisogna essere consapevoli che l’arrivo in Europa di tanti siriani è un colpo alla speranza di un futuro dei cristiani in Siria, in Iraq e in Medio Oriente. 
La situazione ad Aleppo, nel resto della Siria e anche dell’Iraq è più che drammatica, ma il desiderio è restare, ricostruire un futuro nella propria terra. Dice ancora mons. Audo: «Non ce la sentiamo di dire alla gente: scappate, andate via, che qualcuno vi accoglierà. Rispettiamo le famiglie che hanno i bambini e vanno via. Non dirò mai una parola, un giudizio non benevolo su chi va via perché vuole proteggere i suoi figli dalle sofferenze. Ma per noi è un dolore vedere le famiglie partire, e tra loro tante sono cristiane. È un segno che la guerra non finirà, o che alla fine prevarrà chi vuole distruggere il Paese». 
A fuggire peraltro sono i giovani, quelli che hanno la forza fisica e hanno anche la possibilità di pagarsi il passaggio per l’Europa: «È un fenomeno grave, di disperazione. Ma è quello che sta accadendo. Vuol dire che qui rimarranno solo i vecchi». 
La pur necessaria accoglienza per chi comunque è riuscito ad arrivare in Europa non può evitare di affrontare il problema alla radice, là dove si combatte. «L’Isis va fermata» ripete da due anni il Patriarca di Babilonia dei Caldei, monsignor Louis Sako, e con lui tutti i preti e i vescovi di cui abbiamo sentito la testimonianza in questo tempo. E l’Isis non si ferma con le chiacchiere, ma su questo punto si continua a sorvolare, anzi – come dice ancora mons. Audo - «in Occidente dicono di fare tutto in difesa dei diritti umani, e con questo argomento continuano anche ad alimentare questa guerra infame». 
Oggi è su questo che bisogna insistere e sfidare i governi occidentali e non solo. Fermare la guerra, neutralizzare l’Isis e le altre formazioni jihadiste, viene prima di qualsiasi altra preoccupazione geopolitica. Se non si prende questa decisione, anche l’accoglienza ai profughi diventa un esercizio di ipocrisia

Il Vicario di Cristo a casa mia. Diario di un incontro (anzi tre)

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Fin dalla prima volta che ho avuto la grazia di incontrare papa Francesco, dopo soli 15 giorni dalla sua elezione, celebrando con lui la Messa nella casa Santa Marta, sono rimasto colpito dalla tenerezza con cui ha parlato e ha ascoltato padre Paolino e me. Sono stati minuti intensi, durante i quali abbiamo potuto conoscerci e sinteticamente riferirgli quello che la Divina Misericordia compie ad Asunción usando la fragilità di due sacerdoti senza alcun titolo accademico. Quello che ci ha detto lui non lo ricordo nemmeno: la commozione di sentirci abbracciati era più grande di tutte le parole pronunciate. Stavamo vivendo un momento molto difficile e avevamo bisogno solo della sua paternità.

Un anno dopo, il Nunzio apostolico mi ha detto: «Sono stato a far visita al Santo Padre, mi ha chiesto come stava padre Aldo e io ho dovuto rispondergli che non lo sapevo, perché era molto tempo che non lo vedevo. Sarebbe opportuno che tu stesso venissi in Italia con me per celebrare la Messa con il Papa e rispondere alla sua domanda». Il secondo incontro con il Vicario di Cristo è stato ancora più sorprendente del primo. È avvenuto l’8 gennaio 2015. C’era suor Sonia con me. «Santità – gli ho chiesto – quando verrà in Paraguay? Desidererei che lei venisse a benedire e inaugurare la clinica da poco costruita». Mi ha risposto, ripetendolo due volte: «Ma io vengo questo anno in Paraguay!». La notizia è arrivata immediatamente nel paese, tuttavia molti non mi credevano.
Sette mesi dopo il Papa è arrivato. Difficile immaginare che potesse ritagliare uno spazio nel programma per noi. Ma alle 11 di sabato 11 luglio mi ha chiamato il Nunzio apostolico: «Il Santo Padre tra le 14.30 e le 15 farà una visita alla clinica». Non potevo crederci.

Già molte ore prima del suo arrivo, la strada, gli alberi, i balconi e perfino i tetti delle case prospicienti la clinica erano stipati di giovani che aspettavano il Papa. Entusiasmo alle stelle. I bambini della scuola Pa’i Alberto e i ragazzi della scuola professionale Pa’i Lino, tutti con la divisa di gala, hanno formato due cordoni per tenere libero il passaggio e fare anche da chierichetti al Santo Padre. Il Papa è arrivato alle 15.30, e la grande quantità di persone, impazzite per questo regalo, ha messo a dura prova il servizio d’ordine. Tutti volevano toccarlo, chiedere la benedizione. Era uno scenario evangelico, perché dentro questa moltitudine c’erano infermi, poveri, persone che hanno bisogno di tutto. Come al tempo di Gesù, tutti desideravano toccarlo.
È stato un momento unico per me: accogliere nella mia casa il Vicario di Gesù. Siamo entrati in clinica e lui, dopo aver baciato alcuni infermi, con un mazzo di rose bianche si è diretto alla cappella del Santissimo, si è fermato alcuni minuti in adorazione, poi ha posto i fiori ai piedi dell’immagine della Madonna di Caacupé. Nel frattempo gli ammalati e i poveri lo aspettavano nel salone multiuso. Il suo incontro con loro è stato un evento di gioia: quando è entrato, vedendo tutte queste persone, ha allargato le braccia, come a manifestare il suo amore a ognuno, e ha impartito la benedizione a tutti.

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Un’Idea in regalo
Prima di lasciare la clinica, dopo averla benedetta e inaugurata, mi ha detto una parola, la più importante per me e per la Fondazione: «Grazie padre, e avanti!». Non mi sento degno di questo “grazie”, perché io ero e sono un cucchiaio in mano a un Muratore, ma quell’imperativo, “avanti”, è per me e per i miei amici la certezza che questa opera è del Signore e non un capriccio o un progetto di padre Aldo. Il mio unico merito è stato di obbedire alla realtà, come luogo dove il Mistero manifesta la sua chiamata, attraverso segni e vocazioni particolari.
Quella di papa Francesco è stata una visita tanto desiderata quanto insperata. Come insperato è stato il regalo che ci ha fatto, donandoci la Fiat Idea, la vettura utilizzata in Paraguay in alternativa alla papamobile. Lunedì 13 luglio il Nunzio mi ha chiamato dicendomi: «Papa Francesco mi ha detto di regalare l’auto ai poveri della Fondazione San Rafael». La notizia è stata oggetto di interesse, non solo da parte dei miei poveri, ma anche dei media che non potevano credere che fosse vera la decisione del Santo Padre. Anche per me è stata una sorpresa: chi sono io perché il Papa mi consegni l’auto utilizzata nella sua permanenza in Paraguay?
Invito i lettori a pregare per me, affinché nulla sia cancellato dalla mia mente, dal mio cuore: la sorpresa che il Papa mi ha fatto visitando la mia numerosa famiglia, in particolare i malati terminali, i bambini vittime di abusi e violenza.
paldo.trento@gmail.com

mercoledì 9 settembre 2015

Aprirsi a Cristo per creare una cultura della fede

Pontificale_Santa Maria Nascente
Nel Pontificale presieduto in Duomo per la festa di Santa Maria Nascente il cardinale Scola ha presentato la Lettera pastorale che guiderà il cammino della Diocesi anche nel contesto dei prossimi eventi promossi dalla Chiesa universale e italiana


Il desiderio e la scelta di superare quel misto di «scetticismo e speranza» che caratterizza ogni nuovo inizio, per andare oltre un’inconfessata e sorda insicurezza e il fin troppo diffuso peccato di debolezza e fragilità. E fare questo perché convinti di potere e volere ritrovare, nel proprio cuore profondo, il pensiero di Cristo aprendosi a esso in ogni momento della vita quotidiana e creando così un’autentica cultura della fede.
In Duomo, col solenne Pontificale presieduto dal cardinale Scola come tradizione nella festa della Natività di Santa Maria Nascente, ha preso avvio l’anno pastorale. La Cattedrale è gremita, concelebrano il cardinale Tettamanzi, tutti i Vescovi ausiliari (cui si aggiungono, tra gli altri, l’Arcivescovo di Gorizia, il milanese monsignor Carlo Redaelli, e monsignor Emilio Patriarca), il Consiglio Episcopale Milanese, il Capitolo della Cattedrale, e oltre duecento sacerdoti. Nel Pontificale si svolge anche il Rito di ammissione dei Candidati al Diaconato e al Presbiterato di sedici giovani della nostra Diocesi e di uno proveniente dal Centrafrica e dei sette Candidati al Diaconato permanente. E così la “ripartenza” è il momento e modo attraverso cui l’Arcivescovo delinea il senso complessivo della Lettera pastorale Educarsi al pensiero di Cristo, resa pubblica oggi e che guiderà la nostra Chiesa per il biennio 2015-2017.
«Occorre sconfiggere la tentazione dell’insicurezza che può diventare scetticismo e produrre l’oblìo del “per Chi?”. L’Anno Santo della Misericordia illumina il cammino pastorale indicato dalla Chiesa ambrosiana per i prossimi due anni: educarsi al pensiero di Cristo, avere i suoi stessi sentimenti - nota il Cardinale -. Attraverso il lavoro personale e comunitario sulla Lettera pastorale, insisto su questo soprattutto con i sacerdoti, si tratta di assumere il dono e il compito di pensare secondo Cristo, cioè di riconoscere nella persona di Gesù, immedesimandosi in Lui, il criterio per guardare, leggere e abbracciare tutta la realtà e, nello stesso tempo, il dono e il compito di pensare Lui attraverso tutte le cose della vita. Non è niente di intellettualistico, ma è qualcosa che sta nell’esperienza comune di tutti i giorni e occorre vivere “insieme”, come comunità cristiana, perché il pensiero di Cristo è, sempre e in modo indisgiungibile, un sentire con la Chiesa, in intima unione con il popolo santo di Dio, secondo il criterio della pluriformità nell’unità, vera e propria legge della communio».
Un lavoro, quello proposto dalla Lettera, che si situa nella riforma attuata in questi ultimi anni dalla Chiesa di Milano, vòlta a definire il profilo di una Chiesa “in uscita”, capace di andare incontro all’umano a 360°, perché il campo è il mondo e nulla è estraneo ai cristiani. E sono molti gli eventi che attendono questa Chiesa “aperta”, già nel prossimo trimestre: l’Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla vocazione e missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo (a cui il Cardinale parteciperà come uno dei Vescovi eletti dalla Conferenza Episcopale Italiana e ratificato dal Santo Padre); l’iniziativa dell’Ufficio diocesano per l’accoglienza dei fedeli separati; il prossimo Convegno ecclesiale di Firenze sul tema “In Gesù Cristo, il nuovo umanesimo”, il cui lavoro verrà proseguito in Diocesi attraverso l’iniziativa dei “Dialoghi di vita buona” (al via a novembre), «concepiti laicamente insieme a esponenti di altre religioni e visioni della vita - spiega l’Arcivescovo – Tenteremo di riflettere su aspetti comuni e decisivi per la vita di tutti i soggetti che abitano la società plurale. Infatti siamo in una posizione, noi uomini post-moderni, assai difficile: un’epoca, quella moderna, si è chiusa. E ora? I Dialoghi di vita buona vorranno dare, in merito, un contributo alla città e a tutte le terre ambrosiane». E, infine - ultima, ma non ultima - la visita pastorale, definita feriale che inizierà stasera stessa e di cui il Vicario generale, monsignor Delpini, legge a conclusione, il Decreto di Indizione.
Arcidiocesi di Milano

Solennità della Natività della Beata Vergine Maria
Ct 6, 9d-10; Sir 24, 18-20; Sal 86; Rm 8,3-11; Mt 1,18-23

Inizio dell’Anno Pastorale



Duomo di Milano
8 settembre 2015


Omelia di S.E.R. Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano


1. «Ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile, mandando il proprio Figlio» (Epistola, Rm 8,3). Le parole dell’Apostolo Paolo spalancano davanti a noi l’orizzonte della speranza cristiana che ci permette di dire, con tutta verità e certezza: “È possibile ricominciare”. Alla ripresa di un nuovo Anno Pastorale, può capitare di rintracciare nel nostro cuore, più o meno consapevolmente, soprattutto a mano a mano che passano gli anni, un misto di speranza e di scetticismo. Al desiderio di riprendere la strada insieme alle comunità alle quali siamo stati inviati, si può aggiungere una sorda, magari inconfessata insicurezza che, se non riesce a fermare la nostra dedizione, qualche volta la priva di letizia. Le nostre debolezze e fragilità, i nostri peccati, sono a volte così persistenti, così noiosamente regolari, da insinuarci il dubbio che, alla fine, non potremo cambiare. Di fronte a questa tentazione – bisogna chiamarla con il suo nome! – ci ripetiamo con l’Apostolo: «Ciò che era impossibile Dio lo ha reso possibile mandando il proprio Figlio», perché lo Spirito di risurrezione abita in noi (cf. Epistola, Rm 8,10-11).

2. Noi, infatti, siamo il popolo testimone e protagonista dell’ “impossibile” compiuto da e in Gesù Cristo. Lo mostra bene l’odierna solennità della Natività della Beata Vergine Maria. In essa la Chiesa contempla l’aurora della salvezza: nella nascita di Colei che sarà Vergine e Madre del Redentore, contempliamo la caparra della grazia dell’impossibile realizzato. L’impotenza della legge è vinta perché lo Spirito genera la nostra appartenenza a Cristo (cf. Epistola, Rm 8,9).
Solo se custodiamo la certezza di quanto il Padre di misericordia  opera in noi e in mezzo a noi è ragionevole rinnovare l’impegno di dedicare la vita al servizio del Signore e della Chiesa.
Carissimi candidati al diaconato e al presbiterato, sia la vostra disponibilità ad offrire la vita a Cristo a servizio del popolo santo di Dio, sia quella della Chiesa ad accogliere, nella persona dell’Arcivescovo, il vostro proposito, hanno una solida ragion d’essere. «Lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, [e] abita in voi» (Epistola, Rm 8,11) e darà «la vita anche ai vostri corpi mortali» (Epistola, Rm 8,11). È la prospettiva battesimale, tanto cara al nostro padre Ambrogio, del “con-morire” e del “con-risorgere” in Cristo che già segna l’esistenza terrena del cristiano.

3. Sconfiggere la tentazione dell’insicurezza che può diventare scetticismo e produrre l’oblìo del “per Chi?” operiamo, è probabilmente una delle azioni più potenti della misericordia di Dio.
Dopo l’Anno della Vita Consacrata, che ha visto impegnata la Chiesa tutta nel riconoscimento di questo dono dello Spirito alla comunità cristiana, il Santo Padre ha voluto indire un straordinario Anno Santo della Misericordia perché tutti «abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. È fonte di gioia, di serenità e di pace. È condizione della nostra salvezza. Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato» (Misericordiae vultus 2).
Lungo quest’anno vogliamo vivere questo mistero centrale della nostra fede attraverso gesti di pellegrinaggio e riconciliazione, anche sacramentale, e attraverso la pratica delle opere di misericordia corporali e spirituali. Già da oggi sono disponibili le prime indicazioni per vivere bene in Diocesi questo tempo straordinario di perdono e perciò di gioia.

4. L’Anno Santo della Misericordia illumina il cammino pastorale indicato dalla Chiesa ambrosiana per i prossimi due anni: educarsi al pensiero di Cristo. Attraverso il lavoro personale e comunitario sulla Lettera pastorale, si tratta di assumere il dono e il compito di pensare secondo Cristo, cioè di riconoscere nella persona di Gesù il criterio per guardare, leggere e abbracciare tutta la realtà e, nello stesso tempo, il dono e il compito di pensare Lui attraverso tutte le cose. E questo “insieme”, come comunità cristiana, perché il pensiero di Cristo è, sempre e in modo indisgiungibile, un sentire con la Chiesa, in intima unione con il popolo santo di Dio, secondo il criterio della pluriformità nell’unità, vera e propria legge della communio.
Il lavoro proposto dalla Lettera pastorale costituisce un ulteriore passo nel percorso di riforma – il termine se ben inteso non è eccessivo – che la nostra Chiesa ha avviato da qualche decennio. Cito solo il peso dato alla Parola di Dio, la nascita delle Comunità Pastorali, il lavoro sull’iniziazione cristiana. Affronteremo ora la questione del posto decisivo della famiglia come soggetto diretto di evangelizzazione per giungere alla formazione del clero con la proposta di “processi da avviare” e di esercizi di comunione. Passi di riforma che hanno come orizzonte proprio l’evangelizzazione, il rinnovamento della Chiesa come “Chiesa in uscita”, così come ha già mostrato l’iniziativa Evangelizzare la metropoli, che riprenderà martedì 27 ottobre con l’intervento del Patriarca dei Maroniti Card. Boutros Bechara Rai su Evangelizzare il Medio-Oriente.

5. Nel primo trimestre di quest’Anno Pastorale avranno luogo due eventi ecclesiali che segneranno in maniera speciale il nostro cammino.
In primo luogo l’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla vocazione e missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo, a cui parteciperò personalmente come uno dei Vescovi eletti dalla Conferenza Episcopale Italiana e ratificato dal Santo Padre. L’iniziativa dell’Ufficio diocesano per l’accoglienza dei fedeli separati, che in questi giorni comincia il suo lavoro, vuol essere un aiuto offerto dalla nostra Chiesa mediante un maggior coinvolgimento diretto del Vescovo con le famiglie ferite. A proposito dell’Assemblea sinodale Ordinaria mi preme sottolineare che il compito a cui il Santo Padre chiama la famiglia cristiana è, anzitutto, quello della testimonianza personale e comunitaria del bell’amore, con cui la Lettura di oggi (Lettura, Sir 24,18) esalta la nascita della Vergine nella 
prospettiva della Santa Famiglia, vera e propria «scuola del Vangelo» come ebbe a dire il Beato Paolo VI a Nazaret nel 1964.
Nella preghiera sui doni tra poco reciteremo: «Ci soccorra, o Dio, l’umanità del tuo Unigenito». Il prossimo Convegno Ecclesiale di Firenze sul tema In Gesù Cristo, il nuovo umanesimo, che da noi è stato preparato anche dal Discorso di Sant’Ambrogio – Un nuovo umanesimo per Milano e le terre ambrosiane – aiuterà le Chiese in Italia a riflettere sull’umanità del Figlio di Dio come proposta di forme di umanesimo incarnate nella storia, mai definitive eppure tese ad intercettare le domande dei nostri contemporanei ed a contribuire all’edificazione della buona vita civile. La nostra Chiesa proseguirà il lavoro proposto dal Convegno Ecclesiale di Firenze attraverso l’iniziativa dei Dialoghi di vita buona. Concepiti laicamente insieme ad esponenti di altre religioni e cosmovisioni tenteranno di riflettere su aspetti comuni e decisivi per la vita di tutti i soggetti che abitano la società plurale. Infatti un’epoca, quella moderna, si è chiusa. Ed ora?

6. Con il Consiglio episcopale milanese, e dopo averne discusso nell’intensa assemblea partecipata da tutti i decani, ho deciso di indire nella data di oggi una Visita pastorale che durerà fino al 31 maggio 2017. Fra poco verrà reso pubblico il decreto di indizione. Insieme, Arcivescovo, Vicari di Zona, decani, sacerdoti, religiosi e fedeli laici, attraverso pochi gesti molto semplici – si è parlato di una Visita pastorale feriale – di verificare la ricezione delle priorità pastorali indicate in questi anni a partire dai quattro pilastri della vita della comunità cristiana primitiva. La Visita pastorale potrà essere un catalizzatore dei non pochi processi ed iniziative cui abbiamo fatto riferimento.

7. «Giuseppe, figlio di Davide, non temere…» (Vangelo, Mt 1,28). Giuseppe è stato il primo ad assecondare il miracolo dell’impossibile operato dallo Spirito. Guardiamo a lui come sicuro paradigma per lavorare all’opera di Cristo redentore.
La Santa Famiglia sostenga e protegga i cammino della nostra Chiesa. Amen.