Ma Francesco è anche il nome di un poeta. E la poesia autentica è antiretorica.
Come è stato da subito antiretorico il saluto del nuovo Papa dalla Loggia di San Pietro, e il suo inchinarsi. Come è stato antiretorico, ieri mattina, il suo racconto ai giornalisti del modo in cui quel nome gli è «entrato nel cuore» quando lo scrutinio nel corso del Conclave lo aveva già eletto, ma non si era ancora concluso. Il nome di Francesco era, nei momenti prima dell’annuncio, quasi atteso. Come se nel disperso e confuso popolo che trovava voce in piazza o nelle tante piazze virtuali tutte collegate alla casa di Pietro, si auspicasse che chiunque fosse Papa si ricordasse di quel nome che sta nei tornanti della storia della Chiesa come un respiro, un canto, una stoffa grezza ma forte.
L’assunzione di questo nome, speriamo porti anche alla liberazione di questo nome santo dalla tanta retorica dolciastra che gli è colata addosso nei secoli, con la complicità di tanti rètori. Che si possa scoprire la durissima decisione di quell’uomo, la petrosa sua tempra, la sua anima abissale e perciò confidente e lieta. Il povero di Assisi era anche poeta, e di rara qualità. Il suo Cantico delle creature sta tra le opere matrici della letteratura occidentale. Mette in scena l’universo come motivo di lode. In questa sottolineatura di un 'motivo di lode' per la esistenza stessa delle creature si fissa uno dei punti più esplosivi rispetto alla mentalità dominante, nonché uno dei cardini del pensiero cristiano. La mancanza di capacità di 'lode' o se vogliamo usare un termine affine, la mancaza di 'gratitudine' per il fatto stesso di esistere è uno dei vuoti, dei buchi in cui affonda, come in una sabbia mobile, la possibilità stessa di pensare il mondo, di conoscerlo e di conoscere se stessi.
L’uomo arido di lode per le creature è diventato incapace di apprezzare la propria stessa esistenza. Un grande poeta del Novecento, Wystan H. Auden, ricorda che la poesia consiste nel rendere onore a quel che esiste. Chi oggi plaude all’assunzione del nome di Francesco dovrà far i conti con questa profonda radice di pensiero. Si può tornare a guardare con commossa, drammatica e radicale gratitudine l’esistenza? Si può uscire dalla perplessa e aspra considerazione della vita come una specie di arresti domiciliari? Insomma, da quel modo di pensare non necessariamente strutturato in sistema di idee, ma ramificato in tanti luoghi comuni e accenti, che considera la vita una specie di brutto tiro del destino, un luogo dove siamo capitati e dove i più fortunati sono almeno allietati da salute e successo mentre coloro che sono colpiti da insanità o sventura quasi non si capisce perché mai debbano continuare a esistere.
Francesco non aveva dubbi: essere qui, nel mondo, tra le creature, è un motivo di letizia, di lode. La sua 'perfetta letizia' non consisteva in una beota spensieratezza. Ma nasceva dal custodire in cuore un motivo invincibile di gioia: Cristo, il Dio che cammina con la croce, che muore d’amore per le sue creature e le trascina verso la vita. Come ogni poeta e soprattutto come ogni santo Francesco sapeva che nella scena del mondo c’è l’orrore, la discordia, la fatica e la sofferenza. Baciò il lebbroso, parlò con il lupo. Nel suo Cantico delle creature il poeta Francesco dice che l’uomo in questa grande scena è motivo di lode in quanto soffre e sa perdonare.
L’uomo che soffre e perdona è il culmine del creato, la cosa più vertiginosamente bella. Ciò che non è frutto di nessuna combinazione chimica o di meccanismi causa-effetto. Il santo, il poeta Francesco d’Assisi lo sapeva. Papa Francesco lo sa, e già sfida la retorica del mondo. DAVIDE RONDONI
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