mercoledì 21 dicembre 2016

Natale

«Perché Gesù viene? Come può l'uomo di oggi stare davanti a questa notizia? E il Natale, che cos'è? Natale è l'amore di Cristo all'uomo. L'Essere nuovo entra nel mondo. L'Essere nuovo come prima non c'era, nella novità del suo comunicarsi agli uomini. Un Essere nuovo entra nel mondo, il mondo del Dio vero. Un Essere nuovo in tutto il profilo del mondo, in quel luogo, fiorì. Tutto viene da Lui, ma qui la novità di una vita predomina. Una nuova creatura vince l'antica. L'antica creazione alla nuova si oppone, ma col Natale il calore ritorna nel mondo, e tutto riecheggia all'appello divino, al Mistero che c'è. L'impossibile, cioè il Mistero, è immeritato dall'uomo. Eppure qui avviene un fuoco, una affezione che avvolge, un calore che predomina nell'immenso atrio del mondo, nello spazio eterno. Qui è il presentimento di una cosa nuova che infervora, e tutto tende a fare diventare concreto. E proprio per questo suscita una grande devozione».
(Luigi Giussani)

sabato 17 dicembre 2016

La Bellezza

 "L'occhio guarda, per questo è fondamentale. E' l'unico che può accorgersi della bellezza. La visione può essere simmetrica, lineare o parallela in perfetto affiancamento con l'orizzonte. Può essere anche asimmetrica, sghemba, capricciosa, non importa, perchè la bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune. Dunque la bellezza si vede, perchè è viva e reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla. Dipende da dove si svela. Che certe volte si sveli non c'è dubbio.. Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l'ordito minimo della realtà. Occhi che non vedono più, che non sono più curiosi, che non s'aspettano che accada più niente. Forse perchè non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade LEI passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio".
P.P. Pasolini 

mercoledì 26 ottobre 2016

TENTATIVI DI PROTESTANTIZZARE LA FEDE



Nella Coscienza religiosa nell'uomo moderno, pubblicato per la prima volta nel 1985, il teologo fondatore di Comunione e Liberazione ha dato un contributo fondamentale ad affrontare il tema della difficoltà della fede all'interno o, meglio, di fronte alla modernità.

Don Giussani era ben consapevole che la modernità non era certamente, in blocco, una realtà negativa da cui i cristiani dovessero guardarsi, ma conteneva una tendenza anticristiana ovvero quella che l'uomo potesse tranquillamente prescindere da Dio nella concezione della sua vita, dei suoi rapporti con la realtà e dello svolgimento della sua vocazione umana, perché Dio sarebbe ormai diventato una presenza sostanzialmente disturbante l'autonomia dell'uomo. Le pagine che egli ha dedicato al laicismo, che di fatto copre il vuoto lasciato dalla tradizione cristiana, rimangono ancora oggi pagine di profonda intelligenza e di straordinario vigore.

La modernità non è totalmente negativa ma contiene un punto di rifiuto radicale del cristianesimo come esperienza di vita e di cultura. Oggi il laicismo rappresenta la prosecuzione rigorosa di questa umanità e società senza Dio, in cui al cristianesimo viene lasciato uno spazio di vita e di azione solo se adeguatamente consentito dalla mentalità laicista dominante.

In questo impatto con gli esiti ultimi della modernità, il laicismo è quello più evidente e definitivo. A partire da tale contesto, don Giussani ci spiega che la Chiesa corre alcune gravi tentazioni. La prima è quella di una protestantizzazione del fatto cristiano ed è una protestantizzazione che noi, a più di trent'anni di distanza da questo volume, possiamo verificare giorno per giorno e che si è diffusa in maniera devastante nel tessuto della vita ecclesiale e della vita cristiana. La protestantizzazione della fede si potrebbe anche definire come la riduzione dell'evento a una gnosi, a un discorso di cui la ragione umana possiede la chiave di lettura e gli elementi determinanti. La protestantizzazione dà alla fede quel carattere soggettivistico che la fa diventare un'espressione della singolarità individuale dell'uomo, soprattutto delle sue esigenze psicologiche e affettive. Questo copre totalmente l'ontologia, ovvero fa passare dall'ontologia alla psicologia e alla dimensione meramente affettiva: la fede diventa una cosa che «si sente». Quando poi cesserà il sentimento della fede, la fede non avrà più nessun peso nella vita dell'uomo.

Credo che dobbiamo seriamente interrogarci, noi cristiani, se questo non costituisca la mentalità vincente all'interno del mondo cattolico ovvero quel modo non cristiano di pensare la fede che, come diceva il Beato Paolo VI, è penetrato nella struttura della Chiesa e si diffonde in maniera progressiva. Il contrappunto a questa protestantizzazione è ciò che Giussani chiama il moralismo che si basa sull'asserto che la fede, come soggettivismo individualistico, acquisterebbe una credibilità nel mondo – al di là dello spazio della coscienza individuale – soltanto perché produce frutti sociali. Il cristianesimo inteso come una struttura finalizzata a iniziative pratiche, socio-politiche, nella quale la fede verifica la sua capacità di trasformazione del mondo, ma una trasformazione che dipende dall'individuo e dalla sua progettualità e non più dall'evento della fede.

Io sono convinto che così tocchiamo il fondo di una crisi ecclesiale che è ancora presente come tendenza rigorosa e vigorosa nonostante i grandi pontificati di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI e nonostante le preoccupazioni espresse continuamente da Francesco.

Siamo ancora nella necessità di avere coscienza e di riproporre la frase iniziale dell'enciclica Deus Caritas est: «“Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l'immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino».

Il cristianesimo non è una spiritualità soggettiva e neppure un impegno socio-politico, ma è l'incontro con la persona di Gesù Cristo, Figlio di Dio, che permane nella Chiesa e in essa può essere ritrovato e seguito. Dire che queste questioni sono superate e che oggi il problema sia un atteggiamento più morbido nei confronti della cosiddetta modernità, sinceramente mi sembra soltanto una irresponsabilità.

da STUDI CATTOLICI - «OPPORTUNE ET IMPORTUNE» di mons. Luigi Negri

sabato 15 ottobre 2016

Omelia di don Carlo Venturin Dedicazione del Duomo – 16/10/2016

Dedicazione del Duomo – 16/10/2016
Is 60, 11-21Porte sempre aperte
1Pt 2, 4-10Carta di identità della Chiesa
Salmo 118Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre “
Eb 13, 15-21Dio abita la Chiesa ed è il Pastore
Lc 6, 43-48Costruire bene la Chiesa

MISERICORDIAE VULTUS
DUOMO - CHIESA SEMPRE IN “FIERI”
 Ogni anno, la terza Domenica di ottobre ricorda la terza di ottobre 1418, quando avvenne, da parte di Papa Martino V,la consacrazione dell’altare nuovo del Duomo e sempre alla terza di ottobre 1577 la Dedicazione del Duomo, a Maria nascente, da parte di San Carlo Borromeo.
 La liturgia usa metafore e immagini, per ricordare ciò a cui la Cattedrale allude: le pietre, bellissime e cariche di memoria. La Cattedrale allude a un CONVENIRE, non è una costruzione per singoli o per turisti, bensì l’opportunità, per i credenti e non, di radunarsi. Isaia richiama le “porte sempre aperte… per lasciare entrare la ricchezza delle genti” . Non solo Chiesa, ma “Città del Signore”, “luce eterna”, “i giusti piantagioni del Signore”. Una CITTA’ dinamica”, mai con una forma definitiva (la fabbrica del Duomo - come la comunità dei credenti, mai terminata e in continuo rifacimento). Tutto il Salmo è un inno-ringraziamento per la presenza di Dio tra gli umani: “un a meraviglia ai nostri occhi”. S. Pietro usa la metafora di PIETRE VIVE, che prendono vita da Cristo “PIETRA VIVALa seconda letturaindica l’atteggiamento del vivere da credenti: Non dimenticatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perché di tali sacrifici il Signore si compiace”.
 La “Costruzione” è sempre pericolante, avverte Luca, come una casa in zone di terremoti. Per questo  parla di edificio ben costruito antisismico”: “Fondamento sulla roccia, profondo, costruito bene”, per potersi radunare, con-venire. La Cattedrale racconta con le sue pietre, variegate e innumerevoli, che la fede non è un fatto di singoli ( basterebbe una camera per pregare ). La Cattedrale racconta che a Dio andiamo non ignorando gli altri, non un cammino elitario. Racconta che noi siamo parte di un popolo, che ci appartiene una dimensione corale, di cui il nostro radunarci in una chiesa è segno luminoso e concreto. Non solo: la Cattedrale narra che la fede del popolo di Dio oggi deriva da donne e uomini, volti, mani, voci dei secoli trascorsi, compagni di viaggio, come noi per le generazioni future.
 La Cattedrale è come una CITTA’, città del convenire, cui allude Isaia: la Cattedrale-CITTA dalle porte aperte, sia di giorno che di notte “per lasciare entrare in te la ricchezza delle genti (“Il villaggio di cartone” di  Ermanno Olmi ). Una CITTA’, che non mette al centro se stessa, ma il Signore, Lui la “Pietra angolare”, Lui “Luce vera che illumina ogni persona”.
 La parola di Gesù mette in guardia da possibili fraintendimenti: “Perché mi invocate: Signore, Signore e non fate quello che vi dico?” La liturgia non mette in secondo piano la frequenza alle celebrazioni, necessaria, ma richiama anche l’essenza di essa: l’importanza della BONTA’. Una parola un po’ scolorita, banalizzata. Il Vangelo parla di frutti buoni, che vengono da un albero BUONO: si parla di un uomo buono, che dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il BENEPapa Francesco così descrive il buono: “La misericordia parte dal cuore e arriva alle mani”. Come a dire che il vero Tempio-Cattedrale è il cuore, da cui originano “frutti buoni”.
 Luca parla anche di frutti cattivi della società, dei singoli, della parrocchia, delle ingiustizie, degli interessi personali, dei compromessi al ribasso. L’Evangelista va oltre; la misura è il cuore buono di ciascuno e insieme, come le singole gocce che insieme formano l’oceano. Non serve avvelenare la società, la chiesa, la terra con il pessimismo dilagante e ammorbante. Occorre dare spazio alla BONTA’, che ne innesca molte altre: una vita più umana, più sopportabile, rendere più respirabile l’aria, comprendere i drammi del tempo presente e futuro, prendersene cura, sostenendo la fiducia e la speranza. Queste la radici BUONE, che danno frutti BUONI.
 La Cattedrale con la sua simbologia diventa Cattedrale umana, da cui fluisce, come da un fiume carsico, la BONTA’ per l’universo intero,
 Ho scoperto per caso una pittura di Picasso: “Ronde de la jeunesse” (Il girotondo della gioventù  del 1961), una visione di pace che egli attende dalla danza della gioventù, che esprime bellezza, vivacità, gioia. Con pochissime pennellateviene creato un movimento ordinato in ritmi espressi da quattro gruppi di figure, appena accennate, distinte per colori. All’interno di questo gruppo in cerchio vi è la colomba con il ramoscello di ulivo. Il girotondo disegna una danza, nella quale tutto è incluso, senza che niente sia escluso. E’ la cattedrale descritta da Isaia. La forza del dipinto sta nella pregnanza simbolica, che parla di legami, di vicinanza, di distacchi, di relazioni, di armonia, di ritmi, di gioco, di bellezza. E’ la città interpretata non come chiusura, ma aperta, mobile. Un “muro mobile”. Esso è costituito da dodici figure leggiadre, danzanti che si muovono in sintonia ed esportano il simbolo –colomba in ogni luogo in cui vanno a danzare, insieme, includendo, recando frutti BUONI.    “ LA CATTEDRALE UMANA ARMONICA”.

Don Carlo

compleanno

«Carissimo/a, è la prima volta ch’io ti faccio gli auguri per il tuo compleanno. È la prima volta che ne so la data. E nel compiere questo lieve atto di amicizia provo una gioia così grande, ch’io mi meraviglio di me stesso. Immagini se tu non fossi nato, quale meravigliosa cosa di meno ci sarebbe al mondo? Una meravigliosa cosa che c’è perché è tutta un dono. Il compleanno è il giorno in cui fisicamente si sente l’amore di Dio che ci ha fatti, potendoci non fare: «prior dilexit nos»: ci si sente «fatti», con stupore. È il giorno in cui si adora nostro papà e nostra mamma: lo strumento sensibile. Crea tante altre cose meravigliose! È un augurio così violento, quasi lo facessi a me stesso. Sento la tua gioia, di trovarti tra i tuoi monti. Auguri anche di goderti tanto anche questi».
Auguri don Giuss

sabato 10 settembre 2016

La coscienza del bisogno


09/09/2016 - Dall'udienza del 7 marzo 2015 con papa Francesco all'ultimo Meeting. Un percorso tra i passi e le scoperte della vita del movimento in un intervento del filosofo Costantino Esposito all'Assemblea internazionale responsabili di CL
Vi sono due premesse che vorrei fare all'inizio di questo percorso: ma non si tratta di presupposti già saputi, bensì di scoperte compiute nell'esperienza di molti tra noi e nella vita delle nostre comunità. La prima è che, a partire dall'udienza concessa da papa Francesco al movimento il 7 marzo 2015, si è avviato un nuovo percorso di conoscenza e di verifica della natura del carisma dato a don Giussani e consegnato a ciascuno di noi, attraverso la paternità e la guida di Carrón. Questo percorso è stato una sfida continua, spesso drammatica, postaci dalle circostanze che abbiamo dovuto attraversare, in cui la posta in gioco era più una "vocazione" che un'"applicazione". Non innanzi tutto: cosa dobbiamo fare? ma: a cosa ci chiama il Mistero oggi? come si delinea e come ci attrae la sua Presenza nel nostro presente?

Questo introduce la seconda premessa-scoperta, e cioè che la coscienza di ciò che rende davvero originale la presenza del nostro carisma nella Chiesa e nel mondo coincide con la coscienza del bisogno ultimo della nostra vita, di fronte a Chi lo suscita e lo abbraccia. Il segno verificabile della Presenza di Cristo – ci ha sempre richiamato don Giussani – è la sua corrispondenza al cuore dell'uomo. Perciò non potremmo capire il dramma, ma anche la bellezza del nostro tempo, senza percepirli – e patirli anche – come una questione "personale", che riguarda, tocca e perturba il nostro io.


Il “grande nulla"

Già da qualche anno papa Francesco ha pronunciato la parola più scomoda, ma forse la più adeguata, per capire cosa sta succedendo nel mondo, e quindi a cosa il Mistero ci chiama attraverso circostanzetragiche come gli attacchi del terrorismo di sedicente matrice islamista, con le inevitabili conseguenze a livello politico, sulla sicurezza e sulla pace sociale: «Una parola che (...) si ripete tanto – dice Francesco – è “insicurezza”. Ma la vera parola è “guerra”. Da tempo diciamo: “il mondo è in guerra a pezzi”. Questa è guerra. C’era quella del ’14, con i suoi metodi; poi quella del ’39-’45, un’altra grande guerra nel mondo; e adesso è questa. (...)Non abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra, perché ha perso la pace». E aggiunge: «Quando io parlo di guerra, parlo di guerra sul serio, non di guerra di religione, no. C’è guerra di interessi, c’è guerra per i soldi, c’è guerra per le risorse della natura, c’è guerra per il dominio dei popoli: questa è la guerra. Qualcuno può pensare: “Sta parlando di guerra di religione”. No. Tutte le religioni vogliamo la pace. La guerra, la vogliono gli altri».

Questa insistenza, così discussa polemicamente da parte di alcuni ambienti cattolici e anche laici ci spinge soprattutto a capire quale sia il contributo che un'esperienza religiosa vissuta può portare al dramma del nostro tempo. Cosa vuol dire che noi «vogliamo la pace», quella pace senza la quale il destino del mondo è solo guerra? Ciò di cui ha bisogno il mondo intero, nel conflitto delle sue potenze, è la stessa cosa di cui ha bisogno ogni singolo "io": riconoscere cos'è veramente in gioco nella vita. È per non aver riconosciuto la vera natura della sfida che siamo tutti così confusi e disorientati nell'affrontarla e nel risponderle. E la sfida si esprima in questa domanda: siamo destinati inevitabilmente al nulla, cioè alla violenza che si scatena quando manca un senso per cui vivere; oppure siamo chiamati a riconoscere e aderire ad un senso presente nella realtà?

In un articolo scritto da Carrón nel febbraio 2015, poco più di un mese dopo l'attacco terroristico alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi (cui altri purtroppo sarebbero seguiti in Europa, in Africa, in Medio Oriente e in Asia), si solleva la questione: «... occorre scoprire la vera natura della sfida che gli attentati di Parigi rappresentano. (...) Per questo il problema è anzitutto interno all'Europa e la partita più importante si gioca in casa nostra. La vera sfida è di natura culturale e il suo terreno è la vita quotidiana».

Ha scritto recentemente lo psicoanalista Massimo Recalcati, commentando gli atti di violenza cieca, insensata dei giovani o giovanissimi attentatori, spesso suicidi, come quello di Nizza o di Monaco o quelli (che avrebbero agito dopo pochi giorni) di Saint-Étienne-du-Rouvray: «Non è Dio l'interlocutore di questi atti – nemmeno il Dio folle che semina odio e incita alla morte degli infedeli – perché sono atti senza interlocutore. L'operazione tentata dallo Stato islamico consiste nel reclamarli a sé in un travestimento ideologico di tipo illusionistico. Al contrario, questa violenza è davvero senza meta, senza legge, senza senso (...). È violenza allucinata che trasforma la vita in morte, violenza puramente nichilistica se il nichilismo è quell'esperienza, non solo individuale ma collettiva, del venire meno di tutti i valori, dunque del valore della vita stessa. In questo senso questa violenza ci riguarda profondamente, ovvero riguarda il senso stesso della vita (...): l'ideologia non è la Causa ma solo una giustificazione a posteriori dello scatenamento della violenza come puro odio verso l'insensatezza della vita. Il fatto che i suoi protagonisti siano giovani o giovanissimi mette ancora una volta al centro il grande problema del rapporto tra le generazioni e quello dell'eredità. Non si diventa assassini perché Dio lo vuole, ma perché la vita, questa vita, la nostra vita, la vita che lasciamo ai nostri figli, è fatta di nulla, è senza valore, non vale niente».

Il riconoscimento di questa diffusa insensatezza nichilista apre però una domanda su questi "estranei" non meno che sui nostri cari. Rilancia Carrón: quando i migranti o i richiedenti asilo arrivano da noi «possono trovare qualcosa in grado di attrarre la loro ragione e la loro libertà? Lo stesso problema si pone in rapporto ai nostri figli: abbiamo da offrire loro qualcosa all'altezza della domanda di compimento e di senso che essi si trovano addosso? In tanti giovani che crescono nel cosiddetto mondo occidentale regna un grande nulla, un vuoto profondo, che costituisce l'origine di quella disperazione che finisce in violenza. Basti pensare a chi dall'Europa va a combattere nelle fila di formazioni terroristiche. O alla vita disperata e disorientata di tanti giovani delle nostre città. A questo vuoto corrosivo, a questo nulla dilagante bisogna rispondere». Da questo punto di vista (come abbiamo letto in un'intervista di pochi giorni fa) «le migrazioni e persino gli attentati possono rappresentare uno stimolo per riproporre la nostra originalità di cristiani».

Neanche noi cristiani, infatti, siamo fuori da questa sfida. Apparteniamo al nostro tempo e al fondo, nel modo di pensare che respiriamo dal contesto in cui viviamo, siamo poco o tanto "nichilisti" come tutti. Dicendo questo non voglio certo sottovalutare la novità dell'incontro che ci ha segnati, al contrario: voglio dire che nel presente noi possiamo capire tutta la portata di questo incontro proprio avendo coscienza che Cristo ci strappa continuamente dal nulla, attraendoci a sé.

Ora, a me sembra che il punto di novità guadagnato in questi mesi è che non basta "difendersi" da questo nichilismo, in nome di una concezione e di un'esperienza diversa delle cose, intese come un blocco di resistenza o un'oasi nel deserto. E questo per il semplice motivo che la sfida del deserto è entrata anche nella Chiesa, anche nel movimento, per cui la difesa di una tradizione e di un'esperienza diverse assume oggi non più la forma di una contrapposizione, ma la forma di una domanda radicale. Dalla dialettica alla domanda: «Ma noi cristiani crediamo ancora nella capacità della fede che abbiamo ricevuto di esercitare un'attrattiva su coloro che incontriamo e nel fascino vincente della sua bellezza disarmata?».

Papa Francesco ha riproposto questa domanda, come unica risposta ragionevole al declino secondo alcuni irreversibile dell'umanesimo europeo, nel discorso in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno il 6 maggio scorso. La cosa è tanto più interessante, se si ricorda che solo pochissimi anni fa era divampata una polemica molto aspra sulle "radici cristiane" dell'Europa, fatta di contrapposizioni dialettiche tra visioni alternative del mondo. Che cosa può significare che proprio la leadership tecno-laicista del Consiglio Europeo conferisca questo Premio al Papa? Ecco le parole di Francesco: «Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa»?

Il punto non è tanto rivendicare le nostre radici cristiane, ma che queste radici rinascano di nuovo oggi, sino a fiorire e a portare il frutto del libero convincimento delle persone. È molto significativo che portare nuova acqua a queste radici coincida con una testimonianza su ciò che è essenziale del cristianesimo (l'incontro con il Signore che semplicemente cambia la vita); e che questa testimonianza a sua volta consista nel piegarsi sulle feritedegli uomini del nostro tempo. Non per uno spirito di generosità, ma perché riconosciamo che queste sono le nostre stesse ferite, il bisogno acuto del pane e del senso del vivere: in una parola il bisogno di essere liberi e felici.

L'originalità non sta allora innanzitutto nella riproposizione della giusta e fondamentale dottrina, o nella nostra capacità di costruire e organizzare forme alternative di vita. L'originalità sta innanzitutto nel fatto che la nostra presenza si mostri capace – attraverso la semplice testimonianza nelle circostanze della vita di tutti – di risvegliare e abbracciare le domande costitutive del cuore delle persone.

Un esempio piccolo, ma grandioso, del risvegliarsi di queste domande come traccia del nostro rapporto con il Mistero, è stata la recente presentazione dell'edizione cinese de Il senso religioso. Leggo dal report di Tracce: «Nel tempio buddhista di Long-shan a Taipei (Taiwan), dopo la preghiera e i riti, se la dèa della misericordia ha accettato di ascoltarti, lo capisci dalla posizione di due legnetti rossi che hai gettato a terra. A quel punto le rivolgi la tua implorazione, peschi un numero da un cesto e vai ad aprire il cassettino corrispondente. Qui trovi un biglietto con la risposta alla tua domanda. Anche all’Università Cattolica FuJen trovi una cassettiera. All’ingresso di una mostra. Ma invece che risposte, sui bigliettini c’era scritto: “desiderio”, “solitudine”, “tristezza”, “vita”. Sono le parole che introducono la mostra su Il senso religioso».


Verità e libertà 

Questo è un punto decisivo per capire il contributo del nostro carisma di fronte alla grande sfida dell'umanità contemporanea: guardare il bisogno infinito del cuore, spesso nascosto o ridotto alla richiesta di beni e alla rivendicazioni di diritti, con lo stesso sguardo di Cristo, vibrante e appassionato per la verità dell'umano. Ma il punto davvero infuocato è che questa verità, per potersi manifestare, richiede la nostra libertà, cioè il riconoscimento della ragione e l'adesione dell'affettività.

In quest'ultimo anno siamo arrivati a riconoscere (non senza difficoltà e fatica per alcuni di noi) che l'opposizione tra la verità "oggettiva" e la libertà dei "soggetti", se può apparire facile o comoda per la dialettica, è irrealizzabile o inesistente nella vita reale. La verità non è qualcosa di "assoluto", stabilito una volta per tutte, ma è qualcosa che accade nell'esperienza e nella storia degli uomini. Noi spesso contrapponiamo questi due piani proprio perché non riusciamo più a pensarli costitutivamente insieme. Come è stato detto nell'Assemblea dei responsabili italiani del febbraio 2015: «È necessario che noi approfondiamo come la verità può essere in grado di attrarre la libertà e di compiere la ragione».

Tale posizione genera un nuovo sguardo di conoscenza rispetto alle situazioni e agli eventi che succedono nel mondo. Per riprendere la circostanza da cui siamo partiti, «oggi nessuno di noi coltiva il sogno di rispondere alla sfida dell'altro con l'imposizione di una verità, qualunque essa sia. Per noi l'Europa è uno spazio di libertà», che vuol dire uno «spazio per dirsi, ognuno o insieme, davanti a tutti. Ciascuno metta a disposizione di tutti la sua visione e il suo modo di vivere. Questa condivisione ci farà incontrare a partire dall'esperienza reale di ciascuno e non da stereotipi ideologici che rendono impossibile il dialogo. Come ha detto papa Francesco, "al principio del dialogo c'è l'incontro..."». La novità può nascere solo su «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro».

In questa prospettiva la proposta e la discussione pubblica del libro di Carrón su La bellezza disarmata ha costituito un'esemplificazione importante di cosa significhi portare un contributo certo (cioè non "relativista"), ma al tempo stesso aperto all'incontro e al dialogo (cioè non "fondamentalista") nello spazio della ricerca e della costruzione comune. La breccia che questa proposta ha aperto in molte intelligenze e in molti cuori ha fatto sì che noi stessi del movimento potessimo riguadagnare il senso della testimonianza cristiana come gesto di presenza pubblica.

Alla domanda di Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera, su cosa significhi il titolo del libro, Carrón risponde: «La bellezza è lo splendore della verità, dice san Tommaso; perciò non ha bisogno di qualche aiuto esterno per comunicarsi; è sufficiente l'attrattiva che esercita, proprio per la sua bellezza. Mi è sembrato un titolo adeguato per un contributo che si rivolgesse alla ragione e alla libertà, senza forzare né l'una né l'altra. La stagione che stiamo vivendo ci costringe a riconoscere che l'unico modo per accedere alla verità è quello che passa attraverso la libertà».

Questa posizione non costituisce una prospettiva utopica (visto il male e la bruttezza di cui gli uomini sono capaci, come obiettano alcuni), ma al contrario costituisce un giudizio, e anzi il più realistico e operativo dei giudizi sulla situazione storica. Lo affermano, tra le altre, due voci molto diverse, ma che riconoscono lo stesso fenomeno. La prima è quella del Cardinale Jean-Louis Tauran, a cui, all'indomani dell'uccisione dell'anziano sacerdote vicino a Rouen, è stato chiesto quale possa essere la risposta adeguata a questo "abisso". «La risposta è sempre e comunque il dialogo, l'incontro. Per interrompere la catena infinita della ritorsione e della vendetta l'unica strada percorribile è quella del dialogo disarmato. In sostanza, a mio avviso, dialogare significa andare all'incontro con l'altro disarmati, con una concezione non aggressiva della propria verità, e tuttavia non disorientati, che è l'atteggiamento di chi pensa che la pace si costruisce azzerando ogni verità».

L'altra voce è quella del sociologo Zygmunt Bauman: «Il paradosso è che sia proprio colui che i cattolici riconoscono come il portavoce di Dio in terra a dirci che il destino di salvezza è nelle nostre mani. La strada è un dialogo volto a una migliore comprensione reciproca, in un'atmosfera di mutuo rispetto, in cui si sia disposti ad imparare gli uni dagli altri. Ascoltiamo troppo poco Francesco, ma la sua strategia, benché a lungo termine, è l'unica in grado di risolvere una situazione che somiglia sempre di più a un campo minato, saturo di esplosivi materiali e spirituali, salvaguardati dai governi per mantenere alta la tensione. Finché le relazioni umane non imboccheranno la via indicata da Francesco, è minima la speranza di bonificare un terreno che produrrà nuove esplosioni, anche se non sappiamo prevedere con esattezza le coordinate».
L'urgenza del dialogo è un passaggio cruciale per verificare in che modo la verità si rivela non per contrapposizione ma per attrazione della libertà. E qui è anche la chiave per capire l'insistenza con cui Francesco ci ha invitati ad essere una "Chiesa in uscita": solo nell'incontro con il bisogno degli uomini più feriti del nostro tempo, infatti, può esserci donato nuovamente lo sguardo del vero. Cito le sue stesse parole: «La strada della Chiesa è uscire per andare a cercare i lontani nelle periferie, a servire Gesù in ogni persona emarginata, abbandonata, senza fede, delusa dalla Chiesa, prigioniera del proprio egoismo.?? “Uscire” significa anche respingere l’autoreferenzialità, in tutte le sue forme, significa saper ascoltare chi non è come noi, imparando da tutti, con umiltà sincera», per poter «essere braccia, mani, piedi, mente e cuore di una Chiesa “in uscita”».

In quest'ultimo anno ci sono state date diverse occasioni in cui comprendere ciò a cui il Papa ci ha richiamato e anche la "criticità" con cui lo ha fatto, e penso che questa verifica sia stata la migliore correzione rispetto a coloro che (fuori e dentro il movimento) si sono attardati a sottolineare una presunta non benevolenza del Papa verso di noi. Al contrario, «il Papa non ha avuto ritegno a richiamarci ad essere fedeli al carisma ricevuto», come faceva sempre lo stesso don Giussani con noi... Perciò «non possiamo che ringraziarlo di una simile paternità, che è arrivata fino a indicazioni precise di cui ogni membro di CL è chiamato a far tesoro, dall'autoreferenzialità al non confondere la fedeltà al carisma con la sua "pietrificazione", al non perdere la libertà».

Sul rapporto vivente tra verità e libertà c'è stato un cammino in cui – questo è davvero interessante – non si poteva più distinguere un fronte "interno" al movimento da uno "esterno", e le scoperte nate dagli incontri con gente non "nostra" ha contribuito in maniera determinante a capire il "nostro" carisma e la "nostra" storia.


Il vero atteggiamento critico

L'originalità della nostra presenza emerge dunque in uno sguardo e in un abbraccio al bisogno nostro e di tutti gli uomini. Tra i diversi casi esemplificativi di questo sguardo, emersi in quest'ultimo anno, vorrei riprenderne due, perché sono quelli che hanno provocato anche delle difficoltà e delle polemiche, che in ogni caso sono state utili a capire qual era la vera posta in gioco nella nostra proposta pubblica, e come questo fosse tutt'altro che scontato o automatico, ma piuttosto chiedesse una conversione dello sguardo e una sequela cordiale a chi guida il movimento oggi. I due casi cui mi riferisco sono interessanti proprio perché ci costringono a chiedere di nuovo: ma cosa ci corrisponde di più? o cosa ci corrisponde veramente?

Il primo caso è quello legato al Disegno di legge Cirinnà (il nome della parlamentare che l'ha proposta), poi trasformato con qualche modifica in legge sulle unioni civili, con l'esplicito intento di garantire il "nuovo diritto" del riconoscimento giuridico e della tutela sociale anche alle coppie di persone dello stesso sesso. Si tratta, com'è noto, di una legislazione già vigente in diversi altri Paesi del mondo, e che in Italia ha creato due fronti contrapposti (con relative manifestazioni di piazza): quello di coloro che vedono in questo riconoscimento legislativo un avanzamento delle libertà individuali in una società aperta ed emancipata, e quello di coloro che denunciano il pericolo di relativizzare una verità dell'ordine creaturale e naturale (addirittura resa sacramento dalla Chiesa), cioè la famiglia fondata sull'unione di una donna e di un uomo. Sembrerebbe dunque che anche la nostra presenza debba inserirsi in questo schema: e la sua collocazione dovrebbe essere – giustamente – quella della "difesa" dell'ordine naturale della famiglia, contro l'attacco del relativismo e della secolarizzazione.

Ma questa collocazione difensiva da dove nasce? Che sguardo introduce questo atteggiamento di fronte alle persone in carne ed ossa che stanno rivendicando quel diritto? Non sto dicendo affatto che bisogna relativizzare il valore dell'unione tra un uomo e una donna. Ma Cristo come avrebbe guardato quelle persone? E più ancora: il nostro sguardo è capace di cogliere il bisogno ultimo che appartiene al cuore di quelle persone esattamente come appartiene al nostro cuore? Cosa significa in questa situazione «attenderLo giorno e notte»?, cioè riconoscere la presenza del Mistero come il fattore essenziale di questacircostanza?

«Domandiamoci da dove traggono origine i cosiddetti nuovi diritti. Ciascuno di essi pesca, in ultima istanza, in esigenze profondamente umane: il bisogno di amare e di essere amati, il desiderio di essere padri e madri, la paura di soffrire e di morire, la ricerca della propria identità. Ecco il perché della loro attrattiva e del loro moltiplicarsi, con la segreta aspettativa che l’ordine giuridico possa risolvere il dramma del vivere e garantisca "per legge" una soddisfazione dei bisogni infiniti propri di ogni cuore. (...) Con tutto il rispetto dovuto al dibattito giuridico, qui mi preme sottolineare che a tema è sempre l’uomo e la sua realizzazione. Dietro ogni tentativo umano c’è un grido di compimento. Ma questo tentativo, per quanto sincero, è in grado di rispondere?».

Lo sguardo nuovo della fede e della misericordia non passa sopra il valore, ma per affermare il valore punta sull'inquietudine del cuore, sul desiderio di compimento che non potrà essere soddisfatto da nessuna legge. Ma anche da nessuna dottrina sulla natura umana. La via della legge (e dell'affermazione dottrinale) potrà anche portare ad un successo socio-politico, ma di per sé non rende ancora veramente liberi. C'è bisogno dell'incontro con un uomo libero per diventare liberi a nostra volta; e c'è bisogno di un'esperienza di libertà in atto per poter tornare a riconoscere e aderire ad un valore. Perché, ora più che mai, è quest'incontro che «l'uomo di oggi attende forse inconsapevolmente».

La reazione stupita e il sincero contraccolpo in tante persone, etero ed omosessuali, che ci si aspetterebbe lontanissime dalla nostra posizione, ci hanno fatto capire che avevamo intercettato qualcosa di non detto, di profondo e di condiviso nel bisogno più diffuso e anche più ridotto del nostro tempo: quello di voler essere sempre più liberi, pur non potendo mai soddisfare questa esigenza. Perché la libertà non può compiersi semplicemente facendo di sé quello che si vuole, ma volendo il rapporto con l'Altro che costituisce il proprio "sé".

Anche in questo caso, colpisce la «profonda consonanza tra papa Francesco e don Giussani», richiamata nella Lettera di Carrón alla Fraternità del 20 aprile di quest'anno, dopo l'udienza privata concessagli dal Papa il 14 aprile. In quella stessa lettera era ricordato un giudizio fulminante di don Giussani, come «aiuto per vivere il dovere supremo della testimonianza che papa Francesco e la Chiesa si aspettano dalla nostra Fraternità, cioè da ciascuno di noi»: «L'avvenimento di Cristo – scrive Giussani – è la vera sorgente dell'atteggiamento critico, in quanto esso non significa trovare i limiti delle cose, ma sorprenderne il valore. (…) È l’avvenimento di Cristo ciò che crea la cultura nuova e dà origine alla vera critica. La valorizzazione del poco o del tanto di bene che c’è in tutte le cose impegna a creare una nuova civiltà, ad amare una nuova costruzione: così nasce una cultura nuova, come nesso tra tutti i brandelli di bene che si trovano, nella tensione a farli valere e ad attuarli. Si sottolinea il positivo, pur nel suo limite, e si abbandona tutto il resto alla misericordia del Padre».

Questo giudizio lo si capisce in tutta la sua urgenza e pertinenza alla nostra situazione se si riflette sulla posizione opposta, che con una formula usata di recente dal Papa (ma ben nota e utilizzata anche da don Giussani) possiamo chiamare la «tentazione pelagiana», quella che ha «fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte», con «uno stile di controllo, di durezza, di normatività». Nota acutamente Francesco: «La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo».

Don Giussani ci ha sempre, instancabilmente richiamato a questa differenza radicale tra il seguire una nostra preoccupazione organizzativa o una nostra capacità culturale, magari basata anche sui valori portati da Cristo (ma che prima o poi si svela inincidente nella realtà, anche a livello culturale), e il seguire invece la presenza contemporanea e amorosa di Cristo stesso, così come ci raggiunge e ci provoca nella vita della Chiesa, seguendo la voce della «profezia» che risuona in una comunione guidata al destino.

L'altro caso che, più brevemente, vorrei citare in questo percorso di scoperta, correzione e conversione di uno sguardo e di una presenza originale è quello della politica. Che lo vogliamo o no il nome di CL è ancora per molti (e sicuramente nell'immaginario collettivo) legato a vicende o faccende politiche. Per il cammino di autocoscienza e di lenta "liberazione" da questa identificazione politica del movimento ha continuato a portare i suoi frutti quell'«Abbiamo ancora un lungo cammino davanti e siamo felici di poterlo percorrere» con cui si chiudeva l'ormai famosa lettera di Carrón al quotidiano la Repubblica del 1° maggio 2012. Il "perdono" chiesto in quella lettera per come nel corso della nostra storia il fascino della sequela del carisma avesse ceduto alla tentazione di una riuscita puramente umana, non era da intendersi come una "ritirata" religiosa nelle sacrestie, ma come la possibilità di riguadagnare uno sguardo originale su tutte le circostanze e le dimensioni della vita, anche della politica.

A quattro anni di distanza, un giornalista del Corriere, Dario Di Vico, ha chiesto un bilancio dell'aver puntato tutto sul nesso verità-libertà rispetto al nesso verità-egemonia, aggiungendo che così sarebbe stata «smantellata una straordinaria macchina politica qual era la CL degli anni d'oro». E Carrón risponde: «Il nostro obiettivo è contribuire al bene comune; non voglio perdere il valore della passione politica, ma ho ricordato che avevamo come motivazione qualcosa di più affascinante del raccogliere le briciole del potere». Il giornalista incalza: «In questo modo però vi siete disarmati?». «Sì – è la risposta –, abbiamo riportato al primo posto la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Preferisco la testimonianza alla militanza. E del resto Dio ha bussato sommessamente alla porta dei nostri cuori, non ha fatto uso della sua potenza esteriore, ma ha suscitato amore».

In questa prospettiva, il grande lavoro sull'autocoscienza fatto nel movimento si è incontrato e si è intrecciato con il faticoso lavoro di riconquista del senso del bene comune ormai perso all'interno della società e della politica, non solo in Italia, ma in tutti i Paesi in cui siamo presenti.

È interessante per esempio che nel volantino di CL per le Elezioni amministrative italiane del maggio 2015, per affrontare il crollo della tensione ideale che ha portato ad un'irreversibile «crisi della politica» si parta da queste parole di papa Francesco: «Fare politica è davvero un lavoro martiriale, perché bisogna andare tutto il giorno con quell’ideale, tutti i giorni, con quell’ideale di costruire il bene comune. E anche portare la croce di tanti fallimenti, e anche portare la croce di tanti peccati. Perché nel mondo è difficile fare il bene in mezzo alla società senza sporcarsi un poco le mani o il cuore; ma per questo vai a chiedere perdono, chiedi perdono e continua a farlo. Ma che questo non ti scoraggi». Oggi, in un contesto sociale in cui sembra che le singole persone in definitiva non valgano niente rispetto alle strategie della politica e dell'economia, la comunità cristiana dà il suo contributo proprio riaffermando che «l'altro è un bene, e non un ostacolo da superare, per la pienezza del nostro io, tanto in politica quanto nei rapporti umani e sociali».

Il punto focale è una preoccupazione educativa: lo stesso interessarsi alla politica, che è quanto di più lontano ci potrebbe essere dalla gente oggi, dipende da qualcosa che è più grande della politica – e cioè il bene di tutti. Come dice un volantino di Comunión y Liberación spagnola in vista delle Elezioni generali del dicembre 2015: il problema dell'educazione pone una domanda precisa: «È possibile comprendere e accogliere tutto il mondo di domande, desideri ed esigenze che si agita nei nostri giovani e sta dietro le tante manifestazioni di malessere, senso di fallimento, incomunicabilità e violenza?» Si può sanare «la frattura tra desiderio e realtà?». Per giungere a dire che non è lo Stato di per sé che educa, ma che devono avere spazio e sostegno i soggetti che hanno una proposta di significato, in una reale libertà di educazione. E che un'amicizia tra il desiderio del cuore e la realtà quotidiana sia possibile, nonostante tutto gridi il contrario, lo si è visto nell'impressionante incontro con l'antropologo basco Mikel Azurmendi all'EncuentroMadrid di quest'anno, uno spirito laico in cui il pregiudizio dell'ideologia cede il posto alla disponibilità del pensiero e della riflessione a seguire ciò che accade in un incontro vivo con il popolo cristiano.

Dopo il referendum inglese che ha scelto per la Brexit, i nostri amici del Regno Unito hanno scritto che in entrambi i fronti ciò che era bloccato era proprio il rapporto costitutivo tra l'"io" e l'altro da me: per i partigiani del Leave il mio desiderio di sicurezza, stabilità e indipendenza «poteva essere meglio perseguito tagliando il collegamento con l’altro, il diverso, l’incontrollabile», mentre per i sostenitori del Remain l'altro era percepito solo «come qualcuno da tollerare in primo luogo per un profitto economico». In tal senso «nessuna delle due campagne percepiva l’alterità, quanti sono diversi da me, sostanzialmente come un bene, come un valore, proprio come una chiave del nostro desiderio». In realtà, come ha detto Rowan Williams al London Encounter, «l’idea che uno possa essere indipendente o autonomo è un mito: la realtà è interconnessa; tutti noi dipendiamo da altri». Di qui nasce la domanda: «Come possiamo vivere, in questo momento storico, il rapporto con gli altri esseri umani del mondo, diversi da noi, sia all’interno sia all’esterno dell’Unione Europea?».

Dall'altra parte dell'Oceano CL USA ha lanciato un volantino in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2016, partendo dal fatto che «nella terra delle opportunità, mentre quelli dotati di risorse prosperano, molti altri lottano per la sopravvivenza. Il nostro Paese si è fondato sul presupposto che il duro lavoro e l’iniziativa personale ci garantiscono la vita, la libertà, e la ricerca della felicità. Oggi quella promessa sembra sfuggirci». Il vecchio, grande American dream sembra aver perso la sua carica di positività e speranza e aver ceduto il posto a depressione e scetticismo. La libertà e la ricerca della felicità finiscono per identificarsi con una competitività che annulla l'io. Nella gente è venuto meno «il desiderio profondamente umano di essere attori responsabili, parte di qualcosa di grande, e di implicarci con la realtà sociale». In questa situazione la stessa presenza tradizionale della Chiesa, identificata con battaglie per i valori etici rischia di essere una posizione di "chiusura", concentrata sulla difesa di certi principi fondamentali (un caso per tutti, l'impegno massiccio pro life).

Il punto essenziale di svolta è riconoscere che «abbiamo bisogno di luoghi che ci mettano di fronte a chi siamo davvero e a ciò che desideriamo, che ci nutrano di speranza»In questa prospettiva riemerge il metodo del dialogo: esso «richiede che io proponga all’altro ciò per cui vivo e che contemporaneamente ascolti con curiosità e affetto la ricerca della verità dell’altro. (...) Questi rapporti faranno emergere inevitabilmente profonde caratteristiche comuni e profonde differenze. Tuttavia, senza il coraggio di considerare entrambi questi elementi, non saremo capaci di dire o costruire qualcosa di importante». Un esempio di questo è il percorso tentato negli ultimi anni dal New York Encounter, che partiva proprio dall'accettare la sfida culturale e antropologica in atto, per rilanciare il gusto e le ragioni di un'esperienza di libertà, e confrontarsi "in uscita" con il mondo laico. È come tornare a prendere sul serio la ricerca "americana" della felicità, passando dallo scetticismo alla gratitudine.

Scendendo in America Latina colpisce il volantino scritto dai nostri amici della Colombia, dopo la storica firma, il 23 giugno di quest'anno, del "cessate il fuoco" bilaterale e definitivo tra il Governo colombiano e i guerriglieri comunisti della Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia - Ejército del Pueblo) dopo 25 anni di conflitto: «Siamo uniti all'altro non per la sua improbabile coerenza morale, ma in quanto coscienti del fatto che condividiamo uno stesso bisogno: bisogno di compagnia, di una costruzione comune, di preoccuparci del bene degli altri, di amare ed essere amati, di essere abbracciati nel nostro errore, di dare un senso al dolore».

Ma tra i tantissimi fatti, incontri, scoperte non possiamo non ricordare la mostra sul Bicentenario dell'indipendenza dall'Impero spagnolo organizzata dai nostri amici argentini (per il Meeting 2012), e che poi ha innescato un vero e proprioinizio di riconciliazione tra alcuni dei "montoneros" che avevano partecipato alla lotta armata contro il regime militare di Videla (tra il 1976 e il 1983) e i repressori della dittatura. E questo solo a partire da un giudizio (che non è mai un bilancio storico astratto ma è uno sguardo che si gioca nel presente): resta sempre una sproporzione tra ciò per cui l'uomo lotta (la libertà della patria, la giustizia sociale ecc.) e il suo bisogno infinito, quel punto ultimo e infiammato da cui può ripartire una reale riconciliazione e fraternità, anche tra "nemici".

Senza l'incontro con Cristo a noi sarebbe quasi impossibile, non dico riconoscere questa esigenza ultima del cuore (perché questo è in qualche modo infallibile e inevitabile per ognuno), ma poi non affossarla, anzi seguirla come criterio di giudizio sulla vita e sulla storia. Come ci ha di recente raccontato la nostra amica Cleuza, abbracciando in una sintesi perfetta la parabola dalle origini cristiane del presidente Lula alla corruzione devastante in Brasile: «Io ora capisco con chiarezza, grazie al cammino che sto facendo, che il problema è stato questo: aver scambiato Cristo con i poveri. E poi i poveri con il potere. Da qui, la corruzione, quello che vediamo: la "fine" di tutti coloro che sono coinvolti in questo sistema. E di tutti i progetti sociali che non hanno avuto la preoccupazione di fare dell'uomo un protagonista, ma un dipendente».
Ecco il nostro contributo originale, come è richiamato in un altro volantino di Cl per le Elezioni amministrative italiane del maggio 2016, intitolato «La politica è un bene»): risvegliare quel «desiderio di un bene», come esigenza che «la convivenza sociale aiuti l'affermazione della persona».

Tornando a Milano, è stato molto significativo quello che si può chiamare un vero e proprio esperimento alla ricerca del bene comune nella recente occasione dell'elezione del Sindaco della città. La vera novità è un cambio di impostazione culturale (anche attraverso una serie di incontri sui temi più caldi della città, con la presenza dei protagonisti di entrambi gli schieramenti), a partire dalla scoperta che l'originalità della nostra presenza sta nel rapporto vissuto con l'origine. E questo rapporto può essere vissuto nel tempo e nelle circostanze solo attraverso un "giudizio", in cui la coscienza di ciò a cui apparteniamo, della nostra storia, si gioca come un punto di confronto con tutti, anche con coloro che la pensano in modo diverso da noi.

Si tratta di un luogo di incontro vero, non di facciata, come nei riti consueti del "teatro" della politica (spesso anche di CL). Scoprire dentro un'amicizia che si allarga il gusto del confronto e del paragone, dà a tutti la possibilità di scegliere liberamente e criticamente. È un passo che vince la tentazione di un mero schieramento sulla base di convenienze politiche, che poi si traduce nell'indicazione su "chi dobbiamo votare" o su "chi porta il movimento". Questo non vuol dire un relativistico "liberi tutti!", ma un intelligente "ciascuno libero di verificare le ragioni per affermare il bene di tutti".

L'obiettivo non può più essere la ricerca di un'egemonia, ma la domanda di questo bene per sé che ha sempre la forma dell'incontro con un altro. E non è un caso che per esempio i candidati sindaci, come pure alcuni giornalisti presenti, abbiano riconosciuto gli incontri organizzati dai nostri amici a Milano come tra quelli più oggettivamente interessanti dell'intero confronto elettorale. Questo interesse alla politica a partire e in vista di ciò che è più grande della politica, ha peraltro ha fatto sì che, a Milano come altrove, alcuni di noi, specie giovani, abbiano voluto rischiare in un impegno per il bene della città, anche in liste diverse. Un rischio assolutamente personale il cui obiettivo non è quello del voto unitario di CL, ma di verificare l'unità che viene prima e resta dopo le elezioni e la politica.

Cambia il contesto, ma si approfondisce lo stesso metodo nell'ideazione e nella realizzazione di una mostra come quella intitolata «L'incontro con l'altro: Genio della Repubblica 1946-2016» al Meeting di Rimini di quest'anno, sul 70° compleanno della Repubblica italiana. La cosa interessante è che questa mostra è nata dal rapporto con alcune personalità di grande rilievo nella nostra storia repubblicana (a partire da Luciano Violante), le quali hanno pensato e proposto un gesto di questo tipo grazie al fatto che c'era un luogo di amicizia e di dialogo con noi, senza che noi stessi fossimo necessariamente i promotori dell'iniziativa. Di fatti è da un po' di anni (soprattutto attraverso il Meeting di Rimini) che abbiamo capito che la cosa più interessante a livello pubblico non è appena "dire la nostra", ma costruire e proporre luoghi dove la gente possa paragonarsi. Potrebbe sembrare un di meno, e invece è il frutto più originale della presenza, chiamiamola così "profetica", del cristianesimo nel mondo.

Questo ha permesso che emergesse nettamente, come giudizio storico e di esperienza rispetto ad un panorama sociale e politico attraversato da scontri e delegittimazioni reciproche tra le varie parti, come un fiume carsico il valore della dignità di ogni persona, della libertà e della solidarietà, attorno ai quali si raccoglie unito il nostro Paese. Come ha detto nel suo discorso al Meeting il presidente Mattarella: «Occorre comprendere che ci si realizza davvero soltanto insieme agli altri e non da soli. È come se il principio "la libertà si ferma di fronte a quella degli altri" venisse assorbito e superato in un più avanzato principio: la libertà si realizza insieme a quella degli altri, si realizza in quella degli altri».

Ed è un contributo originale della nostra presenza la possibilità che si ridica pubblicamente ciò che ha costituito il «compromesso virtuoso» tra le diverse culture che hanno costruito la storia della Repubblica (la cattolica, la social-comunista e la liberale), e che oggi si fa così difficoltà a ritrovare. La consapevolezza che storicamente l'Italia la si è potuta costruire solo "insieme" e che solo insieme oggi può ritrovare una strada di protagonismo e di fioritura sociale è ciò che può aiutare la gente a superare la disaffezione alla politica e, ancor più, lo scetticismo indifferente al bene comune.


La misericordia

Il cammino fatto in questi ultimi mesi è stato provocato e accompagnato dall'invito lanciato da papa Francesco con l'Anno della misericordia. Siamo come di fronte a un'imponente verifica di quella vertiginosa posizione di don Giussani espressa nel famoso articolo del 2003 sul Corriere: «Qualsiasi evento capiti non troverebbe mai risposta adeguata, se non ci fosse Cristo: Lui segna l’ultima vittoria di Dio sulla realtà umana; qualsiasi cosa accada, è la "misericordia" che legge tutto ciò che è umano. La misericordia: Dio compie la vittoria sul male dentro la storia come positività, è questo che dà la ragione a ciò che accade».

In sintesi direi che questo è il passo che abbiamo riguadagnato: la misericordia è un giudizio, razionale e affettivo, sulla realtà e sulla storia. Non un semplice "al di là" rispetto alle brutture del vivere o all'opacità dell'esistenza, ma il riconoscimento di una Presenza che permette di affermare e valorizzare e amare ciò che sembrerebbe destinato solo al nulla e alla distruzione. «E il giudizio non è schierarsi, né stare fermi. Ma una presenza originale».

Questo giudizio non si esercita per ripetizione verbale o per analisi intellettuale, ma per esperienza. Si riconosce che è vero e pertinente quando lo si scopre in azione, lo si ricava per così dire dall'humus della vita. E nasce dal desiderio e dalla curiosità di vedere come la presenza di Cristo riesce davvero a "giustificarsi" davanti alle esigenze, ai dubbi e allo scetticismo dell'uomo contemporaneo. La misericordia è questa verifica in atto di come la Sua presenza cambia, muove, crea qualcosa di impossibile. Come – nella traiettoria che va da Cuba a Vilnius – una verifica impressionante dell'incontro tra Francesco e Kirill si è avuta nel riconoscere (non senza difficoltà e quasi incredulità tra i nostri stessi) l'unità quasi impossibile che il carisma sta creando tra gli ortodossi e i cattolici in Russia, in Ucraina e in Lituania.

Ma per concludere vorrei riprendere una testimonianza della nostra amica Rose Busingye in cui si vede che la scoperta di sé, che l'incontro con Cristo rende possibile, diventa alla lettera un principio critico di costruzione di un'umanità e di una società nuova. Il principio di una presenza originale:

«Mi ricordo una donna che è venuta dal nord, dall’Uganda, che era stata con i ribelli, è stata sfigurata, violentata e lei prima di arrivare al Meeting point era stata nel campo dove curavano il trauma, la cura psicologica, poi era scappata dal campo, è venuta da me e mi ha detto: “Guarda, tutti vengono da me per il problema che ho avuto, ognuno mi chiede: cosa ti hanno fatto? Le ferite che ho. Mi sento un cestino di cose, sono un cestino di problemi; ma chi è Russy? Io sono Russy. Tutti vengono da me perché sono diventata famosa per ciò che mi è capitato, ma chi sono io?” Io, mi ricordo, che le ho detto: “Tu sei un valore infinito, non sei ciò che ti è capitato, non sei l’orrore che ti è capitato. Tu hai un valore infinito”. E’ tornata a vivere quando le ho detto: “Tu vieni da Dio che ti ama e ti dà valore perché tu non sei quell’orrore che ti è successo. Tu sei più grande”. Anche a chi moriva dire: “Tu non sei la morte”. Io sono lì a gridare tutto il significato, persino della morte».

Questa scoperta commossa di sé come il luogo in cui abita il Mistero, fa arrivare sino alla radice di quei valori su cui tutta la nostra civiltà si è fondata e che oggi hanno perso la loro stessa evidenza, come il rispetto per l'irriducibilità di ogni singolo individuo dotato di ragione e di libertà, l'affermazione della dignità umana, l'uguaglianza e la condivisione del senso della vita. E fa ripartire, come tentativo intelligente, un nuovo assetto della convivenza per il bene di tutti. Come nel caso dell'esperienza della "Luigi Giussani High School" di Kampala:

«Siamo orgogliosi di questa scuola perché è stata voluta dalle donne. Loro hanno detto: “Abbiamo scoperto il nostro valore e la nostra dignità però i nostri figli vanno nelle altre scuole e non scoprono loro stessi. Vogliamo un luogo dove i nostri figli possono imparare matematica scoprendo il loro valore e la loro dignità. Io, se avessi potuto decidere di fare qualcosa, avrei costruito un ospedale e non una scuola ed ho detto loro: ”Io non posso farlo e poi non ho neanche i soldi”. Le donne hanno lavorato facendo le collane e grazie a questi soldi (hanno venduto 48.000 collane) abbiamo fatto la scuola. Abbiamo costruito il primo blocco dove il ragazzo impara le discipline scoprendo sé stesso. Adesso, in questa scuola secondaria ci sono 600 ragazzi. Abbiamo, poi, completato la scuola materna e quella elementare dove ci sono 450 bambini. In questa scuola vogliamo, proprio, educare come ci ha educato don Giussani. Tutti quelli che vengono a vedere questa scuola rimangono colpiti sia per la bellezza, sia per la preparazione dei ragazzi. Nel 2014 i nostri bambini hanno fatto un esame e sono stati i primi in tutta l’Uganda. Il metodo che usiamo è la scoperta di sé; quando scopri te stesso diventi anche intelligente. I nostri ragazzi, anche quelli meno intelligenti, nel tempo, sono diventati più intelligenti. Ogni ragazzo è proprio come un aereo che decolla».


Un sentimento della vita e un giudizio come questo è l'inizio della risposta al nostro bisogno e al bisogno del mondo intero. Ce lo ha ricordato nel suo messaggio al Meeting di quest'anno papa Francesco: i «tanti sconvolgimenti di cui spesso ci sentiamo testimoni impotenti sono, in realtà, un invito misterioso a trovare i fondamenti della comunione tra gli uomini per un nuovo inizio».

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