venerdì 27 febbraio 2015

Giussani, uomo di Dio


E0000611ElioCiolDon Giussani è stato un genio dell’umano. A questa conoscenza dell’uomo egli è arrivato attraverso molte strade. Certamente attraverso una sua capacità di osservazione e penetrazione, attraverso l’ascolto, ma anche attraverso tanti maestri: i suoi insegnanti di seminario; i grandi della letteratura, della musica, dell’arte; e anche noi stessi, perché egli ha accettato di imparare (quasi di rubare) qualcosa da chiunque. La sua conoscenza dell’uomo, che ha descritto ne Il senso religioso attraverso un’apologia della ragione e del cuore, lo ha reso capace di dire cose che possono interessare persone di ogni cultura, etnia, tradizione. È stato un uomo che cercava se stesso in ogni uomo, curioso dell’umanità di tutti e assieme un uomo che mendicava Cristo in ogni cosa. Così ne è diventato testimone. In lui ogni istante era avvenimento. Lo animava profondamente la tensione a non vivere mai nulla come scontato, come abitudine, ma come domanda a una Presenza.
L’opera dello Spirito suscita il dono di ciascuno. Don Giussani ha contribuito a suscitare il dono personale in migliaia e migliaia di uomini e donne. Non ha creato una realtà massificata, in cui tutti erano uguali, come sotto un coperchio, ma ha generato una realtà variegata, ricca delle personalità diverse che lui ha evocato e che ha condotto all’unità. Questa è veramente l’opera divina. I grandi uomini della terra sono capaci di chiamare al proprio fianco persone valide, ma non sono capaci di condurre a unità le differenze. Invece il segno profondo che ciò che è nato intorno a don Giussani è opera dello Spirito, è proprio l’unità. Egli ha creato un popolo. Questo è profondamente divino.
La potenza culturale di don Giussani era enorme. Descriveva fin dall’inizio la sua idea di cultura commentando la frase di san Paolo ai Tessalonicesi: Vagliate ogni cosa, trattenete ciò che è buono (1Ts 5, 21). Ci ha educati a fare della fede un incontro con la realtà. Dall’incontro con Cristo per Giussani nasce una cultura nuova, chiamata ad incidere negli ambienti in cui vivono gli uomini. Essa divenne una delle tre dimensioni che, insieme alla carità e alla missione, costituì l’anima della nuova GS nata intorno a lui.
Ci ha sempre educati alla carità. Tutto infatti nasce dalla carità, dal nostro cuore che accetta di condividere la vita con quella degli altri, come Dio ha condiviso la nostra. Le opere di carità nate da don Giussani sono tantissime: scuole, centri di accoglienza, associazioni di famiglie, iniziative missionarie. Già dalla fine degli anni Sessanta aveva pensato a una missione in Brasile. Fu sicuramente un’apertura importante perché egli era convinto della necessità della missione come vero ecumenismo: condividere con altri fratelli che vivono in orizzonti lontani e diversi quello che viviamo noi.
Tutta l’esistenza di Giussani è stata dedicata a documentare il metodo della trasmissione del cristianesimo. Una sintonia impressionante con quello che fu il tentativo del Concilio Vaticano II, un concilio pastorale voluto per indicare la strada attraverso cui vivere il cristianesimo. Desiderava lanciare i giovani verso il futuro, voleva portare un cambiamento, non una rivoluzione, una novità nella continuità. Tema centrale di questo passaggio verso una tradizione rinnovata è stato l’esperienza dell’autorità. Egli ne fu un estremo sostenitore, soprattutto dopo il Sessantotto, quando essa fu duramente contestata. Era fermamente convinto che senza autorità non c’è educazione, perché educare è trasmettere qualcosa che si è ricevuto. Combatté tuttavia anche ogni forma di autoritarismo e di clericalismo, mettendo in luce il valore affettivo dell’autorità.
Don Giussani resta presente in mezzo a noi in molti modi. Attraverso il suo insegnamento, che è ben lungi dall’essere stato scoperto in modo esauriente. Attraverso l’opera di conversione di intere esistenze umane. Un insegnamento vero, autentico, mira infatti al cambiamento dell’esistenza. Resta presente, dunque, attraverso il popolo che da lui è nato. Attraverso tutto ciò che il fiume dello Spirito, incontrandosi con la storia, farà sorgere ancora dal suo dono. 
mons. Massimo Camisasca

La più grave mancanza è che non sentiamo l'umano

È uscito "Un'attrattiva che muove", a cura di Alberto Savorana, che raccoglie gli interventi di quarantadue personaggi alle presentazioni della biografia di don Giussani. Qui, quello del direttore di "Repubblica"

Ho avuto l’occasione di leggere in anteprima questo immane lavoro di raccolta delle tracce e delle testimonianze relative alla vita di don Giussani. Il mio, naturalmente, è il punto di vista di un laico che ha incontrato don Giussani nel modo più semplice e più naturale possibile per entrambi, cioè attraverso l’amicizia. Abbiamo un grande amico in comune, Angelo Rinaldi, con il quale lavoro da più di vent’anni; e come ho potuto constatare quando sono andato a incontrare don Giussani, Angelo aveva un rapporto di amicizia fortissimo con lui. Quando don Julián Carrón parla del sentimento di paternità di don Giussani - nel discorso funebre nel Duomo di Milano lo definì «più padre che mai» (p. 1192) -, mi viene in mente quel giorno.
In realtà avevo incontrato don Giussani molto prima, pur senza conoscerlo di persona, quando, oltre venticinque anni fa, avevo realizzato una lunga inchiesta per «La Stampa», il giornale in cui lavoravo allora, su Comunione e Liberazione. Avevo le stesse idee che ho oggi, dunque ero esterno al mondo della Chiesa, ma guardavo con interesse al cristianesimo, cercavo di leggere, di studiare e di capire per quel che potevo. Don Giussani era dominato dalla figura del Figlio, dalla figura di Cristo, ma all’epoca del nostro incontro, il 1996, io ero interessato soprattutto alla figura del padre: avevo già dei figli, c’era ancora mio padre, ero consapevole del sentimento della generazione; mi trovavo nella situazione in cui, per la prima volta dopo gli anni della giovinezza, si pensa a dare senza necessariamente ricevere in cambio, o almeno senza chiedere nulla; in cui si cerca di educare i propri figli a dei valori, ma anche alla libertà e all’autonomia. Non sapevo ancora, l’ho scoperto dal libro di Alberto, come don Giussani parla del padre. In una circostanza si riferisce al Padre con la maiuscola: «L’Essere è cosi padre di ciò che crea che entra in familiare rapporto con ciò che crea» (p. 26); in un’altra parla invece del padre terreno, che è così piantato dentro ognuno di noi che non ha importanza se ce ne accorgiamo soltanto quando non c’è più: «Il padre [...] è il segno immediato del Mistero che ci ha fatti. [...] Questa è la forza per cui, invece, un altro ha scoperto il proprio padre man mano che il tempo passava dopo la sua morte; e adesso l’ha piantato dentro di sé, e rinascono in lui ricordi che non aveva mai avuti, particolari che non aveva mai sottolineati. E, parlasse a tutto il mondo, direbbe: “Mio papà... Mio padre...”» (p. 27); Giussani parlava del rapporto che aveva con suo padre....
Il cristianesimo come avvenimento e l’entusiasmo per Cristo
Ho scoperto che per don Giussani il rapporto fondamentale era con la figura di Cristo. È un’avventura umana, la sua, dominata da Cristo, che lo porta a teorizzare la venuta di Cristo che si fa uomo come un avvenimento. Di conseguenza, parla del cristianesimo non come una filosofia, non come un’ideologia e neanche come un insieme di precetti o di valori astratti, ma come qualcosa che è accaduto, un accadimento, qualcosa che è collocato in un punto preciso dello spazio e del tempo: duemila anni fa, Betlemme. E questo avvenimento, per Giussani, è reso contemporaneo dalla Resurrezione, che per chi crede rende perenne la venuta salvifica di Dio sulla terra attraverso Cristo. Nella concezione del cristianesimo come avvenimento la scelta divina viene coniugata profondamente con l’umano, perché la scelta che privilegia l’uomo non dà un senso al creato, 

 perché questo lo aveva già prima di Cristo, ma dà un destino al creato, e per compiersi ha bisogno di un «sì», di un’accettazione. Perciò chiama in causa la libertà dell’uomo, a cui si rivolge con questa scelta di privilegio, per chi crede. Dio chiama in causa la libertà, l’autonomia dell’uomo e il «sì» è quello pronunciato da Maria, come ricorda Giussani citando il Vangelo: «Accada di me secondo la tua parola». In questo senso, l’avvenimento è una scelta, in qualche modo è una scelta da entrambe le parti e conferma ciò che Giussani dirà lungo lo svolgimento del suo pensiero: Dio ha bisogno degli uomini, ha bisogno della responsabilità e della risposta dell’uomo, di una sua scelta autonoma di adesione. È come il «sì» di Pietro, ricorderà più volte Giussani. Ma anche come l’altra domanda suprema che Cristo rivolge ai discepoli: «Ma voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15; Mc 8,29), dopo che essi si erano domandati: «Chi è costui che parla ai venti e al mare, ed è in grado di placare anche la tempesta?» (cfr. Mc 4,41). Un Dio che ha bisogno degli uomini, e dunque si potrebbe dire - mi è venuto in mente leggendo le parole di Giussani - che la creazione continua anche oltre il settimo giorno, perché prosegue questa interpellanza reciproca tra Dio e ciò che ha creato, l’uomo. Questa creazione continua, a cui ci richiama don Giussani, non può non interessare anche chi non crede, perché chiama in causa la libertà dell’uomo, la sua libera partecipazione, perché mette il finito in relazione con l’infinito. In questo contesto l’uomo non è solo strumento, ma è anche soggetto, parte attiva di questo avvenimento che è al centro del pensiero di Giussani. Il libro ripercorre l’avventura di Giussani dalla nascita fino alla morte e alle reazioni che ci sono state dopo la morte, passando per la scelta di don Carrón come successore («La nostra forza, il nostro carisma, è l’unita fra me e Carrón. [...] Seguite Carrón» p. 1167, come a dire: «Seguitemi in don Carrón, fate riferimento a don Carrón»), sottolineando l’unità con don Carrón. Tutta la vita di Giussani è percorsa dall’idea del Dio-persona perenne, quindi di una presenza che si può incontrare. E naturalmente quando la incontri ti cambia radicalmente la vita, dice Giussani, perché potremmo dire con lui che non potrai più mangiare e bere come prima: cambia l’esistenza fino a «trascinare dentro il mio sguardo a Cristo la cosa che ho tra [le] mani: il mangiare e il bere, il vegliare e il dormire» (p. 882). E così l’uomo ha la possibilità di cercare il centuplo in questa vita, mentre guarda alla vita eterna. Nel libro ci sono frasi di Giussani, che ho trascritto, riportate su bigliettini, brani di omelie, interventi rivolti al movimento, discorsi pubblici svolti in varie sedi, che ricordano i Salmi: dicendo che «è la vita della mia vita, Cristo» (p. V), parla del suo entusiasmo per Cristo. Oppure, citando il retore romano Vittorino, ripete: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo» (p. 207); ricordando quando salì i gradini del liceo Berchet il primo giorno di scuola: «Noi siamo nati non per rispondere alle emergenze: siamo nati per dire che è venuto Cristo» (p. XI). Perciò «quando si dimentica che Cristo è la chiave di tutto» dichiara alla vigilia del Sessantotto «il cristianesimo diventa zero» (p. 384). Questa mi pare la ragione per cui Giussani ha sempre combattuto contro la riduzione intellettualistica, associazionistica e moralistica dell’esperienza cristiana. E ancora, per Giussani che Dio sia diventato uomo è «una cosa dell’altro mondo che vive in questo mondo!», per cui «questo mondo diventa diverso, più sopportabile» (p. 89). Aggiunge che Cristo «non è semplice nome, non è personaggio del passato: [...] è Persona viva» (p. 123), e qui ricorda san Luca quando dice: «Perché cercate tra i morti colui che vive?». Quindi spiega, su questo filo di pensiero, che allora non è un’organizzazione cha salva, ma una persona. Per questo il cristianesimo non è innanzitutto un catechismo, ma una storia nata dal «coinvolgimento che Dio ha fatto con noi. [...] Non è la gente in gamba che costruiva, che faceva progetti e avventure, imprese, ma era l’obbedienza alla parola di Jahvè» (p. 427).
 Di fronte a un cristianesimo che non era più risposta alle domande della vita
 Per concludere questa mia riflessione sul senso di pervasività di Cristo, osservo che per Giussani l’avvenimento cristiano è parte della storia dell’umanità ed è «un fatto che non vi potete strappare più di dosso» (p. 567). Questa concezione della fede, che si trasforma immediatamente in una concezione della vita, per cui cerca la fede attraverso la realtà della vita, si scontra con una situazione della Chiesa, del cristianesimo nel nostro Paese, che quando comincia la sua azione e anche negli anni successivi Giussani descrive con parole pesanti: «Il mistero di Cristo e della Chiesa era dato per scontato», la presenza cristiana era realizzata «in nome di Cristo e della Chiesa», ma quella intenzione non diventava «criterio di giudizio, sorgente determinante il sentimento e indicazione del modo del comportamento e dell’azione» (p. 155). Insomma, è una fede di sopravvivenza, che vive nei riti, nel decalogo, nelle formule, ma non ha più un fondamento umano nel senso religioso, e quindi non è più consapevole. Naturalmente ci sono le messe, ci sono le confessioni, «c’erano i preti che facevano scuola di religione, poi c’erano tutti i battezzati», dice Giussani, al Berchet «su 1.200 certamente più di 1.000 erano battezzati» (p. 164), moltissimi vanno a messa. Giussani si rende conto che la messa, la confessione, le preghiere, il catechismo, la Chiesa, i preti e il Papa «sono trattati ancora con un certo rispetto [...] per forza d’inerzia ma non sono più risposte ad una domanda» (p. X), cioè il cristianesimo non sembra più una risposta alle domande che riguardano la vita quotidiana delle persone. Pensando a un uomo come Giussani, convinto che la moralità è la capacità di compiere un gesto in funzione della totalità, si capisce che questa situazione doveva farlo soffrire e lo metteva in agitazione: l’idea di un cristianesimo che non incide sulla vita, o perché l’uomo − lui dice sempre «l’idea è l’uomo» − non la porta bene, o perché l’uomo non si è fermato a riflettere sul significato dell’idea che porta. Eppure, sottolinea Giussani, i cristiani dovrebbero testimoniare una differenza profonda rispetto alle altre fedi: «Buddismo è un insieme di precetti. [...] Cristianesimo è una persona = Cristo» (p. 151), molto semplicemente. E invece da tanti cristiani il mistero di Cristo è dato per scontato. «Cristo non è più autorità, ma un oggetto sentimentale, e Dio è uno spauracchio e non un amico» (p. 184). A un certo punto, Giussani dirà: «Il lievito non è che polvere. Polvere senza consistenza; polvere senza fisionomia. Polvere che è sopraffatta dal vento impetuoso e capriccioso dei pareri. [...] Polvere che sta negli angoli. O polvere che si lascia calpestare» (p. 207), incapace di resistere ai venti della contemporaneità. Quello che Giussani ha di fronte all’inizio degli anni Cinquanta potremmo definirlo un Dio generico perché generalista, magari generoso, ma perché non pretende e non chiede niente, una presenza di comodo intermittente, che dà quasi delle risposte filosofiche da padre consigliere, poco impegnativo perché in realtà disimpegnato rispetto alle sorti dell’umano, alle sorti della persona. A questa situazione si contrappone, nella predicazione e nell’azione di Giussani, una presenza forte, nella quale ho creduto di intravedere «un Dio italiano che cammina» - scrivevo così nell’inchiesta per «La Stampa» - per la prima volta nella storia del nostro Paese, in un’Italia che non aveva mai avuto una via nazionale al cattolicesimo nella presunzione di essere naturalmente cristiana, come si diceva in quegli anni. Una presenza molto forte, molto radicale, molto netta, quella proposta da don Giussani; personalmente ho sempre preferito le identità forti, anche se opposte alle mie idee, rispetto a quelle apparentemente accomodanti ma in realtà ambigue, pronte ad adattarsi a tutte le situazioni, eterne non per le loro qualità, ma appunto per una capacità di metamorfosi, in uno scambio al ribasso col potere. Giussani non ha un’idea di comunità come un associazionismo fine a se stesso, come un insieme di riunioni su riunioni. «La nostra presenza cristiana ridotta a riunioni, riunioni, riunioni... Non sono contro le riunioni, ma contro lo schema astratto per cui siamo cristiani solo in riunione» (p. 430), dice nel 1971. Per lui non si può vivere il cristianesimo se non insieme, come è accaduto fin dallo spezzare il pane insieme dei primi cristiani. E dà delle frustate vere e proprie al movimento quando ritiene che sia venuta meno quell’azione di testimonianza della presenza di Cristo: «Non è affatto per creare compagnia che noi siamo qui! Noi creiamo compagnia non per creare una 4 compagnia, noi creiamo una compagnia non per affermare un’amicizia, ma per affermare una Presenza, una Presenza che è in questa compagnia» (p. 900). Insomma, ricorda a tutti che non ha creato una realtà fine a se stessa, ma per raccontare che è venuto Gesù. Quindi dichiara: «Un attimo prima di tutto c’è Cristo, ma a voi non ve ne frega niente» (p. 484). Poi riprende un episodio relativo ad Andrea Costa, il fondatore del Partito socialista, che alla domenica nei paesi della Romagna aspettava che la gente uscisse da messa, si metteva su una sedia davanti alla chiesa e diceva: «Siete stati in chiesa; avete fatto bene. Adesso parliamo delle cose che interessano la vita di tutti i giorni» (p. 762), per richiamare al fatto che c’è da superare la distanza tra quella chiesa e quella sedia, e nelle sue intenzioni probabilmente il movimento è proprio questo tentativo di realizzare «il rapporto [...] tra l’altare e quella sedia, perché è parte dell’uomo non solo il problema della salvezza, ma anche il problema del pane quotidiano» (p. 763). Questa posizione di Giussani, che ho definito radicale perché molto netta, ha provocato molti attacchi. Una testimonianza così integrale del cristianesimo è stata accusata di integrismo: il libro riporta tutte queste critiche e questi attacchi. Ci sono le invettive di padre Turoldo, per il quale quelli di CL pretendono di essere «la stessa verità [...] i novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza. [...] Non c’è altro cristianesimo che il loro» (p. 520). Accusa che quella non sia la Chiesa dell’adultera, né la Chiesa della pecorella smarrita, ma una Chiesa senza peccato e senza storia (cfr. p. 520). Don Giussani risponderà che in realtà l’integrismo di cui viene accusato è «integrità della fede» (p. 523). E Raniero La Valle rincara la dose: «Il grano di senape, invece di morire, prende il potere» (p. 526). Le critiche a Giussani, e il libro le riporta tutte, emergono lungo un cammino anche molto complicato all’interno della sua stessa diocesi di Milano, perché le prime obiezioni erano venute dai prevosti che andavano dall’Arcivescovo e lamentavano prima di tutto la promiscuità tra ragazzi e ragazze del movimento, a differenza di Azione Cattolica; mi ha colpito molto come Montini fosse costantemente preoccupato, nei suoi scambi con Giussani, nei biglietti che gli mandava, di questa comunanza, di questa presenza simultanea di ragazzi e ragazze nel movimento. E poi l’altra accusa, che le parrocchie si svuotavano perché i ragazzi andavano nel movimento, ma il cardinale Scola ricorda che in quarta, quinta ginnasio aveva deciso di abbandonare «il mondo della parrocchia» per buttarsi «in ciò che sembrava più concreto nella vita, cioè l’impegno sociale e politico», e di avere aderito poi alla proposta di Giussani perché «mobilitava subito la libertà, che lanciava nella vita e, quindi, appassionava» (p. 191). Soprattutto c’è l’accusa rivolta a Giussani di debordare dall’ambito scolastico ritenuto proprio di GS, per invadere l’università che era istituzionalmente demandata alla FUCI. Ma Montini, che pure ha un rapporto travagliato, dice a Giussani, incoraggiandolo: «Non capisco le sue idee e i suoi metodi, ma vedo i frutti e le dico: vada avanti così» (p. 217). Allo stesso tempo lo mette in guardia dal rischio di pastorali parallele e gli ricorda che il primato accordato all’esperienza nella ricerca della verità è pericoloso. E poi c’è il rapporto, forse il più complicato di tutti, con colui che era stato suo professore di letteratura al seminario di Venegono, cioè il cardinale Giovanni Colombo, che gli chiede di stare buono, che, si scopre poi dalle carte che Savorana pubblica nel libro, cerca a un certo punto di trasformarlo in un semplice insegnante o addirittura di mandarlo in America in modo definitivo; e Giussani gli scrive di non volere in alcun modo creargli problemi, «chiedendole perdono di un disagio che forse solo la eliminazione della mia esistenza potrebbe annullare» (p. 331).
 Il magistero della misericordia 
Ho inteso comunicare ciò che ho creduto di capire del pensiero di Giussani, ma prima di concludere vorrei dire qualcosa che ho sempre pensato in relazione alla sua predicazione. Io credo 5 che se il cristianesimo non è un galateo, se non è un insieme di norme di buon comportamento e se non è una filosofia, allora non si spiega ai miei occhi, non si è mai spiegata in questi anni l’indulgenza, e anche qualcosa di più, che il movimento e molte forze vive della Chiesa hanno avuto nei confronti – non sto parlando di persone, sto parlando di un fenomeno – dei cosiddetti «atei devoti», che riducono il cristianesimo a una sorta di precettistica, a un deposito di valori da usare sul mercato politico, a ciò che è stato chiamato «cristianismo», cioè che fanno del cristianesimo un’ideologia di uso corrente. E credo che CL abbia faticato a prendere le distanze anche da forze che cercavano nella Chiesa un connubio di interesse, uno scambio al ribasso, prendendo una forza che non avevano e una tradizione culturale che non erano capaci di creare, offrendo in cambio la forza che la Chiesa, probabilmente, sentiva di non avere più, in un’unione in cui, l’ho scritto su «la Repubblica» alcune volte, il Verbo si fa carne, ma purtroppo spesso la carne pagana è anche vagamente idolatra, con la dismisura proposta come modello e come valore. Confrontandomi da lontano con le parole di don Giussani, col suo pensiero, ho sempre riscontrato due punti di differenza che per me sono molto chiari. Innanzitutto, io credo che nelle democrazie in cui viviamo, nella vita associata, non nel percorso individuale di ognuno di voi, nei Parlamenti che abbiamo considerato come luogo in cui la sovranità si esprime, non esistano verità assolute; credo che lo Stato non contempli l’assoluto, lo Stato democratico deve prevedere che tutte le verità siano relative e sono convinto, anche se può essere scomodo dirlo in particolare in questa sede, che in caso di conflitto tra la legge del Creatore e la legge delle creature debba prevalere quest’ultima, per la ragione che la democrazia deve tutelare tutte le libertà e i diritti individuali di tutti, di chi crede e di chi non crede. In secondo luogo, io non credo - ed è un altro punto su cui mi sono confrontato personalmente, dopo gli incontri con don Giussani che sono continuati leggendolo e ospitando i suoi articoli su «la Repubblica» ogni volta che me li proponeva - che si possa dare un significato alla vita dell’uomo soltanto attraverso una verità trascendente, perché questo significherebbe che tutto lo sforzo, tutta la fatica che si fa per costruire qualcosa dal punto di vista materiale, dal punto di vista morale, non sarebbe soltanto parziale come sappiamo che è, non sarebbe soltanto finito come per definizione è, ma sarebbe addirittura qualcosa di privo di significato, qualcosa di inutile. Mentre invece penso che possa essere qualcosa di molto profondo, per la ragione molto semplice e suprema che è qualcosa di profondamente umano. Infine, mi sono trascritto, man mano che leggevo, alcune frasi di don Giussani che riguardano l’uomo e che sono quelle che mi hanno colpito di più. Per esempio, quando Giussani invita a «vivere sempre intensamente il reale» (p. 696); e ancora: «Il mondo cambierà solo se cambiamo noi» (p. 580). E poi c’è una cosa che mi sembra trovare una forte consonanza nelle parole del Papa e anche nella sua lettera di risposta a Eugenio Scalfari inviata a «la Repubblica», quando mette l’accento sulla misericordia, descrivendo un cristianesimo che allarga le braccia verso l’altro. Io ho scritto che questo Papa sembra avere messo in secondo piano il magistero della condanna per privilegiare il magistero della misericordia. A questo proposito, Giussani ricorda due episodi, che Savorana riprende a p. 1107 del libro. Il primo è questo: «In quella drammatica scena, quando Giuda si presenta davanti a Gesù nell’orto degli ulivi, la prima parola che Gesù gli dice è “amico”. Non gli dice: “Io ti perdono ciò che stai per fare”. Lui afferma prima l’amore, per muovere la libertà dell’altro». Non accusa per ciò che ha fatto, non gli chiede di pentirsi, ma lo chiama «amico». Giussani parla, quindi, della misericordia nella forma dell’amore, nella forma dell’amicizia che viene addirittura prima del giudizio, che non ha nemmeno bisogno di assolvere il peccato perché in qualche modo non giudica, perché viene prima. Il secondo episodio evangelico ricordato da don Giussani è quello del ladrone in croce: «Quando Gesù era sulla croce e il buon ladrone gli dice: “Ricordati di me quando sarai nel tuo regno”, non gli dice: “Hai peccato, ma io ti perdono”, ma immediatamente gli risponde: “Oggi stesso sarai con me in paradiso”». Anche in questo caso vediamo l’affermazione della misericordia prima del giudizio, indipendentemente dall’identità della persona e dalla sua presunta colpa. 6 E infine tutto può essere riassunto nella frase di Giussani che mi sono tenuta per ultima: «La più grave mancanza [...] è che non sentiamo l’umano» (p. 695), la più grande mancanza è non sentire l’uomo.

 Il testo è tratto da AA.VV. Un’attrattiva che muove. La proposta inesauribile della vita di don Giussani

L'esperienza umana dove prevale la vita

 I fatti francesi e l'articolo di don Carrón sul "Corriere della Sera". Un amico di Tracce, scrittore e intellettuale milanese, racconta cosa lo colpisce. E da dove può partire quel «vero dialogo» di cui l'Europa ha bisogno
Ho letto tre volte l’articolo «La sfida del vero dialogo» di don Julián Carrónuscito sul Corriere della Sera lo scorso 13 febbraio. Le prime due volte - una da solo e una in compagnia - l’ho letto perché l’aveva scritto Carrón. La terza volta l’ho letto e basta, e solo in quel momento mi sono accorto della sua importanza.

Mi ha colpito la precisione con cui l’articolo identifica i problemi messi in luce dalla strage di Charlie Hebdo come problemi nostri, di tipo culturale, riguardanti cioè la concezione che anzitutto l’Europa ha di sé stessa. E mi ha colpito l’osservazione, capitale, che lega la missione e l’identità dell’Europa al recupero della sua radice popolare e al vero significato della laicità.

È vero: il rapporto tra ipotesi di vita diverse non è possibile sul piano astratto, ma solo in un’esperienza di popolo, cioè in una vita. La diversità diventa una premessa dei rapporti solo dove prevale l’ideologia. Dove, viceversa, prevale la vita, le possibilità si moltiplicano.

Mi ha colpito, nei giorni scorsi, in occasione del funerale di mio suocero, vedere in chiesa la sua badante, marocchina e musulmana, che ha pregato con noi parenti. Questa donna non ha pensato «io sono musulmana, questi qui sono cristiani», ha solo pensato che voleva bene a mio suocero.

La vita non ha precondizioni. La mia esperienza alla scuola “Oliver Twist” presso Cometa, a Como, a questo riguardo è molto precisa. Ci sono molte ragazze musulmane impegnate soprattutto nell’indirizzo tessile. Visto che gli altri indirizzi sono quello per baristi/camerieri/pasticceri e quello (prevalentemente maschile) per falegnami e decoratori, è comprensibile che una musulmana si rivolga al tessile.

Ma queste non sono premesse, precondizioni, sono solo caratteri di un’esperienza umana, religiosa perché umana. Una ragazza islamica non fa la cameriera, non serve carne di maiale. Ma, per il resto, queste ragazze sono perfettamente inserite nel lavoro e nella compagnia umana che lo sostiene.

Mi racconta il direttore Alessandro Mele che tra i diversi episodi che stanno all’origine della scuola “Oliver Twist” c’è anche quello delpapà di un ragazzino musulmano di terza media che frequentava il Doposcuola di Cometa. «O fate voi una scuola», disse, «o tengo mio figlio a casa».

Ora, io non voglio fare l’apologia di nessuno, però è chiaro che questo papà aveva un giudizio negativo non sul cristianesimo, ma sulla scuola italiana. E che la richiesta di fare una scuola nuova non nasceva dalle sue simpatie per il cristianesimo: nasceva da un atto di fiducia umana. «Questa», deve avere detto da sé, «è gente di cui ci si può fidare».

Ma la fiducia nasce nel concreto dell’esperienza, nasce dai fatti, dalla vita. Ci si fida di qualcuno che dice “io”, non di un robot. Se Cometa non vivesse la fatica quotidiana della vita, se non compisse ogni giorno l’ascesi di «amare la verità più di sé stessi» (le tre premesse del Senso religioso sono davvero la sintesi di tutta la nostra civiltà!), le «ragioni della vita«, come diceva Havel, lascerebbero immediatamente il posto alle «ragioni del potere».

Viceversa, dove prevale l’ideologia (qualunque ideologia) prevale il sospetto, e niente come il sospetto apre la porta al nulla.

Decenni di intellettualismo hanno devastato l’idea naturale della persona, dell’io, che nacque non da un esperimento astratto ma da un crogiolo di popoli e culture.

Se dovessi dar retta al mio intellettualismo direi che quell’unità non si può più ricostruire. Poi guardo la badante di mio suocero, guardo le ragazze di Cometa e mi accorgo che, dove la semplicità della vita prevale sull’ossessione dei distinguo, la persona e il dialogo rinascono.

Il dialogo è possibile, perché è qui, presente. Per questo, nonostante l’Isis, val la pena stare qui e lavorare: l’Europa è e continua ad essere un posto meraviglioso
Luca Doninelli

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 25 febbraio 2015

 Luigi Giussani, Perché la Chiesa
Testo di riferimento: L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2014, pp. 13-34.

 • Noi non sappiamo chi era
 • La mente torna

Gloria

Il lavoro di oggi ha come tema il secondo capitolo di Perché la Chiesa, nel quale don Giussani riparte dalla sua costante preoccupazione metodologica, perché è profondamente consapevole che se sbagliamo il metodo, non possiamo capire. E se questo è decisivo sempre, tanto più lo è per le questioni del vivere che sono più urgenti, come quella che stiamo affrontando: «“Come è possibile, oggi, raggiungere una valutazione su Cristo oggettiva e adeguata all’importanza della adesione che pretende?” [come posso io arrivare alla certezza su Cristo?]. Il che equivale anche a dire: “Con quale metodo ho la possibilità di essere ragionevole nell’aderire alla proposta cristiana?”» (p. 13). Tutti avvertiamo l’urgenza di una questione di questo calibro. Chi di noi non desidera raggiungere questa certezza? Sorprendiamo in noi quanto è desiderabile avere questa certezza quando la vediamo realizzata in qualcun altro. Come desidereremmo averla anche noi! Ma ci rendiamo veramente conto della necessità di questa certezza quando la vita ci mette alle strette e sentiamo tutto il bisogno di poggiare su qualcosa di sicuro per non essere schiacciati oppure trascinati da qualsiasi circostanza. Perciò lo scopo di questo capitolo secondo è rispondere a tale questione esistenziale. Ma c’è un rischio. Quale? Quello di leggere questo capitolo come una grande lezione su tre filoni della storia culturale occidentale (razionalistico, protestante e ortodosso-cattolico) dalla quale possiamo imparare qualcosa, come un tipo di conoscenza anche utile, ma che non è in grado di risolvere la questione se posso raggiungere la certezza su Cristo. E siccome è comunque una lettura appassionante, può distrarci dallo scopo. Ma a considerarlo così – don Giussani ci mette subito in allerta –, il capitolo non sarebbe in grado di contribuire a rispondere al bisogno di certezza che noi abbiamo. Aggiungere qualche conoscenza culturale non basta per rispondere al nostro bisogno di certezza, tanto è vero che non basta conoscere i tre atteggiamenti di cui parla don Giussani e descriverli perché il problema sia risolto. Occorre quindi che ciascuno si domandi – facciamo la verifica! – se, lavorando su questo capitolo, ha raggiunto qualche certezza in più su Cristo. Questa è la verifica se stiamo facendo bene la Scuola di comunità, perché aggiungere qualche conoscenza in più sarebbe inutile; già ne abbiamo a sufficienza per vivere anche senza. Basterebbe che ciascuno, prima di andare a letto questa sera, si domandasse: quale certezza in più ho raggiunto lavorando su questo capitolo? Per aiutarci, don Giussani ci dice che questi tre atteggiamenti non sono solo tre episodi della storia culturale, ma sono «le pieghe nascoste assunte dalla storia della coscienza dell’uomo di fronte al problema che stiamo trattando […] [che possono] indicare tre modalità che possono essere [anche] nostre». Di conseguenza, la vera questione − esistenzialmente parlando − è come possiamo sorprendere in noi quei tre atteggiamenti. E quale aiuto ci dà don Giussani, pratico, concreto, così che possiamo sorprendere in noi questi atteggiamenti? Non ci fa fare – non servirebbe! – un’introspezione o una analisi psicologica; no, perché gli atteggiamenti vengono fuori «nell’affrontare», dice la Scuola di comunità, «le più diverse circostanze della nostra vita». È lì, affrontando le circostanze della nostra vita, che emerge davanti ai nostri occhi, alla nostra coscienza, se abbiamo o no certezza di Cristo. Le circostanze possono essere di qualsiasi tipo, «da un incontro desiderato all’ammirazione per un cielo stellato» (p. 14), dai fatti di terrorismo a un evento imprevisto.
Racconto un fatto piccolo.
Piccolo, ma significativo.
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 Io avevo malissimo a un dente. Sono stata male tutto un fine settimana. Vado dal dentista, prende delle pinze giganti e mi estrae il dente. Una paura così era un pezzo che non l’avevo. Ho avuto questa gran paura proprio sul lettino del dentista. Quando sono uscita ho pensato alla mia paura, alla mia fragilità e a tutte le mie paure. Allo scorso collegamento tu parlavi della paura. Ma io a vent’anni mi sentivo un leone e non avevo paura di niente, adesso ho paura di tutto (la salute, i figli, eccetera). Perché crescendo non mi sono irrobustita, ma indebolita? Perché mi scopro così fragile? Eppure sono stata esaudita in tutti i desideri che avevo all’università: un marito, un lavoro, una casa, una famiglia con cui dire anche la preghiera prima di mangiare. Mi scopro sempre più di frequente smarrita e fragile, come sul lettino del dentista, davanti a un sacco di circostanze, a partire dal lavoro mio o di mio marito (che non è così sicuro come vorremmo) o ai fatti che succedono nel mondo, che rimangono un commento su internet. Quindi facendo la Scuola di comunità, fin dal primo paragrafo, mi sono chiesta: dove sta l’inghippo? Come mai ributto Gesù indietro come un fatto storico del passato?

Considerando l’aneddoto dei denti, tu ti chiedi: come è possibile che uno possa essere sempre più esaudito e sempre più smarrito? Non è che la vita ci tratti sempre male, a volte i nostri desideri sono esauditi. Ma questo non basta. Allora, in che cosa riconosco qual è il mio atteggiamento? Dal fatto che Cristo non è in grado di togliermi questo smarrimento, questa paura. Tu sei qui, ma tante volte per noi Cristo, di fatto, davanti alle sfide del vivere, è come un fenomeno del passato, che tu conosci benissimo, che puoi documentare, su cui puoi fare anche una lezione; ma non è realmente presente. A volte confondiamo l’esaudirsi dei nostri desideri con la certezza riguardo a Cristo. E invece no, possiamo essere esauditi, ma questo non ci dà quella consistenza di cui abbiamo bisogno per affrontare le sfide del vivere. E quando le abbiamo davanti a noi, viene a galla il nostro smarrimento. E questo smarrimento che cosa documenta? Che c’è una modalità di entrare in rapporto con le circostanze che è razionalista. «L’atteggiamento razionalista», dice don Giussani, «può essere di ognuno di noi». Perché «lavora [al di là delle intenzioni] sull’ipotesi dell’assenza» (p. 19). Di fatto, davanti alle circostanze io vivo di un’assenza. E in che cosa si vede? Che quando descrivo la realtà, non parlo di una presenza così determinante il vivere che cambia la mia percezione della realtà. Allora ci domandiamo: dov’è l’inghippo? Eppure noi apparteniamo al movimento, siamo qui lealmente! Non è che noi non ci siamo, non è che noi siamo invisibili, non è che non Lo vediamo operare. Dov’è l’inghippo, allora? Nel fatto che non basta questo esserci, se poi non facciamo la strada che ci consente di raggiungere sempre più la certezza su Cristo. Perché possiamo raccontare degli episodi, possiamo raccontare dei fatti – siamo bravissimi nel raccontarli –, ma, come dice la Scuola di comunità, Dio è come ributtato in una lontananza a cui uno sforzo dell’uomo tenta di arrivare ma non riesce, invece di percepirLo come Qualcuno che gli è accanto ora. Non che io lo faccia consapevolmente, ma di fatto vivo l’avvenimento di Cristo come una cosa del passato, come una cosa lontana che non determina il presente. Questo è il punto: io sto davanti a un’assenza, che proprio per questo non è in grado di determinare il presente. 

Una quindicina di giorni fa ho organizzato un regalo di Natale per la mia famiglia, i miei suoceri e i miei genitori: una bellissima vacanza in montagna in albergo, tutti quanti a sciare, serviti e riveriti. L’idea di partenza era organizzare una bellissima cosa anche perché io potessi incominciare a sciare, magari i nonni si occupavano dei più piccoli…
Avevi già assegnato a ciascuno il suo posto!
Poi, considerando il tutto e anche altre situazioni, ho detto: «Sciate voi, io sto con i miei genitori e i bambini più piccoli». Il giorno dopo vedi tutti che partono e vanno a sciare, ed è come aver portato tutti allo stadio, ma tu rimani fuori. E io lì con i miei due piccoli e i miei genitori… Avevo organizzato tutto, preparato tutto, ma io alla sera ero arrabbiato nero. Avevo fatto una cosa bella, ero in un posto bello, ero con la mia famiglia, ma ero proprio arrabbiato. E così, messi a letto i bambini, alla fine del secondo giorno non sono riuscito a dormire, sono andato in sala e non ho dormito fino alle tre di notte. E ho cominciato a fare tutta una serie di ragionamenti, per cui
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 incominciava a diventare evidente che Cristo non c’era, o meglio, non Lo vedevo, non capivo, e pensavo: ma io L’ho incontrato, so tutto, ma adesso proprio non c’entra. Poi la vacanza è finita, per fortuna! Mia moglie a casa mi dice: «Ma perché sei arrabbiato? Si vede che sei arrabbiato»; e mi dice: «Cosa ti ho fatto?». Io la guardo e le dico: «Niente, hai sciato». Ma lei continuava a incalzare: «Me lo devi dire!». Insomma, dopo un po’ le ho detto: «Guarda, il problema è che io ho bisogno che il fatto di Cristo sia per me una cosa determinante nella vita e mi manca talmente che è l’unica cosa che veramente desidero. Io voglio essere determinato da questo, desidero questo». E guardandola – era la stessa faccia del giorno prima –, le ho detto: «Ho bisogno di essere voluto bene». È come se io avessi cercato un fuoco d’artificio, anzi, avevo organizzato il fuoco d’artificio, ma non mi accorgevo e non mi accorgo spesso di quel che c’è, neanche della faccia di mia moglie e dei miei figli.

 E quando non mi accorgo di quel che c’è, come si chiama questo atteggiamento? Razionalismo: non vedo la realtà come è. La posso avere davanti, ma io sono arrabbiato nero anche in una situazione come quella descritta, non è che sia successa una disgrazia, no, tutto era stato pensato, preparato, voluto, il fuoco d’artificio perfetto era stato pensato per godersela alla grande. E allora?

 In questi mesi l’incalzare di quel che è accaduto, di quel che ci diciamo, di quel che vediamo attorno a noi – accorgendomene più o meno –, ha fatto nascere in me un ribollire, un desiderio di essere un po’ in prima linea, mentre per il lavoro che faccio mi sembrava di essere un po’ nelle retrovie. Questa impressione è cresciuta in questi mesi, anche per quel che ho visto, penso per esempio all’incontro con alcuni missionari nostri amici. A un certo punto, una quindicina di giorni fa abbiamo fatto una cena con il mio gruppo di Fraternità e ho confidato loro questa cosa, dicendo che andare a Roma dal Papa era proprio per sentire che cosa aveva da dire e come questo poteva essere una risposta a questo desiderio. La cena si è chiusa così. Il giorno dopo mi arriva un messaggino di un’amica, in cui mi faceva notare che la sera prima ero stato assolutamente ingiusto e che non mi accorgevo di quel che stavo facendo e di quel che accadeva – tra l’altro, lei lavora con me –, che lei non era in seconda linea. L’ho incontrata e le ho detto: «Parliamone». E mi ha impressionato perché ciò che io avevo detto, il mio modo di non guardare, o meglio, di non vedere quel che si stava facendo e quel che era davanti ai miei occhi, l’aveva ferita in un modo tale che la sua passione, il suo modo di guardare, il suo modo di richiamarmi alla realtà mi ha trascinato a rivedere quanto non vedevo più. Mi ha impressionato questo perché, lavorando sullo sguardo ortodosso-cattolico, io ho capito benissimo che se non c’è qualcosa che mi trascina a riguardare Cristo, tutto per me rimane vero, ma si sposta nel passato. Infatti vivevo di un’alternativa, o comunque covavo in me la possibilità di un’alternativa che forse sarebbe stata un po’ meglio rispetto alla realtà vera. Oppure ero trascinato dai miei sentimenti, dal mio «come sarebbe stato bello far questo» che mi emozionava di più. Mi ha proprio colpito che, invece, sono stato rimesso di fronte alla realtà, ed è rinata anche la risposta al Signore: io ci sto a quel che mi chiedi di fare perché Tu ci sei. E mi sono accorto che questo è quel che è accaduto con ciò che tu hai scritto e detto lungo tutto l’anno (Esercizi della Fraternità, inserto sulle elezioni europee, articolo di Natale, lettera sul pellegrinaggio a Roma, articolo sui fatti parigini): il tuo modo di guardare mi ha ritrascinato ogni volta dentro la realtà fino a vedere ciò che non vedevo.

E questo che cosa dimostra? Perché qui sta tutta la vicenda: se Cristo è un fatto presente che mi rende possibile guardare la realtà; altrimenti io decado in uno sguardo ridotto della realtà. Ma la questione è che tutti siamo immersi in un luogo, non è che tutto sparisca e diventiamo tutti spiritualisti e tutti – come dicono alcuni – intimisti; no, tutti noi siamo circondati dalla realtà di una compagnia. Eppure questa compagnia non determina il nostro modo di stare nella realtà, fino al punto di togliere la paura, di togliere lo smarrimento e di accompagnarci quando le cose non vanno come si era pensato. Se non riesco a vedere neanche ciò che sta succedendo davanti ai miei occhi, l’inghippo dov’è? Non è che la realtà sia sparita, tant’è vero che un istante dopo tu non diventi visionario, ma semplicemente ricominci a vedere quel che c’è introdotto da quella persona.
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 È così.

Ma se la Presenza non è accolta nella mia vita in modo tale da determinare il mio atteggiamento rispetto alla realtà, io la riduco a un fatto del passato o a un fenomeno sentimentale, spiritualistico oppure intimistico, protestante (anche se lo “sento”, non determina il modo di stare nella realtà). Quel che veramente è decisivo per raggiungere la certezza su Cristo è vederLo all’opera nel modo con cui io affronto, come dice Giussani, le circostanze della vita, «da un incontro desiderato all’ammirazione per un cielo stellato», tutto. Perché tutto accade davanti ai nostri occhi – non è che succeda per alcuni e per altri no, non è che alcuni siano fuori dal reale e altri dentro; no, tutti apparteniamo alla stessa realtà, ma se la Presenza – come dice la Scuola di comunità: «una presenza integralmente umana» – non è in grado di determinare la vita, la vita non “esplode”, cioè non si realizza. Basta che arrivi Lui, come diceva per analogia la canzone di Mina, e la mente torna, il cuore palpita. La questione è: che cosa facilita questo? Come possiamo crescere sempre di più nel riconoscimento di quel che c’è? Perché c’è, c’è eccome! Vedremo fra poco come l’ultimo che arriva lo vede, vede cose che sono davanti ai nostri occhi, ma che noi non vediamo.

Nel secondo capitolo di Perché la Chiesa, don Giussani sottolinea continuamente come l’avvenimento di Cristo si riveli una presenza integralmente umana, e che ci si può imbattere in Lui solo attraverso la comunità dei credenti, la Chiesa. Fino a qualche tempo fa io ero convintissima di dover avere una certezza su Cristo che superasse la concretezza delle persone, degli amici e della comunità, per rintracciare un fattore comune su cui costruire una certezza. Questo perché, se sono in reparto senza gli amici o senza il moroso, se non posso chiamarli in quel momento, devo comunque riuscire a stare in reparto con le mie difficoltà scoprendo cosa può esserci di buono. Devo scommettere sugli infermieri che sono lì, sui pazienti, sui medici, non è che ci sia qualcuno con appeso il cartello “cristiano” o “ciellino”, ci sono solo io. Ci deve essere qualcosa che mi fa guardare alla realtà facendomi ripartire con un’ipotesi buona, che mi richiami alla grandezza, pur non essendoci concretamente quei volti precisi. Detto ciò, ne parlavo con un’amica che mi diceva che senza partire dagli amici, dalle persone che sa che le vogliono bene, senza tornare concretamente da loro, fa fatica a ripartire. Io mi son detta: beh, vediamo, vediamo se è più vero. Di fatto, anch’io ho bisogno di concretezza, ho bisogno di vedere gli amici, di stare col moroso, e non solo di pensarli. In queste ultime settimane in cui, per determinate circostanze, mi sono ritrovata più che mai ad aver bisogno di fatti concreti, mi sono accorta però che spesso ho delle aspettative sulle persone, come dire: se Cristo passa attraverso queste persone, allora io mi aspetto il massimo, mi aspetto che mi trasmettano un bene assoluto, desidero un bene assoluto. Però non è sempre così. Anche la persona che mi vuol bene è un uomo che sbaglia e ha bisogno di attenzione. Come può essere quindi la comunità dei credenti, al di là dei limiti di ciascuno, la presenza oggettiva di Cristo? Come guardare alla comunità né con un buonismo di fondo (siccome è l’espressione di Cristo, allora va tutto bene, anche se magari uno non mi sopporta) né con la pretesa che risponda esaurientemente al mio bisogno?

 E secondo te come possiamo essere sicuri che la comunità dei credenti è la presenza oggettiva di Cristo? Tu in che cosa potresti riconoscere che è Cristo? Ti faccio una domanda forse più semplice: in che cosa Giovanni e Andrea poterono riconoscere Cristo il giorno in cui Lo incontrarono? Potevano riconoscerLo in qualcosa? 
No.

Vedi? Questo è il punto! Vedete? Questo è il punto: «No»! La moglie di Andrea poteva riconoscere che suo marito aveva incontrato Qualcuno di oggettivamente diverso?
Sì.

 Giussani lo dice, come avete visto nel video allegato al Corriere della Sera: «Ma, Andrea, che hai? Sei diverso, che ti è successo?» («Don Luigi Giussani 1922-2005. Il pensiero, i discorsi, la fede», supplemento mensile, Corriere della sera, 21 febbraio 2015). Gesù era con Andrea nel momento in cui quest’ultimo abbracciava la moglie? No. No! Ma in che cosa si poteva riconoscere che Andrea aveva incontrato una presenza oggettivamente diversa da tutte le altre? Quali segni ha 
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 potuto rintracciare la moglie? È questo ciò di cui non ci rendiamo conto. Lo ripetiamo, lo raccontiamo gli uni agli altri, ma non ce ne rendiamo conto. Per questo, quando poi non abbiamo intorno gli altri, pensiamo di essere da soli. Ma Andrea era da solo quando stava davanti alla moglie? O era già un Andrea diverso, tutto investito, determinato dalla presenza di Cristo, una presenza oggettiva? Sì o sì? Solo Lo può riconoscere chi fa esperienza di questo. Perché, come vedete, tutto questo è a nostra disposizione, lo avete visto tutti nel video, abbiamo sentito milioni di volte Giussani raccontarcelo, lo abbiamo anche letto. Ma è come se quello di Andrea che abbraccia la moglie fosse solo un episodio aneddotico, esemplare, ma che non c’entra con noi. No! Quell’Andrea era tutto lui, ma era tutto diverso. In che cosa poteva capire Andrea che la presenza oggettiva di Cristo era con lui anche quando non aveva Gesù fisicamente accanto? La moglie non ha avuto bisogno che Gesù fosse lì con loro, perché aveva già capito tutto dal modo in cui Andrea l’aveva abbracciata. La stessa cosa, amica, passa attraverso di te quando tu guardi i tuoi malati, e la gente ti domanda: «Perché li guardi così? Perché li tratti così? Da dove nasce questo sguardo?». Cristo sta investendo e determinando talmente il tuo sguardo, la tua modalità di essere, la tua modalità di stare nel reale, che lo vedono perfino i sassi! Allora, con questo negli occhi puoi rispondere alla tua domanda sulla comunità dei cristiani. Al di là dei tuoi limiti – perché tu puoi continuare ad avere tutti i limiti –, la gente percepisce in te uno sguardo sul reale che non nasce da te, che non ti puoi dare da te stessa, che non è l’esito di una tua strategia. È uno sguardo dato, da cui tu sei stata investita. E si vede che Cristo è un fatto presente perché determina il presente come nessun’altra cosa, più di tutti i tuoi limiti, più di come ti risponde l’ammalato, più degli stati d’animo («non Lo sento»). Non mi interessa quel che senti o non senti, mi interessa se tu sei determinata da quella Presenza. Lo si vede nel modo con cui tratti la realtà, indipendentemente dalla coerenza etica, dallo stato d’animo, dalle circostanze, dalla risposta degli altri, indipendentemente da tutto. Una presenza originale ha un’origine totalmente diversa: la presenza oggettiva di Cristo. Perché altrimenti tu questo sguardo diverso nemmeno te lo sogni. 

Reagisco a quel che tu dicevi e mi riallaccio all’amica che ha fatto la prima domanda. Passa il tempo e ci si può trovare più fragili. Questo per me è stato un punto di scandalo, perché nella preghiera al Signore dicevo: ma come, mi hai promesso che sarei diventato sempre più un uomo e mi trovo sempre più fragile?! Nel tempo, mi viene spessissimo in mente l’episodio dei discepoli sul lago in tempesta: ce L’avevano lì e sapevano anche che Lui era la risposta, tant’è che quando vacillano, che quando tremano, Lo svegliano. Io mi sento così, perché altrimenti – e chiariscimi dove sbaglio, se sbaglio – colgo nelle tue parole o nella sottolineatura di questa sera quasi il rischio che il cristianesimo o la fede diventino una specie di superomismo. Io negli anni mi sono sempre più stancato dei miei amici che avevano sempre le idee chiare su come dovesse essere la vita, e qualcuno di loro – lo dico con dispiacere –, quando le difficoltà sono aumentate, l’ho visto vacillare. Perché c’è un aspetto per cui anch’io ero molto baldanzoso quando a quattordici anni ho incontrato il movimento; però, riguardandomi, vedo tanta ingenuità.

La questione è se il cristianesimo genera gente adulta o gente smarrita. Se accade la seconda cosa, allora andiamo tutti a casa! Se Cristo non è capace di generare una persona in grado di stare davanti alla realtà, a me il cristianesimo non interessa.

Ma stai davanti alla realtà quando, di fronte alla tempesta, tu vacilli, però hai un punto a cui puoi chiedere…

Hai un punto a cui chiedere, certo. Ma non ti piacerebbe che questo punto determinasse di più la realtà, in modo tale che davanti alla morte tu non sia determinato solo dalla paura? 

Ma se quando arrivo al momento della morte non ho la presenza di Cristo a cui chiedere di aiutarmi, io non so se reggerei l’impatto di quelle circostanze.

So bene che occorre chiedere! La questione è se il cristianesimo è solo una domanda a livello del senso religioso oppure se tu puoi essere determinato già da una Presenza a cui puoi chiedere perché hai una familiarità con essa. Come diceva Benedetto XVI: quando cadi, cadi nelle braccia di un Altro. Comunque, la questione non si chiarisce discutendo, si chiarisce vivendo. Dice la 
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Scuola di comunità: la presenza integralmente umana «implica il metodo dell’incontro, dell’imbattersi con una realtà esterna a sé», ma questo incontro «ha un aspetto esteriore decisivo come quello interiore» (p. 25). Noi siamo bravi a descrivere l’esteriore, ma quel che succede in Andrea e Giovanni investe e determina l’interiore. E questo genera una creatura nuova, tanto che lo vede la moglie di Andrea, come oggi in tanti lo vedono incontrandoci. Per questo, sottolinea don Giussani, «l’atteggiamento ortodosso-cattolico concepisce l’annuncio cristiano come l’invito a una esperienza presente integralmente umana, un incontro oggettivo con una realtà umana oggettiva, profondamente significativa per l’interiorità dell’uomo, provocativa a un senso e a un cambiamento della vita, perciò invadente il soggetto» (p. 28). Quando noi ci immedesimiamo con Giovanni e Andrea, quel che Giussani descrive in loro è questo: un Fatto oggettivo che invade il soggetto; tanto è vero che dopo l’incontro con Gesù Andrea era sempre Andrea, ma la moglie esclama: «Ma che hai?», perché percepisce qualcosa che ha talmente invaso la vita di Andrea che può riconoscerlo un altro che non sa esattamente che cosa gli è successo, ma che lo può vedere dallo sguardo cambiato. Al New York Encounter è venuto un importante medico sessantacinquenne, che hanno conosciuto i nostri amici, il quale ha raccontato di essere stato alla ricerca, per tutta la vita, di un senso e di un significato, a volte con il desiderio di gettare la spugna, come se non riuscisse a chiudere il cerchio. Era passato attraverso il buddismo, ha avuto rapporti con i protestanti, eccetera. Vedendo il video dei sessant’anni di CL (La strada bella) al New York Encounter (dove nemmeno voleva andare perché lo considerava un evento troppo cattolico, che per lui significava regole e divieti), dopo dieci minuti – dieci di orologio! – ha esclamato: «È questo!». Poi ha saltato la pausa pranzo perché voleva finire di guardarlo. È oggettiva la presenza di Cristo! Lo è talmente che quando uno è stato alla ricerca per sessantacinque anni e se la trova davanti dice: «È questo!». Tanto è vero che già ha cercato i nostri amici là dove vive, dichiarando che questo non lo può perdere, e ha descritto quel che gli è capitato alla proiezione del video come l’evento che ha cambiato la sua vita e che ha lasciato una traccia duratura che gli ha cambiato la mente. Non è che quest’uomo sia l’ultimo dei sentimentali quando parla di un evento che gli ha cambiato la vita, che gli ha lasciato una traccia indelebile, che gli ha cambiato la mente e che gli dà una certezza come non aveva avuto prima – così lo descrive lui –. Non è che noi siamo spiritualisti e non abbiamo visto il video; l’abbiamo visto tutti; ma l’ultimo che arriva in appena dieci minuti coglie tutta la diversità che noi tante volte, solitamente, non vediamo. Non è che non ci sia – perché l’ultimo che meno si aspettava di trovarla la riconosce –, ma noi non la vediamo.
Ascoltiamo ora una persona che mercoledì scorso, insieme ad altre personalità, è venuta all’anteprima del video di don Giussani.

Proiezione della video-intervista a Piero Modiano (Tracce.it: http://bit.ly/1DZbJmQ), presidente di Sea-Aeroporti di Milano, in occasione dell’anteprima del dvd «Don Luigi Giussani 1922-2005. Il pensiero, i discorsi, la fede». Per chi non lo ha mai conosciuto, che cosa restituisce il video di don Giussani? Sì, effettivamente non l’ho mai conosciuto. L’ho conosciuto dal libro [Vita di don Giussani] e l’ho conosciuto da un sacco di gente che l’ha conosciuto, quindi un po’ l’ho conosciuto, indirettamente però. Me l’immaginavo un po’, ma quello che mi ha colpito è l’energia della voce, gli occhi, l’espressione del viso, quando parla, che trasmette una convinzione pazzesca, e una grandissima semplicità di linguaggio, che sono cose che forse m’aspettavo, ma viste, viste di persona danno molto senso a quello che ho saputo indirettamente di lui; cioè, si chiude un po’ il cerchio vedendolo, anche se in un filmato. C’è un passaggio, una frase, un abbozzo che l’ha colpita maggiormente? Devo dire non una, ma c’è la coerenza di tutto quello che lui dice, che è una cosa secondo me che parla all’umanità in generale: che l’uomo non basta a se stesso, che non basta a se stesso l’individuo, non basta a se stessa la storia, non bastiamo a noi stessi. E quest’idea che dentro di noi
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 ci sia l’aspirazione a qualche cosa di altro. Beh, questo è lui: è lui nei libri, è lui nei suoi amici, è lui che parla. Questo a me rimane. E rimane anche quello che basta? Certo, certo! Questa è una grande ricerca, però, che per lui è la fede. Molto emozionante [è] il fatto che c’è questo grande fiume che arriva a sua madre, e [da] sua madre a lui. Grande problema, grande mistero, il problema è che è una fede, è una fede che non divide. Una cosa che ho apprezzato molto, conoscendo in tarda età mia don Giussani: dopo aver attraversato una vita avendo a fianco Comunione e Liberazione in modo molto contraddittorio e contrastato − con l’idea di Comunione e Liberazione integralista −, scopro poi che esiste una fede che non divide, che è una fede curiosa e accogliente, che mi sembra la cosa che in questo ultimo don Giussani − che parla anche al di là di Comunione e Liberazione − è un messaggio modernissimo; la convinzione e la fede che riesce a non dividere, ma riesce a essere accogliente; che se ci si riesce, abbiamo risolto alcuni problemi dell’umanità. * * *

Carrón. Non è che questa persona non abbia visto quello che abbiamo visto noi. 

Davide Prosperi.  
Modiano racconta ciò che lo ha colpito in modo così profondo e pieno di ragioni che ciascuno di noi – credo – potrebbe dire altrettanto di se stesso, perché certamente la cosa che colpisce di più immediatamente rivedendo Giussani è – e noi possiamo dire di farne esperienza anche in tanti momenti della nostra vita – la comunicazione di una certezza, una certezza di cemento armato che però non divide, anzi, ti fa venire voglia di essere come lui, di seguirlo. E questa cosa che dice Modiano noi la stiamo vedendo in tanti modi. Domani uscirà il libro (Un’attrattiva che muove) che raccoglie tanti degli interventi che sono stati fatti di presentazione del libro di Savorana Vita di don Giussani, in cui emerge come siano avvenuti tanti incontri simili a quello che è accaduto a Modiano. Pensando a tutto questo, ciò che colpisce è che sicuramente queste cose nascono e sono legate alla figura di don Giussani, ma questo può essere ancora un giudizio superficiale, perché dobbiamo veramente capire che cosa vuol dire per noi. Io me lo chiedo per me stesso. Perché per molto tempo, e comunque ancora oggi lo si vede, lo si può ritrovare magari in articoli di giornale, in commenti eccetera, c’è stato e c’è il tentativo di dividere, di separare don Giussani, il fondatore, dal movimento come dire: don Giussani bene, CL male. Ma quello che risulta giorno dopo giorno più evidente è che, man mano che lo si conosce, don Giussani diventa un punto di interesse, di giudizio, di curiosità e il giudizio su Giussani e il movimento è rovesciato, come abbiamo sentito nella testimonianza di Modiano, dice: «Mi si chiude il cerchio», perché l’incontro, il primo incontro l’ha fatto attraverso persone di CL. Il movimento con la sua vita, e anche la testimonianza diretta di don Giussani tramandata attraverso la vita del movimento, sta facendo conoscere sempre di più don Giussani al mondo. E qui, secondo me, già si affaccia qualcosa proprio rispetto alla consapevolezza che noi possiamo avere del nostro compito oggi per quello che ci è capitato; perché giudizi come quello che abbiamo appena ascoltato non hanno la loro radice in una sorta di moralità nuova nel senso che – come si diceva prima − siamo un po’ più buoni, che saremo sempre più buoni e saremo sempre migliori; secondo me non è questo il problema, noi non dobbiamo pensare che sia questo il problema, anzi, io penso che questo sia proprio un modo con cui − noi e gli altri − possiamo ridurre quello che realmente sta avvenendo nella nostra storia, come se fosse tutto ridotto al problema di essere migliori, in una sorta di “moralità” superiore. Io non mi sento per niente identificato da questo. A me sembra che il problema sia innanzitutto la proposta del movimento, cioè quello che il movimento è per sé e per il mondo. La proposta del movimento – se stiamo a quello che vediamo e se ci rendiamo conto della portata che ha ciò che sta accadendo, tra di noi e fuori di noi, ciò di cui noi stiamo partecipando – è solo una: l’immedesimazione col carisma. Perché che una persona possa dire a Carrón o a uno di noi quello che abbiamo appena ascoltato: «L’ho conosciuto da un sacco di gente che l’ha conosciuto, quindi un po’ l’ho conosciuto, indirettamente […] sono cose che forse m’aspettavo, ma viste, viste di persona danno molto senso a quello che ho saputo
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 indirettamente di lui; cioè, si chiude un po’ il cerchio vedendolo», questo è potuto accadere perché attraverso quello che ha incontrato ha potuto conoscere chi è Giussani e ha potuto vederlo incarnato in una realtà umana. Il punto è che questa cosa così convincente diventi un fattore normale, ordinario dentro la vita; ordinario, ma che nella sua ordinarietà, proprio per questa certezza di fede, diventa straordinario.

 Carrón.  Qui abbiamo un esempio palese, che è davanti a tutti, di come uno nel presente può raggiungere una certezza su don Giussani, che non ha mai incontrato, perché Modiano ha raggiunto una certezza su di lui attraverso l’incontro con le persone del movimento che ha conosciuto nella sua vita, che lo hanno portato poi a entrare con curiosità in un rapporto; e poi lo hanno invitato a partecipare alla presentazione di Vita di don Giussani. Così ha raggiunto la certezza su don Giussani; adesso ne ha avuto la conferma, ma l’aveva già nella sua esperienza. Il video su Giussani, come ha dichiarato, «chiude il cerchio». Questa è l’unica possibilità, come abbiamo visto, di raggiungere la certezza su Cristo nel presente; adesso, così come fu per Giovanni e Andrea. È sperimentando una tale esperienza del vivere che sei affascinato sempre di più. E in che cosa lo vedi? Nel cambiamento che provoca in te. Non che innanzitutto tu faccia meno errori, ma stai davanti alla realtà con una certezza, con una capacità di fascino, di curiosità, di intelligenza nuova del reale, di consistenza che prima non ti sognavi! Perciò l’unica possibilità per noi di raggiungere questa certezza è essere immersi in una realtà come quella del movimento; ma non ci si può stare senza renderci conto di che cosa sta succedendo. Noi possiamo stare davanti al video di don Giussani e non capire; per cui basta che poi succeda qualsiasi cosa e ci sentiamo soli, smarriti. Se l’appartenenza al movimento non genera una capacità di cogliere questa diversità e di generare una persona certa, noi saremo sempre più smarriti. È questo che noi portiamo: la possibilità di raggiungere la certezza della presenza oggettiva di Cristo ora. 

Abbiamo allestito la mostra su don Giussani «Dalla mia vita alla vostra» in una piazza molto bella. Sono andato a fare il volantinaggio davanti all’ingresso per invitare le gente a visitare la mostra. L’ho fatto domenica dalle due alle quattro, pioveva da matti, ci saranno stati quattro gradi. Ho immaginato: secondo me, non c’è gente in giro, mi mandano a casa. Ed ero anche un po’ contento… Dopo di che sono andato e sono rimasto impressionato. È da un bel po’ che sono del movimento, è trent’anni che faccio i volantinaggi. Ecco: io mai ho avuto un’adesione così, mai! Statisticamente tre persone su dieci mi dicevano: «Ah»; guardavano il volantino, si giravano di novanta gradi ed entravano alla mostra. Addirittura uno mi dice – sul volantino c’era scritto: «Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione» –: «Questo sono io; anzi, don Giussani è come me», ed è entrato. Era un uomo di settant’anni, sono rimasto colpito. Ce ne sono stati molti di esempi così. Siccome pioveva e c’era un caos tremendo, spesso davo il volantino (tutto bagnato!) a della gente che usciva dalla mostra. Usciva, io davo il volantino, e loro mi dicevano: «Ma sono appena uscito!». Io pensavo: la solita scusa di chi non vuole entrare! E allora, per metterli anche un po’ alla prova, ribattevo: «E come è stata la mostra?». Si fermavano, si giravano, mi guardavano negli occhi: «Bellissima! Lo sai che cos’è che ci ha colpito di più? Quei ragazzi che ce la spiegavano». «Perché?», «Me l’hanno fatta vivere». Alcune persone mi hanno anche detto: «Io vorrei essere così». Uno era del movimento, e mi ha detto: «Vorrei che tornasse a questa freschezza la mia appartenenza al movimento. Il “capo” del movimento lì dove vivo è una persona sempre arrabbiata, che fa solo dei discorsi. Me ne sono andato, sono andato in parrocchia ad aiutare il prete che ha bisogno». A parte questi aneddoti, a me ha colpito la disponibilità di questa gente, anzi, da cosa si faceva colpire. Io alla fine mi sono detto: è vero ciò che ci diciamo, cioè che stare dentro la realtà è la verifica della fede. E io mi sono reso conto di più di ciò che ho incontrato attraverso queste persone.

Il bello sono quei ragazzi che spiegano la mostra! Attraverso quei ragazzi, come attraverso ciascuno di noi, può arrivare agli altri la grazia che hanno ricevuto. E la gente lo capisce, e non innanzitutto perché siano più bravi o perché senza macchia, ma per la diversità, per la proposta,
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per lo sguardo che portano. Anche se sono soli a spiegarla, lo portano dentro di sé, perché la certezza di don Giussani è diventata una certezza loro. La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 25 marzo alle ore 21,30. Continueremo a lavorare su Perché la Chiesa, cominciando il capitolo terzo: «Seconda premessa: difficoltà odierna nel capire il significato delle parole cristiane». È un capitolo impegnativo, per questo occorre attrezzarsi, senza spaventarsi. Questo capitolo ha il vantaggio di aiutarci a capire l’origine del crollo delle evidenze che oggi è davanti a tutti, come è accaduto lungo la storia degli ultimi secoli. Perciò può essere veramente decisivo per cogliere in noi l’origine della difficoltà a comprendere il significato delle parole cristiane, perché noi siamo immersi nelle difficoltà di tutti. Allora io vi suggerisco due domande: dov’è cominciata l’origine di questo crollo, che adesso è palese a tutti, e in che cosa lo possiamo riconoscere? Udienza del Papa. Il 7 marzo noi andiamo con gratitudine dal Papa, perché riconosciamo e accettiamo con semplicità, come è scritto nella lettera, che «la vita di ciascuno di noi dipende dal legame con un uomo in cui Cristo testimonia la sua perenne verità nell’oggi di ogni momento storico». Quell’esperienza che gli altri riconoscono incontrandoci, noi la possiamo vivere solo per il legame con la fragilità di questo uomo che si chiama «Papa». Senza questo legame noi la sogniamo un’esperienza come quella del movimento, tanto è vero che se non lo riconosciamo, diventiamo una tra le tante interpretazioni del fatto cristiano di cui abbiamo fatto menzione prima, una tra le tante. Dobbiamo decidere. Amici, dobbiamo decidere! Perché la non decisione è già una decisione a fare un altro tipo di esperienza. Quando il dottore americano, dopo dieci minuti di video (La strada bella, uscito in occasione dei 60 anni di Comunione e Liberazione), riconosce: «È questo!», lui che era passato dal buddismo al protestantesimo, a sessantacinque anni dice: «È questo!», lo dice perché ha colto la differenza, ma l’ha colta solo perché noi viviamo questo legame con Pietro. Senza questo legame non ci sarebbe l’esperienza del movimento. Per questo andiamo da papa Francesco; non andiamo a fare una gita a Roma perché non abbiamo altro da fare, ma ci andiamo per la consapevolezza di che cosa si gioca della nostra vita e della nostra esperienza. Perciò aiutiamoci a vivere l’incontro con il Papa già a partire dal viaggio di andata, fino alla modalità con cui staremo in piazza, seguendo le indicazioni che permetteranno un ordine e una bellezza, vivendo con attenzione tutti gli aspetti del gesto: il canto, la preghiera, l’ascolto, tutto. È ancora possibile iscriversi presso le proprie comunità. L’udienza è anche un’occasione per far conoscere l’esperienza del movimento. Sono stati creati per questo una pagina Facebook e un account Twitter, per raccontare come ci stiamo preparando all’udienza. L’hashtag che legherà tutti questi racconti e testimonianze è: #CLdalPapa. DVD di don Giussani realizzato per i dieci anni della morte. Come sapete, il video di don Giussani uscito con il Corriere della Sera rimarrà in vendita in edicola fino al 21 marzo. In questi giorni sarà in distribuzione una nuova ristampa. Conviene per questo prenotare il DVD presso gli edicolanti. Un’attrattiva che muove. Uscirà domani in libreria il volume Un’attrattiva che muove. La proposta inesauribile della vita di don Giussani, che raccoglie gli interventi di molte personalità (intellettuali, giornalisti, ecclesiastici, docenti e politici) che raccontano il loro personale incontro con don Giussani attraverso la lettura della Vita di don Giussani. 
Veni Sancte Spiritus

giovedì 26 febbraio 2015

Far fiorire in noi la domanda del volto di Cristo



So che molti di voi visitano quotidianamente la tomba dove riposa monsignor Giussani, e così assolvete al compito importante di pregarlo, portando a lui anche le domande, le inquietudini, le ansie, le gioie e i dolori di tutti i membri del movimento sparsi in tanti Paesi del mondo. È la fama di santità di don Giussani che cresce e, su questa, il Signore costruisce e la Chiesa fa i suoi passi.

Mi domandavo: perché un popolo – perché di questo si può ormai parlare – si muove con tanta tenerezza verso un uomo? E faticavo a cercare in me una risposta che non fosse ovvia e non rischiasse quindi di essere banale. Poi mi hanno messo in mano una lezione di don Giussani per la Quaresima del 1975 (qualcuno di voi l’aveva mandata alle Memores che mi assistono e che hanno sempre uno speciale riguardo nel farmi presente certe cose), nella quale egli citava una lettera ricevuta: «Tutte le volte che nella Messa dico: “Nell’attesa che si compia la beata speranza…”, vorrei che questo si realizzasse subito. Mi chiedo il perché di questa attesa». Don Giussani, prendendo spunto da questo, rifletteva sul senso del tempo. Si domandava: Perché c’è il tempo? Che senso ha il tempo, se tutto è già compiuto? Come lo possiamo vivere, abitato come è dalla drammaticità (nel senso nobile e bello della parola) della nostra libertà? Abitato quindi dal bisogno nostro e dal bisogno altrui, da gioie e da dolori, da angosce e da speranze, dalla coscienza del nostro limite che cresce col passare degli anni, dal dolore ancora troppo incerto per il nostro peccato… Come viverlo il tempo? Forse la compagnia cristiana, la compagnia di tutti i battezzati di questo mondo, la compagnia delle varie realtà in cui la Chiesa si realizza – e Comunione e Liberazione è una di queste – ha come scopo questo: educarci a vivere il tempo come domanda del volto di Gesù. 

Gesù ha dato contenuto all’invocazione del salmista «Il tuo volto Signore io cerco, fammi vedere il Tuo volto». E forse la nostra fede è ancora troppo piccola, in ogni caso non è giunta a una certa maturità finché arriva a questa invocazione. Se non lo facciamo è perché siamo ancora prigionieri delle cose secondo una logica mondana, degli affetti secondo una logica mondana, del nostro lavoro secondo una logica mondana, ma soprattutto siamo ancora sotto il giogo – come dice la Lettera agli Ebrei – del terrore della morte. 
La fama di santità del carissimo don Gius sia il terreno su cui tentiamo - con tutti i nostri limiti, accettandoli con semplicità e con pazienza, contando sul perdono e sulla misericordia di Dio per i nostri peccati riconosciuti come tali – di far fiorire in noi la domanda del volto di Cristo.
Riceviamo ora la benedizione della Trinità.

L'urgenza della maturità della fede

Saluto finale di don Julián Carrón, presidente della Fraternità di CL al cardinale Angelo Scola (Duomo di Milano, 23 febbraio 2015)

Eminenza Reverendissima,
al termine di questa celebrazione in cui abbiamo vissuto, nel Sacrificio del Signore, il ricordo di don Giussani nel 10° Anniversario della sua nascita al Cielo, a sessant’anni dalla nascita di Comunione e Liberazione, desidero manifestarLe a nome mio e di tutti gli amici del Movimento la nostra gratitudine per la Sua partecipazione, che esprime non solo la sollecitudine del Pastore, ma anche l’intensa condivisione di una storia comune. 

Scrivendo a tutta la Fraternità in preparazione al Pellegrinaggio a Roma per l’Udienza con Papa Francesco il 7 marzo prossimo, ho voluto rinnovare la crescente «gratitudine che sentiamo per il dono» della persona di don Giussani, «della sua testimonianza e della sua dedizione totale nell’accompagnare ciascuno di noi affinché potesse diventare sempre più maturo nella fede. È così che ci ha trascinati a Cristo, rendendoLo sempre più affascinante, fino a farLo diventare la Presenza più cara nella nostra vita».

È questa maturità della fede che avvertiamo come l’urgenza più grande per la nostra vita nelle circostanze attuali, così ricche di sfide per il più volte ricordato crollo delle evidenze più elementari e per l’insorgere di nuove forme di violenza, di terrore e di ingiustizia, che rendono più urgente quella ricerca di un “nuovo umanesimo”, da Lei più volte richiamato nell’ultimo Discorso alla città nella Solennità di Sant’Ambrogio. Ci rendiamo conto che l’appartenenza al Movimento, nella sequela della Chiesa universale e particolare, può essere vissuta solo come disponibilità alla testimonianza che nasce dalla conversione a Cristo Signore, che diviene missione. La missione, come ci ha ricordato Papa Francesco nel Messaggio per la Quaresima, «è la paziente testimonianza di Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà e ogni uomo… è ciò che l’amore non può tacere».

Andiamo pellegrini da Papa Francesco per mendicare la freschezza del carisma donatoci nell’incontro con don Giussani, domandando nella sequela di Pietro la grazia di una fede certa, di una speranza instancabile e di una carità ardente, perché l’esperienza di una umanità rinnovata ridesti nei nostri fratelli uomini il presentimento di una Presenza amante della loro libertà e del loro Destino. E siamo particolarmente grati che Lei voglia accompagnarci anche in questa circostanza in cui affidiamo tutta la nostra vita al Successore di Pietro, su cui Cristo edifica e rinnova incessantemente la Sua Chiesa.

Grazie Eminenza!

mercoledì 25 febbraio 2015

Giussani, maestro del nuovo annuncio di Cristo di Robi Ronza


Don Giussani e Giovanni Paolo II
Dieci anni or sono, il 22 febbraio 2005, moriva a Milano don Luigi Giussani. Liberando la memoria dalle semplificazioni massmediatiche di cui fu oggetto mentre era in vita, il tempo da allora trascorso rende oggi più facile cogliere il suo rilievo nella storia della Chiesa e della società del Secolo XX.
Maestro nella fede di vivissimo carisma, ma nel medesimo tempo grande teologo-filosofo ed educatore, Luigi Giussani è stato una delle personalità di maggior peso di quel movimento di riannuncio di Cristo e del suo Vangelo al tramonto dell’età moderna che inizia alla fine del secolo XIX con  John Henry Newman e il suo fondamentale Saggio per una grammatica dell’assenso (1870). Un movimento che trova poi tempestivo riflesso e sviluppo nel magistero papale dell’epoca, da Leone XIII all’attuale Pontefice. E sistematizzazione nel Concilio Vaticano II che, al di là del suo fondamentale ruolo di catalizzatore del processo, ne fu in sostanza assai più un frutto che una fonte.
Giussani fu un uomo, un cristiano di tale statura. Oggi è il caso di cominciare a riconoscerlo, il che è forse più difficile per i numerosi amici e discepoli che ha lasciato su questa terra che non per l’opinione pubblica in genere. Paradossalmente chi ha un ricordo diretto della sua intensa amicizia, o comunque della sua incondizionata prossimità umana con chiunque incontrasse, fatica talvolta a coglierne la statura assai più di chi l’ha visto da lontano. Giussani è stato il grande maestro del riannuncio di Cristo alla fine dell’età moderna, in un mondo largamente secolarizzato e nel quale l’eredità pedagogica e devozionale del Concilio di Trento e della Riforma cattolica non hanno più alcuna presa, non suscitano più interesse alcuno. 
Tra la pubblicazione nel 1870 del Saggio per una grammatica dell’assenso - in cui Newman argomenta il nesso necessario tra la fede e la ragione e sottolinea la congruità della risposta cristiana alle grandi questioni esistenziali - e l’uscita nel 1966 presso Jaca Book della prima edizione de Il senso religioso di Luigi Giussani trascorre un secolo. E’ il secolo in cui la civiltà dei Lumi entra in crisi, le ideologie “laiche” sviluppatesi nei Secoli XVIII e XIX falliscono tragicamente alla prova delle sfide del Secolo XX, lasciandosi dietro di sé una scia di sangue e di lacrime senza paragoni in tutta la storia dell’uomo; e nella Chiesa viene ad esaurirsi l’eredità teorica e pastorale del Concilio di Trento. Nella Chiesa il movimento di esperienze e di pensiero di cui dicevamo trova frattanto impulso e fondamento in figure, tra le altre, come Romano Guardini (1885-1968), Henri de Lubac (1896-1991), Hans Urs von Balthasar (1905-1988), Yves Congar (1905-1995) e infine Luigi Giussani. E pure il cristianesimo riformato vi contribuisce con pensatori e teologi come Reinhold Niebuhr, Karl Barth e altri. 
Non basta ovviamente tutta questa fioritura ad annullare la forza d’inerzia della storia, a causa della quale l’ateismo pratico, il nichilismo e il relativismo da fenomeni di élite - come erano fino a tutti gli anni ’60 del secolo scorso – sono divenuti fenomeni di massa. Il movimento di cui si diceva pone però il seme di una possibile futura ripresa dell’esperienza cristiana in cui si ha buon motivo di sperare, anche se la nostra generazione difficilmente potrà vederne la pienezza. A questo processo Luigi Giussani dà il contributo di un pensiero sorgivo, come bene è stato detto, e la testimonianza carismatica e molto convincente di una vita che la fede nella presenza di Cristo rendeva appassionata  e intensa. Per Giussani, infatti, la fede è il riconoscimento di una Presenza, l’incontro con la quale illumina ogni ambito della vita della persona dai rapporti umani al lavoro, alla vita sociale e politica. Di qui la sua forte critica alla ragione, così come viene intesa dall’Illuminismo, chiusa a priori a tutto ciò che non riesce a spiegare da sé; e disposta per questo anche alla censura dell'esperienza personale e della realtà. La fiducia in una ragione aperta alla fede è per Giussani la premessa metodologica per ogni seria ricerca della verità e per ogni seria analisi dell'esperienza religiosa.
Se tutto questo colloca Giussani, seppur appunto in modo sorgivo, dentro il movimento di esperienza e di pensiero di cui si diceva, sono nella sostanza soltanto suoi il carisma e il metodo pedagogico. Senza soffermarci qui su una vicenda già esaurientemente illustrata da Alberto Savorana in Vita di don Giussani, la sua biografia edita da Rizzoli nel 2014, diremo in breve che a metà degli anni ’50 del secolo scorso, lasciando per questo il suo posto di promettente professore di teologia al seminario diocesano, per quello di insegnante di religione in un liceo di Milano, Giussani vive e sviluppa l’esperienza, e quindi il metodo, che troverà poi sistematizzazione ne Il senso religioso (nuova edizione accresciuta), All’origine della pretesa cristiana e Perché la Chiesa. Pubblicati da Jaca Book tra il 1986 e il 1992 e attualmente editi da Rizzoli, i tre volumi costituiscono “Il percorso”; insomma un itinerario di educazione alla fede su misura per la gente del nostro tempo, così come Giussani l’aveva colta e descritta nel suo La coscienza religiosa nell’uomo moderno, Jaca Book 1985, un testo oggi contenuto ne Il senso di Dio e l'uomo moderno, Rizzoli 1994.
E’ questo il quadro in cui si situa il movimento di Comunione e Liberazione, la principale opera educativa di don Giussani, da lui guidata e animata fino all’ultimo respiro. Di CL, riconosciuto ufficialmente sotto il suo pontificato, nella sua lettera a don Giussani in occasione del 20° anniversario di tale riconoscimento, san Giovanni Paolo II scrive tra l’altro l’11 febbraio 2002: “Riandando con la memoria alla vita e alle opere della Fraternità e del Movimento, il primo aspetto che colpisce è l’impegno posto nel mettersi in ascolto dei bisogni dell’uomo d’oggi. L’uomo non smette mai di cercare (…) L’unica risposta che può appagarlo acquietando questa sua ricerca  gli viene dall’incontro con Colui che è alla sorgente del suo essere e del suo operare. Il Movimento pertanto ha voluto e vuole indicare non una strada, ma la strada per arrivare alla soluzione di questo dramma esistenziale (…)”. Senza ignorarne i limiti e gli errori, ma senza nemmeno dare ingiustificato credito ai troppi attacchi in male fede di cui è stato più volte oggetto, è ponendosi in tale orizzonte  che si può comprendere appieno il senso di CL nella storia della Chiesa del nostro tempo.

Robi Ronza è l'autore di "Il movimento di Comunione e liberazione", libro-intervista a don Luigi Giussani, rieditato nei mesi scorsi dalla BUR, con prefazione di don Julian Carron. 

Negri: «Don Giussani? Un'umanità sfolgorante»


Mons. Negri e don Giussani
«Ragazzi, devo dirvi una cosa: se nascessi cento volte farei sempre il lavoro che sto facendo». Era il 1957, così esordì don Luigi Giussani - oggi ricorre il X anniversario della sua morte -  nella prima lezione dell’anno entrando in classe nella I liceo classico del Berchet a Milano. In quella classe c’era un ragazzo di nome Luigi Negri, oggi arcivescovo di Ferrara-Comacchio, che ricorda quell’episodio come esemplare dell’«umanità sfolgorante» di don Giussani. «Nessuno dei miei insegnanti – ricorda monsignor Negri, che di don Giussani è stato tra i più stretti collaboratori nella guida del movimento di Comunione e Liberazione - mi aveva neanche lontanamente accennato a questa straordinaria sicurezza. Tutti, poco o tanto, desideravano altro perché il presente non corrispondeva alle loro esigenze». 
Una certezza che l’aveva colpita. Ma cosa l’ha spinta a seguire don Giussani?Mi ha colpito la sua umanità. Non è che allora la vita nella società, e anche i rapporti che c’erano tra i ragazzi fossero tutti meschini, violenti, istintivi come purtroppo capita spesso tra i ragazzi di oggi. C’era allora una gamma variegata di testimonianze di quella cosa che univa gli uomini: il senso della propria umanità, il senso della propria dignità, della propria responsabilità, che poteva articolarsi in forme e modi diversi, con opzioni culturali e dialogiche diverse, ma c’era una natura che ci univa. In questa natura uguale, c’erano fattori sfolgoranti. Giussani era un’umanità sfolgorante, cioè un’umanità piena, in cui c’entrava il modo in cui insegnava religione, il modo con cui rideva e scherzava con i suoi allievi, il modo con cui pregava, il modo con cui viveva qualsiasi momento della sua esistenza. Tanti anni dopo, ma tanti anni dopo, forse già vescovo, ho capito il senso della grande frase di San Paolo: «Sia che mangiate sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fatela per Cristo». Io avevo poco più di 16 anni e questo l’ho visto in una esperienza umana. Ma la radice di questa umanità non era in lui, la radice di questa umanità nuova era stata l’incontro straordinario della sua esistenza con quel Gesù Cristo che i suoi genitori gli avevano comunicato, e la sua parrocchia aveva reso cammino inesorabile, tranquillo, sicuro, della sua infanzia e della sua adolescenza fino all’ingresso in seminario.
Nell’episodio citato in apertura, emerge la diversità assoluta di don Giussani rispetto all’ambiente umano circostante. Eppure stiamo parlando di un’Italia ancora cattolica.Come Giussani ha detto tante volte, nei licei classici italiani cominciava allora quella inesorabile scristianizzazione della vita del nostro popolo che aveva come conseguenza la sostituzione di una cultura ancora formata dalla tradizione cattolica, con una cultura laica, atea, laicista. E questo passò attraverso una deformazione sistematica dei contenuti dell’insegnamento, quelli più determinanti per la mentalità: letteratura, storia, filosofia, arte. Lui ci aiutò a contrapporre a questo attacco violento l’imperturbabile serenità di chi aveva trovato una cultura adeguata nella sua vita. Vorrei che tutti quelli che hanno parlato di Giussani, dentro e fuori del movimento di Comunione e Liberazione, avessero anche soltanto una iniziale percezione di questa novità di attacco al mondo, adesso che si predica da tutte le parti che nel mondo non ci si deve essere per attaccare qualcosa, ma essere lì silenti e sbigottiti a vedere che il mondo si rovina.
Quella che lei ha descritto di Giussani è una grande forza attrattiva. Oggi “attrazione” è quasi una parola d’ordine, si dice giustamente che il cristianesimo si diffonde per attrazione. Ma su cosa significhi attrazione ci sono spesso ambiguità. A volte sembra essere identificata con una bellezza di vita personale, qualunque cosa questo significhi, che basterebbe da sola ad attirare l’attenzione degli altri. L’attrazione di cui parliamo è un’attrazione umana. Nell’umanità c’è dentro la capacità di ragionare, nell’umanità c’è dentro tutta la gamma delle esperienze umane. Non si può decidere dove passa l’attrattiva e dove non passa. Soprattutto non si può decidere perché è da imbecilli pensare di essere noi a definire l’ambito dove l’attrattiva si fa presente. L’attrattiva di Giussani era tutta la sua vita, perciò quando giudicava facendo scuola era attraente come quando ci portava in montagna. Dire che essere attraenti oggi vuol dire andare in montagna e non giudicare il mondo in cui noi viviamo, è quella «mediocrità dolce» di cui parla Giussani nel suo ultimo straordinario libro su cui sto facendo il ringraziamento della messa tutte le mattine. E lo consiglierei a tutti quelli che parlano e straparlano di Giussani. “In cammino (1992-1998)" dice che la «mediocrità dolce» sta distruggendo la società, si augura che non distrugga anche la Chiesa.
Quindi attrazione è anche invito agli altri a seguire, implica il "Vieni e vedi".
L'attrazione è invito. È l’invito agli altri, perché l’attrazione esprime una testimonianza e la testimonianza non richiama sé: la testimonianza richiama ciò per cui io sono così. Attraverso la testimonianza di Giussani abbiamo incontrato Gesù Cristo, perché Gesù Cristo era la radice della sua diversità, ma della diversità con cui viveva tutto: questa diversità passava attraverso tutto.
C’è un episodio che don Giussani ha raccontato spesso e che risale all’inizio del suo insegnamento al Berchet, ovvero quando chiese chi fossero quegli studenti che si ritrovavano sempre insieme al secondo piano della scuola. Erano “i comunisti”, ma la loro unità era ciò che mancava ai cristiani in quell’ambiente. Nel Cristianesimo l’unità visibile si chiama comunione, e non per niente questa è la parola che definisce lo stesso movimento di CL. Anche qui Giussani introduce una novità, un metodo nuovo……Che tra l’altro è il metodo della Chiesa: «Dove due o tre saranno presenti in nome mio io sarò con loro fino alla fine del mondo». Queste sono Ipsissima verba domini (parole assolutamente pronunciate da Gesù). “Dove due o tre saranno presenti in nome mio”, significa una unità sociale, visibile, evidente, consapevole di tutti i propri limiti. Io ero fra i quattro, ricordati spesso da Giussani, che si sono alzati in quell’assemblea di centinaia di studenti e ricordo di avere detto con serena tranquillità: «Noi studenti cattolici del Berchet...». È una presenza obiettiva che, pur carica dei propri limiti, ha la consapevolezza di portare ciò che il mondo non conosce e che magari senza esserne consapevole attende. Allora al Berchet non è che non fossero singolarmente cristiani, ma il cristianesimo come diceva lui, divenne un fatto reale nella scuola con lui. Divenne un fatto perché era una presenza unitaria, socialmente evidente; come diceva Plinio al suo amico imperatore: «Un popolo di terzo genere». E come disse il beato Paolo VI nell’udienza del 28 giugno 1972: «una entità etnica sui generis». Ogni tanto quando sento parlare del cristianesimo silenzioso, del cristianesimo che non si impone, che non travolge, soprattutto che non dice niente di esplicito per non violare la coscienza altrui – ma fosse così Gesù Cristo non avrebbe detto “sono il Figlio di Dio”, perché è la cosa più devastante della storia della cultura universale -,  mi viene in mente che adesso uno che entrasse in un ambiente, qualcuno gli si avvicinerebbe e direbbe sottovoce: "Qui qualcuno è cristiano ma preferiamo non dirlo".
Qualche tempo fa, in una intervista, lei parlava del suo incontro quotidiano con don Giussani che dura tuttora. Cosa ha significato don Giussani per la sua vita?
Quando reincontro quotidianamente nella comunione dei santi il mio grande amico monsignor Giussani, mi sento come qualunque cattolico di Milano che entra nella grande, straordinaria costruzione che la fede del popolo di Dio ha eretto alla Madonna. Ma tutta questa enorme grandezza poggia su una piccola pietra posta all’inizio, all’ingresso: «Mariae nascenti». Tutta la grandezza e lo sviluppo è l’espressione commossa, grata, di quella cosa piccola come può essere una donna nella vita nella storia e un uomo nella vita della storia. Ecco, Giussani per me è qualcosa che mi ha travolto nella sua grandezza e nella sua straordinaria umanità, ma alla radice del suo cuore c’era l’amore a Cristo, alla Chiesa, alla Madonna. E questa è la prima grande cosa che evocava in ciascuno di noi, che metteva in moto in ciascuno di noi. 
di Riccardo Cascioli