sabato 30 marzo 2013


risortoPASQUA 2013
Cristo è risorto, Alleluia!
“E’ Lui il vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo, è Lui 

che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato 

a noi la vita!”

La Pasqua del Signore: un meraviglioso evento - unico nella storia 

dell’umanità - che ha illuminato la vita umana nella sua totalità e l’ha riempita 

di una speranza senza frontiere!

Cristo Risorto inondi di gioia e di luce il nostro cuore e disperda le tenebre

 nel cammino della vita.                                        

 Buona Pasqua!

"Non abbiate paura delle novità e delle sorprese di Dio"

Papa Bergoglio veglia di Pasqua
omelia di Papa Francesco nella Veglia Pasquale



Cari fratelli e sorelle!

1. Nel Vangelo di questa Notte luminosa della Veglia Pasquale incontriamo per prime le donne che si recano al sepolcro di Gesù con gli aromi per ungere il suo corpo (cfr Lc 24,1-3). Vanno per compiere un gesto di compassione, di affetto, di amore, un gesto tradizionale verso una persona cara defunta, come ne facciamo anche noi. Avevano seguito Gesù, l’avevano ascoltato, si erano sentite comprese nella loro dignità e lo avevano accompagnato fino alla fine, sul Calvario, e al momento della deposizione dalla croce. Possiamo immaginare i loro sentimenti mentre vanno alla tomba: un certa tristezza, il dolore perché Gesù le aveva lasciate, era morto, la sua vicenda era terminata. Ora si ritornava alla vita di prima. Però nelle donne continuava l’amore, ed è l’amore verso Gesù che le aveva spinte a recarsi al sepolcro. Ma a questo punto avviene qualcosa di totalmente inaspettato, di nuovo, che sconvolge il loro cuore e i loro programmi e sconvolgerà la loro vita: vedono la pietra rimossa dal sepolcro, si avvicinano, e non trovano il corpo del Signore. E’ un fatto che le lascia perplesse, dubbiose, piene di domande: “Che cosa succede?”, “Che senso ha tutto questo?” (cfr Lc 24,4). Non capita forse anche a noi così quando qualcosa di veramente nuovo accade nel succedersi quotidiano dei fatti? Ci fermiamo, non comprendiamo, non sappiamo come affrontarlo. La novità spesso ci fa paura, anche la novità che Dio ci porta, la novità che Dio ci chiede. Siamo come gli Apostoli del Vangelo: spesso preferiamo tenere le nostre sicurezze, fermarci ad una tomba, al pensiero verso un defunto, che alla fine vive solo nel ricordo della storia come i grandi personaggi del passato. Abbiamo paura delle sorprese di Dio; abbiamo paura delle sorprese di Dio! Egli ci sorprende sempre!
Fratelli e sorelle, non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela? Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui.

2. Ma torniamo al Vangelo, alle donne e facciamo un passo avanti. Trovano la tomba vuota, il corpo di Gesù non c’è, qualcosa di nuovo è avvenuto, ma tutto questo ancora non dice nulla di chiaro: suscita interrogativi, lascia perplessi, senza offrire una risposta. Ed ecco due uomini in abito sfolgorante, che dicono: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24, 5-6). Quello che era un semplice gesto, un fatto, compiuto certo per amore - il recarsi al sepolcro – ora si trasforma in avvenimento, in un evento che cambia veramente la vita. Nulla rimane più come prima, non solo nella vita di quelle donne, ma anche nella nostra vita e nella storia dell’umanità. Gesù non è morto, è risorto, è il Vivente! Non è semplicemente tornato in vita, ma è la vita stessa, perché è il Figlio di Dio, che è il Vivente (cfr Nm 14,21-28; Dt 5,26; Gs 3,10). Gesù non è più nel passato, ma vive nel presente ed è proiettato verso il futuro, è l’«oggi» eterno di Dio. Così la novità di Dio si presenta davanti agli occhi delle donne, dei discepoli, di tutti noi: la vittoria sul peccato, sul male, sulla morte, su tutto ciò che opprime la vita e le dà un volto meno umano. E questo è un messaggio rivolto a me, a te, cara sorella e caro fratello. Quante volte abbiamo bisogno che l’Amore ci dica: perché cercate tra i morti colui che è vivo? I problemi, le preoccupazioni di tutti i giorni tendono a farci chiudere in noi stessi, nella tristezza, nell’amarezza… e lì sta la morte. Non cerchiamo lì Colui che è vivo!
Accetta allora che Gesù Risorto entri nella tua vita, accoglilo come amico, con fiducia: Lui è la vita! Se fino ad ora sei stato lontano da Lui, fa’ un piccolo passo: ti accoglierà a braccia aperte. Se sei indifferente, accetta di rischiare: non sarai deluso. Se ti sembra difficile seguirlo, non avere paura, affidati a Lui, stai sicuro che Lui ti è vicino, è con te e ti darà la pace che cerchi e la forza per vivere come Lui vuole. 

3. C’è un ultimo semplice elemento che vorrei sottolineare del Vangelo di questa luminosa Veglia Pasquale. Le donne si incontrano con la novità di Dio: Gesù è risorto, è il Vivente! Ma di fronte alla tomba vuota e ai due uomini in abito sfolgorante, la loro prima reazione è di timore: «tenevano il volto chinato a terra» - nota san Luca -, non avevano il coraggio neppure di guardare. Ma quando ascoltano l’annuncio della Risurrezione, l’accolgono con fede. E i due uomini in abito sfolgorante introducono un verbo fondamentale: «Ricordatevi come vi parlò, quando era ancora in Galilea… Ed esse si ricordarono delle sue parole» (Lc 24,6.8). E’ l’invito a fare memoria dell’incontro con Gesù, delle sue parole, dei suoi gesti, della sua vita; ed è proprio questo ricordare con amore l’esperienza con il Maestro che conduce le donne a superare ogni timore e a portare l’annuncio della Risurrezione agli Apostoli e a tutti gli altri (cfr Lc 24,9). Fare memoria di quello che Dio ha fatto e fa per me, per noi, fare memoria del cammino percorso; e questo spalanca il cuore alla speranza per il futuro. Impariamo a fare memoria di quello che Dio ha fatto nella nostra vita!

In questa Notte di luce, invocando l’intercessione della Vergine Maria, che custodiva ogni avvenimento nel suo cuore (cfr Lc 2,19.51), chiediamo che il Signore ci renda partecipi della sua Risurrezione: ci apra alla sua novità che trasforma, alle sorprese di Dio; ci renda uomini e donne capaci di fare memoria di ciò che Egli opera nella nostra storia personale e in quella del mondo; ci renda capaci di sentirlo come il Vivente, vivo ed operante in mezzo a noi; ci insegni ogni giorno a non cercare tra i morti Colui che è vivo. Amen. 



Card. Scola: "La vita piena sgorga dalla morte di Cristo"


scolavenerdsanto


Omelia di S.E.R. Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano


1. La Sposa contempla lo Sposo che muore
«La Chiesa contempla il suo Sposo che, morendo, si offre vittima al Padre per liberare tutta l’umanità dal peccato e dalla morte» (Orazione all’inizio dei Vesperi).
Carissimi, questa Chiesa sposa, straziata e impotente, che assiste alle ultime ore e alla morte dello sposo amato ricomprende anche noi, convocati qui ed ora ad adorare il Crocifisso. Non togliamo lo sguardo dal dramma del Golgota che sfiora la tragedia. Tutto nella celebrazione di oggi ci porta ad un’esperienza di dolore e di perdita che sembra irreparabile.
Sul Golgota si consuma il dramma della morte che milioni e milioni di donne e di uomini hanno vissuto prima di noi e vivranno dopo di noi. Il Figlio di Dio assume liberamente su di sé la malvagia ingiustizia della morte che sempre, per finire, è subita come una condanna, tanto più se è quella prematura e violenta delle vittime di tutti i tempi e di tutti i luoghi della terra, ancor più se è la morte di un innocente.
«A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio». Ogni luce è spenta, ogni parola tace, il silenzio, immobile, è ritmato solo dai singhiozzi soffocati di Maria e delle altre donne. Poi, l’urlo del Crocifisso lacera l’opprimente mutismo «“Elì, Elì, lemà sabactàni? Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Vangelo, Mt 27, 45.46).
Chiediamoci: è questo forse il grido della speranza mancata? No.

2. Adoriamo l’albero glorioso
Quel palo ignominioso su cui l’Innocente si lascia crocifiggere si trasforma, per la Sua offerta, in un albero glorioso. Il misterioso Servo di cui parla il profeta Isaia che si immola, muto, alla violenza dei suoi aguzzini – figura di Gesù, il Figlio dell’Uomo – non può essere annientato, preda della morte. È forte del legame indissolubile con il Padre della vita. Un legame che in quell’ora estrema lo Spirito assicura: «Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato» (Prima Lettura, Is 50,7).
La vita piena sgorga da quella morte. La salvezza degli uomini è generata dal sacrificio di Cristo: questo è l’annuncio inaudito, umanamente incredibile («Chi avrebbe creduto al nostro annuncioIs 53,1), eppure più di ogni altro desiderato e, ora, reso a nostra portata. «Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini» (Seconda Lettura, Is 53,11). La speranza non è speranza mancata, ma speranza affidabile.

3. Passio Christi, passio hominis: la misericordia
«Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti» (Seconda Lettura, Is 53,5). La passione di Cristo assume in sé ogni possibile patire umano. Il Venerdì Santo è un mistero abissale di dolore e di amore. Persino la nostra personale morte, che ci può fare molta paura, è già custodita e vinta dalla Sua morte. Soprattutto però è vinto, se lo riconosciamo, il nostro peccato.

4. La vita della comunità cristiana: albore di resurrezione
La liturgia del Venerdì Santo si conclude con la narrazione della deposizione e della sepoltura del Signore. Il Vangelo di Matteo racconta che Giuseppe d’Arimatea si preoccupa della sepoltura e poi se ne va. Restano «sedute di fronte alla tomba: Maria di Magdala e l’altra Maria» (Mt 27,61). Il loro fedele stare di fronte alla tomba diventi il nostro stare di fronte al Crocifisso fino alla Veglia pasquale di domani notte.
Il silenzio del Sabato Santo lasci lentamente germogliare in noi la gioia incontenibile della Sua Risurrezione, caparra certa della nostra. Amen.




giovedì 28 marzo 2013

Portare Cristo a tutti, fino alle "periferie dell'esistenza"

Giovedì Santo, Francesco celebra messa nella Basilica di San Pietro.

Omelia di papa Francesco alla Messa del Crisma (Basilica di San Pietro, 28 marzo 2013)

Cari fratelli e sorelle,

con gioia celebro la prima Messa Crismale come Vescovo di Roma. Vi saluto tutti con affetto, in particolare voi, cari sacerdoti, che oggi, come me, ricordate il giorno dell’Ordinazione.

Le Letture, anche il Salmo, ci parlano degli “Unti”: il Servo di Javhè di Isaia, il re Davide e Gesù nostro Signore. I tre hanno in comune che l’unzione che ricevono è destinata a ungere il popolo fedele di Dio, di cui sono servitori; la loro unzione è per i poveri, per i prigionieri, per gli oppressi… Un’immagine molto bella di questo “essere per” del santo crisma è quella del Salmo 133: «È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste» (v. 2). L’immagine dell’olio che si sparge, che scende dalla barba di Aronne fino all’orlo delle sue vesti sacre, è immagine dell’unzione sacerdotale che per mezzo dell’Unto giunge fino ai confini dell’universo rappresentato nelle vesti.

Le vesti sacre del Sommo Sacerdote sono ricche di simbolismi; uno di essi è quello dei nomi dei figli di Israele impressi sopra le pietre di onice che adornavano le spalle dell’efod dal quale proviene la nostra attuale casula: sei sopra la pietra della spalla destra e sei sopra quella della spalla sinistra (cfr Es 28, 6-14). Anche nel pettorale erano incisi i nomi delle dodici tribù d’Israele (cfr Es 28,21). Ciò significa che il sacerdote celebra caricandosi sulle spalle il popolo a lui affidato e portando i suoi nomi incisi nel cuore. Quando ci rivestiamo con la nostra umile casula può farci bene sentire sopra le spalle e nel cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele, dei nostri santi e dei nostri martiri, che in questo tempo sono tanti!.

Dalla bellezza di quanto è liturgico, che non è semplice ornamento e gusto per i drappi, bensì presenza della gloria del nostro Dio che risplende nel suo popolo vivo e confortato, passiamo adesso a guardare all’azione. L’olio prezioso che unge il capo di Aronne non si limita a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge “le periferie”. Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio diventerebbe rancido … e il cuore amaro.

Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo; questa è una prova chiara. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia. La nostra gente gradisce il Vangelo predicato con l’unzione, gradisce quando il Vangelo che predichiamo giunge alla sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite, “le periferie” dove il popolo fedele è più esposto all’invasione di quanti vogliono saccheggiare la sua fede. La gente ci ringrazia perché sente che abbiamo pregato con le realtà della sua vita di ogni giorno, le sue pene e le sue gioie, le sue angustie e le sue speranze. E quando sente che il profumo dell’Unto, di Cristo, giunge attraverso di noi, è incoraggiata ad affidarci tutto quello che desidera arrivi al Signore: “preghi per me, padre, perché ho questo problema”, “mi benedica, padre”, “preghi per me”, sono il segno che l’unzione è arrivata all’orlo del mantello, perché viene trasformata in supplica, supplica del Popolo di Dio. Quando siamo in questa relazione con Dio e con il suo Popolo e la grazia passa attraverso di noi, allora siamo sacerdoti, mediatori tra Dio e gli uomini. Ciò che intendo sottolineare è che dobbiamo ravvivare sempre la grazia e intuire in ogni richiesta, a volte inopportuna, a volte puramente materiale o addirittura banale - ma lo è solo apparentemente - il desiderio della nostra gente di essere unta con l’olio profumato, perché sa che noi lo abbiamo. Intuire e sentire, come sentì il Signore l’angoscia piena di speranza dell’emorroissa quando toccò il lembo del suo mantello. Questo momento di Gesù, in mezzo alla gente che lo circondava da tutti i lati, incarna tutta la bellezza di Aronne rivestito sacerdotalmente e con l’olio che scende sulle sue vesti. È una bellezza nascosta che risplende solo per quegli occhi pieni di fede della donna che soffriva perdite di sangue. Gli stessi discepoli – futuri sacerdoti – tuttavia non riescono a vedere, non comprendono: nella “periferia esistenziale” vedono solo la superficialità della moltitudine che si stringe da tutti i lati fino a soffocare Gesù (cfr Lc 8,42). Il Signore, al contrario, sente la forza dell’unzione divina che arriva ai bordi del suo mantello.

Così bisogna uscire a sperimentare la nostra unzione, il suo potere e la sua efficacia redentrice: nelle “periferie” dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni. Non è precisamente nelle autoesperienze o nelle introspezioni reiterate che incontriamo il Signore: i corsi di autoaiuto nella vita possono essere utili, però vivere la nostra vita sacerdotale passando da un corso all’altro, di metodo in metodo, porta a diventare pelagiani, a minimizzare il potere della grazia, che si attiva e cresce nella misura in cui, con fede, usciamo a dare noi stessi e a dare il Vangelo agli altri, a dare la poca unzione che abbiamo a coloro che non hanno niente di niente.

Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco - non dico “niente” perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione - si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” - questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini. È vero che la cosiddetta crisi di identità sacerdotale ci minaccia tutti e si somma ad una crisi di civiltà; però, se sappiamo infrangere la sua onda, noi potremo prendere il largo nel nome del Signore e gettare le reti. È bene che la realtà stessa ci porti ad andare là dove ciò che siamo per grazia appare chiaramente come pura grazia, in questo mare del mondo attuale dove vale solo l’unzione - e non la funzione -, e risultano feconde le reti gettate unicamente nel nome di Colui del quale noi ci siamo fidati: Gesù.

Cari fedeli, siate vicini ai vostri sacerdoti con l’affetto e con la preghiera perché siano sempre Pastori secondo il cuore di Dio.

Cari sacerdoti, Dio Padre rinnovi in noi lo Spirito di Santità con cui siamo stati unti, lo rinnovi nel nostro cuore in modo tale che l’unzione giunga a tutti, anche alle “periferie”, là dove il nostro popolo fedele più lo attende ed apprezza. La nostra gente ci senta discepoli del Signore, senta che siamo rivestiti dei loro nomi, che non cerchiamo altra identità; e possa ricevere attraverso le nostre parole e opere quest’olio di gioia che ci è venuto a portare Gesù, l’Unto. Amen


© Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana 

mercoledì 27 marzo 2013

"Uscire da fede stanca e andare verso le periferie dell'esistenza"


Fratelli e sorelle, buongiorno!
Sono lieto di accogliervi in questa mia prima Udienza generale. Con grande riconoscenza e venerazione raccolgo il "testimone" dalle mani del mio amato predecessore Benedetto XVI. Dopo la Pasqua riprenderemo le catechesi dell’Anno della fede. Oggi vorrei soffermarmi un po’ sulla Settimana Santa. Con la Domenica delle Palme abbiamo iniziato questa Settimana – centro di tutto l’Anno Liturgico – in cui accompagniamo Gesù nella sua Passione, Morte e Risurrezione.
Ma che cosa può voler dire vivere la Settimana Santa per noi? Che cosa significa seguire Gesù nel suo cammino sul Calvario verso la Croce e la Risurrezione? Nella sua missione terrena, Gesù ha percorso le strade della Terra Santa; ha chiamato dodici persone semplici perché rimanessero con Lui, condividessero il suo cammino e continuassero la sua missione; le ha scelte tra il popolo pieno di fede nelle promesse di Dio. Ha parlato a tutti, senza distinzione, ai grandi e agli umili, al giovane ricco e alla povera vedova, ai potenti e ai deboli; ha portato la misericordia e il perdono di Dio; ha guarito, consolato, compreso; ha dato speranza; ha portato a tutti la presenza di Dio che si interessa di ogni uomo e ogni donna, come fa un buon padre e una buona madre verso ciascuno dei suoi figli. Dio non ha aspettato che andassimo da Lui, ma è Lui che si è mosso verso di noi, senza calcoli, senza misure. Dio è così: Lui fa sempre il primo passo, Lui si muove verso di noi. Gesù ha vissuto le realtà quotidiane della gente più comune: si è commosso davanti alla folla che sembrava un gregge senza pastore; ha pianto davanti alla sofferenza di Marta e Maria per la morte del fratello Lazzaro; ha chiamato un pubblicano come suo discepolo; ha subito anche il tradimento di un amico. In Lui Dio ci ha dato la certezza che è con noi, in mezzo a noi. «Le volpi – ha detto Lui, Gesù – le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Gesù non ha casa perché la sua casa è la gente, siamo noi, la sua missione è aprire a tutti le porte di Dio, essere la presenza di amore di Dio.
Nella Settimana Santa noi viviamo il vertice di questo cammino, di questo disegno di amore che percorre tutta la storia dei rapporti tra Dio e l’umanità. Gesù entra in Gerusalemme per compiere l’ultimo passo, in cui riassume tutta la sua esistenza: si dona totalmente, non tiene nulla per sé, neppure la vita. Nell’Ultima Cena, con i suoi amici, condivide il pane e distribuisce il calice "per noi". Il Figlio di Dio si offre a noi, consegna nelle nostre mani il suo Corpo e il suo Sangue per essere sempre con noi, per abitare in mezzo a noi. E nell’Orto degli Ulivi, come nel processo davanti a Pilato, non oppone resistenza, si dona; è il Servo sofferente preannunciato da Isaia che spoglia se stesso fino alla morte (cfr Is 53,12).
Gesù non vive questo amore che conduce al sacrificio in modo passivo o come un destino fatale; certo non nasconde il suo profondo turbamento umano di fronte alla morte violenta, ma si affida con piena fiducia al Padre. Gesù si è consegnato volontariamente alla morte per corrispondere all’amore di Dio Padre, in perfetta unione con la sua volontà, per dimostrare il suo amore per noi. Sulla croce Gesù «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Ciascuno di noi può dire: Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Ciascuno può dire questo "per me".
Che cosa significa tutto questo per noi? Significa che questa è anche la mia, la tua, la nostra strada. Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù non solo con la commozione del cuore; vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi - come dicevo domenica scorsa - per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto. C’è tanto bisogno di portare la presenza viva di Gesù misericordioso e ricco di amore!
Vivere la Settimana Santa è entrare sempre più nella logica di Dio, nella logica della Croce, che non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita. E’ entrare nella logica del Vangelo. Seguire, accompagnare Cristo, rimanere con Lui esige un "uscire", uscire. Uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Dio è uscito da se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci la sua misericordia che salva e dona speranza. Anche noi, se vogliamo seguirlo e rimanere con Lui, non dobbiamo accontentarci di restare nel recinto delle novantanove pecore, dobbiamo "uscire", cercare con Lui la pecorella smarrita, quella più lontana. Ricordate bene: uscire da noi, come Gesù, come Dio è uscito da se stesso in Gesù e Gesù è uscito da se stesso per tutti noi.
Qualcuno potrebbe dirmi: "Ma, padre, non ho tempo", "ho tante cose da fare", "è difficile", "che cosa posso fare io con le mie poche forze, anche con il mio peccato, con tante cose? Spesso ci accontentiamo di qualche preghiera, di una Messa domenicale distratta e non costante, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo questo coraggio di "uscire" per portare Cristo. Siamo un po’ come san Pietro. Non appena Gesù parla di passione, morte e risurrezione, di dono di sé, di amore verso tutti, l’Apostolo lo prende in disparte e lo rimprovera. Quello che dice Gesù sconvolge i suoi piani, appare inaccettabile, mette in difficoltà le sicurezze che si era costruito, la sua idea di Messia. E Gesù guarda i discepoli e rivolge a Pietro forse una delle parole più dure dei Vangeli: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Dio pensa sempre con misericordia: non dimenticate questo. Dio pensa sempre con misericordia: è il Padre misericordioso! Dio pensa come il padre che attende il ritorno del figlio e gli va incontro, lo vede venire quando è ancora lontano… Questo che significa? Che tutti i giorni andava a vedere se il figlio tornava a casa: questo è il nostro Padre misericordioso. E’ il segno che lo aspettava di cuore nella terrazza della sua casa. Dio pensa come il samaritano che non passa vicino al malcapitato commiserandolo o guardando dall’altra parte, ma soccorrendolo senza chiedere nulla in cambio; senza chiedere se era ebreo, se era pagano, se era samaritano, se era ricco, se era povero: non domanda niente. Non domanda queste cose, non chiede nulla. Va in suo aiuto: così è Dio. Dio pensa come il pastore che dona la sua vita per difendere e salvare le pecore.
La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona per aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie - che pena tante parrocchie chiuse! - dei movimenti, delle associazioni, ed "uscire" incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre! E questo con amore e con la tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, ma poi è Dio che li guida e rende feconda ogni nostra azione.
Auguro a tutti di vivere bene questi giorni seguendo il Signore con coraggio, portando in noi stessi un raggio del suo amore a quanti incontriamo.

martedì 26 marzo 2013

Quel «ricordati di me» di tutti noi ladroni perdonati

L’ESEMPIO DI SAN DISMA APRE LA SETTIMANA SANTA 
 La Settimana Santa, la memoria della resurrezione, i giorni dedicati al mistero dei misteri iniziano con il ricordo di un delinquente. Ieri, lunedì santo, era san Disma. Il ladrone. Quello crocefisso con Gesù. Un poco di buono. Uno che aveva meritato il supplizio da schiavo, da rifiuto umano. Uno che si è trovato a gridare insieme a Lui per i chiodi nella mano. E per il respiro che mancava, il respiro che impazziva. E che era lì – come mormora lui stesso – giustamente. Secondo giustizia. Aveva rubato, sfasciato vite, beni, aveva messo le mani dove non doveva. Come tutti noi, io penso. Che siamo un po’ tutti ladri. Di vita, di persone, di cose, di aria, di pensieri. Disma, il primo a entrare in paradiso con Gesù, il primo invitato, volle rubare anche il paradiso. Volle compiere il colpo migliore che gli poteva riuscire. Si dice che l’occasione fa l’uomo ladro. E lui ebbe, mentre nessuno se l’aspettava, proprio la grande occasione. Migliore di tutte le altre in cui era diventato ladro. Così è diventato il più grande ladro della storia. Sul Golgota il suo cuore di cacciatore d’occasioni non lo tradì. E riconobbe che Chi gridava e ansimava vicino non era uno come gli altri.
  Non era come quell’altro che gridava e moriva bestemmiando.
Il cuore di Disma, patrono di noi tutti ladri di vita, fu sveglio e attento alle occasioni fino all’ultimo. E fu schiantato di umiltà, di realismo, fu pieno del rimpianto di dover morire e allora fece l’ultimo furto, trasformando la rapina in invocazione, la delinquenza in mendicanza: ricordati di me...
  Chiese al Morente accanto a lui quel che tutti chiediamo quando diventiamo da ladri mendicanti: ricordati di me. Lo diciamo ai nostri amori, ai nostri cari, lo diciamo al vento, alla notte stellata, a Dio. Ricordati di me. Furto e supplica coincisero sulla bocca insanguinata di Disma.
  Perché aveva riconosciuto, pur in fondo all’orrore, che lì c’era una Presenza nuova, una santa presenza. Più forte di ogni suo male. La Chiesa richiama il senso del peccato, non il senso di colpa. L’esempio del delinquente santo che ci accoglie alla porta della Pasqua è richiamo alla differenza che corre tra il senso del peccato e il senso di colpa, se così si può dire. La nostra è un’epoca piena di senso di colpa. Gli errori stanno come macigni a ingombrare a lungo i rapporti, le coscienze. Una certa diffusa ansia e un certo vasto cinismo hanno radice proprio nel vedere la vita propria o altrui segnata irrimediabilmente da colpe e errori. Anche il ricorso a supporti di tipo psicoterapeutico è motivato spesso dalla necessità di rimuovere macigni di questo genere. Il peccato invece non è 'irrimediabile'. Lo insegna Disma, ladro in croce. La sua invocazione ha per così dire traversato in un baleno ogni senso di colpa, lo ha distrutto diventando senso del peccato. Che è composto dal riconoscimento che c’è una Presenza la quale anche all’ultimo istante, anche nelle condizioni più dure e oscene – sul patibolo! –, può aprire la vita ai suoi giardini sperati. Al paradiso. A Lei ci si rivolge con una supplica senza pudore. Il senso di colpa invece blocca davanti a uno specchio. E fa crescere ansia, rabbia, frustrazione. Disma il ladro è una spina nel fianco a ogni moralismo moderno, al tentativo di sostituire il duro fertile senso del peccato con l’angoscia arida del senso di colpa. La confusione tra i due è stata promossa dalla mentalità borghese, dalla sua presunzione di fare a meno di dover supplicare, coi risultati di ansia e di rigidità psichica che vediamo. Un uomo che non invoca perdono viene divorato dai sensi di colpa, oppure li deve sopire, a qualunque costo. Un grande peccatore che invoca vede invece schiudersi il cielo anche nella condizione più tenebrosa
.
 DAVIDE RONDONI 

lunedì 25 marzo 2013

La Settimana Santa, tempo privilegiato per comprendere la vera speranza, la riconciliazione, la pace

Domenica delle Palme

 

Domenica delle palme nella Passione del Signore

  

Duomo di Milano, 24 marzo 2013


Omelia di S.E.R. Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano



1. «Così dice il Signore Dio: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”» (Zc 9,9). Molti erano i pellegrini radunati a Gerusalemme in occasione della festa della Pasqua ebraica. Saputo che vi stava giungendo anche Gesù, gli corsero incontro accogliendolo come re e messia. Il Vangelo narra l’episodio in modo asciutto ma vivido.
Anche noi, radunati da varie nazioni, abbiamo appena rivissuto questo gesto. Ringrazio con molto calore la comunità filippina che ha voluto essere presente così numerosa. La partecipazione alla liturgia di persone di diverse civiltà e culture che ormai abitano la nostra città è un segno assai prezioso della missione di Milano che Benedetto XVI ci ha assegnato nella recente Visita ad limina: «La Lombardia è chiamata ad essere il cuore credente dell’Europa».
Torniamo ora alla folla acclamante di Gerusalemme. Essa guarda a Gesù come ad un re-guerriero, ad un messia nazionalista che avrebbe liberato Israele dal dominatore romano. Invece Gesù, con il gesto di cavalcare un asinello (il cavallo era la cavalcatura regale in tempo di guerra, l’asino invece in tempo di pace) sconvolge questa loro immagine. Il Suo regno sarà di altra natura.
Come sarà? Per capirlo il Prefazio ci offre un prezioso suggerimento. «Tu hai mandato in questo mondo Gesù, tuo Figlio, a salvarci perché, abbassandosi fino a noi e condividendo il dolore umano, risollevasse fino a te la nostra vita». Non si comprende a fondo l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme se non si tiene presente la Sua passione ormai imminente.

2. Oggi inizia la Settimana Santa (o autentica), cioè eminente, la fonte ed il vertice dell’intero anno liturgico. E noi sappiamo che la liturgia rende attuali, cioè presenti, i fatti della storia della salvezza. La celebrazione sacramentale li offre qui ed ora alla nostra libertà. L’Epistola – il celebre inno cristologico, probabilmente in uso nelle comunità dell’Asia, che Paolo inserisce nella Lettera ai Colossesi – spiega il significato del trionfo di Cristo di cui l’ingresso osannato in Gerusalemme è un anticipo. L’inno parla del «primato di Cristo su tutte le cose» (cfr Col 1,17).
In cosa consiste questo primato? Perché Gesù è più importante di tutto? Perché, in Lui sussistono tutte le cose, create in Lui ed in vista di Lui. Anzitutto ogni uomo e ogni donna. Ognuno di noi. La nostra consistenza, la consistenza della realtà è Gesù stesso. La conferma di questo è la Sua risurrezione dai morti. Egli è il primo perché riconcilia in Sé tutto. Dice l’Inno: «È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,19-20). Gesù il Messia, autore della pace dei cuori e dei popoli, ci riconcilia perché è la misericordia personificata. Perciò speriamo che Egli ci usi presto la Sua misericordia (cfr 2Mac 2,18): «Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono». Questo ci ha richiamato Papa Francesco (Omelia domenica V di Quaresima, 17.03.13). Se Lui ci riscatta, peccatori pentiti, se si rallegra più per un peccatore pentito che per novantanove giusti a cui pentirsi non serve (cfr Lc 15,17), allora accostiamoci, con un atto semplice di libertà, al Sacramento della Riconciliazione per toccare con mano la Pasqua di Gesù speranza nostra!

3. Torniamo ancora una volta, brevemente, all’Inno dell’Epistola per comprendere bene, come ci ha insegnato il Prefazio, il senso dell’Osanna del popolo di Gerusalemme. Dice: Gesù «ci ha pacificato con il sangue della sua croce». Abbiamo il coraggio di prendere sul serio questa affermazione contemplando il Crocifisso, prendendolo fisicamente in mano? O anche noi come la folla quel giorno, ci accontentiamo dell’immagine di un Messia mondano, un Messia onnipotente che eviti e ci eviti di passare per la cruna dell’ago del Golgota? Eppure l’esperienza di ogni uomo e di ogni donna insegna che, nella vita, gioia e dolore sono intrecciati in modo indisgiungibile. Come scrive Paul Claudel: chi conosce la vita «… sa che gioia e dolore in parti uguali la compongono» (L’annuncio a Maria). La fede illumina questa universale esperienza umana, mostrandoci come nel Signore Gesù, la croce è un passaggio obbligato, non però verso il nulla, ma verso la resurrezione. In Lui l’elevazione sulla croce è inseparabile dalla esaltazione nella gloria della resurrezione. Così è anche per noi poveri uomini. Ma proprio qui sta la nostra dignità di uomini consapevoli della loro natura e del loro destino, cioè liberi. I suoi discepoli lo capiranno solo dopo la discesa dello Spirito Santo, quando alla Chiesa (quindi a noi) fu chiaramente rivelato il pieno significato della vita e delle parole di Gesù. Sul momento non compresero: «I suoi discepoli… quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose» (Vangelo, Gv 12,16).
L’episodio dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, proprio perché assunto nel suo pieno valore che comprende la croce in vista della risurrezione, ci dice che per tutte le donne e tutti gli uomini c’è speranza. In modo particolare per quanti sono nella prova fisica o morale. Con le opere di misericordia corporali e spirituali teniamo nel cuore in questa Settimana Santa i malati, i moribondi, i carcerati, gli immigrati, gli smarriti – soprattutto se giovani –, i poveri e gli emarginati di ogni sorta. Cerchiamo di essere con loro ospitali. Possano sentire attraverso di noi l’eco del Dio misericordioso che riconcilia e dà speranza.

4. Un’ultima parola sulla Lettura. «L’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace» (Lettura, Zc 9,10). La profezia di Zaccaria si realizza pienamente nel Signore Gesù.
La pace, frutto eminente della morte e resurrezione del nostro amato Salvatore, diventa possibile per ogni persona, per ogni famiglia, per ogni paese, per ogni popolo, per tutto il mondo se accettiamo di metterci, con umiltà, sulla strada che Lui ha percorso.
E qui la nostra supplica al Signore della pace non può non avere nel cuore le tragiche situazioni di guerre e di violenza che insanguinano il mondo. In particolare vogliamo partecipare al dolore dei cristiani martirizzati mentre partecipavano alla Santa Messa. Quale sfida alla nostra partecipazione spesso abitudinaria!
Diventeremo operatori di pace solo immedesimandoci con Lui, l’autentico operatore di pace. Come? «A noi che innalziamo ulivi e palme nel giorno del trionfo di Cristo, dona di portare frutti di opere giuste in perenne comunione con lui» (Orazione a conclusione della liturgia della Parola).
Inoltriamoci nella settimana “autentica”, la settimana più importante dell’anno, con la fede di Maria, Madre dolorosa e Madre gloriosa

Una speranza per tutti, dialogo sulla Pasqua

scola tv

INTERVISTA  di Marina CORRADI
All’inizio della Settimana Santa l’Arcivescovo indica come “ripartire” da Cristo: «Teniamo il cuore aperto, perché l’amore di Gesù ci sorprende sempre, in mille modi»


«La Pasqua ci introduce a questa esperienza di misericordia, di paternità che vince il nostro peccato e ci ri-spalanca le porte di casa attraverso Cristo». È un invito alla speranza, quello che il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, rivolge ai fedeli ambrosiani all’inizio della Settimana Santa. Con lo sguardo aperto alla Pasqua, Scola riflette sull’inevitabile esperienza umana del dolore e suggerisce: «Prendiamo in mano il Crocefisso: sentiremo nascere in noi la speranza contro ogni speranza».
È la Pasqua dell’Anno della Fede. L’appello di Benedetto XVI era: «Ripartiamo da Cristo». Ma come si fa a ripartire da Cristo? Perché a volte c’è come un diaframma fra questo nostro desiderio e la vita reale. Eminenza, ci dia un’indicazione operativa per ripartire da Cristo, in questa Settimana Santa...
La prima cosa è tenere il cuore aperto, perché l’amore di Gesù ci sorprende sempre. E lo fa in mille modi, attraverso le circostanze. Può essere la domanda di un figlio, può essere una notizia triste, o lieta. Dobbiamo essere molto attenti a ciò che ci accade: perché dietro alle circostanze c’è una mano potente, la mano di un Dio che ha fatto una scelta inimmaginabile, ha scelto di aver bisogno degli uomini. Se appena siamo minimamente sensibili possiamo riconoscere la sua mano. Come una radice. Ecco, bisogna sintonizzarsi con questa radice, stando molto attenti alla realtà tutta.
Papa Francesco, nelle sue prime parole, ha messo un forte accento sulla misericordia. Che cosa fa, la misericordia di Dio, del nostro peccato?
La misericordia è l’amore di un padre che è padre sempre e non viene mai meno, qualunque sia la situazione in cui tu ti sei messo. Un padre che c’è sempre. La Pasqua ci introduce a questa esperienza di misericordia, di paternità che vince il nostro peccato e ci ri-spalanca le porte di casa attraverso Cristo, che è la misericordia in atto.
Addirittura, dice Agostino, la misericordia sa trarre un bene dal nostro peccato...
È la più potente provocazione al dolore per il peccato. Quand’ero bambino, a volte rubavo la cioccolata dalla credenza. Un giorno, voltandomi mentre lo prendevo, vidi lo sguardo di mia madre su di me. C’era in quello sguardo una tristezza amante, per cui io smisi di rubare il cioccolato. Quello sguardo che mi cambiò, era uno sguardo di misericordia.
Papa Francesco ha detto anche: quando camminiamo senza la croce non siamo discepoli di Cristo. Ma perché la croce, il dolore, tocca alla fine ogni uomo?
Abbiamo nel cuore un desiderio di felicità, di compimento, che però non siamo capaci di realizzare da soli. E quindi non c’è possibilità di essere felici senza affrontare questo aspetto d’ombra che è presente nella vita di tutti, e che deriva dal nostro limite. Aspetto d’ombra che è reso più pesante dal nostro peccato; e che è la strada che ci educa lentamente a uscire da noi stessi. Allora la croce diventa una dimensione inevitabile per poter imparare il dono più prezioso della vita, che è l’amore.
Ma cosa si fa, davanti al dolore? Perché ci sta lì, come un inciampo sul cuore...
Occorre abbandonarsi alla mano di Dio. Io ho visto malati terminali dentro un atteggiamento di abbandono assolutamente inconcepibile dal puro punto di vista umano. Ho visto uomini abbandonarsi e guardare al Crocifisso. Io suggerisco a tutti, soprattutto nei giorni del Triduo Pasquale che ci attende, di prendere proprio fisicamente in mano il Crocifisso. Perché il Crocifisso non ha fatto teoria sulla sofferenza, l’ha presa su di sé e l’ha portata fino in fondo. Di fronte alle prove più grandi, quando le nostre parole si spengono, quando si può solo tacere, possiamo solo contemplare l’Uomo della Croce. Ma l’ambito in cui guardare al Crocifisso è una compagnia di persone che ti vogliono bene.
Dobbiamo cercarla, volerla, dunque, questa compagnia?
Quando Gesù, ormai sfigurato sulla Croce, dice alla Madonna: «Donna, ecco tuo figlio», e a Giovanni: «Ecco tua Madre», allora ecco, sotto la Croce nasce una nuova parentela. Più potente di quella della carne e del sangue: questo è il cristianesimo, questa deve essere la Chiesa. Se dentro questa compagnia prenderemo in mano il Crocifisso e guarderemo Gesù, sentiremo nascere in noi la speranza contro ogni speranza.
La Croce di Cristo, dunque, è la speranza. Ma al di fuori di questo, quale speranza vera resta, quale speranza non è illusione?
Cristo è venuto per tutti. E la sua speranza è per tutti. Può prendere poi le mille forme che la libertà umana plasma, perché uno può non riuscire a credere, può avere delle obiezioni, può essere nato dentro un’altra religione. Il punto è che non cessi mai di tenere aperto anche solo di un millimetro... Uno spiraglio. Uno spiraglio per accogliere la realtà: come quando d’estate, sotto il solleone, si tengono tutte le porte e le finestre chiuse e poi, se si apre anche solo di un millimetro la porta, ecco una lama di luce... Che entra. Io sto alla tua porta e busso, dice l’Apocalisse.
E bussa sempre...
E bussa sempre. Papa Francesco, al suo primo Angelus, ha detto una cosa bellissima: «Il Signore non si stanca mai di usare misericordia». Cioè non si stanca mai di venirci incontro. La Pasqua è realmente questo, è realmente una speranza per tutti. È “la” speranza, in assoluto.

INCONTRO DI CASTEL GANDOLFO: QUELLO CHE I MEDIA NON VEDONO



Non è cosa di tutti i giorni vedere due papi conversare, pregare e pranzare fraternamente assieme. Anzi, è decisamente un evento unico, anche se solo uno dei due è il pontefice in carica (l’altro lo è stato ed ora è emerito).
Ma soprattutto non è consueto vedere un’unità così profonda ed è quasi impossibile trovare due uomini che – chiamati a un altissimo ministero – hanno vissuto e vivono questa responsabilità concependosi davvero come “servi” e mettendo se stessi totalmente in secondo piano rispetto a Colui che amano, a cui la Chiesa appartiene (“la Chiesa non è nostra, ma è di Cristo”: è una delle ultime frasi che ci ha lasciato papa Benedetto spiegando la sua rinuncia).
Tuttavia è prevedibile che l’avvenimento di Castel Gandolfo fra Benedetto XVI e papa Francesco rinfocolerà le chiacchiere dei media e lo strologamento su presunti dossier segreti – non è il caso di dire “papelli” – che sarebbero stati consegnati dall’uno all’altro (anche se c’è una smentita ufficiale).
Sui media ben pochi coglieranno la dimensione spirituale di due uomini di Dio che vivono questa particolarissima vicenda. E preferiranno tuffarsi piuttosto sul contorno: le questioni curiali, il rapporto della commissione di tre cardinali sui retroscena di Vatileaks, la coabitazione in Vaticano, le nomine….
I media sono così. Cristiani assolutamente no. Ma clericali sì (e tanto). Sono ostili (di solito) al cattolicesimo e alla Chiesa, ma vanno matti per la Curia e per le chiacchiere di e sulla Curia.
Lo ha dimostrato in queste settimane l’oceanica quantità di articoli e pagine e trasmissioni dedicate alle dimissioni di Benedetto XVI, all’elezione del suo successore e a tutti i presunti retroscena e a ogni immaginabile insinuazione o pettegolezzo o banalità spacciata per scoop.
Tutto questo fiume d’inchiostro non significa attenzione alla Chiesa. Infatti i media sono pressoché indifferenti a ciò che i papi insegnano e vivono, ai contenuti spirituali veri, e soprattutto a quello straordinario mondo sommerso, fuori dai riflettori, che sono le comunità cristiane, dove quell’insegnamento è accolto, dove si sperimenta la fede e l’amicizia di Gesù Cristo spesso in una quotidiana dimensione di santità.
Sono le curie che interessano ai media, non i cristiani (e neanche i santi). Come diceva Charles Péguy le “curie clericali” e le “curie anticlericali” si trovano sempre accomunati dal loro orizzonte, che infine è un orizzonte politico e di potere.
Paradossalmente fra coloro che si possono definire “non clericali” ci sono proprio Joseph Ratzinger e Jorge M. Bergoglio.
Tutta la loro vita dimostra un profondo e assoluto disinteresse per le curie, per il potere, per i ruoli. E il loro desiderio di “servire” la salvezza e la felicità di tutti gli uomini.
Nelle luminose catechesi e omelie di Benedetto XVI c’è – espresso meravigliosamente – il “segreto” di questi due uomini di Dio.
Ricordo due flash degli ultimi mesi: “non porre l’io al posto di Dio” (è esattamente quello che ripete papa Bergoglio quando denuncia la “mondanità” dentro la Chiesa e l’autoreferenzialtà).
E poi il discorso di Benedetto XVI per la festa dell’Immacolata, nel dicembre scorso. Rileggere oggi quelle sue parole è sorprendente, perché sembrano la più perfetta interpretazione di tutti i gesti che in questi giorni ha compiuto papa Francesco commuovendo il mondo.
Papa Benedetto – pensando a Maria, la più umile e la più alta delle creature – pose al centro dell’attenzione proprio i poveri di Dio, tutti coloro che sono nella prova o ai margini della società o si sentono inascoltati e irrilevanti nella storia perché non stanno sotto i riflettori dei media.
Il Santo Padre sottolineò che  quel momento decisivo per il destino dell’umanità, il momento in cui Dio si fece uomo, è avvolto da un grande silenzio. L’incontro tra il messaggero divino e la Vergine Immacolata passa del tutto inosservato: nessuno sa, nessuno ne parla. E’ un avvenimento che, se accadesse ai nostri tempi, non lascerebbe traccia nei giornali e nelle riviste, perché è un mistero che accade nel silenzio. Ciò che è veramente grande passa spesso inosservato”.
Poi aggiunse:
 la salvezza del mondo non è opera dell’uomo – della scienza, della tecnica, dell’ideologia – ma viene dalla Grazia… Maria è chiamata la ‘piena di grazia’ (Lc 1,28) e con questa sua identità ci ricorda il primato di Dio nella nostra vita e nella storia del mondo, ci ricorda che la potenza d’amore di Dio è più forte del male”.
Papa Benedetto aggiunse un’altra perla, che coincide con l’Angelus di papa Francesco su Dio che perdona tutto e perdona sempre:
“Maria ci dice che, per quanto l’uomo possa cadere in basso, non è mai troppo in basso per Dio, il quale è disceso fino agli inferi… per quanto il nostro cuore sia sviato”, aggiunse Ratzinger, “Dio è sempre più grande del nostro cuore (1 Gv 3,20). Il soffio mite della Grazia può disperdere le nubi più nere, può rendere la vita bella e ricca di significato anche nelle situazioni più disumane”.
Il giorno dopo – era una domenica – all’Angelus papa Benedetto tornò a parlare del “vero grande avvenimento, la nascita di Cristo, che i contemporanei non noteranno neppure”. E disse: “Per Dio i grandi della storia fanno da cornice ai piccoli!”.  
Sembra quasi che papa Francesco voglia mostrare ogni giorno quanto è vero quello che papa Benedetto ha annunciato all’umanità.
Del resto papa Francesco, parlando ai diplomatici, pochi giorni fa, ha richiamato esplicitamente la condanna della “dittatura del relativismo” fatta dal predecessore (ed è significativo che molte cronache dei giornali non lo abbiano sottolineato).
Appare dunque evidente l’unità profonda di questi due uomini. Peraltro anche le esortazioni di papa Francesco trovano un esempio meraviglioso nella vita di Benedetto.
La stessa sua rinuncia al pontificato mostra un distacco veramente francescano dalla cose terrene, è l’esempio di umiltà che si può indicare e seguire se si ascolta l’invito di papa Francesco a fuggire la “mondanità spirituale”.
Infatti entrambi questi uomini di Dio hanno individuato nella figura del santo di Assisi la via per la Chiesa di un futuro luminoso. Ratzinger in un libro di molti anni fa scrisse:
“Nella Chiesa del tempo ultimo si imporrà il modo di vivere di san Francesco che, in qualità di ‘simplex’ e ‘illitteratus’, sapeva di Dio più cose di tutti i dotti del suo tempo poiché egli lo amava di più”.
Ed ecco infatti il pontificato di papa Francesco.
Due uomini con storie e temperamenti diversi quanto un pianoforte è diverso da un violino, ma suonano proprio la stessa bellissima opera e l’una voce insieme all’altra creano un’armonia perfetta, che incanta.
Come l’icona della “Madonna dell’umiltà” che il papa ha donato a Ratzinger e che abbraccia insieme questi due figli, prediletti testimoni di Cristo e suoi Vicari nel nostro tempo.

Antonio Socci

Da “Libero”, 24 marzo 2013

domenica 24 marzo 2013

LA COMMOZIONE E LO STUPORE. NOI SORRETTI DA QUELL’AFFIDO

Ratzinger e Bergoglio
Si resta in silenzio, divisi fra la commozio­ne e lo stupore, davanti a quei due uomi­ni vestiti di bianco uno di fronte all’altro, nel­l’eliporto di Castelgandolfo. Si resta zitti, per­ché appena due mesi fa questa immagine sa­rebbe stata impensabile. Nei secoli non è av­venuto mai un simile incontro, fra un Papa e il suo predecessore. Incontro straordinario, che i grandi artisti che hanno lasciato le loro firme a San Pietro avrebbero immortalato, se fosse avvenuto ai tempi loro, in tele podero­se e gravi; invece in questo pomeriggio di marzo non ci sono che le telecamere a fer­mare l’istante, con tecnologica e fredda ob­biettività, dell’abbraccio di Castelgandolfo.
  E tuttavia quell’allargare Papa Francesco, ap­pena sceso dall’elicottero, le braccia in un ge­sto largo, del cuore ('Padre, buongiorno!') verso Benedetto è cronaca che ha già la den­sità della storia; l’abbraccio vigoroso dell’ar­gentino alla figura magra e fragile di Ratzin­ger stampa anche visivamente, agli occhi di noi che guardiamo, un passaggio di consegne tra due uomini che, in Cristo, si vogliono be­ne e fanno, uno sull’altro affidamento.
  Si affida a Francesco, Benedetto, come aven­dogli messo fra le braccia la Chiesa; si affida a Benedetto Francesco, nella certezza della forza di quel 'servizio della preghiera' cui il Papa emerito si è votato. E noi che siamo il popolo di Dio ci sentiamo presi dentro quel­l’abbraccio, quel passaggio di consegne; per quanto mai vista nella storia sia l’immagine che ora tutte le tv del mondo rilanciano, ci sentiamo tranquilli, sorretti, affidati.
  Proprio tra le ultime parole pronunciate in San Pietro, Benedetto aveva citato Romano Guardini: «La Chiesa – aveva detto conge­dandosi dai cardinali – non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino, ma una realtà vivente. Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni essere viven­te, trasformandosi. Eppure, nella sua natura rimane sempre la stessa, e il suo cuore è Cri­sto
 ». La Chiesa una realtà vivente che nel corso del tempo, attraversando il tempo può assume­re forme nuove – come ieri a Castelgandolfo, nell’abbraccio di Francesco e Benedetto; ep­pure, nella sua natura, rimane sempre la stes­sa: corpo di Cristo.E vive. Chiunque la sera del 13 marzo fosse in piazza San Pietro, nella folla che accorreva dopo la fumata bianca, nel martellare gioioso delle campane di Roma; chiunque abbia visto quanta gente veniva a abbracciare, in un uomo che nemmeno conosceva, il Papa non può dubitare di quanto, sotto la crosta di un’apparente implacabile secolarizzazione di massa, viva ancora, magari agli uomini stessi nascosta, la fede, e la domanda, antica, di un padre – nel Vescovo di Roma. Benedetto in quel congedo citava di nuovo Guardini: «La Chiesa si risveglia nelle anime». Non è forse quello che abbiamo visto in questi giorni, a partire dall’attimo in cui il nuovo Papa ha invitato la folla a pregare, e, in un silenzio assoluto, la piazza immensa ha ubbidito? Quei due ieri, il loro grande abbraccio, le poche parole scambiate in un italiano dall’inflessione argentina e tedesca.
  Davanti alla Madonna poi, insieme, in ginocchio, a pregare. Dentro quella forza invisibile che il mondo e le telecamere non vedono; eppure è, e opera, e in questi giorni, da San Pietro alla Sistina a Castelgandolfo. Forza che passando per ogni angolo del mondo, per milioni di semplici case, ha snodato e teso come una rete infinita; in cui senza angoscia, ma certi, quei due vecchi uomini in bianco si son passati, con fede e fiducia, la consegna.
 
 Marina Corradi
 

Gioia, croce, giovani - La Domenica delle Palme di Papa Francesco


Alle ore 9.30 di oggi il Santo Padre Francesco presiede, in Piazza San Pietro, la solenne celebrazione liturgica della Domenica delle Palme e della Passione del Signore.
Al centro della piazza, presso l’obelisco, il Papa benedice le palme e gli ulivi e, al termine della processione che raggiunge il sagrato, celebra la Santa Messa della Passione del Signore.
Alla celebrazione prendono parte, in occasione della ricorrenza diocesana della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù, sul tema: "Andate e fate discepoli tutti i popoli!" (Mt 28, 19) giovani di Roma e di altre Diocesi, come preludio della GMG 2013 che si terrà dal 23 al 28 luglio a Rio de Janeiro (Brasile)

OMELIA DEL SANTO PADRE  1. Gesù entra in Gerusalemme. La folla dei discepoli lo accompagna in festa, i mantelli sono stesi davanti a Lui, si parla di prodigi che ha compiuto, un grido di lode si leva: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli» (Lc 19,38).
Folla, festa, lode, benedizione, pace: è un clima di gioia quello che si respira. Gesù ha risvegliato nel cuore tante speranze soprattutto tra la gente umile, semplice, povera, dimenticata, quella che non conta agli occhi del mondo. Lui ha saputo comprendere le miserie umane, ha mostrato il volto di misericordia di Dio e si è chinato per guarire il corpo e l’anima.
Questo è Gesù. Questo è il suo cuore che guarda tutti noi, che guarda le nostre malattie, i nostri peccati. E’ grande l’amore di Gesù. E così entra in Gerusalemme con questo amore, e guarda tutti noi. E’ una scena bella: piena di luce - la luce dell’amore di Gesù, quello del suo cuore - di gioia, di festa.
All’inizio della Messa l’abbiamo ripetuta anche noi. Abbiamo agitato le nostre palme. Anche noi abbiamo accolto Gesù; anche noi abbiamo espresso la gioia di accompagnarlo, di saperlo vicino, presente in noi e in mezzo a noi, come un amico, come un fratello, anche come re, cioè come faro luminoso della nostra vita. Gesù è Dio, ma si è abbassato a camminare con noi. E’ il nostro amico, il nostro fratello. Qui ci illumina nel cammino. E così oggi lo abbiamo accolto. E questa è la prima parola che vorrei dirvi: gioia! Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti! E in questo momento viene il nemico, viene il diavolo, mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola. Non ascoltatelo! Seguiamo Gesù!  Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo nostro mondo. E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù.
2. Ma ci chiediamo: Seconda parola. Perché Gesù entra in Gerusalemme, o forse meglio: come entra Gesù in Gerusalemme? La folla lo acclama come Re. E Lui non si oppone, non la fa tacere (cfr Lc 19,39-40). Ma che tipo di Re è Gesù? Guardiamolo: cavalca un puledro, non ha una corte che lo segue, non è circondato da un esercito simbolo di forza. Chi lo accoglie è gente umile, semplice, che ha il senso di guardare in Gesù qualcosa di più; ha quel senso della fede, che dice: Questo è il Salvatore. Gesù non entra nella Città Santa per ricevere gli onori riservati ai re terreni, a chi ha potere, a chi domina; entra per essere flagellato, insultato e oltraggiato, come preannuncia Isaia nella Prima Lettura (cfr Is 50,6); entra per ricevere una corona di spine, un bastone, un mantello di porpora, la sua regalità sarà oggetto di derisione; entra per salire il Calvario carico di un legno. E allora ecco la seconda parola: Croce. Gesù entra a Gerusalemme per morire sulla Croce. Ed è proprio qui che splende il suo essere Re secondo Dio: il suo trono regale è il legno della Croce! Penso a quello che Benedetto XVI diceva ai Cardinali: Voi siete principi, ma di un Re crocifisso. Quello è il trono di Gesù. Gesù prende su di sé... Perché la Croce? Perché Gesù prende su di sé il male, la sporcizia, il peccato del mondo, anche il nostro peccato, di tutti noi, e lo lava, lo lava con il suo sangue, con la misericordia, con l’amore di Dio. Guardiamoci intorno: quante ferite il male infligge all’umanità! Guerre, violenze, conflitti economici che colpiscono chi è più debole, sete di denaro, che poi nessuno può portare con sé, deve lasciarlo. Mia nonna diceva a noi bambini: il sudario non ha tasche. Amore al denaro, potere, corruzione, divisioni, crimini contro la vita umana e contro il creato! E anche - ciascuno di noi lo sa e lo conosce -  i nostri peccati personali: le mancanze di amore e di rispetto verso Dio, verso il prossimo e verso l’intera creazione. E Gesù sulla croce sente tutto il peso del male e con la forza dell’amore di Dio lo vince, lo sconfigge nella sua risurrezione. Questo è il bene che Gesù fa a tutti noi sul trono della Croce. La croce di Cristo abbracciata con amore non mai porta alla tristezza, ma alla gioia, alla gioia di essere salvati e di fare un pochettino quello che ha fatto Lui quel giorno della sua morte.
3. Oggi in questa Piazza ci sono tanti giovani: da 28 anni la Domenica delle Palme è la Giornata della Gioventù! Ecco la terza parola: giovani! Cari giovani, vi ho visto nella processione, quando entravate; vi immagino a fare festa intorno a Gesù, agitando i rami d’ulivo; vi immagino mentre gridate il suo nome ed esprimete la vostra gioia di essere con Lui! Voi avete una parte importante nella festa della fede! Voi ci portate la gioia della fede e ci dite che dobbiamo vivere la fede con un cuore giovane, sempre: un cuore giovane, anche a settanta, ottant’anni! Cuore giovane! Con Cristo il cuore non invecchia mai! Però tutti noi lo sappiamo e voi lo sapete bene che il Re che seguiamo e che ci accompagna è molto speciale: è un Re che ama fino alla croce e che ci insegna a servire, ad amare. E voi non avete vergogna della sua Croce! Anzi, la abbracciate, perché avete capito che è nel dono di sé, nel dono di sé, nell’uscire da se stessi, che si ha la vera gioia e che con l’amore di Dio Lui ha vinto il male. Voi portate la Croce pellegrina attraverso tutti i continenti, per le strade del mondo! La portate rispondendo all’invito di Gesù «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (cfr Mt 28,19), che è il tema della Giornata della Gioventù di quest’anno. La portate per dire a tutti che sulla croce Gesù ha abbattuto il muro dell’inimicizia, che separa gli uomini e i popoli, e ha portato la riconciliazione e la pace. Cari amici, anch’io mi metto in cammino con voi, da oggi, sulle orme del beato Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ormai siamo vicini alla prossima tappa di questo grande pellegrinaggio della Croce. Guardo con gioia al prossimo luglio, a Rio de Janeiro! Vi do appuntamento in quella grande città del Brasile! Preparatevi bene, soprattutto spiritualmente nelle vostre comunità, perché quell’Incontro sia un segno di fede per il mondo intero. I giovani devono dire al mondo: è buono seguire Gesù; è buono andare con Gesù; è buono il messaggio di Gesù; è buono uscire da se stessi, alle periferie del mondo e dell’esistenza per portare Gesù! Tre parole: gioia, croce, giovani.
Chiediamo l’intercessione della Vergine Maria. Lei ci insegna la gioia dell’incontro con Cristo, l’amore con cui lo dobbiamo guardare sotto la croce, l’entusiasmo del cuore giovane con cui lo dobbiamo seguire in questa Settimana Santa e in tutta la nostra vita. Così sia.
Bollettino sala stampa della  Santa Sede

sabato 23 marzo 2013

«Costruire ponti con Dio e tra gli uomini»

Discorso che papa Francesco ha rivolto ieri matti­na nella Sala Regia del Palazzo Aposto­lico Vaticano, ai componenti del corpo di­plomatico accreditato presso la Santa Se­de.

Eccellenze,
 signore e signori, 
rin­grazio di cuore il vostro Decano, ambasciatore Jean-Claude Mi­chel, per le belle parole che mi ha ri­volto a nome di tutti e con gioia vi ac­colgo per questo scambio di saluti, semplice ma nello stesso tempo in­tenso, che vuole essere idealmente l’abbraccio del Papa al mondo. Attra­verso di voi, infatti, incontro i vostri popoli, e così posso, in un certo sen­so, raggiungere ciascuno dei vostri concittadini, con le sue gioie, i suoi drammi, le sue attese, i suoi desideri. 
La vostra numerosa presenza è an­che un segno che le relazioni che i vostri Paesi intrattengono con la Santa Sede sono proficue, sono dav­vero un’occasione di bene per l’uma­nità. È questo, infatti, che sta a cuore alla Santa Sede: il bene di ogni uomo su questa terra! Ed è proprio con que­sto intendimento che il vescovo di Ro­ma inizia il suo ministero, sapendo di poter contare sull’amicizia e sull’af­fetto dei Paesi che voi rappresentate, e nella certezza che condividete tale proposito. Allo stesso tempo, spero sia anche l’occasione per intrapren­dere un cammino con quei pochi Pae­si che ancora non intrattengono rela­zioni diplomatiche con la Santa Sede, alcuni dei quali - li ringrazio di cuore - hanno voluto essere presenti alla Messa per l’inizio del mio ministero, o hanno inviato messaggi come gesto di vicinanza. 
C
ome sapete, ci sono vari moti­vi per cui ho scelto il mio no­me pensando a Francesco di As­sisi, una personalità che è ben nota al di là dei confini dell’Italia e dell’Eu­ropa e anche tra coloro che non pro­fessano la fede cattolica. Uno dei pri­mi è l’amore che Francesco aveva per i poveri. Quanti poveri ci sono anco­ra nel mondo! E quanta sofferenza in­contrano queste persone! Sull’esem­pio di Francesco d’Assisi, la Chiesa ha sempre cercato di avere cura, di cu­stodire, in ogni angolo della Terra, chi soffre per l’indigenza e penso che in molti dei vostri Paesi possiate consta­tare la generosa opera di quei cristia­ni che si adoperano per aiutare i ma­­lati, gli orfani, i senzatetto e tutti co­loro che sono emarginati, e che così lavorano per edificare società più u­mane e più giuste.
 Ma c’è anche un’altra povertà! È la povertà spirituale dei no­stri giorni, che riguarda gra­vemente anche i Paesi considerati più ricchi. È quanto il mio predecessore,
 Mil caro e venerato Benedetto XVI, chia­ma la «dittatura del relativismo», che lascia ognuno come misura di se stes­so e mette in pericolo la convivenza tra gli uomini. E così giungo ad una seconda ragione del mio nome. Fran­cesco d’Assisi ci dice: lavorate per edi­ficare la pace! Ma non vi è vera pace senza verità! Non vi può essere pace vera se ciascuno è la misura di se stes­so,
 Sull’esempio del Poverello Francesco ha ricordato agli ambasciatori che non c’è «pace vera senza verità» e che occorre «lavorare per edificarla»

  se ciascuno può rivendicare sem­pre e solo il proprio diritto, senza cu­rarsi allo stesso tempo del bene degli altri, di tutti, a partire dalla natura che accomuna ogni essere umano su que­sta terra.
 
 
U
no dei titoli del vescovo di Ro­ma è Pontefice, cioè colui che costruisce ponti, con Dio e tra gli uomini. Desidero proprio che il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell’altro non un nemi­co, non un concorrente, ma un fratel­lo da accogliere ed abbracciare! Le mie stesse origini poi mi spingono a lavo­rare per edificare ponti. Infatti, come sapete la mia famiglia è di origini ita­liane; e così in me è sempre vivo que­sto dialogo tra luoghi e culture fra lo­ro distanti, tra un capo del mondo e l’altro, oggi sempre più vicini, inter-
 dipendenti, bisognosi di incontrarsi e di creare spazi reali di autentica fra­ternità.
 
 In quest’opera è fondamentale anche il ruolo della religione. Non si posso­no, infatti, costruire ponti tra gli uo­mini, dimenticando Dio. Ma vale an­che il contrario: non si possono vive­re legami veri con Dio, ignorando gli altri. Per questo è importante intensi­ficare il dialogo fra le varie religioni, penso anzitutto a quello con l’islam, e ho molto apprezzato la presenza, durante la Messa d’inizio del mio mi­nistero, di tante autorità civili e reli­giose del mondo islamico. Ed è pure importante intensificare il confronto con i non credenti, affinché non pre­valgano mai le differenze che separa­no e feriscono, ma, pur nella diver­sità, vinca il desiderio di costruire le­gami veri di amicizia tra tutti i popo­li.
 
 
Lottare contro la povertà sia ma­teriale, sia spirituale; edificare la pace e costruire ponti. Sono co­me i punti di riferimento di un cam­mino al quale desidero invitare a pren­dere parte ciascuno dei Paesi che rap­presentate
. Un cammino difficile però, se non impariamo sempre più ad a­mare questa nostra Terra. Anche in

 Per il Papa non vi può essere pace autentica «se ciascuno è la misura di se stesso, senza curarsi allo stesso tempo del bene degli altri, di tutti»

 questo caso mi è di aiuto pensare al nome di Francesco, che insegna un profondo rispetto per tutto il creato, il custodire questo nostro ambiente, che troppo spesso non usiamo per il bene, ma sfruttiamo avidamente a danno l’uno dell’altro.
 
 
C
ari ambasciatori, signore e si­gnori, grazie ancora per tutto il lavoro che svolgete, insieme al­la Segreteria di Stato, per costruire la pace ed edificare ponti di amicizia e di fraternità. Attraverso di voi, deside­ro rinnovare ai vostri governi il mio grazie per la loro partecipazione alle celebrazioni in occasione della mia e­lezione, con l’auspicio di un fruttuo­so lavoro comune. Il Signore Onni­potente ricolmi dei suoi doni ciascu­no di voi, le vostre famiglie e i popo­li
 che rappresentate. Grazie!
© Bollettino Santa Sede - 22 marzo 2013

Francesco non è progressista o conservatore. Ma un uomo «meravigliato da Cristo»


Dal giorno dell’elezione a successore di Pietro, su Papa Francesco si sono sentiti molti commenti e non sono mancati i tentativi di ingabbiarlo in definizioni che non lo rappresentano. Ma per parlare di lui basterebbe leggere e usare le sue parole: un uomo «meravigliato della persona di Cristo».
Pauperista, riformatore, progressista, il Papa del cambiamento e così via. Categorie che non tengono in considerazione la cosa più importante: Papa Francesco è un uomo di fede, di una fede profonda che è portone d’ingresso di un sano realismo e della capacità di guardare l’umana avventura nella sua unità e trascendenza.
Per rendersene conto basta leggere le sue omelie e discorsi al popolo di Buenos Aires, città che l’ha visto arcivescovo fino al tardo pomeriggio del 13 marzo e in particolare i dialoghi di carattere politico, sociale ed economico.
COS’E’ L’UOMO? Il Papa parte sempre dalla domanda fondamentale, come spiegava nel 1999 in uno dei suoi primi incontri da Arcivescovo, all’Associazione cristiana imprenditori: «l’uomo ha bisogno di sapere che cosa è, e deve imparare ad essere quello che è. L’uomo è un dato come essenza e natura, ma deve essere compiuto, deve essere realizzato. È questo processo di umanizzazione che noi chiamiamo educazione».
LA DITTATURA DEL RELATIVISMO. Prosegue il Papa con un’analisi dettagliata della secolarizzazione in alcune sue caratteristiche: parla di relativismo negli stessi modi con cui il cardinal Ratzinger ne delineò i pericoli qualche anno dopo nella Missa pro eligendo Pontifice che anticipò il Conclave che lo elesse Benedetto XVI. «Vi è una riduzione dell’etica e della politica alla fisica dove non esiste il bene e il male in sé, ma solo un calcolo di ciò che è vantaggioso o svantaggioso. Lo spostamento della ragione morale trae come conseguenza che il diritto non può riferirsi ad un’immagine fondamentale di giustizia, ma diventa lo specchio delle idee dominanti». Prosegue l’ex arcivescovo argentino nel criticare la riduzione della ragione quantitativa e della mentalità tecnicista: caratteristiche dell’uomo gnostico che è «possessore di conoscenza, ma privo di unità» che si rifugia nell’esoterico e nel profano.
LA CULTURA DELL’INCONTRO E DELLA MEMORIA. Bergoglio nel 1999 non si limitava alla pura analisi, ma proponeva alla platea una soluzione: «abbiamo bisogno di creare una cultura dell’incontro» in grado di abbracciare la centralità dell’uomo e della donna nella loro appartenenza alla storia e alla cultura. Non si può educare separati dalla memoria. Memoria intesa come «il nucleo vitale di una famiglia e di un popolo».
UNA CONTINUITA’ DI PENSIERO. La linea pastorale del futuro Papa non è cambiata negli anni e durante l’ultima festa nazionale del 25 maggio dove si celebra in cattedrale  il Te Deum, il cardinal Bergoglio si è nuovamente espresso contro il relativismo che è «curiosamente assolutista e totalitario» e ponendosi contro “l’ideologia unica del potere” ha contrapposto il messaggio evangelico: il potere dell’amore come servizio. «Se i pregiudizi ideologici deformano lo sguardo sul prossimo e sulla società in base alle proprie sicurezze e paure, il potere fatto ideologia unica accentua l’interpretazione persecutoria e pregiudiziale secondo cui “tutte le posizioni sono uno schema di potere” e che “tutte cercano di predominare sulle altre”. Così si erode la fiducia sociale che è la radice del frutto dell’amore».
LA MERAVIGLIA DELL’INCONTRO CON CRISTO. Nel 2002, in un’intervista a Gianni Valente comparsa sul mensile 30Giorni esprimeva l’unico caposaldo per la convivenza nella società: «L’esperienza cristiana non è ideologica. È segnata da una originalità non negoziabile. Che nasce dallo stupore dell’incontro con Gesù Cristo, dal meravigliarsi della persona di Gesù Cristo. E questo il nostro popolo lo mantiene, e lo manifesta nella pietà popolare. Tanto le ideologie di sinistra quanto questo imperialismo economico del denaro ora trionfante cancellano l’originalità cristiana dell’incontro con Gesù Cristo che tanti nel nostro popolo vivono ancora nella loro semplicità di fede».
Twitter:@giardser