domenica 31 maggio 2009

Anno Paolino: curarsi della vita nell'aeropago di oggi

Katowice, 30 Maggio 2009
Siamo riuniti qui oggi per una riflessione conclusiva sull’anno di S. Paolo. E vogliamo cominciare questa riflessione dal discorso di S. Paolo all’Aeropago di Atene. Prendiamo in mano il libro degli Atti degli Apostoli e proviamo ad immedesimarci con lo stato d’animo di S. Paolo nel momento in cui sale il colle dell’Aeropago. A destra ed a sinistra, per ogni dove, Saulo di Tarso (per origine familiare e cultura personale un fariseo) vede i templi dedicati agli dei pagani ed il suo animo sussulta di sdegno per la idolatria degli ateniesi. Ogni idolo incorpora una passione dell’anima umana, una circostanza della sua esistenza o una delle forze naturali a cui è affidato il suo destino: la passione amorosa (Venere), la ira furiosa della battaglia (Marte), il timore della morte (Plutone)…
Che ne è, in questo contesto, dell’uomo? L’uomo come tale non esiste o è abbandonato. Egli è il palcoscenico sul quale si sviluppa lo scontro delle passioni e delle circostanze, la lotta fra gli dei diversi che si contendono il dominio su di lui.
Scisso fra queste passioni diverse l’uomo cerca di porre ordine nel caos del destino e in questo tentativo è destinato a soccombere . L’antichità pagana (tranne che nella intuizione di qualche genio filosofico) non è ancora elevata al pensiero di un Dio unico, onnipotente e buono, che ama gli uomini e li regge con una legge di giustizia. Proprio questo scandalizza e deve scandalizzare l’ebreo osservante Saulo il cui cuore sussulta davanti allo spettacolo della idolatria.
I pagani non conoscono Dio e non conoscono la sua legge.
La situazione spirituale che Saulo contempla nella sua salita dell’Aeropago non è molto diversa da quella del mondo di oggi. Non è forse vero che tante voci nel mondo di oggi si levano proprio contro il Monoteismo e contro la Legge?
Si vuole un mondo abitato da un pluralismo delle verità in cui l’uomo sia lasciato libero di seguire ora questa ora quella delle passioni dell’anima. Si identifica la libertà con il dominio delle passioni che si sottraggono alla misura oggettiva del buono e del giusto.
Anche per noi, come per Saulo, è forte la tentazione della recriminazione e della condanna.
Chi sale il colle dell’Aeropago, però, non è solo Saulo il fariseo. E’ anche contemporaneamente Paolo, il discepolo e l’apostolo di Cristo.
Quando parla Paolo non dà voce all’indignazione ed alla condanna. Intona, anzi, in un certo senso un peana di lode. Voi Ateniesi – egli dice – siete un popolo molto religioso e per questo in ogni caso cercate il divino. Investite ogni passione dell’anima con un desiderio di assoluto che vi porta a divinizzarle. Di qui la moltitudine degli dei che adorate. Ogni passione dell’anima, però, alla fine delude e per questo l’uomo non si può fermare presso di essa e passa ad un’altra, e ad un’altra ancora, per sperimentare sempre di nuovo lo stesso entusiasmo e sempre di nuovo la stessa delusione.
Forse, mentre diceva queste cose, sarà venuto in mente a Paolo il salmo che dice “Di ogni cosa perfetta ho veduto il limite, solo la tua Legge, Signore, ha una portata infinita”.
Dietro ognuno degli ideali c’è un desiderio umano di assoluto, il desiderio del divino, di ciò che è eternamente ed infinitamente bello e buono. Proprio questo desiderio ogni idolo illude e poi, alla fine, delude. Proprio per questo l’idolo merita biasimo e condanna. Ma proprio per questo nell’idolatria si legge in trasparenza la grandezza dell’uomo, il suo desiderio di infinito che nessun oggetto è in grado di soddisfare. Paolo parla, oltre gli idoli, a quel desiderio in cui consiste la dignità e la grandezza dell’uomo. Dietro l’idolatria c’è l’uomo che, in forme sempre inadeguate e spesso aberranti, cerca il divino.
Fra i tanti santuari ce n’è uno dedicato “al Dio sconosciuto”. C’è, in questa dedica, come il presentimento di qualcosa che sta dietro la divinità di tutti gli dei, qualcosa che l’uomo cerca attraverso ed oltre la venerazione di ciascuno degli idoli. A questa idea di un qualcosa di divino che sta oltre il Pantheon degli idoli il meglio del pensiero classico (p. es. Platone) già si era avvicinato. Per Platone, però, questo è un qualcosa e non un qualcuno, il divino e non un Dio personale, τό θείον (to theion) e non ό θέος (o theos). E’ qui, verso il culmine della saggezza ellenica che Paolo lancia la sua sfida: quel Dio che voi cercate a tentoni nel buio, quel Dio del quale, quando siete sinceri con voi stessi, sapete solo che non lo conoscete, quel Dio vi è venuto incontro nella forma dell’uomo Gesù di Nazareth.
Io, Saulo, sono venuto ad annunciarvelo. Seguite Lui, insieme con me, e conoscerete la presenza di Dio nella vostra vita, la vita eterna.
La proposta di Paolo non era, in realtà, del tutto estraneo al mondo greco. Platone, nel Fedone, già dice “come sarebbe bello se venisse qualcuno, dall’altro lato del mare della vita, a spiegarci queste cose (le verità ultime sul destino dell’uomo)”.
E lo stesso Platone, nella Repubblica, ci mostra il giusto che viene messo in croce per la sua testimonianza resa alla verità. Il giusto di Platone, però, non risorge. Il Signore di cui parla Paolo parla, invece, Gesù di Nazareth, è risorto dai morti. E’ proprio su questo che i saggi di Atene, che hanno seguito con attenzione la prima parte del discorso di Paolo, si rifiutano di dargli ascolto. Alcuni, però, credettero. Possiamo chiederci “chi credette?”. La risposta non è difficile. Quella di Paolo non è una dimostrazione, è una scommessa. Credettero quelli il cui desiderio di incontrare il divino, di cui tutta la loro cultura in un certo senso, era impregnata, era così forte da fare loro accettare il rischio della fede.
Abbiamo visto come il mondo spirituale a cui Paolo si rivolge non sia poi molto diverso dal nostro mondo di oggi. Anche noi, come Saulo, possiamo rivolgerci a questo mondo rimproverandogli la sua idolatria, la incapacità di osservare la legge, la sua iniquità. Possiamo, e anche dobbiamo farlo. C’è tuttavia un’altra cosa ancora più importante che dobbiamo fare prima di questa.
Dobbiamo rendere omaggio alla dignità della persona umana ed alla grandezza del suo cuore che è fatto per Dio e che non perde nemmeno nell’idolatria e nel peccato il sigillo della propria appartenenza al mistero divino.
Se guardiamo alla predicazione di Giovanni Paolo II vediamo che ciò che la contraddistingue è proprio questa caratteristica paolina. Nessuno può dubitare del fatto che Giovanni Paolo II sia stato esigente nel predicare e nel richiedere l’osservanza della legge morale. Tuttavia il punto di partenza da cui muove non è la Legge ma l’Annuncio della Salvezza. E’ l’incontro con Cristo ciò che cambia il cuore e dà anche la forza di adempiere alla Legge, perché ne fa vedere la bellezza e la congruità con la vera natura dell’uomo. Come Paolo, Giovanni Paolo II non si è scandalizzato per l’impurità dei pagani del nostro tempo ma ha saputo leggere dentro la loro idolatria la ricerca di quella verità che , dal canto suo, si muoveva incontro a loro e che Lui veniva ad annunciare. Ancora oggi, davanti a questo mondo così sconcertante, il rischio della Chiesa è quello di annunciare la Legge piuttosto che il Vangelo o prima la Legge che il Vangelo. Giovanni Paolo II ha riletto il Concilio in questo senso paolino, ed è per questo che tante donne ed uomini del nostro tempo lo hanno amato. Si sono sentiti compresi nell’ansia del loro cuore.
Due sono i rischi della Chiesa nel tempo presente. Uno è quello di lasciarsi scandalizzare dal male e di reagire alla nuova idolatria di massa con la imprecazione e la condanna. E’ il rischio di una certa mentalità “preconciliare”.
L’altro è il rischio di pensare che il riconoscimento della salvezza in Cristo dispensi dalla osservanza della legge e che il Vangelo abolisca la legge invece di perfezionarla e di compierla. Non a caso la lotta contro questo rischio è un tema ricorrente delle lettere paoline.
Per comprendere meglio questo tema dobbiamo tornare al tema paolino della Legge e del Vangelo.
Contro un certo esclusivismo ebraico Paolo afferma che anche i pagani hanno una legge che parla nei loro cuori. La rivelazione di Dio a Mosè è , in un certo senso, la ripetizione e la conferma di ciò che Dio già aveva scritto nella natura di ogni uomo. Questa affermazione implica naturalmente una distinzione all’interno della Legge antica. Esistono precetti legati alla storia di Israele (per esempio determinate prescrizioni rituali ed alimentari) ed esistono invece precetti che hanno una portata ed una validità universale. Solo questi ultimi sono inscritti nel cuore di ogni uomo. Conseguentemente anche la religione dei Pagani non è oggetto di una condanna indiscriminata. In essa va’ salvato ciò che corrisponde alla legge naturale (per ciò che riguarda i precetti morali) ed anche il desiderio di infinito, il desiderio di presenza del divino, di cui già abbiamo parlato quando abbiamo considerato l’altare dedicato al “Dio ignoto”.
La legge, tuttavia, non salva. Non salva la Legge data agli ebrei come non salva la legge scritta nel cuore dei Pagani. Il desiderio,infatti, non conosce legge. Proprio perché desiderio del divino esso non accetta il limite della Legge ed in quel limite sente di tradire se stesso. Qui S. Paolo fa’ propria, in un certo senso, l’anima segreta del platonismo e di tutto il pensiero greco: l’opposizione di περας (peras) ed άπειρον (apeiron), finito ed infinito. Continuamente l’uomo cerca di porre un ordine nel caos del desiderio e cerca di sottometterlo ad una legge (p. es. non desiderare la roba d’altri e non desiderare la donna d’altri). Continuamente il desiderio si ribella a questo limite e cerca di forzarlo. La felicità non risiede in nessun oggetto finito. La legge rende l’uomo consapevole della sua ingiustizia (il desiderio è ingiusto perché non conosce il limite ed il rispetto del diritto dell’altro) ma non lo salva. L’uomo non è però salvato nemmeno dall’andare dietro al desiderio passando da una cosa all’altra, cercando di impadronirsi di tutto. Questa hybris è insieme peccato, condanna e pena. Solo quando l’infinito si fa’ prossimo ed offre se stesso come termine adeguato del desiderio dell’uomo l’osservanza della Legge diviene espressione della natura (redenta) dell’uomo. All’inizio l’uomo ha desiderato di essere come Dio ed ha cercato di diventare come Dio impadronendosi delle cose del mondo. Di Dio l’uomo ha visto l’onnipotenza ed ha così frainteso la natura di Dio. L’uomo Gesù di Nazareth rivela invece la vera natura di Dio, che è l’amore paziente fino alla morte ed alla morte in croce. A chi si pone sul suo cammino Gesù offre la possibilità di diventare come Dio, non attraverso il cammino della potenza e della forza ma attraverso la follia della croce che testimonia l’onnipotenza dell’amore.

La rilettura della teologia paolina che abbiamo tentato dice molte cose anche all’uomo di oggi. Viviamo, lo abbiamo già detto, nel tempo di un nuovo paganesimo. Cosa devono fare i cristiani nel tempo di un nuovo paganesimo? Ce lo ha insegnato con grande semplicità e forza Giovanni Paolo II: devono evangelizzare i pagani, esattamente come fecero a suo tempo i primi cristiani e Paolo, Apostolo delle Genti, primo fra loro. Ci siamo accostati, attraverso Paolo, al mondo spirituale del mondo classico. Nel farlo abbiamo avuto modo di constatare come esso, in realtà, sia diverso dalla immagine che di cristianità e cristianesimo ci ha dato Federico Nietzsche. Parliamo di Nietzsche perché più di ogni altro egli è stato maestro di un ritorno al paganesimo. Egli ha visto nel cristianesimo e nel platonismo la affermazione della legge e la negazione del desiderio. Egli si è opposto ad ogni legge in nome della libertà del desiderare. In questo senso egli è davvero il precursore di quella “liberazione del desiderio” che caratterizza l’epoca nostra. Il desiderio infinto. imprevedibile, mobile, che non può essere imprigionato o costretto in nessuna legge è ciò che rimane al termine dell’opera di decostruzione che è propria di gran parte della filosofia contemporanea. C’è, dietro, questa visione, anche una reminiscenza di un altro grande maestro: Sigmund Freud. In una delle sue opere di metapsicologia, Il Disagio della Civiltà, il fondatore della psicanalisi ci spiega appunto che la civiltà nasce dalla legge, cioè dalla repressione del desiderio. Simmetricamente la liberazione del desiderio deve finire con la distruzione della civiltà, almeno così come noi la conosciamo.
Il cristianesimo di Paolo è lontano dalla ricostruzione di Nietzsche. Per la verità anche il Platone che noi conosciamo (p.es. sulla base delle opere della Scuola di Tubinga e di Reale) è almeno parzialmente diverso dal Platone contro cui si scaglia Nietzsche. Il nostro Platone non riduce tutto a misura ma conosce anche la forza dell’illimitato che sempre sfugge alla misura della legge e la travolge. La figura di Cristo, soprattutto, eccede lo schema di Nietzsche e sorprende la visione di ogni decostruzionismo spiazzandolo. Il desiderio infinito può trovare un oggetto infinito che lo colma ed a partire da questo amore infinito diventa possibile una compassione per il finito che lo riconosce e lo ama nel suo limite, rispettandolo. Il rispetto per il finito, allora, non nasce dalla rinuncia al desiderio ma dal suo appagamento nell’oggetto adeguato che solo può dare pace alla ricerca del cuore umano. Per la verità Nietzsche ha intravisto questa possibilità e ne è stato tentato. Sicuramente la ha vista Hoelderlin, quando identifica il Nazareno con Dioniso. Molta teologia razionalistica ha naturalizzato il cristianesimo ed ha cercato di parlare all’uomo moderno a partire dall’ordine della natura e della legge. La svolta decostruzionistica della filosofia e della mentalità moderna la ha spiazzata. Ad un uomo che rifiuta ogni legge la moderna teologia razionalistica cerca di offrire una legge sempre più leggera, e non capisce che è proprio la legge come tale ad essere rifiutata. La discussione sull’aborto (ma anche quella recente sull’Aids dopo le dichiarazioni di Benedetto XVI nel corso del suo viaggio in Africa) lo mostra nel modo più evidente. In ambedue i casi il presupposto non detto che articola il discorso è la incoercibilità dell’impulso, l’impossibilità di ricondurlo ad una legge. Anche quando la legge viene ricondotta alla norma personalistica fondamentale (non fare all’altro quello che non vorresti fosse fatto a te) essa non può negare l’impulso o pretendere di regolamentarlo. Dalla innocenza originaria dell’impulso deriva che è violenza ciò che potrebbe imporre uno stile di vita che lo limiti.
E’ molto diversa l’idea di libertà come libertà dell’impulso dalla idea di libertà della persona. La libertà della persona presuppone proprio il controllo della persona sull’impulso (direbbe il filosofo Wojtyla l’autopossesso e l’autodominio) per potere inserire l’impulso dentro un progetto di vita adeguato per la persona e rispettoso della sua dignità (per esempio per potere inserire l’impulso sessuale dentro il progetto di un grande amore interpersonale in cui si assume una responsabilità per il bene dell’altro e dei figli che nascano dal rapporto).
Davanti a questa evoluzione spirituale noi dobbiamo, come Paolo, parlare della legge che è scritta nel cuore di ogni uomo e cercare la risonanza della parola di questa legge nel cuore del nostro interlocutore. E’ questa la sfera della discussione politica, cui è sempre sotteso un dibattito sull’uomo, una visione antropologica.
Non dobbiamo però avere paura di parlare dell’avvenimento cristiano e della salvezza in Gesù Cristo. Questo, va da se, è compito piuttosto che dei politici dei vescovi e dei sacerdoti ma appartiene anche alla vocazione di ogni christifidelis laicus, ogni laico cristiano. E’ difficile che si possa arrivare ad una visione equilibrata della natura dell’uomo se non si da’ contemporaneamente una risposta a quel desiderio di infinito che abita nello spazio più intimo del cuore umano cui S. Paolo ha proposto come risposta l’uomo di Nazareth, Figlio di Dio, morto e risorto per la salvezza degli uomini.
Rocco Buttiglione

mercoledì 27 maggio 2009

LA «PROSSIMITÀ» DELLA CHIESA ALL’UOMO REALE

A ccade con Gesù. Con i Santi. E con la Chiesa. Accade che gli uomini li sentano vicini. Li sentano prossimi. Co­me nei racconti dei Vangeli si vede che le persone consideravano Gesù uno che era vicino, uno che non stava solo riti­rato in preghiera o chissà dove, rapito nei suoi colloqui misteriosi con il Padre. Accadeva con Gesù. Sapevano dove tro­varlo. Era prossimo a gente di ogni tipo. Ai poveri, ai bambini, a chi era ricco ma senza gusto per la vita, a chi non sape­va farsi amare, a chi avrebbe voluto ti­rare la prima pietra, a chi non si alzava più dal letto. A chi aveva la peste. A chi non ci vedeva più. Era prossimo a chi vo­leva discutere su Dio. A chi aveva fame. Faceva diventar matti gli intellettuali del suo tempo, gli scribi, e gli ipocriti, i fa­risei. Che lo volevano 'bloccare', met­tere in una casella, assegnargli un cam­po d’azione consono al loro pensiero su Dio e sugli uomini.
Diventavano matti, dicevano che sì, lo stimavano, ma presero a odiarlo perché Lui era sentito vicino dagli uomini. Per­ché si faceva prossimo a tutti. E dopo di Lui, anche i santi sono stati e saranno prossimi alla gente. Tanti tipi di santi, per ogni tipo di situazione. Molto spes­so pagando con il sangue il fatto d’esser prossimi all’uomo contro i progetti di chi ha il potere. Leggendo le parole del cardinale Bagnasco all’assemblea dell’e­piscopato, viene davanti agli occhi la grande prossimità della Chiesa agli uo­mini di sempre, e in ogni condizione. Accadeva a Gesù, accade ai Santi, e alla Chiesa. Ma la Chiesa, dicono da un la­to strani intellettuali, dovrebbe occu­parsi di questa cosa e non di un’altra. No, rispondono altri intellettuali da un’altra parte, dovrebbe occuparsi del­l’altra e non di questa. Ma la Chiesa non fa distinzioni. Si occupa dell’uomo co­me è. Perché si occupa, per così dire, della risposta al desiderio di felicità, cioè di bene e di autentico, che c’è nella vita di tutti, fortunata o sfortunata che sia. Perciò si fa prossima alla famiglia in dif­ficoltà per la crisi come al grande im­prenditore. Perciò continua, lungo due­mila anni, la grande prossimità che Ge­sù ebbe con gente di ogni tipo e in ogni situazione. Lo fa in Italia nelle condi­zioni in cui vivono gli italiani. Nel dram­ma della crisi e della disoccupazione, nelle domande circa le evoluzioni della ricerca scientifica e nello smarrimento di fronte a una grande questione edu­cativa che mangia in petto il Paese.
Gli intellettuali - gli scribi di oggi - vor­rebbero che la Chiesa stesse entro cer­ti confini. Si scandalizzano se trovano la Chiesa prossima all’esperienza di uo­mini diversi in campi diversi della vita. Accadeva con Gesù, e accade anche og­gi. Così quando la vita di moltissimi nel nostro Paese è segnata da fatti duri o da gioie, costoro sanno che la Chiesa c’è, è vicina. Con i volti familiari di gente di fede. Di gente che è lì, sta vicina, dà u­na mano a capire, a guardare la verità e a far qualcosa di buono, sia che si trat­ti di una casa terremotata o di un ter­remoto esistenziale per decidere se il bambino va fatto nascere o no. E’ una prossimità all’uomo che non significa assistenza sociale (anche se innumere­voli sono le opere); che non significa nemmeno ricerca del consenso (non è il mestiere della Chiesa). Significa che la Chiesa ha da offrire una cosa all’uo­mo di sempre. L’incontro con Gesù. A quanti è capitato di riaprire una do­manda sulla propria fede per essersi ac­corti - per esperienza personale - che, alla fin fine, la Chiesa, cioè la gente cri­stiana, è prossima alle persone come nessuno in Italia.
La via della Chiesa italiana non è una via che passa o a destra o a sinistra, a est o a ovest dei problemi o sulla testa delle persone: è la via che porta in prossimità dell’uomo reale, alle sue croci e alle sue feste. Accadeva a Ge­sù, è scritto chiaro nei Vangeli. E da al­lora accade al proseguimento miste­rioso del Suo corpo, a quel che noi chiamiamo Chiesa.
di DAVIDE RONDONI

lunedì 25 maggio 2009

L'ESPERIENZA DELLA FAMIGLIA UNA BELLEZZA DA CONQUISTARE DI NUOVO


di Julián Carrón
UN NUOVO INIZIO
La famiglia è negli ultimi tempi al centro del dibattito pubblico. Il tentativo di regolare nuove forme di convivenza diverse dal matrimonio concepito come rapporto definitivo e fecondo tra un uomo e una donna ha scatenato una appassionata discussione. Non è qualcosa di totalmente nuovo, piuttosto è il culmine di un processo cominciato anni fa.
Questo dibattito ha messo in evidenza, da una parte, che tutta la propaganda di una mentalità contraria alla famiglia attraverso i media (cinema, televisione, stampa) pur avendo a disposizione mezzi così potenti non ha impedito che tante persone continuino a fare una esperienza positiva della famiglia.
Davanti a questo impressionante spiegamento di forze mediatiche e ideologiche, parrebbe inevitabile che la famiglia smetta di interessare. Invece c’è un fatto che siamo costretti a riconoscere quasi con sorpresa: questo impressionante apparato ha dimostrato di non essere più potente dell’esperienza elementare che tanti di noi ha vissuto nella propria famiglia, l’esperienza inestirpabile di un bene. Un bene del quale siamo grati e che vogliamo trasmettere alle future generazioni per condividerlo con esse.
Ma, dall’altra parte, questo bene sperimentato non è riuscito a bloccare socialmente i tentativi per trasformare il matrimonio in forme diverse. A questo occorre aggiungere un dato non meno significativo: questo processo è cominciato quando la stragrande maggioranza della legislazione sul matrimonio difendeva la concezione tradizionale derivata dal cristianesimo. Tutta quanta questa legislazione non ha impedito il dilagare di una mentalità contraria al matrimonio, non è stata in grado di arrestare il cambiamento.
Come è potuto succedere? Come è possibile che la chiarezza che si era raggiunta sulla natura del matrimonio e che si era confermata nei secoli nel giro di così poco tempo sia stata messa in discussione in un modalità così generale? Cercare di capire la situazione in corso mi sembra particolarmente decisivo per poter rispondere a essa.
Nella sua ultima enciclica Spe salvi, Benedetto XVI ha offerto una chiave per capire quello che sta succedendo, quando afferma che «un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre più avanzate, si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza sempre più grande della natura. Nell’ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c’è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio» .

Nuovo inizio. Sarà difficile trovare una espressione più adeguata per descrivere il presente. Se ogni momento è un nuovo inizio proprio perché c’è di mezzo la libertà, il nostro è propriamente un nuovo inizio perché quello che era trasmesso pacificamente da una generazione a un’altra non c’è più.

È un nuovo inizio perché non si può dare per scontato niente di quello che fino a non poco tempo fa era ritenuto chiaro per tutti. Occorre ricominciare da capo.
A ben guardare la nostra situazione non è molto diversa di quella dell’inizio. Basta ricordare la reazione dei discepoli la prima volta che sentirono Gesù parlare del matrimonio. «Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”. Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due ma una carne sola Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. Gli dissero i discepoli: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”» . Non dobbiamo sorprenderci, quindi. La stessa cosa che a tanti dei nostri contemporanei oggi, e spesso a noi stessi, appare impossibile, tale appariva anche ai discepoli.
Questo non vuol dire che non serva nulla di quanto si è imparato lungo una storia millenaria, ma questa ricchezza accumulata non si trasmette meccanicamente. Prosegue infatti il Papa: «Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell’intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro morale dell’umanità non è presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito alla libertà e come possibilità per essa» . La trasmissione in campo morale non è così facile da trasmettere perché i suoi contenuti non possono avere la stessa evidenza delle scoperte scientifiche. Il tesoro morale è un invito alla libertà.
Per questo dobbiamo smettere di sognare «sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono» . Questo serve prima di tutto a noi che non siamo diversi dai più. Dolorosamente constatiamo come fra noi vi siano molti amici che non riescono a essere saldi di fronte alle numerose difficoltà esterne e interne che attraversano. E quanto a noi, non è sufficiente conoscere la vera dottrina sul matrimonio per resistere a tutte le sfide della vita. Ce lo ha ricordato sempre il Papa: «le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno» .

RIGUADAGNARE L’IO
Come può dunque accadere questo nuovo inizio auspicato da Benedetto XVI? La strada non può essere altra che quella suggerita dal Faust goethiano: «Ciò che hai ereditato dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo» . Per riguadagnarlo occorre riandare all’origine della esperienza amorosa, per riscoprire la sua vera natura. Soltanto questa esperienza può essere adeguato punto di partenza per poter cogliere dall’interno di essa il valore della proposta di Cristo all’amore tra i due sposi.
Gli sposi sono due soggetti umani, un io e un tu, un uomo e una donna, che decidono di camminare insieme verso il destino, verso la felicità. Come impostano il loro rapporto, come lo concepiscono, dipende dall’immagine che ciascuno ha della propria vita, della realizzazione di sé. Ciò implica una concezione dell’uomo e del suo mistero. Afferma il Papa: «la questione del giusto rapporto fra l’uomo e la donna affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da qui. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? cosa è l’uomo?» .
Per questo il primo aiuto che si può offrire a quanti vogliono unirsi in matrimonio è il prendere coscienza del mistero del loro essere uomini. Solo in questo modo potranno mettere adeguatamente a fuoco la loro relazione, senza attendersi da essa qualcosa che, per sua natura, nessuno può dare all’altro. Quanta violenza, quanta delusione potrebbero essere evitate nel rapporto matrimoniale, se fosse compresa la natura propria della persona!
Questa mancanza di coscienza del destino dell’essere umano conduce a fondare tutto il rapporto su un inganno, che si può sinteticamente formulare così: la convinzione che il tu possa rendere felice l’io. Il rapporto di coppia, in questo modo, si trasforma in un rifugio, tanto desiderato quanto inutile, per risolvere il problema affettivo. E quando l’inganno si manifesta, è inevitabile la delusione perché l’altro non ha compiuto l’aspettativa. Il rapporto matrimoniale non può avere altro fondamento che la verità di ciascuno dei suoi protagonisti.
Come essi possono scoprire la loro verità, il mistero del loro essere uomini?


LA DINAMICA DEL NUOVO INIZIO: BELLEZZA, SEGNO, PROMESSA
È la stessa relazione amorosa che contribuisce in maniera precipua a scoprire la verità dell’io e del tu; e insieme con la verità dell’io e del tu si manifesta la natura della vocazione comune.
Ciò che siamo ci viene rivelato in maniera solare dalla relazione con la persona amata. Nulla ci risveglia di più, nulla ci rende tanto consapevoli del desiderio di felicità che ci costituisce, quanto la persona amata. La sua presenza è un bene così grande che ci fa cogliere la profondità e la vera dimensione di questo desiderio: un desiderio infinito. Si può applicare per analogia al rapporto amoroso quello che Cesare Pavese dice del piacere: «Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità» . Un io e un tu limitati suscitano l’uno nell’altro un desiderio infinito e si scoprono lanciati dal loro amore verso un destino infinito. In questa esperienza si rivela a entrambi la propria vocazione.
E nello stesso momento in cui si rivelano a noi stessi le dimensioni senza limite del nostro desiderio, ci viene offerta una possibilità di compimento. Più ancora, intravedere nella persona amata la promessa del compimento accende in noi tutto il potenziale infinito del desiderio di felicità. Per questo non c’è nulla che ci faccia comprendere il mistero del nostro essere uomini meglio del rapporto fra un uomo e una donna, come ci ha ricordato Benedetto XVI nella Enciclica Deus caritas est: «l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo […], al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono» . In questo rapporto l’essere umano sembra incontrare la promessa che gli fa superare il proprio limite e gli permette di raggiungere una pienezza incomparabile, poiché «alla radice di tutta la realtà vivente c’è la sponsalità. Ed è la sponsalità che rende promessa tutto, come dice la parola stessa: sponsale vuol dire una realtà promettente, che promette» . Per questo la storia dell’umanità – nelle sue pur differenti espressioni – ha sempre istituito una relazione fra l’amore e il divino: «l’amore promette infinità, eternità – una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere» .
Si tratta esattamente dell’esperienza che in modo indimenticabile esprime Giacomo Leopardi nel suo inno ad Aspasia: «Raggio divino al mio pensiero apparve, | Donna, la tua beltà» . La bellezza della donna è percepita dal poeta come un raggio divino, come la presenza del divino. Attraverso la bellezza della donna è Dio che bussa alla porta dell’uomo. Se l’uomo non comprende la naturalezza di questa chiamata e non rischia nell’assecondarla, difficilmente può comprendere profondamente il proprio destino di infinità e di felicità.
La donna, con il suo limite, desta nell’uomo, anch’egli limitato, un desiderio di pienezza sproporzionato rispetto alla capacità che essa ha di rispondervi. Suscita una sete che non è in condizione di estinguere. Suscita una fame che non trova risposta in colei che l’ha destata. Da qui la rabbia, la violenza, che tante volte sorgono fra gli sposi, e la delusione nella quale vanno a cadere, se non comprendono la vera natura del loro rapporto.
La bellezza della donna è in realtà raggio divino, segno che rimanda oltre, ad altra cosa più grande, divina, incommensurabile rispetto alla sua natura limitata, come descrive Romeo nel dramma di William Shakespeare: «Fammi vedere una donna che sia bellissima fra le altre; | la sua bellezza non sarà altro per me che una pagina | dove leggerò di quella che supera tutto per bellezza» . La sua bellezza grida: «Non sono io. Io sono solo un promemoria. Guarda! Guarda! Che cosa ti ricordo?» .
È la dinamica del segno, della quale il rapporto fra l’uomo e la donna costituisce un esempio commovente. Quanto più essi vivono la presenza dell’amato come segno di altro – che è la verità dell’amato –, tanto più essi attendono e bramano questo altro.
Se non comprende questa dinamica, l’uomo cade nell’errore di fermarsi alla realtà che ha suscitato il desiderio. Come se una donna che riceve un mazzo di fiori, rapita dalla loro bellezza, si dimenticasse del volto di chi glieli ha mandati, e del quale sono segno, perdendo il meglio che i fiori recavano. Non riconoscere all’altro il suo carattere di segno conduce inevitabilmente a ridurlo a ciò che appare ai nostri occhi. E prima o poi si manifesta la sua incapacità di rispondere al desiderio che ha suscitato.
Per questo, se ciascuno non incontra ciò a cui il segno rimanda, il luogo dove può trovare il compimento della promessa che l’altro ha suscitato, gli sposi sono condannati a essere consumati da una pretesa dalla quale non riescono a liberarsi, e il loro desiderio di infinito, che nulla come la persona amata desta, è condannato a rimanere insoddisfatto. Di fronte a questa insoddisfazione, l’unica via d’uscita che oggi tanti vedono è cambiare la coppia, dando inizio a una spirale in cui il problema viene rinviato fino al momento della successiva delusione.
Ma entrare in questa spirale non può essere l’unica via d’uscita. Questo è il paradosso dell’amore fra l’uomo e la donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare. E solo nell’orizzonte di un amore più grande non si consumano nella pretesa e non si rassegnano, ma camminano insieme verso una pienezza della quale l’altro è segno. Solo nell’orizzonte di un amore più grande si può evitare di consumarsi nella pretesa, carica di violenza, che l’altro, che è limitato, risponda al desiderio infinito che desta, rendendo così impossibile il compimento di sé e della persona amata. Per scoprirlo bisogna essere disposti ad assecondare la dinamica del segno, restando aperti alla sorpresa che questa può riservarci.
Leopardi ha avuto il coraggio di correre questo rischio. Con una intuizione penetrante del rapporto amoroso, il poeta italiano intravede che ciò che cercava nella bellezza delle donne di cui si innamorava era la Bellezza, con la maiuscola. Al vertice della sua intensità umana, l’inno Alla sua donna esprime tutto il suo desiderio che la Bellezza, l’idea eterna della Bellezza, assuma una forma sensibile. È ciò che è accaduto in Cristo, il Verbo fatto carne. Per questo Luigi Giussani ha definito questa poesia come «una profezia dell’Incarnazione» .
In questo contesto si può comprendere l’inaudita proposta di Gesù affinché l’esperienza più bella della vita, innamorarsi, non decada sino a trasformarsi in qualcosa di soffocante.
Questa è la pretesa di Gesù, che troviamo in alcuni passi evangelici che a prima vista possono risultarci paradossali. «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» .
In questo testo Gesù si presenta come il centro dell’affettività e della libertà dell’uomo. Ponendo se stesso al cuore degli stessi sentimenti naturali, si colloca a pieno diritto come loro radice vera. In tal modo Gesù rivela la portata della promessa che la sua persona costituisce per quanti lo lasciano entrare. Non si tratta di una ingerenza di Gesù a livello dei sentimenti più intimi, ma della più grande promessa che l’uomo abbia potuto mai ricevere: senza amare Cristo (cioè la Bellezza fatta carne) più della persona amata, quest’ultimo rapporto avvizzisce, perché è Lui la verità di questo rapporto, la pienezza alla quale l’un l’altro si rinviano e nella quale il loro relazione si compie. Solo permettendoGli di entrare in esso è possibile che il rapporto più bello che può accadere nella vita non si corrompa e con il tempo muoia. Tale è l’audacia della Sua pretesa.
Come ha risposto Gesù allo spavento dei discepoli davanti alla verità sul matrimonio che stava loro annunciando? Possiamo dire con una formula: facendo il cristianesimo. Egli non si è fermato ad annunciare la verità del matrimonio, ma ha introdotto una novità nelle loro vite che ha reso possibile viverlo secondo quella verità.
Che questa novità sia qualcosa di così reale e corrispondente alla natura del uomo si vede dal fatto che su di essa si può scommettere tutta la vita. È ciò che la tradizione cristiana chiama verginità.


MATRIMONIO E VERGINITÀ
Alla stupita reazione dei discepoli sulla natura originale del matrimonio, che prima abbiamo visto, Gesù oppone una frase che può apparire ancora più enigmatica: «Egli rispose loro: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca”» .
In queste parole Gesù aggiunge una nuova categoria di eunuchi a quelle già note, vale a dire coloro che si fanno eunuchi per il regno dei cieli. Ovviamente si tratta della libera scelta di rinunciare a sposarsi che fanno coloro ai quali è stato concesso di riconoscere il valore unico del regno dei cieli. Commentando questo brano, Giovanni Paolo II ha avuto modo di esprimersi come segue: «nella chiamata alla continenza “per il Regno dei cieli”, prima gli stessi Discepoli e poi tutta la viva Tradizione scopriranno presto quell’amore che si riferisce a Cristo stesso come Sposo della Chiesa e Sposo delle anime, alle quali egli ha donato se stesso sino alla fine, nel mistero della sua Pasqua e nell’Eucaristia. In tal modo, la continenza “per il Regno dei cieli”, la scelta della verginità o del celibato per tutta la vita, è divenuta nell’esperienza dei discepoli e dei seguaci di Cristo un atto di risposta particolare all’amore dello Sposo Divino e perciò ha acquisito il significato di un atto di amore sponsale, cioè di una donazione sponsale di sé, al fine di ricambiare in modo speciale l’amore sponsale del Redentore; una donazione di sé, intesa come rinuncia, ma fatta soprattutto per amore» .
Alla luce di questo si capisce cos’è la verginità: il nuovo rapporto assolutamente gratuito che Cristo ha introdotto nella storia. La verginità è vivere le cose secondo la loro verità. E come è entrata nel mondo la verginità? È entrata nel mondo come imitazione di Cristo, cioè come imitazione di vivere di un uomo che era Dio. Nessun altra ragione può sostenere una cosa così grande come la verginità nel vivere l’esistenza, se non l’immedesimazione con la modalità attraverso cui Cristo possedeva la realtà, cioè secondo la volontà del Padre.
La persona di Gesù è un bene talmente grande e prezioso che Egli è l’unico che corrisponde pienamente alla sete di felicità dell’uomo. Proprio questa corrispondenza unica, che la Sua persona costituisce per chi Lo incontra, rende possibile un rapporto col reale assolutamente gratuito. Per questo chi abbraccia la verginità può essere libero per non sposarsi.
Come coloro che sono chiamati alla verginità contribuiscono al regno di Dio? I chiamati alla verginità sono stati scelti perché «gridino davanti a tutti, in ogni istante – tutta la loro vita è fatta per questo – che Cristo è l’unica cosa per cui valga la pena vivere, che Cristo è l’unica cosa per cui valga la pena che il mondo esista. [...] Questo è il valore oggettivo della vocazione: la forma della loro vita gioca nel mondo per Cristo, lotta nel mondo per Cristo. La forma stessa della loro vita! [...] È una vita che come forma grida: “Gesù è tutto”. Gridano questo davanti a tutti, a tutti coloro che li vedono, a tutti coloro che in loro si imbattono, a tutti coloro che li sentono, a tutti coloro che li guardano» .
La vocazione alla verginità è strettamente collegata alla vocazione al matrimonio. Rispondendo alla chiamata i vergini gridano agli sposati la verità del loro amore. Seguiamo ancora Giovanni Paolo II: «Alla luce delle parole di Cristo, come pure alla luce di tutta l’autentica tradizione cristiana, è possibile dedurre che tale rinuncia è ad un tempo una particolare forma di affermazione di quel valore, da cui la persona non sposata si astiene coerentemente, seguendo il consiglio evangelico. Ciò può sembrare un paradosso. È noto, tuttavia, che il paradosso accompagna numerosi enunciati del Vangelo, e spesso quelli più eloquenti e profondi. Accettando un tale significato della chiamata alla continenza “per Regno dei cieli”, traiamo una conclusione corretta, sostenendo che la realizzazione di questa chiamata serve anche – e in modo particolare – alla conferma del significato sponsale del corpo umano nella sua mascolinità e femminilità. La rinuncia al matrimonio per il regno di Dio mette in evidenza al tempo stesso quel significato in tutta la sua verità interiore e in tutta la sua personale bellezza. Si può dire che questa rinuncia da parte delle singole persone, uomini e donne, sia in un certo senso indispensabile, affinché lo stesso significato sponsale del corpo sia più facilmente riconosciuto in tutto l’ethos della vita umana e soprattutto nell’ethos della vita coniugale e familiare» .
La verginità è l’autentica speranza per gli sposati; è la radice della possibilità di vivere il matrimonio senza pretesa e senza inganni: «In forza di questa testimonianza, la verginità tiene viva nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e da ogni impoverimento» .
«Per questo la verginità è la virtù cristiana ideale di qualsiasi rapporto, anche del rapporto tra un uomo e una donna sposati. E, infatti, il culmine del loro rapporto, il momento culminante del loro rapporto è là dove si sacrificano, non là dove esprimono il loro possesso. Perché, per il peccato originale, di fatto, l’afferrare fa scivolare. È come se uno desidera una cosa e corre verso questa cosa e, quando è lì vicino, corre talmente che vi spacca il naso contro: scivola, incespica. È per questo che noi diciamo che la verginità è un possesso con un distacco dentro» . Il possesso vero che sperimentiamo è un possesso con un distacco dentro.

IL LUOGO DELLA FAMIGLIA: COMUNITÀ CRISTIANE VIVE
Appare quindi in tutta la sua importanza il compito della comunità cristiana: favorire una esperienza del cristianesimo per la pienezza della vita di ciascuno. Solo nell’àmbito di questa relazione più grande è possibile non divorarsi, perché ciascuno trova in essa il suo compimento umano, sorprendendo in sé stesso una capacità dì abbracciare l’altro nella sua diversità, di una gratuità senza limiti, di un perdono sempre rinnovato.
Senza comunità cristiane capaci di accompagnare e sostenere gli sposi nella loro avventura, sarà difficile, se non impossibile, che essi la portino a compimento felicemente. Gli sposi, a loro volta, non possono esimersi dal lavoro di una educazione – della quale sono i protagonisti principali –, pensando che appartenere alla comunità ecclesiale li liberi dalle difficoltà. In questo modo si rivela pienamente la natura della vocazione matrimoniale: camminare insieme verso l’Unico che può rispondere alla sete di felicità che l’altro risveglia costantemente in me, cioè verso Cristo. Così si eviterà di passare, come la Samaritana, di marito in marito senza riuscire a soddisfare il proprio autentico desiderio. La coscienza della sua incapacità a risolvere da sola il proprio dramma – nemmeno cambiando cinque volte marito! – le ha fatto percepire Gesù come un bene così desiderabile da non poter fare a meno di gridare: «dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete» .
Conscio della situazione attuale, Benedetto XVI afferma la necessità «che le famiglie non siano sole. Un piccolo nucleo familiare può trovare ostacoli difficili da superare se si sente isolato dal resto dei suoi familiari e amici. Perciò, la comunità ecclesiale ha la responsabilità di offrire sostegno, stimolo e alimento spirituale che fortifichi la coesione familiare, soprattutto nelle prove o nei momenti critici. In questo senso, è molto importante il ruolo delle parrocchie, così come delle diverse associazioni ecclesiali, chiamate a collaborare come strutture di appoggio e mano vicina della Chiesa per la crescita della famiglia nella fede» . Questo invito pieno di tenerezza e di realismo è allo stesso tempo l’indicazione di un compito: la famiglia come tale abbisogna di un luogo per vivere, ed esso può essere solo costituito da comunità cristiane che a loro volta vivano in pienezza contemplativa e operativa la propria fede. In un intervista Giussani utilizzava la seguente immagine: «Un popolo nasce da un avvenimento, si costituisce come realtà che vuole affermarsi in difesa della sua tipica vita contro chi la minaccia. Immaginiamo due famiglie su palafitte in mezzo a un fiume che si ingrossa. L’unità di queste due famiglie, e poi di cinque, di dieci famiglie, man mano che si ingrossa la generazione, è una lotta per la sopravvivenza e, ultimamente, una lotta per affermare la vita. Senza volerlo, affermano un ideale che è la vita. Così la gente che dice di riferirsi a un popolo reputa inesorabilmente positiva la vita. Per la conoscenza razionalmente impegnata che ho della vita del singolo e della società, queste condizioni dell’idea di popolo toccano il vertice di concezione e di attuazione nell’annuncio del Fatto cristiano, nel quale per noi si compie quello che ha qualificato in tutta la sua storia il grande ethos del popolo ebraico e la sua tensione a cambiare la terra» .
L’appartenenza di un essere umano alla propria famiglia si dilata allora nell’appartenenza alla Chiesa, e dunque a quel brandello di Chiesa in cui ognuno di noi sperimenta la presenza universale di Cristo. Lo stringersi fraternamente insieme, il creare dimore ospitali: sono questo il contributo maggiore che i cristiani possono dare per favorire e accompagnare l’esperienza della famiglia come cammino inesausto verso la pienezza costituita da Cristo. «Il superamento della solitudine nell’esperienza dello Spirito di Cristo non accosta l’uomo agli altri, lo spalanca a essi fin dalle profondità del suo essere. [...] La comunità diventa essenziale alla vita stessa di ognuno. [...] Il “noi” diventa pienezza dell’“io”, legge della realizzazione dell’“io”» .
Senza l’esperienza di pienezza umana che Cristo rende possibile, l’ideale cristiano del matrimonio si riduce a qualcosa di impossibile da realizzare. L’indissolubilità e l’eternità dell’amore appaiono come chimere irraggiungibili. E in realtà esse sono frutti tanto gratuiti di una intensità di esperienza di Cristo che agli stessi sposi appaiono come una sorpresa, come la testimonianza che, davvero, «nulla è impossibile a Dio» . Solo una tale esperienza può mostrare oggi la razionalità della fede cristiana, una realtà che corrisponde totalmente al desiderio e alle esigenze dell’uomo, anche nel matrimonio e nella famiglia.
Questa testimonianza è il contributo che possono dare oggi gli sposi cristiani di fronte al travaglio in cui si trovano tanti dei loro concitadini. È una testimonianza gratuita che sfiderà la ragione e la libertà di chi, cercando una autentica risposta alla propria esigenza di felicità, non riesce a trovarla. È una testimonianza che cerchiamo di dare nella consapevolezza che «abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi»
Incontro organizzato dal Centro Culturale di Milano
In occasione della Settimana della Cultura 2009 della Diocesi di Milano

venerdì 22 maggio 2009

La vita “per caso”. A piene mani «Il cristianesimo non significa che l’uomo è un po’ meno degli altri, ma significa la vera umanità».




«Io sono un ateo, diventato cristiano per caso. Perché vengo dal posto dove l’ateismo è nato, la bassa emiliana. Sono cresciuto respirando il pragmatismo tipico degli emiliani. Per loro la metafisica è l’opinione di qualche mente malata. Per questo, per me il fatto cristiano è stato proprio un’avventura. È stato come una scommessa. La sfida è che il cristianesimo non significa che l’uomo è un po’ meno degli altri, perché ha qualche obbligo morale in più, ma significa la vera umanità».
È un passo della biografia di Enzo Piccinini di Emilio Bonicelli (Enzo, un’avventura di amicizia, Marietti 1820). Piccinini era un noto chirurgo, e un dirigente di Comunione e Liberazione. È morto in un incidente stradale, sull’Autosole, dieci anni fa, il 26 maggio 1999. Anche quella sera, come sempre, correva: pendolare com’era fra l’ospedale a Bologna e la famiglia, e Cl a Milano. Uno che correva spinto dalla passione per gli altri: malati da operare, allievi da formare, ragazzi da crescere. Gli sarebbe stato giusto addosso il motto paolino: «Caritas Christi urget nos», la carità di Cristo ci sprona, ci fa correre.
Ciò che colpisce nella sua storia è l’eco di una sfida. «Io sono un ateo, diventato cristiano per caso…». Un ragazzo di Rubiera, provincia di Reggio Emilia, in quattordici in una cascina. Lui, Enzo, che vuole studiare. I collegi cattolici. A 18 anni, «una ribellione totale alla questione cristiana». Frequenta l’estrema sinistra. Se ne va un istante prima che i suoi amici entrino in clandestinità. È accaduta una cosa: la curiosità di «vedere cosa facevano» dei ragazzi che ogni sera nella cripta del duomo di Reggio recitavano i Salmi. I vecchi amici lo mettono in guardia: «Vedi, sono bravi ragazzi, ma hanno un chiodo fisso, Gesù Cristo», e lo dicono come se si trattasse di un grave handicap. Ma il “caso” scatta, Enzo sceglie: quelli dei Salmi sono i suoi nuovi amici. La sfida è netta: «Il cristianesimo non significa che l’uomo è un po’ meno degli altri, ma significa la vera umanità».
Quanto c’è della storia della generazione che ha superato i cinquant’anni, in questa frase. Il cristianesimo come un restringimento dell’umano, un piegarsi sotto a obblighi e precetti, un vivere a capo chino tarpando il proprio stesso desiderio di felicità. Questa era proprio l’immagine che della fede cristiana avevo tratto io, fra oratori e catechismo; e non solo io, ma in quanti, nella mia classe di liceo, la pensavamo così. Poi, per qualcuno, il “caso”; l’incontro che insinua un dubbio. La possibilità di non rassegnarsi a una vita di carriera, soldi, amori a termine – e alla fine a un triste educato cinismo – stava in quella scelta: riconoscere in Cristo non una vecchia fiaba buonista, ma il Dio vivente. Singole, nascoste rivoluzioni, qui e là, in una generazione in massa di sinistra, laica, “liberata”. Come questo medico che operava i malati inoperabili, che amava la compagnia, e il buon cibo, e il buon whisky, e al cui funerale San Petronio scoppiava di settemila amici. La sfida, compiuta. 48 anni appena, ma quanta vita: abbondante, gratuita, a piene mani.
di Marina Corradi -Tempi

mercoledì 20 maggio 2009

L’INTRINSECO RILIEVO PUBBLICO DELLA FEDE - FINI SI ACCORDI CON FINI





« C risto è venuto per salvare l’uomo reale e concreto, che vive nella storia e nella comunità, e pertanto il cristianesimo e la Chiesa, fin dall’inizio, hanno avuto una di­mensione e una valenza anche pub­blica »: così Papa Benedetto XVI, il 19 ottobre 2006, nel discorso al Conve­gno ecclesiale di Verona. Il rilievo ci­vile, pubblico della fede non è prete­sa abusiva o addirittura una prepo­tenza dei credenti, ma esito coerente di una fede che esprime una visione di uomo e di società. Senza prevari­cazioni, perché questo avviene – pro­seguiva il Papa – riconoscendo che «sui rapporti tra religione e politica Gesù Cristo ha portato una novità so­stanziale, che ha aperto il cammino verso un mondo più umano e più li­bero, attraverso la distinzione e l’au­tonomia reciproca tra lo Stato e la Chiesa, tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio». La fede cristiana è sì in­trinsecamente, originariamente, que­stione che interpella direttamente il singolo uomo, la singola donna – la salvezza non può essere altro che per­sonale –, ma è ad un tempo, con la stessa forza, un fatto pubblico: chi la professa – semplice cittadino o poli­tico investito di responsabilità rap­presentativa – non può non modula­re a partire da essa orientamenti e scelte, personali e pubblici. La fede è valore centrale, non accessorio tra­scurabile, opinione interlocutoria. La Chiesa, come ha ancora ribadito a Ve­rona il Papa «non è e non intende es­sere un agente politico. Nello stesso tempo ha un interesse profondo per il bene della comunità politica, la cui anima è la giustizia, e le offre a un du­plice livello il suo contributo specifi­co. La fede cristiana, infatti, purifica la ragione e l’aiuta ad essere meglio se stessa: con la sua dottrina sociale per­tanto, argomentata a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano, la Chiesa contribuisce a far sì che ciò che è giusto possa essere effi­cacemente riconosciuto e poi anche realizzato». L’intendimento della Chiesa trova interpreti consequenziali nei suoi figli, immersi nel mondo e chiamati a dare ragione pubblica del­la speranza – cioè della visione – che c’è in loro. Sono loro che devono, con intelligenza e competenza, senza ri­trarsi dalla fatica che l’impegno può ri­chiedere, elaborare proposte il più possibile coerenti, sulle quali cercare di coagulare il massimo consenso. Un’adesione non fideistica, ma soste­nuta dalla ragione, dalla pertinenza ai problemi. È singolare che mentre prendono piede servizi espressamen­te dedicati al «lobbying», cioè a cal­deggiare presso i parlamentari gli in­teressi di questa o quell’azienda, si o­bietti al fatto che qualcuno ritenga di farsi ispirare dalla propria fede. In­somma, pare proprio che la risposta migliore all’auspicio di Gianfranco Fi­ni per leggi «non orientate da precet­ti di tipo religioso», l’abbia data il suo omonimo, presidente della Camera, che appena tre mesi fa ebbe ad au­spicare «una laicità non certo aggres­siva nei confronti della religione, alie­na da degenerazioni laiciste ed anti­clericali, aperta al riconoscimento del ruolo attivo e positivo della Chiesa nel­la società italiana. Una laicità dello Stato che deve però tenere conto che viviamo in un Paese la cui storia è i­nestricabilmente intrecciata alla vi­cenda del cristianesimo e della Chie­sa romana, perché si possa minima­mente immaginare un reciproco di­sinteresse » (G. Fini, Lettera a 'La Re­pubblica', 19/2/2009). L’auspicio è che i due si parlino. E mentre non ci illudiamo che l’Italia adotti il motto degli Usa «In God we trust» («Confi­diamo in Dio»), non vorremmo tutta­via si cadesse nel suo contrario e che si intendesse per buona laicità la dif­fidenza verso Dio e chi in lui crede o­nestamente
Piero Chinellato -Avvenire 20/05/2009

lunedì 18 maggio 2009

Elezioni europee - 6/7 giugno 2009.Difendere la libertà, sostenere la responsabilità

In Europa non è in gioco solo la definizione di qualche regola di mercato per superare la crisi economica, ma la possibilità stessa di un’esperienza umana fatta di libertà e di creatività personale e comune.
L’80% delle leggi italiane è l’attuazione di norme decise dall’Unione Europea, che sono sempre più caratterizzate dal rischio di regolamentare la vita dei cittadini limitando l’espressività della persona e dei corpi sociali.
L’Europa potrà affermarsi solo riconoscendo la persona nella sua unicità irripetibile e nella sua libertà, capace di generare creatività e carità, fiducia e lavoro.
Seguendo il principio di sussidiarietà l’Unione Europea deve sostenere le condizioni necessarie perché la gente possa esprimere il suo desiderio di verità, di giustizia e di bellezza, valorizzando le proprie tradizioni storiche,religiose e culturali. Più i cittadini contribuiscono a rendere la realtà sociale una dimora umana, più l’Europa diventerà uno spazio di libertà creativa, capace di instaurare un dialogo fecondo di pace e di sviluppo con tutti gli altri popoli.
La tendenza ad una progressiva limitazione della libertà colpisce anche una delle realtà che con la sua presenza è fattore di speranza per tanti: la Chiesa. Perciò, difendere in Europa la libertas Ecclesiae è difendere la libertà e il futuro per tutti.
L’educazione è una priorità fondamentale e chiede quindi maggiore impegno a incrementare gli investimenti per la crescita dei giovani, nella certezza che da essi dipende il futuro della società.
La tutela della vita dall’inizio alla sua fine naturale e la difesa della famiglia tradizionale sono principi non negoziabili.
Poche ma efficaci regole per garantire un mercato che non diventi preda di speculazioni finanziarie, una collaborazione internazionale che non cada nella trappola del protezionismo, un sistema bancario che abbia come compito il sostegno alle famiglie e alle imprese: le istituzioni politiche europee sono chiamate a favorire questi obiettivi per una ripresa dell’economia secondo il principio di sussidiarietà. Di fronte alle sfide drammatiche della vita, migliaia di persone testimoniano ogni giorno attraverso il loro impegno, le loro sofferenze e il loro lavoro, una speranza che consente di affrontare grandi difficoltà senza
mortificare il desiderio di felicità.
Il relativismo (per cui tutto è uguale) e il nichilismo (per cui nulla vale)
vanificano, invece, la responsabilità di fronte al destino dell’uomo, rendendo grigia la nostra società.
Per questo sosteniamo chi in Europa mette la politica al servizio di persone libere, responsabili e solidali, in particolare chi in questi anni ha testimoniato una diversità in atto dentro il Parlamento Europeo, avendo come punto di forza non la difesa teorica di “valori”, ma l’attenzione alle persone nella concretezza della loro umanità e delle loro opere.

Compagnia delle Opere

sabato 2 maggio 2009

Esercizi fraternità Dalla fede il metodo24-26 aprile ’09 -appunti non rivisti dall'autore




Carron
Le circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattori essenziale e non secondario
della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama. La circostanza con cui uno
prende posizione di fronte all’incarnazione di Cristo è importante. Tutti sappiamo
quali sono queste circostanze che ci hanno sfidato quest’anno, la crisi, il
terremoto, il dolore di Eluana, il vedere crollare un mondo davanti ai nostri occhi
con leggi che non sanno difendere il bene della vita o della famiglia, il trovarsi
sempre di più a dover vivere la nostra vita sempre più senza patria, le circostanze
drammatiche personali e sociali. Le circostanze non sono neutre, non sono cose
solo da sopportare, stoicamente, sono parte della nostra vocazione, della
modalità con cui Lui ci chiama, ci sfida ci educa, con cui Dio, il Mistero buono ci
chiama oggi.
1
Per noi queste circostanze hanno tutto lo spessore di una chiamata, perciò sono
parte del dialogo di ciascuno di noi con il Mistero presente.
Così la vita (1994 DG) è un dialogo, non è tragedia. La tragedia fa finire tutto nel
niente, la vita è dramma perché rapporto tra il nostro io e il Tu di Dio. Il nostro io
che deve seguire i passi che Dio segna. Questo Tu fa cambiare la circostanza
perché senza questo Tu tutto sarebbe niente, il passo verso una tragedia sempre
più oscura. Proprio perché esiste questo Tu la circostanza ci chiama a Lui. E’ Lui
che ci chiama al destino attraverso ogni cosa che capita.
Noi non siamo esenti dal rischio di vivere la vita nella anestesia totale che crea la
nostra società. Il vero pericolo della nostra epoca è la perdita del gusto del vivere.
Questo implica il non sentimento di sé, la non affezione a sé. Occorrerebbe fare
una anestesia totale perché uno perda integralmente il senso dell’attaccamento
a se stesso e almeno una preoccupazione di se stesso. Il tipo di società in cui
siamo riesce a realizzare queste anestesie totali. In tante occasioni siamo
addormentati nel nostro torpore, nella fuga da noi stessi dove la cosa più lontana
è questa affezione a sé. Basta pensare all’ultima volta che abbiamo avuto un
istante vero di tenerezza verso noi stessi.
Queste anestesie totali non possono essere permanenti, hanno un limite. Per
questo la sofferenza non è evitabile, la sofferenza indica la fine di una anestesia
totale. Attraverso queste circostanze il Mistero ci vuole educare alla nostra verità,
alla coscienza per cui siamo fatti, non ci lascia andare verso il niente, per una
passione per la nostra vita come il segno più potente della sua tenerezza.
E come ci educa? Non attraverso un discorso, ma attraverso l’esperienza del
reale, le circostanze attraverso le quali ci scuote. Un pezzo di realtà vale di più di
mille parole. Allora le circostanze, la sofferenza ci mettono davanti alla serietà

delle vita che tante volte vogliamo censurare. Per il mondo tutto è serio eccetto la
vita! I soldi, il rapporto tra uomo e donna, i figli: la vita implica tutto questo, ma con
uno scopo di tutto. Queste circostanze ci sfidano a scoprire questo significato. Per
questo il vero problema non è la crisi, queste circostanze, ma come arriviamo
ciascuno di noi davanti a queste circostanze. Tante volte queste circostanze sono
l’occasione di renderci conto che siamo spaesati, smarriti perché la realtà della
Chiesa come avvenimento quotidiano si pone davanti al mondo non dico
dimenticando, ma dando come per supposto, ovvio il contenuto dogmatico del
cristianesimo, la sua ontologia, perciò semplicemente l’avvenimento della fede.
Noi ci mettiamo davanti alle circostanze dando per ovvio l’avvenimento della
fede. Queste circostanze fanno venire a galla il percorso fatto quest’anno. La
circostanza è il modo con cui uno prende posizione di fronte al mondo, nel modo
di viverla. Noi diciamo davanti a tutti cosa è per noi Cristo nel modo con cui
viviamo le circostanze; possiamo sorprenderci in azione perché tutti ci siamo mossi
in queste circostanze, siamo venuti allo scoperto e abbiamo dovuto dire cosa era
per noi la vita.
Cosa è successo al di là delle nostre intenzioni, cosa è successo, cosa abbiamo
scoperto? Al di là delle nostre intenzioni perché le confondiamo con la realtà. Le
intenzioni tante volte sono giuste, ma nella realtà ci muoviamo con un’altra
logica. Nel modo con cui ci muoviamo nelle circostanze noi diciamo qual è la
nostra appartenenza. Come si ottiene questa posizione in noi si capisce se viviamo
l’appartenenza che è la radice profonda di tutta l’espressione culturale. Ci
diciamo cosa abbiamo di più caro, quale è la nostra cultura nel modo con cui
affrontiamo le circostanze. E questa si vede nella sua capacità di reggere davanti
alle circostanze.
Terremoto dell’Abruzzo: amici che danno la vita perché rimaniamo in Cristo.
Rose: la tribù di Don Giussani, non si muovono perché il movimento ha fatto un
volantino, ma si commuovono e quindi si muovono.
Le persone che non amano possono solo rispondere in modo meccanico.
Pensiamo al nostro desiderio di conversione. Proviamo a immaginarci davanti a
Gesù. Da una parte c’erano quelli che già sapevano di fronte a Gesù. Gli altri
andavano a sentirlo perché nessun uomo aveva mai parlato come questo. Si
sentivano rinnovati nel sentimento della propria umanità. Questa gente lo seguiva
e si dimenticavano di mangiare. Il primo fattore che definiva quel fenomeno era
Cristo? No, era che era povera gente, gente che aveva fame e sete, desiderava
l’avverarsi della propria umanità. Uno deve sentire se stesso, la propria umanità.
Incominciamo da bisognosi. Da cosa si vede? Dal fatto che siamo tesi, aperti a
che Lui abbia pietà di noi.
Sabato mattina

In che contesto ci troviamo ad affrontare la sfide di cui parlavamo?
1. Il crollo di antiche sicurezze religiose. Ratzinger: 1927 Eisenberg, Einstein, Plank,
Pauli. Scienze naturali e religiose non sono in rapporto. Le scienze naturali si
basano su vero-falso, le scienze religiose su valore e disvalore. Le scienze
naturali sono il modo di andare incontro al lato oggettivo della realtà, la fede è
l’espressione di una decisione soggettiva. Ma non c’è questa frattura tra sapere
e credere. La separazione completa è solo un espediente di emergenza per un
tempo limitato. Nel dopoguerra era viva la fiducia che tale vicenda non
potesse più accadere. Oggi nella crisi morale che assume forme nuove, la
fiducia di allora sparisce, il crollo di antiche sicurezze religiose è diventato un
fatto compiuto (1995). Questa è la nostra situazione.
Questa separazione tra sapere e credere ha una radice più lontana.
L’illuminismo era la religione nell’ambito della pura ragione, ma questa
religione si disgregò rapidamente perché non aveva la forza di sostenere la
vita. E la religione trovò il suo nuovo concetto come sentimento. “Il sentimento
è tutto, il nome è rumore e fumo”. Tale separazione determina una sfera del
sapere dove vige una ragione razionalistica, una ragione come misura che non
ha a che fare con il significato ultimo e dall’altra parte una sfera del credere
come ambito non razionale del sentimento, del soggettivo, di decisioni
soggettive sui valori in cui viene confinato il sentimento religioso.
Insieme a questa riconduzione del religioso al sentimento avviene la riduzione
della fede cristiana alla dinamica del senso religioso. La fede non è che un
aspetto della religiosità, un tipo di sentimento con cui vivere l’irrequieta ricerca
del proprio destino. Tutta la coscienza moderna si agita per strappare
dall’uomo l’ipotesi della fede cristiana e per ricondurla alla dinamica del senso
religioso.
E questa confusione penetra anche la mentalità del popolo cristiano. Questo
strappo si vede dal fatto che il popolo cristiano affronta il reale senza avere
davanti la tradizione cristiana, che non è più il punto di partenza per entrare
nel reale.
E’ in questo contesto che possiamo capire tutta la portata del tentativo di Don
Giussani. Il movimento è nato per rispondere a questa sfida, dalla 1° ora del
Berchet in cui si diceva che fede e ragione non c’entravano l’una con l’altra.
Questo ha generato una modalità di vivere l’esperienza cristiana che è stata
interessante per noi quando la abbiamo incontrata.
2. Questo crollo riguarda anche noi. Uno non può vivere in una situazione senza
esserne influenzato.

La realtà è il luogo della verifica della fede. Nelle sfide di quest’anno il punto
cruciale è stata la questione della fede, il nesso tra la fede e la speranza. Il
confronto con il capitolo sulla speranza ha portato a galla una fragilità della
fede, una debolezza di giudizio, una reticenza a compiere quel percorso di
conoscenza che certi fatti esigono. “Una fede traballante, non poggiante su
nulla e il futuro una nebbia”. Quando la realtà stringe tutto svanisce. Ci sono
tanti fatti, tantissimo bene raccontato, ma è come se soffrissero di una ultima
incertezza, come se il mattino dopo l’esperienza fatta potesse svaporare,
svanire. Ci troviamo come tutti, tante volte riduciamo la fede a sentimento
religioso. La fede è una delle tante ipotesi che formuliamo per affrontare la
situazione, come se non fosse accaduto nulla e ci trovassimo da capo di fronte
all’ignoto, io con il mio senso religioso a cercare come affrontarlo.
Il punto di partenza non è qualcosa conosciuto con certezza. La ragione
nascosta è che non ci sembra reale quello che abbiamo conosciuto. Ci
vengono tutte le altre ipotesi in mente prima della fede, perché la fede non è
vera conoscenza. Qualsiasi cosa ci sembra più reale della presenza
riconosciuta dalla fede. Invece di partire da una presenza si parte da
un’assenza, da un ignoto.
La prima espressione di amore a me, il primo gesto di pietà è affermare questo
Altro, prima di qualunque coerenza. Questo non ci impedisce di continuare a
usare le parole cristiane, ma tutto acquista un altro spessore e significato.
E’ la riduzione della fede a sentimento, dove il credere invece del
riconoscimento di una presenza incontrata diventa un atto irrazionale per cui
alla fine è la fede che genera il fatto. Bultmann non è così lontano dalla nostra
vita, che capovolgimento: è la fede che crea il suo oggetto. Tante volte il
credo per noi non è conoscenza vera, non c’entra con l’uso della ragione.
Quando si parla di Cristo non è coinvolta la realtà e quindi la ragione. Il
contenuto della fede non lo riteniamo reale.
3. La riduzione del cristianesimo a etica o cultura, la riduzione a regole della fede,
ma non abbiamo bisogno di parlare di Lui. Chi di noi può stare davanti a
Eluana solo difendendo la vita se non ci fosse qualcuno presente, se non ci
fosse la carezza del Nazareno? Noi respiriamo questa riduzione a una morale o
a un insieme di valori, che come tale può essere stimata o combattuta. Il
cristianesimo dei valori è una tentazione cui non siamo estranei. Come se il
fatto di Cristo per noi rimanesse parallelo alla vita. Un cristianesimo così è
insufficiente ad affrontare la vita.
La fede ha qualche possibilità di successo, si chiedeva Ratzinger? Si, perché
trova corrispondenza nella natura dell’uomo, per la sua aspirazione nostalgica
all’infinito. Solo Dio è in grado di venire incontro alle domande del nostro
essere.

4. Irriducibilità di un fatto. Perché tutto questo non è finito in noi, come tutto
questo non ha preso il sopravvento? Per l’incontro con un fatto irriducibile che
non siamo in grado di cancellare, un fatto presente. Oggi siamo davanti ad un
fatto irriducibile pieno di testimoni.
E questo è il segno che il Mistero continua ad avere pietà di noi.
La prima caratteristica della fede in Cristo è un fatto.
E la prima della caratteristica della conoscenza è l’impatto della coscienza
con la realtà. Abbiamo il presentimento con una corrispondenza che non
possiamo toglierci da dosso. Corrisponde ad una attesa costituiva del nostro
essere. Questo imbattersi della persona in una diversità è qualcosa di
semplicissimo che viene prima di ogni catechesi o riflessione o sviluppo. Ha
bisogno solo di essere visto, e muove in forza della corrispondenza. Senza
questa contemporaneità della sua presenza in una umanità diversa non
sarebbe possibile la fede cristiana. Come mai, se siamo circondati da tanti
testimoni, siamo dopo un po’ ancora smarriti? Ciò che manca tra noi non è la
presenza, manca l’umano. Se l’umanità non è in gioco il cammino della
conoscenza di ferma, non manca la conoscenza, manca il percorso.
Da questa situazione non possiamo venire fuori automaticamente, scaldando
la sedia, senza un lavoro, un’ascesi su se stessi. Non basta ripetere certe frasi di
Don Giussani o partecipare a momenti belli, ma occorre impegnarsi in un
cammino, in un lavoro, verificare se prendere sul serio o no la sfida di Don
Giussani. Nessuno come lui ha accettato di raccogliere la sfida dei tempi
moderni.
Noi partecipiamo a certi gesti senza fare un cammino umano, come non
consapevoli della situazione drammatica in cui ci troviamo. Se il movimento
non è un’avventura per sé e un allargarsi del cuore allora diventa un partito. E
uno è destinato ad essere solo e individualisticamente definito.
5. Il percorso della fede:
a. Ci manca la percezione di cosa è la corrispondenza, la parola più
confusa del vocabolario ciellino. Non viviamo la nostra umanità.
L’impegno nel cammino umano è condizione perché abbiamo a essere
all’erta quando Cristo ci offre il suo incontro. Siamo stati staccati non
dalle formule cristiane, ma dal fenomeno umano, abbiamo una fede
che non è più religiosità, non consapevole, intelligente di sé.
Nulla è incredibile come una risposta ad un problema che non si pone
(Niebhur) Se questa esigenza non c’è cosa ci sta a fare Cristo, la messa,
la confessione..non sono risposte ad una domanda e perciò non hanno
lunga sopravvivenza. Così il cristianesimo è diventato parole. Ratzinger: la
crisi dell’annuncio cristiano non è dovuto alla mancanza di energia nel

ripetere una dottrina, ma le risposte cristiane hanno lasciato da parte le
domande degli uomini.
O prendere sul serio le proprie domande umane o ripetere un discorso
imparato.
Don Giussani ci ha invitato a prendere sul serio il proprio umano,
l’affezione a sé, il sentimento della propria umanità. Questo cosa
significa? Ci riconduce alla riscoperta delle esigenze costitutive, di una
attesa senza confini, questa è l’originalità dell’uomo. Questo manca
tante volte tra noi, questa mancanza del senso del Mistero. “I sapienti
non è che non vedono la risposta, ma non vedono l’enigma della
ragione” (Chesterton) Es. del piccolo poeta innamorato che prova
nostalgia per l’innamoramento. Provare nostalgia è corrispondenza? Uno
giustifica andare dietro a qualsiasi cosa in nome della corrispondenza.
Ma io devo andare fino in fondo alla corrispondenza. Ma per noi
corrispondenza è provare nostalgia, desiderio di avere. Ma la nostalgia
non è corrispondenza, ma un sentimento. Dopo il sentimento mi chiedo:
questo che provo è desiderio reale, infinito, esigenze che nascono in me
impegnato in ciò che provo e queste domande giudicano quello che si
prova. Qui diventa esperienza il puro provare, quando il provare è
giudicato dai criteri del cuore. Se è veramente vero, bello, felice, in base
alle domande ultime del cuore l’uomo governa la sua vita altrimenti è un
bambino che segue quello che prova senza giudicarlo.
Questa confusione del provare con la corrispondenza ci impedisce di
riconoscere la corrispondenza di Cristo, non capisco quale è la novità
che Cristo introduce. Una risposta è capita nella misura in cui uno sente
la domanda addosso a sé. Solo così si capisce la risposta. Cleuza e i
capelli che sono contati: lo ha preso come vera conoscenza e l’ha
giocata nel reale.
Il giudizio sulla corrispondenza di Cristo è possibile se c’è questo umano.
Se no la fede non è conoscenza e rimaniamo smarriti come tutti e noi
che siamo sapienti non capiamo niente.
b. Questo è l’inizio di un percorso che mi fa capire chi è Costui che mi
corrisponde così. Tante volte questo percorso non lo facciamo e siamo
come i giudei, sospesi. “Se tu sei il Cristo dillo”. I giudei vogliono una
risposta che risparmi l’impegno del proprio umano, della propria ragione
e libertà. Ma Gesù dice che le opere che compie nel nome del Padre gli
danno testimonianza. Siamo davanti a opere, fatti, testimoni a una
diversità umana. La nostra paura incomincia nell’istante in cui
blocchiamo il percorso della conoscenza di quella bellezza che mi
ferisce.

Restiamo alla apparenza della bellezza delle opere, ma non
riconosciamo l’origine ultima delle opere. Stacchiamo sempre il segno
dalla sua origine e i segni non ci confermano che Egli è all’opera. Se
arrivassimo a riconoscere la bellezza che abbiamo davanti non ci viene
neanche il pensiero di come rimane. Lui è con noi tutti giorni, c’è. Se non
arriviamo a questa conoscenza vera siamo sempre nell’incertezza. Una
volta riconosciuto occorre fare la verifica di quello che abbiamo
riconosciuto nell’esperienza.
La fede non è un pensiero, un edificio teorico chiuso, è una via che si
riconosce solo invocandola, percorrendola. Questo vale in un duplice
senso.
Il fatto cristiano si dischiude nel come ci cambia e ci accompagna e
consente di essere colto come cammino storico.
Occorre che lasciamo alla fede dischiudere la sua verità davanti alla
vita e dimostrare che regge davanti alle circostanze. E’ li dove il Mistero
svela la sua diversità davanti a tutti i nostri idoli. Altrimenti non potrà venir
fuori l’evidenza di cui abbiamo bisogno, perché di questa evidenza
abbiamo bisogno non di un discorso, né di un altro che ce lo spieghi, ma
di vederlo noi nelle circostanze. Solo chi rischia questa verifica può
arrivare a quella certezza della conoscenza di cui abbiamo tutti bisogno,
e la vita diventa un’altra cosa, il centuplo quaggiù. Senza questo
l’obiezione alla fede non è ragionevole perché non lo abbiamo
conosciuto, verificato.
6. La fede è un metodo di conoscenza. Questo cammino drammatico fa parte
della certezza, del superamento tra sapere e credere. La storia non è inutile, le
circostanze non sono inutili ma la possibilità di vedere Colui in cui crediamo.
Non crediamo per un sentimentalismo, o perché abbiamo deciso di credere,
ma perché abbiamo visto le sue opere. Abbiamo visto i tratti inconfondibili
della sua presenza. Chi ha accettato questa sfida che ci ha fatto Don Giussani
potrà testimoniarlo. Nessuno quando fa questo percorso può far fuori
l’esperienza di corrispondenza e questi fatti rimangono nella memoria, nella
fibra del nostro essere. Il cristianesimo quando facciamo questa strada è un
fatto che non possiamo strapparci da dosso e qualsiasi crisi è l’occasione per
vederlo all’opera. E’ la certezza di Lui che cresce e per questo c’è gratitudine
infinita che si rende presente alla nostra vita.
Lui è più consistente di qualsiasi sfida. La consistenza della nostra vita dipende
dal rapporto con questa presenza, dalla familiarità con questa presenza.
Questa è la grandezza del carisma a cui apparteniamo. Una presenza che
corrisponde anche nelle difficoltà. Riconoscere i suoi tratti inconfondibili non nei
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nostri pensieri, ma nella vita. Non lasciarmi mai, presenza che sempre mi
sorprendi.
Sabato pomeriggio
1. Se la fede è una conoscenza richiede l’uso della ragione. La conoscenza
nuova implica l’essere in contemporaneità con l’avvenimento che la genera.
Come l’avvenimento cristiano permane? Solo rispondendo a questo possiamo
dare risposta alla frattura tra sapere e credere.
Per rispondere a questa domanda non basta riconoscere che il cristianesimo è
un avvenimento storico. Perché quello che permane per noi di
quell’avvenimento storico è solo la Bibbia, passiamo dalla religione dell’evento
alla religione del libro e l’evento diventa solo parola.
Anche noi dobbiamo affrontare la questione. Nessuno dubita che il carisma
per noi sia stato un fatto storico, ma adesso diventa stringente capire come
permane il carisma che ci ha affascinato nel passato; la tentazione nostra è
che rimane attraverso i testi, la sdc. I libri sono certamente un bene immenso,
resteranno per noi come canone, regola dell’esperienza della vita che ha fatto
Don Giussani. Ma se restano solo i libri ci troveremo nella stessa situazione dei
giudei quando la voce profetica si è spenta. Da soli con i testi resta solo da
interpretarli. Sappiamo che questo rischio non è per modo di dire e la sdc può
diventare questo e sappiamo che può essere noioso. Rimarremmo incastrati
nelle nostre interpretazioni e saremmo come tutti e non capiremmo Don
Giussani oltre la nostra capacità di capire, resteremmo dentro i nostri
presupposti. Se fosse così il carisma non basterebbe per interessare la vita.
Cosa può far rimanere l’amore a sé, al destino degli altri? Un Cristo come fatto
storico lontano, può anche dare un input momentaneo, destare nostalgia, ma
ora come si fa ad accettare sé e gli altri in nome di un discorso? Non si può
rimanere nell’amore a se stessi senza che Cristo sia una presenza, ora,
altrimenti io non posso amarmi e non posso amare te ora.
“Qualcosa che viene prima”: la grande rivoluzione è dire che il cristianesimo
permane come fatto e questo non è scontato.
L’imbattersi di una presenza di una umanità diversa non è solo all’inizio ma in
ogni momento che segue l’inizio. Il fattore originante è l’impatto con una realtà
umana diversa e non c’è sviluppo se quell’avvenimento non si ripete ovvero se
non rimane contemporaneo. La contemporaneità di Cristo non può essere solo
dell’inizio ma di ogni istante della strada se no nulla procede e il carisma è
morto e sepolto. Se non si rinnova ora nemmeno capiamo ciò che era

successo all’inizio. Solo se l’avvenimento riaccade ora si illumina e
approfondisce l’avvenimento iniziale e si stabilisce una continuità.
Se questo non succede non è che non facciamo niente, ma subito si teorizza,
l’avvenimento diventa teoria, discorso e questo prende il sopravvento
sull’avvenimento.
Se non si teorizza si brancica alla ricerca di appoggi sostituivi per vivere. Un
discorso non può sostituire la vita. Gli appoggi sostitutivi sono l’usura, la lussuria,
il potere, non perché siamo cattivi o peggio degli altri, ma perché è inevitabile.
Si vive per qualcosa che sta succedendo ora. Se vogliamo sapere se permane
tra noi il criterio, per capirlo è che la continuità con quello che è avvenuto al
principio si avvera solo attraverso la grazia di un impatto sempre nuovo e
stupito come se fosse la prima volta. Altrimenti in luogo di tale stupore
dominano i nostri pensieri. Dalla fede il metodo. Il carisma permane nella
diversità umana che accade ora. La differenza tra gli scribi e il cristianesimo lo
vediamo in questi giorni di Pasqua.
Tutti i vangeli documentano la diversità tra Gesù e gli scribi e tutti rimanevano
stupiti di questa diversità. Insegnava come un’autorità e non come gli scribi.
Questa diversità come rimane? Negli Atti degli Apostoli vengono raccontati
fatti, il cambiamento delle persone e il racconto delle apparizioni. Sono due
fatti che si illuminano a vicenda. Le apparizioni sono vere, non sono delle
allucinazioni, sono vere dimostrando i fatti. E per non rimanere sui fatti, i fatti
hanno un’origine.
Quello che ci dice Don Giussani è la documentazione di quello che è il
cristianesimo, la portata dal punto di vista metodologico del tema: dalla fede il
metodo. La permanenza di Cristo, o il cristianesimo è avvenimento o non è più
cristianesimo anche se usiamo le stesse parole.
Ciascuno di noi dopo la scomparsa di Don Giussani può vedere cosa sta
succedendo. E’ questa la modalità attraverso cui lui permane e continua ad
accompagnarci, altro che solo testi, ricordi. Questo non può e non deve voler
dire svuotare il passato che mi ha portato fin qui. Esso appartiene ad un unico
disegno. La persona di Don Giussani non appartiene al passato. Con questi fatti
davanti ai nostri occhi, possiamo affrontare la domanda: come permane? Che
tante volte ha dentro una incertezza, come io lo faccio permanere, come
faccio permanere l’avvenimento che mi ha preso.
Molti di noi raccontano un mare di vita e di bene, hanno visto un miracolo che
hanno paura di perdere, e si chiedono come far permanere questa cosa.
In Don Giussani non c’è traccia di questa preoccupazione. In Don Giussani
questa domanda parte da una certezza. Lui permane non come discorso, ma
come evento di una umanità cambiata e il metodo è sempre lo stesso,
l’imbattersi in una diversità umana.

Noi partiamo da una incertezza, non abbiamo capito cosa ci è successo, per
noi la fede non è percorso di conoscenza e c’è ancora la frattura tra sapere e
credere. A come permane ci pensa Cristo risorto. A noi tocca riconoscerlo ogni
volta che ci capita.
Per questo il cristianesimo vissuto così è una cosa da brividi. E la nostra libertà si
sente sfidata solo da questa diversità presente.
Questa contemporaneità ci mette davanti ad un’alternativa: o aggrapparsi al
già saputo, al possesso di certi testi o l’apertura all’imprevisto rendendoci
disponibili a quello che Cristo fa oggi, alla modalità sempre nuova in cui Lui si
manifesta. Perché davanti al nuovo c’è sempre la paura. Perché questo Tu sei
o Cristo, il nuovo che si affaccia nella vita.
Parabola dei 2 figli, vai a lavorare nella vigna, si ma non andò, l’altro non ne
aveva voglia, ma ci andò. I sommi sacerdoti all’inizio avevano detto sì e poi no,
i pubblicani invece dicevano no davanti alla legge, ma hanno detto si davanti
a Lui.
Noi corriamo questo rischio, dobbiamo decidere perché noi potremmo pensare
di sapere già la strada? O possiamo essere come i pubblicani, perché la storia
che abbiamo vissuto può essere come qualcosa che ci viene contro se non
siamo disponibili a quello che accade ora. Ti benedico perché hai tenuto
nascosto queste cose ai sapienti e gli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. I
semplici sono i veri intelligenti per i quali il passato ha prodotto una apertura a
qualcosa che sta accadendo ora. La verifica di questo passato si realizza
sempre nel presente. Sono disponibile al carisma come si documenta davanti
a me ora? Permane attraverso la stessa modalità, la diversità umana che
accade ora, siamo disponibili? Per questo non abbiamo bisogno di interpreti,
ma di testimoni, il cambiamento che succede ora. Altrimenti rimaniamo
incastrati nei nostri pensieri, facciamo la sdc contro il metodo che la sdc ci
documenta.
“L’aspetto importante della sdc è che qualcuno insegni, qualcuno in cui
l’impatto iniziale si rinnovi e si dilati, come spunto per il rinnovarsi della prima
sorpresa e non svolga un ruolo o un compito. Non si può comunicare una
esperienza con una coscienza come ruolo, come chi vuole insegnare perché
chi insegna è solo lo Spirito di Dio” (Dalla fede il metodo)
Nel cristianesimo il contenuto e il metodo coincidono. Nel mistero
dell’incarnazione del Verbo sta sia il contenuto che il metodo dell’annuncio
cristiano. E questo è il nostro bisogno, e può dare risposta al bisogno che hanno
gli altri che ci incontrano.
La sua presenza permane nella storia in chi ha questa attrattiva nel modo di
vivere.
Il Concilio Vaticano II lo dice parlando del testimone, trasformati dall’immagine
di Cristo.

La condizione per diventare testimoni è seguire quello che accade.
I discepoli prendevano parte dell’avvenimento di Cristo con quello che
accadeva, nel riconoscimento di Lui all’opera.
Occorre che riaccada quello che è accaduto in principio, non come è
accaduto in principio. Solo seguendo questo diventiamo testimoni nel presente
di quello che accade ora.
Non è compagnia se non è obbedienza. La compagnia non è fatta da chi
conduce, ma dallo Spirito. Non è una persona che si segue, ma l’esperienza
che quella persona vive, non la persona. Il personalismo è il malanno di
qualsiasi associazione.
2. Il segno del superamento tra sapere e credere è raggiungere una certezza su
quella presenza che possa sostenere la vita.
E questo si vede dalla speranza. La speranza è concepita come una capacità
nostra e quando arriviamo alla consapevolezza che non ce la facciamo la
speranza crolla. Usiamo la sdc contro il metodo che ci indica.
Il libro non protesta contro la nostra riduzione, per questo occorrono dei
testimoni che protestano contro questa riduzione. Quando vediamo crollare le
nostre risorse rimane solo la parola “chissà” il termine della sicurezza naturale. Il
test della fede è la speranza. Riconoscere una presenza presente.
La resurrezione non è un mito, un sogno, ma un evento unico e irripetibile. Gesù
di Nazareth ha lasciato vittorioso la tomba.
Se Cristo non fosse risorto il vuoto avrebbe il sopravvento e ogni speranza
rimane un’illusione. Per questo non ci sarebbe speranza. E’ solo perché è
risorto, perché c’è che possiamo adesso guardare la grande domanda: questi
desideri che ho nel mio cuore saranno soddisfatti si o no? Questi desideri fatti
secondo le esigenze del cuore, dell’infinito, possono essere sicuri di essere
attuati solo in quanto uno è disponibile ad abbandonarsi alla presenza di Cristo
risorto.
Le esigenze del cuore dicono che la risposta c’è ma la certezza deriva dalla
presenza riconosciuta dalla fede. La forma della risposta al desiderio di
ciascuno di noi è Cristo stesso. Egli solo è capace di esaurire il desiderio di
felicità, null’altro è in grado di soddisfarci realmente. Perciò la speranza è il
compimento della affezione perché Lui solo è il compimento del desiderio.
Occorre festeggiare Cristo, che esiste un termine ultimo di felicità che è
diventato uomo. Lo può festeggiare colui che si rende conto della vera natura
del desiderio del cuore.
Una delle difficoltà più grandi è stato il passaggio della incertezza inevitabile.
La modalità con cui la certezza della speranza è in noi lascia come un dubbio,
che non è dubbio perché è incertezza perché non sappiamo delineare come
sarà questo futuro.

L’alternativa è tra abbandonarsi o cercare da noi la soluzione. La vita che si
abbandona è una vita dove la letizia domina, non c’è lamento che ingombra
il cuore e rende pesante la vita di coloro che ci circondano.
Il luogo di questo avvenimento della speranza è una compagnia ecclesiale,
gente che si mette insieme per Cristo.
La certezza di quello che ho incontrato o è intelligente, cosciente dei suoi
motivi e valori o no, e in questo caso ho paura del futuro. Se la fede non è
conoscenza ho paura del futuro. Se si vive la compagnia come utopia ho
paura del futuro. Se la compagnia la vivo come luogo riconosciuto dove la
ragione e la libertà trovano la loro difesa, il loro appoggio allora non vince la
paura. La compagnia non è risparmiarci la ragione e la libertà, ma il luogo
dove trovano la loro difesa e appoggio. Se la compagnia è rapporto con
Cristo ti rende certo.
C’è un modo di stare insieme che non è giusto, non è adeguato. Per questo
dobbiamo stare insieme per questa difesa della ragione che ci aiuti a superare
la frattura tra il saper e il credere.
Il superamento ultimo di questa frattura è nel modo di concepire la nostra
espressione culturale. Se volete capire se la fede è vera conoscenza, se si
supera la frattura tra sapere e credere dobbiamo guardare come entriamo nel
reale e ci rapportiamo a tutto e questo è ciò che chiamiamo cultura. Se rimane
il dualismo tra sapere e credere nel modo di guardare la moglie, la malattia,
vuol dire che siamo come tutti.
Se a dominare questo sguardo è la fede allora la vita è un’altra cosa. Perché la
cultura non può non nascere se non da un gusto del vivere. Noi facciamo
cultura nuova nella misura in cui la nostra esperienza del vivere fiorisce. Non è
questione di erudizione.
“Colui che è tutto ha bisogno di colui che non è niente, Colui che è tutto non è
niente senza colui che è niente”(Peguy)
Domenica mattina
D Cosa è la corrispondenza.
Carron Se non capiamo cosa è l’esperienza non abbiamo lo strumento della
strada per fare un cammino umano. E da qui vengono tutti i nostri guai. Se
quello che vediamo non è giudicato niente è utile e non facciamo un
cammino umano. Questa è stata per ma la questione più rilevante
nell’incontro con il movimento, che metteva nelle mie mani il criterio per fare
un cammino umano. Noi l’esperienza la riduciamo a provare. Ma se per
esempio, facciamo il compito di matematica come sapete se avete trovato la
soluzione? Provare dopo aver fatto non implica la sicurezza di avere imparato
niente. La vita può essere un insieme di prove e di tentativi senza imparare

niente. L’esperienza ha bisogno di un giudizio. Quindi paragonare il compito di
matematica con la soluzione del professore. Senza giudicare non si capisce e
non si può essere certi.
Per emettere un giudizio occorre un criterio di giudizio. Ma c’è qualche
professore che può diventare il criterio di giudizio per quello che provo nella
mia vita? Spesso affidiamo a un guru il nostro criterio di giudizio e così noi siamo
schiavi di un altro, alienati. Se togliamo alla persona il criterio di giudizio le
togliamo la dignità. E c’è una modalità di stare tra noi che è questa: tu non
capisci, te lo spiego io.
Qual è il criterio del giudizio? Non può essere fuori di noi, ma dentro di noi.
Allora ciascuno decide? Il criterio del giudizio non lo decidiamo noi, come non
decidiamo il numero delle scarpe. Il criterio è in me, ma non lo decido io.
Dobbiamo sottometterci al criterio che ci troviamo. Il piede grida che non è
questo, se è piccola la scarpa.
E questo è soggettivo? Qual è il criterio di giudizio per entrare in tutto?
L’esperienza elementare, insieme di esigenze che costituiscono il nostro volto
umano, il cuore. Questo è un criterio oggettivo e dobbiamo rintracciare
nell’esperienza esempi di questo. Tante volte il lavoro, la festa sono andati
bene e torniamo a casa tristi, non ci bastano. E’ così oggettivo che se non
trovo corrispondenza non sono a posto.
Per questo la parola chiave è la corrispondenza. Io ho dentro di me il criterio
per capire cosa corrisponde all’esigenza del mio cuore.
Noi confondiamo il provare con la corrispondenza e così tra noi giustifichiamo
qualsiasi istintività. E questo è sbagliato per te, non per la morale, ma perché
finisci nel nichilismo e questo è molto peggio. Provare la nostalgia o il desiderio
di avere, così non è esperienza.
Facciamo confusione sulla parola corrispondenza. Es. nel matrimonio in cui si
pensa che l’altro ti rende felice. Ma la mia esigenza di felicità è più grande di
tutto l’universo.
Provare l’insufficienza è la questione più grande della vita, per questo Don
Giussani ci invitava a leggere Leopardi, suo compagno e amico a 13 anni.
Tutto è poco, piccino per le capacità dell’animo, la moglie, il lavoro, tutto è
poco. Quindi scambiare questa corrispondenza non è solo fare il male, non è
non essere coerente con la norma morale, ma il problema è che sbaglio
perché non troverò niente che corrisponde all’esigenza di felicità. Vogliamo
prendere sul serio il nostro umano o vogliamo fare ciò che ci pare e piace?
Se abbiamo questa affezione a noi stessi, se vogliamo il nostro bene, dei nostri
figli, se non facciamo esperienza non possiamo capire la differenza tra le nostre
immagini e Cristo. Se è solo ciò che mi pare e piace, Cristo è un pensiero che
mi piace o meno e non è ciò che rende possibile l’unica vera corrispondenza,
impossibile all’uomo se non Lo trova.

Resistiamo a riconoscere ciò che veramente ci corrisponde, abbiamo bisogno
di giustificare qualsiasi nostra istintività, e andiamo dietro alla prima che passa
per la strada in nome della corrispondenza.
D Manca l’umano. Cosa significa avere l’umano?
Carron Le esigenze non nascono in ciò che provo, ma in me impegnato in ciò
che provo. Per questo occorre l’umano. Se riduco l’umano a ciò che mi pare e
piace è il crescere della confusione. Per andare dietro alle cose che ci pare e
piacciono dobbiamo negare l’esperienza della non corrispondenza che
facciamo. Per la confusione in cui ci troviamo a vivere occorre un lavoro serio,
altrimenti siamo sempre più confusi. Ma non è lo stesso perché quando
facciamo ciò che ci pare e piace non siamo contenti perché non corrisponde
alla nostra esigenza di infinito.
Come si distingue? Essendo leali con l’esperienza. Lo sapete voi quando siete
contenti o no. Se non giudichiamo rimaniamo sempre più confusi.
D Il lavoro dell’ascesi.
Carron E’ quello di cui parlo sempre, l’unico lavoro da fare è giudicare. Se non
giudichiamo rimaniamo sempre più confusi e incastrati. Non è solo fare la sdc
ma giudicare in continuazione quello che accade. Altrimenti ripetiamo frasi di
Don Giussani senza capire e poi ci stufiamo perché questo non cambia la vita.
Altrimenti il carisma è morto e sepolto perché quello che ci ha comunicato
Don Giussani come esperienza non lo facciamo.
Siamo disponibili a fare questo lavoro alla fine degli esercizi?
La compagnia ci sostiene se invece di spiegarcelo ci sfida. Venite e vedete,
giudicate voi. Gesù parte dal presupposto che gli apostoli non siano scemi per
capire se quello che vedono corrisponde o no. Così come ha detto a
Cafarnao: anche voi volete andarvene? Gesù corre il rischio di rimanere da
solo, ma non risparmia agli apostoli il lavoro, altrimenti avrebbero potuto
rimanere ma senza capire. Gesù fa uscire dalle loro viscere il perché del loro
rimanere. Questa consapevolezza è venuta fuori da uno che è veramente un
amico. Non glielo ha spiegato, li ha sfidati e i discepoli sono rimasti con una
certezza che non avevano.
Noi siamo amici così? Don Giussani prende sul serio i fattori che ci sono dati, è
leale e ci sfida, come Gesù verso i discepoli.
Non rimarremo cristiani, la nostra fede avrà una data di scadenza se non
facciamo questo, perché non sappiamo perché siamo qui e quando
cambiamo l’umore pensiamo che da un’altra parte si sta meglio.
D Umanità precondizione o è l’incontro con Cristo che ha fatto fiorire la mia
umanità?

Carron Per riconoscere la diversità di Cristo occorre in contemporanea l’umano
e questo lo abbiamo tutti. Per questo possiamo trovare chi ci corrisponde.
Ognuno di noi qui ha visto che nell’incontro con certe persone la vita poteva
essere più bella e più umana. Questa pre-condizione esiste perché Dio ci ha
fatto con questo cuore, perché potessimo riconoscerlo quando lo incontriamo.
Ci ha fatto per una convivenza con Lui. Il nostro io è questo desiderio di
pienezza che trova risposta nell’unico che corrisponde. Questo paragone uno
lo fa in fretta, tra l’esigenza di bellezza che ha e quello che incontra.
E l’incontro con Cristo fa fiorire ancora l’umano. Quello che mi stupisce è che
dopo rimaniamo ancora confusi. Invece dovremmo essere più in grado di
cogliere la corrispondenza. Quanto più uno vive l’esperienza cristiana, più
viene fuori l’ampiezza del desiderio. Per questo stupisce che poi diciamo che
qualsiasi cosa ci corrisponde.
Questo fiorire dell’io non è in contraddizione con la precondizione.
La memoria di Cristo non è aggiungere una cosa. Ma come fai a vivere
piuttosto senza fare memoria di Cristo, dopo averlo incontrato e visto che è
l’unico che soddisfa la vita? Come puoi vivere senza fare silenzio? La tua
presenza mi riempie di silenzio, uno resta senza parole come davanti ad
un’esperienza che colpisce così tanto. Il silenzio cristiano nasce dalla pienezza
di quella presenza. Se non viviamo il silenzio non è che non facciamo i bravi
ciellini, ma il problema è che non è successo niente che ci riempie di silenzio.
Non sono precetti.
D Cosa vuol dire che la risposta al desiderio è Cristo stesso?
Carron Che quello che veramente desidero è quello che vi ho detto. Noi
confondiamo i desideri con qualcosa di ridotto, il lavoro, i figli..Se non capiamo
che quello che desideriamo è l’infinito perché dobbiamo essere cristiani e
perdere tempo a stare qua? Se non pensiamo che il Mistero ci ha fatto per
riempirci di una felicità che ci colma al di là di tutte le nostre previsioni, è inutile
essere qui, essere cristiani. Non abbiamo capito la portata dell’incontro con
Cristo e non abbiamo chiaro la ragionevolezza del cristianesimo.
Quello che cerchiamo nei piaceri è l’infinito. Possiamo avere tutto quello che
vogliamo, ma non ci basta. Quello che desideriamo è più grande di quello che
riusciamo a ottenere, perché quello che facciamo è piccolo, limitato,
incapace a riempire il nostro cuore. L’unico che può festeggiare Cristo è chi
capisce la natura del desiderio (come Leopardi, S. Agostino o la Samaritana).
Se non capiamo questo non capiamo che grazia è stata incontrare Cristo.
Noi lo abbiamo ricevuto per grazia, ma è come se non lo avessimo ricevuto,
pensando che qualsiasi altra cosa possa rispondere alla profondità della
portata di questo desiderio. O facciamo questo lavoro o non potremo essere

contenti, non ci riempirà di gioia il fatto che ci sia Cristo e la grazia di avere
incontrato Don Giussani.
D Uno non segue la persona, ma l’esperienza.
Carron Don Giussani ci ha comunicato un esperienza e io vi comunico
un’esperienza anche se domani tradisco. Uno segue l’esperienza dell’altro che
te la comunica come può, a tentoni. Non si segue perché lo ha detto il capo,
non è umano questo. Ma seguiamo in modo che siano nostre queste
esperienze, che diventino mie, fino a quando uno segue se stesso colpito
dall’esperienza di un altro. Se non facciamo questo ripetiamo Don Giussani, ma
non facciamo la sua esperienza.

D Se il cristianesimo è avvenimento che senso ha impegnarsi?

Carron Vicenda della cultura: siamo stati sfidati con la vicenda di Eluana, ecc.
Sono circostanze che ci sfidano. Noi abbiamo difeso il valore della vita. Se
ciascuno di noi fosse stato in quella situazione sarebbe bastato difendere la
vita?

Per difendere la vita Don Giussani non è che non abbia detto
l’importanza dell’uomo, ma ci ha comunicato una febbre di vita e Cristo per
spiegarci cosa è la vita è diventato carne, i concetti sono diventati carne e
sangue. Il movimento ci ha riempito di significato, ma noi con gli altri vogliamo
applicare un altro metodo, non abbiamo capito la portata conoscitiva
dell’incontro. L’amore alla vita ci viene dall’incontro fatto.
Guardini: “Dall’inizio del tempo moderno si è creata una cultura non cristiana.”
Si è voluto fare un cristianesimo senza Cristo. “ Ma quei valori sono legati al
cristianesimo” . Cosa avremmo detto di Eluana se non avessimo incontrato il
cristianesimo? “L’uomo diviene consapevole di valori che per sé sono evidenti
ma divengono visibili solo in quell’atmosfera”. Noi cerchiamo di bastonare gli
altri con i valori pensando che capiscono. Ma noi non l’avremmo capito così.
E’ diventato carne perché non avremmo capito. Non è che non sono veri i
valori, ma la strada per capirli è solo riconoscendo Cristo. “Negli ultimi anni si è
rivelato un vuoto. Il tempo che viene creerà una chiarezza terribile, ma
salutare. E’ bene che si metta a nudo quella slealtà della cultura moderna
poiché allora si vedrà qual è effettivamente la realtà, quando l’uomo si è
staccato dalla rivelazione e vengono a cessare i suoi frutti.” E oggi sono già
venuti meno anche i valori, non solo il cristianesimo. “L’ambiguità verrà a
cessare e porterà una purificazione e un approfondimento della fede. La fede
sarà capace di resistere nel pericolo, ma questo suppone una maturità del
giudizio e una libertà dell’azione”.
Don Giussani aveva capito questo, e noi non dobbiamo solo difendere i valori,
ma creare il movimento, un ambito. E questo si chiama testimonianza. Se no
non siamo leali nella modalità con la quale il mistero si è introdotto. E’ solo
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all’interno di questo avvenimento di vita che si possono far capire e restare in
noi e negli altri i valori.
Ciò che distrugge il dualismo è l’amore a Cristo. Se viene a mancare la fede
emergono giudizi di valori parziali e questo divide. Se viene distrutto il dualismo
avviene una presenza culturale, una diversità. Proporre l’avvenimento cristiano
in tutta la sua interezza esplicitando persino i valori.
Per questo ci interessano le elezioni europee, per difendere la libertas
ecclesiae. Non perché pensiamo che una legge possa risolvere. Ci interessa
poter difendere la libertas ecclesiae per fare una esperienza di vita che ci
consente di recuperare i valori che si sono persi. Ci giochiamo la libertà di
vivere l’esperienza che facciamo.