sabato 21 febbraio 2015

Don Giussani 1922-2005: il pensiero, i discorsi, la fede



L'intervista a Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera (da Tracce di febbraio)

«Ci ha fatto la carità della sua fede»

di Davide Perillo

«Intanto, c’è un anniversario importante. A dieci anni dalla morte, credo sia giusto ripensare al contributo che don Giussani ha dato a tutti. Poi, come Rizzoli, siamo gli editori della sua biografia. Un libro notevole, l’ho apprezzato molto. Magari poteva essere un po’ più sintetico, ma ha il grande pregio di non cadere mai nell’agiografia e di far riflettere». Riflessione che Ferruccio de Bortoli, 61 anni, direttore del Corriere della Sera, ha già avviato nelle occasioni in cui gli è capitato di presentare la Vita di don Giussani, di Alberto Savorana. Ma che ora fa un passo in più: il 22 febbraio, il quotidiano di via Solferino allegherà un dvd sul fondatore di CL (Don Luigi Giussani 1922-2005, euro 9,99 più il prezzo del Corriere). 
Cinquantasette minuti di immagini e parole tratte da interviste tv, spezzoni di incontri pubblici, brani di lettere. Un’occasione per conoscerlo, per farlo vedere anche a chi non lo ha mai incontrato di persona. E per capire di più che cosa ci ha lasciato. «Dieci anni fa, ai funerali, mi colpì molto l’omelia dell’allora cardinale Ratzinger», ricorda de Bortoli: «Faceva capire bene come l’eredità di Giussani andasse molto oltre l’ambito di CL. Ma io, da milanese, mi sono sempre interrogato su quale fosse la radice del fascino suo e della sua esperienza».

Che cosa la colpisce di più?
Intanto, la capacità di stupire i suoi interlocutori. Ha un’attitudine a scuotere anche i lontani. Se mi passate il termine, la sua è un’esperienza di catechesi al di fuori del seminato. Nel senso che ha esercitato la sua missione di sacerdote andando a smuovere gli “altri”: li ha spinti a stare di fronte alla loro responsabilità, a ragionare. 

Lei ha detto che «ci ha costretti a pensare con la nostra testa», ma «reclinata sulla spalla dell’amico o maestro che ci sta vicino…». 
Vero: ha smosso emozioni e sentimenti anche in gente che poi magari ha fatto altri cammini o avuto altri approdi. Scuotendo le coscienze, ha formato delle personalità. In un certo senso ne ha pure abbracciato e sfidato le ribellioni: io credo che in CL ci sia una forte carica rivoluzionaria, oltre che evangelica. Ma tutto questo senza mai dare la sensazione di voler fare proseliti. Poi, credo che si debba ancora valutare appieno il valore laico della sua eredità. 

E qual è, secondo lei?
Ci ha mostrato il vero significato della parola «comunità». In lui questa parola ha una forza universale irresistibile. Qualcosa che la nostra società ha smarrito. Ma il suo richiamo al fatto che come cattolico sei parte di una comunità, concorri a cercare e formare un bene comune, è un fatto a cui dovremmo guardare tutti. Ci trovo molta sintonia con l’Evangelii Gaudium di papa Francesco, con la sua idea che un credente è anche in qualche modo un buon cittadino. La fede non deve essere qualcosa di individualistico, di privato: si esplica nella comunità nella Chiesa, ma ha un valore per tutta la comunità.

Ma non è quello che il mondo laico gli ha sempre rimproverato? L’idea che la fede, appunto, giudichi tutto e sia di per sé un fenomeno anche sociale e civile, veniva tacciato come integralismo… 
Guardi, io l’ho detto anche in pubblico: c’è stato un momento storico in cui da parte di molti laici si riteneva che la Chiesa dovesse essere ricondotta a un ruolo minoritario e marginale. Don Giussani si è ribellato a questo. Non voleva una Chiesa come “soprammobile” della società civile. Doveva essere motore della comunità, acceleratore dei sentimenti, catalizzatore di un’idea di bene comune che andava coltivata. È stato propugnatore di virtù anche civiche, contro una deriva nichilista e individualista presa dalla nostra società. Io sono stato critico con alcune prese di posizione di CL, probabilmente non la penso come lui su certi temi etici, ma credo che il mondo laico debba rivalutarlo, eccome.

Una volta l’ho sentita dire che don Giussani «ha acceso un faro in una società di passioni tristi». In che senso?
Noi non crediamo più in niente. La cittadinanza si è spenta, c’è una scarsa voglia di partecipare. Ma quando guardo a CL, anche se a volte non ne apprezzo le modalità espressive o certi legami in politica, ci vedo una forte vibrazione emotiva, una voglia di capire, di avvicinarsi al prossimo inteso come un bene. È una cosa rara.

Perché? Si spiega tutto con il suo carisma?
A pensarci bene, “carisma” e “carità” hanno la stessa radice. Ecco, credo che don Giussani ci abbia fatto la carità della sua fede. Ha dato un nerbo a una realtà che è illanguidita, secolarizzata, spenta. L’ha riaccesa. Anche a costo di usare, a volte, toni forti. Di dare qualche pugno nello stomaco della gente. 

E oggi? Che contributo continua a darci?
Forse, paradossalmente, lo si vede di più tra coloro che lo hanno frequentato di meno, e che a volte lo hanno avversato. Ora si accorgono che ci ha lasciato qualcosa che va al di là del suo ruolo o delle sue idee. È una modalità di stare al mondo, un modo di vivere e di pensare che dà una scossa, fa sussultare una società che tende a spegnersi. 

Lei lo ha mai incontrato di persona?
Un paio di volte. E, come sa, abbiamo pubblicato alcuni suoi articoli. Purtroppo non c’è mai stata un’occasione privata. Ma credo siano fortunati quelli che hanno avuto un maestro così. Con gli occhi accesi, capaci di non darti tregua. E di farti scoprire percorsi che non avresti mai immaginato.

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