venerdì 27 febbraio 2015

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 25 febbraio 2015

 Luigi Giussani, Perché la Chiesa
Testo di riferimento: L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2014, pp. 13-34.

 • Noi non sappiamo chi era
 • La mente torna

Gloria

Il lavoro di oggi ha come tema il secondo capitolo di Perché la Chiesa, nel quale don Giussani riparte dalla sua costante preoccupazione metodologica, perché è profondamente consapevole che se sbagliamo il metodo, non possiamo capire. E se questo è decisivo sempre, tanto più lo è per le questioni del vivere che sono più urgenti, come quella che stiamo affrontando: «“Come è possibile, oggi, raggiungere una valutazione su Cristo oggettiva e adeguata all’importanza della adesione che pretende?” [come posso io arrivare alla certezza su Cristo?]. Il che equivale anche a dire: “Con quale metodo ho la possibilità di essere ragionevole nell’aderire alla proposta cristiana?”» (p. 13). Tutti avvertiamo l’urgenza di una questione di questo calibro. Chi di noi non desidera raggiungere questa certezza? Sorprendiamo in noi quanto è desiderabile avere questa certezza quando la vediamo realizzata in qualcun altro. Come desidereremmo averla anche noi! Ma ci rendiamo veramente conto della necessità di questa certezza quando la vita ci mette alle strette e sentiamo tutto il bisogno di poggiare su qualcosa di sicuro per non essere schiacciati oppure trascinati da qualsiasi circostanza. Perciò lo scopo di questo capitolo secondo è rispondere a tale questione esistenziale. Ma c’è un rischio. Quale? Quello di leggere questo capitolo come una grande lezione su tre filoni della storia culturale occidentale (razionalistico, protestante e ortodosso-cattolico) dalla quale possiamo imparare qualcosa, come un tipo di conoscenza anche utile, ma che non è in grado di risolvere la questione se posso raggiungere la certezza su Cristo. E siccome è comunque una lettura appassionante, può distrarci dallo scopo. Ma a considerarlo così – don Giussani ci mette subito in allerta –, il capitolo non sarebbe in grado di contribuire a rispondere al bisogno di certezza che noi abbiamo. Aggiungere qualche conoscenza culturale non basta per rispondere al nostro bisogno di certezza, tanto è vero che non basta conoscere i tre atteggiamenti di cui parla don Giussani e descriverli perché il problema sia risolto. Occorre quindi che ciascuno si domandi – facciamo la verifica! – se, lavorando su questo capitolo, ha raggiunto qualche certezza in più su Cristo. Questa è la verifica se stiamo facendo bene la Scuola di comunità, perché aggiungere qualche conoscenza in più sarebbe inutile; già ne abbiamo a sufficienza per vivere anche senza. Basterebbe che ciascuno, prima di andare a letto questa sera, si domandasse: quale certezza in più ho raggiunto lavorando su questo capitolo? Per aiutarci, don Giussani ci dice che questi tre atteggiamenti non sono solo tre episodi della storia culturale, ma sono «le pieghe nascoste assunte dalla storia della coscienza dell’uomo di fronte al problema che stiamo trattando […] [che possono] indicare tre modalità che possono essere [anche] nostre». Di conseguenza, la vera questione − esistenzialmente parlando − è come possiamo sorprendere in noi quei tre atteggiamenti. E quale aiuto ci dà don Giussani, pratico, concreto, così che possiamo sorprendere in noi questi atteggiamenti? Non ci fa fare – non servirebbe! – un’introspezione o una analisi psicologica; no, perché gli atteggiamenti vengono fuori «nell’affrontare», dice la Scuola di comunità, «le più diverse circostanze della nostra vita». È lì, affrontando le circostanze della nostra vita, che emerge davanti ai nostri occhi, alla nostra coscienza, se abbiamo o no certezza di Cristo. Le circostanze possono essere di qualsiasi tipo, «da un incontro desiderato all’ammirazione per un cielo stellato» (p. 14), dai fatti di terrorismo a un evento imprevisto.
Racconto un fatto piccolo.
Piccolo, ma significativo.
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 Io avevo malissimo a un dente. Sono stata male tutto un fine settimana. Vado dal dentista, prende delle pinze giganti e mi estrae il dente. Una paura così era un pezzo che non l’avevo. Ho avuto questa gran paura proprio sul lettino del dentista. Quando sono uscita ho pensato alla mia paura, alla mia fragilità e a tutte le mie paure. Allo scorso collegamento tu parlavi della paura. Ma io a vent’anni mi sentivo un leone e non avevo paura di niente, adesso ho paura di tutto (la salute, i figli, eccetera). Perché crescendo non mi sono irrobustita, ma indebolita? Perché mi scopro così fragile? Eppure sono stata esaudita in tutti i desideri che avevo all’università: un marito, un lavoro, una casa, una famiglia con cui dire anche la preghiera prima di mangiare. Mi scopro sempre più di frequente smarrita e fragile, come sul lettino del dentista, davanti a un sacco di circostanze, a partire dal lavoro mio o di mio marito (che non è così sicuro come vorremmo) o ai fatti che succedono nel mondo, che rimangono un commento su internet. Quindi facendo la Scuola di comunità, fin dal primo paragrafo, mi sono chiesta: dove sta l’inghippo? Come mai ributto Gesù indietro come un fatto storico del passato?

Considerando l’aneddoto dei denti, tu ti chiedi: come è possibile che uno possa essere sempre più esaudito e sempre più smarrito? Non è che la vita ci tratti sempre male, a volte i nostri desideri sono esauditi. Ma questo non basta. Allora, in che cosa riconosco qual è il mio atteggiamento? Dal fatto che Cristo non è in grado di togliermi questo smarrimento, questa paura. Tu sei qui, ma tante volte per noi Cristo, di fatto, davanti alle sfide del vivere, è come un fenomeno del passato, che tu conosci benissimo, che puoi documentare, su cui puoi fare anche una lezione; ma non è realmente presente. A volte confondiamo l’esaudirsi dei nostri desideri con la certezza riguardo a Cristo. E invece no, possiamo essere esauditi, ma questo non ci dà quella consistenza di cui abbiamo bisogno per affrontare le sfide del vivere. E quando le abbiamo davanti a noi, viene a galla il nostro smarrimento. E questo smarrimento che cosa documenta? Che c’è una modalità di entrare in rapporto con le circostanze che è razionalista. «L’atteggiamento razionalista», dice don Giussani, «può essere di ognuno di noi». Perché «lavora [al di là delle intenzioni] sull’ipotesi dell’assenza» (p. 19). Di fatto, davanti alle circostanze io vivo di un’assenza. E in che cosa si vede? Che quando descrivo la realtà, non parlo di una presenza così determinante il vivere che cambia la mia percezione della realtà. Allora ci domandiamo: dov’è l’inghippo? Eppure noi apparteniamo al movimento, siamo qui lealmente! Non è che noi non ci siamo, non è che noi siamo invisibili, non è che non Lo vediamo operare. Dov’è l’inghippo, allora? Nel fatto che non basta questo esserci, se poi non facciamo la strada che ci consente di raggiungere sempre più la certezza su Cristo. Perché possiamo raccontare degli episodi, possiamo raccontare dei fatti – siamo bravissimi nel raccontarli –, ma, come dice la Scuola di comunità, Dio è come ributtato in una lontananza a cui uno sforzo dell’uomo tenta di arrivare ma non riesce, invece di percepirLo come Qualcuno che gli è accanto ora. Non che io lo faccia consapevolmente, ma di fatto vivo l’avvenimento di Cristo come una cosa del passato, come una cosa lontana che non determina il presente. Questo è il punto: io sto davanti a un’assenza, che proprio per questo non è in grado di determinare il presente. 

Una quindicina di giorni fa ho organizzato un regalo di Natale per la mia famiglia, i miei suoceri e i miei genitori: una bellissima vacanza in montagna in albergo, tutti quanti a sciare, serviti e riveriti. L’idea di partenza era organizzare una bellissima cosa anche perché io potessi incominciare a sciare, magari i nonni si occupavano dei più piccoli…
Avevi già assegnato a ciascuno il suo posto!
Poi, considerando il tutto e anche altre situazioni, ho detto: «Sciate voi, io sto con i miei genitori e i bambini più piccoli». Il giorno dopo vedi tutti che partono e vanno a sciare, ed è come aver portato tutti allo stadio, ma tu rimani fuori. E io lì con i miei due piccoli e i miei genitori… Avevo organizzato tutto, preparato tutto, ma io alla sera ero arrabbiato nero. Avevo fatto una cosa bella, ero in un posto bello, ero con la mia famiglia, ma ero proprio arrabbiato. E così, messi a letto i bambini, alla fine del secondo giorno non sono riuscito a dormire, sono andato in sala e non ho dormito fino alle tre di notte. E ho cominciato a fare tutta una serie di ragionamenti, per cui
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 incominciava a diventare evidente che Cristo non c’era, o meglio, non Lo vedevo, non capivo, e pensavo: ma io L’ho incontrato, so tutto, ma adesso proprio non c’entra. Poi la vacanza è finita, per fortuna! Mia moglie a casa mi dice: «Ma perché sei arrabbiato? Si vede che sei arrabbiato»; e mi dice: «Cosa ti ho fatto?». Io la guardo e le dico: «Niente, hai sciato». Ma lei continuava a incalzare: «Me lo devi dire!». Insomma, dopo un po’ le ho detto: «Guarda, il problema è che io ho bisogno che il fatto di Cristo sia per me una cosa determinante nella vita e mi manca talmente che è l’unica cosa che veramente desidero. Io voglio essere determinato da questo, desidero questo». E guardandola – era la stessa faccia del giorno prima –, le ho detto: «Ho bisogno di essere voluto bene». È come se io avessi cercato un fuoco d’artificio, anzi, avevo organizzato il fuoco d’artificio, ma non mi accorgevo e non mi accorgo spesso di quel che c’è, neanche della faccia di mia moglie e dei miei figli.

 E quando non mi accorgo di quel che c’è, come si chiama questo atteggiamento? Razionalismo: non vedo la realtà come è. La posso avere davanti, ma io sono arrabbiato nero anche in una situazione come quella descritta, non è che sia successa una disgrazia, no, tutto era stato pensato, preparato, voluto, il fuoco d’artificio perfetto era stato pensato per godersela alla grande. E allora?

 In questi mesi l’incalzare di quel che è accaduto, di quel che ci diciamo, di quel che vediamo attorno a noi – accorgendomene più o meno –, ha fatto nascere in me un ribollire, un desiderio di essere un po’ in prima linea, mentre per il lavoro che faccio mi sembrava di essere un po’ nelle retrovie. Questa impressione è cresciuta in questi mesi, anche per quel che ho visto, penso per esempio all’incontro con alcuni missionari nostri amici. A un certo punto, una quindicina di giorni fa abbiamo fatto una cena con il mio gruppo di Fraternità e ho confidato loro questa cosa, dicendo che andare a Roma dal Papa era proprio per sentire che cosa aveva da dire e come questo poteva essere una risposta a questo desiderio. La cena si è chiusa così. Il giorno dopo mi arriva un messaggino di un’amica, in cui mi faceva notare che la sera prima ero stato assolutamente ingiusto e che non mi accorgevo di quel che stavo facendo e di quel che accadeva – tra l’altro, lei lavora con me –, che lei non era in seconda linea. L’ho incontrata e le ho detto: «Parliamone». E mi ha impressionato perché ciò che io avevo detto, il mio modo di non guardare, o meglio, di non vedere quel che si stava facendo e quel che era davanti ai miei occhi, l’aveva ferita in un modo tale che la sua passione, il suo modo di guardare, il suo modo di richiamarmi alla realtà mi ha trascinato a rivedere quanto non vedevo più. Mi ha impressionato questo perché, lavorando sullo sguardo ortodosso-cattolico, io ho capito benissimo che se non c’è qualcosa che mi trascina a riguardare Cristo, tutto per me rimane vero, ma si sposta nel passato. Infatti vivevo di un’alternativa, o comunque covavo in me la possibilità di un’alternativa che forse sarebbe stata un po’ meglio rispetto alla realtà vera. Oppure ero trascinato dai miei sentimenti, dal mio «come sarebbe stato bello far questo» che mi emozionava di più. Mi ha proprio colpito che, invece, sono stato rimesso di fronte alla realtà, ed è rinata anche la risposta al Signore: io ci sto a quel che mi chiedi di fare perché Tu ci sei. E mi sono accorto che questo è quel che è accaduto con ciò che tu hai scritto e detto lungo tutto l’anno (Esercizi della Fraternità, inserto sulle elezioni europee, articolo di Natale, lettera sul pellegrinaggio a Roma, articolo sui fatti parigini): il tuo modo di guardare mi ha ritrascinato ogni volta dentro la realtà fino a vedere ciò che non vedevo.

E questo che cosa dimostra? Perché qui sta tutta la vicenda: se Cristo è un fatto presente che mi rende possibile guardare la realtà; altrimenti io decado in uno sguardo ridotto della realtà. Ma la questione è che tutti siamo immersi in un luogo, non è che tutto sparisca e diventiamo tutti spiritualisti e tutti – come dicono alcuni – intimisti; no, tutti noi siamo circondati dalla realtà di una compagnia. Eppure questa compagnia non determina il nostro modo di stare nella realtà, fino al punto di togliere la paura, di togliere lo smarrimento e di accompagnarci quando le cose non vanno come si era pensato. Se non riesco a vedere neanche ciò che sta succedendo davanti ai miei occhi, l’inghippo dov’è? Non è che la realtà sia sparita, tant’è vero che un istante dopo tu non diventi visionario, ma semplicemente ricominci a vedere quel che c’è introdotto da quella persona.
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 È così.

Ma se la Presenza non è accolta nella mia vita in modo tale da determinare il mio atteggiamento rispetto alla realtà, io la riduco a un fatto del passato o a un fenomeno sentimentale, spiritualistico oppure intimistico, protestante (anche se lo “sento”, non determina il modo di stare nella realtà). Quel che veramente è decisivo per raggiungere la certezza su Cristo è vederLo all’opera nel modo con cui io affronto, come dice Giussani, le circostanze della vita, «da un incontro desiderato all’ammirazione per un cielo stellato», tutto. Perché tutto accade davanti ai nostri occhi – non è che succeda per alcuni e per altri no, non è che alcuni siano fuori dal reale e altri dentro; no, tutti apparteniamo alla stessa realtà, ma se la Presenza – come dice la Scuola di comunità: «una presenza integralmente umana» – non è in grado di determinare la vita, la vita non “esplode”, cioè non si realizza. Basta che arrivi Lui, come diceva per analogia la canzone di Mina, e la mente torna, il cuore palpita. La questione è: che cosa facilita questo? Come possiamo crescere sempre di più nel riconoscimento di quel che c’è? Perché c’è, c’è eccome! Vedremo fra poco come l’ultimo che arriva lo vede, vede cose che sono davanti ai nostri occhi, ma che noi non vediamo.

Nel secondo capitolo di Perché la Chiesa, don Giussani sottolinea continuamente come l’avvenimento di Cristo si riveli una presenza integralmente umana, e che ci si può imbattere in Lui solo attraverso la comunità dei credenti, la Chiesa. Fino a qualche tempo fa io ero convintissima di dover avere una certezza su Cristo che superasse la concretezza delle persone, degli amici e della comunità, per rintracciare un fattore comune su cui costruire una certezza. Questo perché, se sono in reparto senza gli amici o senza il moroso, se non posso chiamarli in quel momento, devo comunque riuscire a stare in reparto con le mie difficoltà scoprendo cosa può esserci di buono. Devo scommettere sugli infermieri che sono lì, sui pazienti, sui medici, non è che ci sia qualcuno con appeso il cartello “cristiano” o “ciellino”, ci sono solo io. Ci deve essere qualcosa che mi fa guardare alla realtà facendomi ripartire con un’ipotesi buona, che mi richiami alla grandezza, pur non essendoci concretamente quei volti precisi. Detto ciò, ne parlavo con un’amica che mi diceva che senza partire dagli amici, dalle persone che sa che le vogliono bene, senza tornare concretamente da loro, fa fatica a ripartire. Io mi son detta: beh, vediamo, vediamo se è più vero. Di fatto, anch’io ho bisogno di concretezza, ho bisogno di vedere gli amici, di stare col moroso, e non solo di pensarli. In queste ultime settimane in cui, per determinate circostanze, mi sono ritrovata più che mai ad aver bisogno di fatti concreti, mi sono accorta però che spesso ho delle aspettative sulle persone, come dire: se Cristo passa attraverso queste persone, allora io mi aspetto il massimo, mi aspetto che mi trasmettano un bene assoluto, desidero un bene assoluto. Però non è sempre così. Anche la persona che mi vuol bene è un uomo che sbaglia e ha bisogno di attenzione. Come può essere quindi la comunità dei credenti, al di là dei limiti di ciascuno, la presenza oggettiva di Cristo? Come guardare alla comunità né con un buonismo di fondo (siccome è l’espressione di Cristo, allora va tutto bene, anche se magari uno non mi sopporta) né con la pretesa che risponda esaurientemente al mio bisogno?

 E secondo te come possiamo essere sicuri che la comunità dei credenti è la presenza oggettiva di Cristo? Tu in che cosa potresti riconoscere che è Cristo? Ti faccio una domanda forse più semplice: in che cosa Giovanni e Andrea poterono riconoscere Cristo il giorno in cui Lo incontrarono? Potevano riconoscerLo in qualcosa? 
No.

Vedi? Questo è il punto! Vedete? Questo è il punto: «No»! La moglie di Andrea poteva riconoscere che suo marito aveva incontrato Qualcuno di oggettivamente diverso?
Sì.

 Giussani lo dice, come avete visto nel video allegato al Corriere della Sera: «Ma, Andrea, che hai? Sei diverso, che ti è successo?» («Don Luigi Giussani 1922-2005. Il pensiero, i discorsi, la fede», supplemento mensile, Corriere della sera, 21 febbraio 2015). Gesù era con Andrea nel momento in cui quest’ultimo abbracciava la moglie? No. No! Ma in che cosa si poteva riconoscere che Andrea aveva incontrato una presenza oggettivamente diversa da tutte le altre? Quali segni ha 
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 potuto rintracciare la moglie? È questo ciò di cui non ci rendiamo conto. Lo ripetiamo, lo raccontiamo gli uni agli altri, ma non ce ne rendiamo conto. Per questo, quando poi non abbiamo intorno gli altri, pensiamo di essere da soli. Ma Andrea era da solo quando stava davanti alla moglie? O era già un Andrea diverso, tutto investito, determinato dalla presenza di Cristo, una presenza oggettiva? Sì o sì? Solo Lo può riconoscere chi fa esperienza di questo. Perché, come vedete, tutto questo è a nostra disposizione, lo avete visto tutti nel video, abbiamo sentito milioni di volte Giussani raccontarcelo, lo abbiamo anche letto. Ma è come se quello di Andrea che abbraccia la moglie fosse solo un episodio aneddotico, esemplare, ma che non c’entra con noi. No! Quell’Andrea era tutto lui, ma era tutto diverso. In che cosa poteva capire Andrea che la presenza oggettiva di Cristo era con lui anche quando non aveva Gesù fisicamente accanto? La moglie non ha avuto bisogno che Gesù fosse lì con loro, perché aveva già capito tutto dal modo in cui Andrea l’aveva abbracciata. La stessa cosa, amica, passa attraverso di te quando tu guardi i tuoi malati, e la gente ti domanda: «Perché li guardi così? Perché li tratti così? Da dove nasce questo sguardo?». Cristo sta investendo e determinando talmente il tuo sguardo, la tua modalità di essere, la tua modalità di stare nel reale, che lo vedono perfino i sassi! Allora, con questo negli occhi puoi rispondere alla tua domanda sulla comunità dei cristiani. Al di là dei tuoi limiti – perché tu puoi continuare ad avere tutti i limiti –, la gente percepisce in te uno sguardo sul reale che non nasce da te, che non ti puoi dare da te stessa, che non è l’esito di una tua strategia. È uno sguardo dato, da cui tu sei stata investita. E si vede che Cristo è un fatto presente perché determina il presente come nessun’altra cosa, più di tutti i tuoi limiti, più di come ti risponde l’ammalato, più degli stati d’animo («non Lo sento»). Non mi interessa quel che senti o non senti, mi interessa se tu sei determinata da quella Presenza. Lo si vede nel modo con cui tratti la realtà, indipendentemente dalla coerenza etica, dallo stato d’animo, dalle circostanze, dalla risposta degli altri, indipendentemente da tutto. Una presenza originale ha un’origine totalmente diversa: la presenza oggettiva di Cristo. Perché altrimenti tu questo sguardo diverso nemmeno te lo sogni. 

Reagisco a quel che tu dicevi e mi riallaccio all’amica che ha fatto la prima domanda. Passa il tempo e ci si può trovare più fragili. Questo per me è stato un punto di scandalo, perché nella preghiera al Signore dicevo: ma come, mi hai promesso che sarei diventato sempre più un uomo e mi trovo sempre più fragile?! Nel tempo, mi viene spessissimo in mente l’episodio dei discepoli sul lago in tempesta: ce L’avevano lì e sapevano anche che Lui era la risposta, tant’è che quando vacillano, che quando tremano, Lo svegliano. Io mi sento così, perché altrimenti – e chiariscimi dove sbaglio, se sbaglio – colgo nelle tue parole o nella sottolineatura di questa sera quasi il rischio che il cristianesimo o la fede diventino una specie di superomismo. Io negli anni mi sono sempre più stancato dei miei amici che avevano sempre le idee chiare su come dovesse essere la vita, e qualcuno di loro – lo dico con dispiacere –, quando le difficoltà sono aumentate, l’ho visto vacillare. Perché c’è un aspetto per cui anch’io ero molto baldanzoso quando a quattordici anni ho incontrato il movimento; però, riguardandomi, vedo tanta ingenuità.

La questione è se il cristianesimo genera gente adulta o gente smarrita. Se accade la seconda cosa, allora andiamo tutti a casa! Se Cristo non è capace di generare una persona in grado di stare davanti alla realtà, a me il cristianesimo non interessa.

Ma stai davanti alla realtà quando, di fronte alla tempesta, tu vacilli, però hai un punto a cui puoi chiedere…

Hai un punto a cui chiedere, certo. Ma non ti piacerebbe che questo punto determinasse di più la realtà, in modo tale che davanti alla morte tu non sia determinato solo dalla paura? 

Ma se quando arrivo al momento della morte non ho la presenza di Cristo a cui chiedere di aiutarmi, io non so se reggerei l’impatto di quelle circostanze.

So bene che occorre chiedere! La questione è se il cristianesimo è solo una domanda a livello del senso religioso oppure se tu puoi essere determinato già da una Presenza a cui puoi chiedere perché hai una familiarità con essa. Come diceva Benedetto XVI: quando cadi, cadi nelle braccia di un Altro. Comunque, la questione non si chiarisce discutendo, si chiarisce vivendo. Dice la 
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Scuola di comunità: la presenza integralmente umana «implica il metodo dell’incontro, dell’imbattersi con una realtà esterna a sé», ma questo incontro «ha un aspetto esteriore decisivo come quello interiore» (p. 25). Noi siamo bravi a descrivere l’esteriore, ma quel che succede in Andrea e Giovanni investe e determina l’interiore. E questo genera una creatura nuova, tanto che lo vede la moglie di Andrea, come oggi in tanti lo vedono incontrandoci. Per questo, sottolinea don Giussani, «l’atteggiamento ortodosso-cattolico concepisce l’annuncio cristiano come l’invito a una esperienza presente integralmente umana, un incontro oggettivo con una realtà umana oggettiva, profondamente significativa per l’interiorità dell’uomo, provocativa a un senso e a un cambiamento della vita, perciò invadente il soggetto» (p. 28). Quando noi ci immedesimiamo con Giovanni e Andrea, quel che Giussani descrive in loro è questo: un Fatto oggettivo che invade il soggetto; tanto è vero che dopo l’incontro con Gesù Andrea era sempre Andrea, ma la moglie esclama: «Ma che hai?», perché percepisce qualcosa che ha talmente invaso la vita di Andrea che può riconoscerlo un altro che non sa esattamente che cosa gli è successo, ma che lo può vedere dallo sguardo cambiato. Al New York Encounter è venuto un importante medico sessantacinquenne, che hanno conosciuto i nostri amici, il quale ha raccontato di essere stato alla ricerca, per tutta la vita, di un senso e di un significato, a volte con il desiderio di gettare la spugna, come se non riuscisse a chiudere il cerchio. Era passato attraverso il buddismo, ha avuto rapporti con i protestanti, eccetera. Vedendo il video dei sessant’anni di CL (La strada bella) al New York Encounter (dove nemmeno voleva andare perché lo considerava un evento troppo cattolico, che per lui significava regole e divieti), dopo dieci minuti – dieci di orologio! – ha esclamato: «È questo!». Poi ha saltato la pausa pranzo perché voleva finire di guardarlo. È oggettiva la presenza di Cristo! Lo è talmente che quando uno è stato alla ricerca per sessantacinque anni e se la trova davanti dice: «È questo!». Tanto è vero che già ha cercato i nostri amici là dove vive, dichiarando che questo non lo può perdere, e ha descritto quel che gli è capitato alla proiezione del video come l’evento che ha cambiato la sua vita e che ha lasciato una traccia duratura che gli ha cambiato la mente. Non è che quest’uomo sia l’ultimo dei sentimentali quando parla di un evento che gli ha cambiato la vita, che gli ha lasciato una traccia indelebile, che gli ha cambiato la mente e che gli dà una certezza come non aveva avuto prima – così lo descrive lui –. Non è che noi siamo spiritualisti e non abbiamo visto il video; l’abbiamo visto tutti; ma l’ultimo che arriva in appena dieci minuti coglie tutta la diversità che noi tante volte, solitamente, non vediamo. Non è che non ci sia – perché l’ultimo che meno si aspettava di trovarla la riconosce –, ma noi non la vediamo.
Ascoltiamo ora una persona che mercoledì scorso, insieme ad altre personalità, è venuta all’anteprima del video di don Giussani.

Proiezione della video-intervista a Piero Modiano (Tracce.it: http://bit.ly/1DZbJmQ), presidente di Sea-Aeroporti di Milano, in occasione dell’anteprima del dvd «Don Luigi Giussani 1922-2005. Il pensiero, i discorsi, la fede». Per chi non lo ha mai conosciuto, che cosa restituisce il video di don Giussani? Sì, effettivamente non l’ho mai conosciuto. L’ho conosciuto dal libro [Vita di don Giussani] e l’ho conosciuto da un sacco di gente che l’ha conosciuto, quindi un po’ l’ho conosciuto, indirettamente però. Me l’immaginavo un po’, ma quello che mi ha colpito è l’energia della voce, gli occhi, l’espressione del viso, quando parla, che trasmette una convinzione pazzesca, e una grandissima semplicità di linguaggio, che sono cose che forse m’aspettavo, ma viste, viste di persona danno molto senso a quello che ho saputo indirettamente di lui; cioè, si chiude un po’ il cerchio vedendolo, anche se in un filmato. C’è un passaggio, una frase, un abbozzo che l’ha colpita maggiormente? Devo dire non una, ma c’è la coerenza di tutto quello che lui dice, che è una cosa secondo me che parla all’umanità in generale: che l’uomo non basta a se stesso, che non basta a se stesso l’individuo, non basta a se stessa la storia, non bastiamo a noi stessi. E quest’idea che dentro di noi
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 ci sia l’aspirazione a qualche cosa di altro. Beh, questo è lui: è lui nei libri, è lui nei suoi amici, è lui che parla. Questo a me rimane. E rimane anche quello che basta? Certo, certo! Questa è una grande ricerca, però, che per lui è la fede. Molto emozionante [è] il fatto che c’è questo grande fiume che arriva a sua madre, e [da] sua madre a lui. Grande problema, grande mistero, il problema è che è una fede, è una fede che non divide. Una cosa che ho apprezzato molto, conoscendo in tarda età mia don Giussani: dopo aver attraversato una vita avendo a fianco Comunione e Liberazione in modo molto contraddittorio e contrastato − con l’idea di Comunione e Liberazione integralista −, scopro poi che esiste una fede che non divide, che è una fede curiosa e accogliente, che mi sembra la cosa che in questo ultimo don Giussani − che parla anche al di là di Comunione e Liberazione − è un messaggio modernissimo; la convinzione e la fede che riesce a non dividere, ma riesce a essere accogliente; che se ci si riesce, abbiamo risolto alcuni problemi dell’umanità. * * *

Carrón. Non è che questa persona non abbia visto quello che abbiamo visto noi. 

Davide Prosperi.  
Modiano racconta ciò che lo ha colpito in modo così profondo e pieno di ragioni che ciascuno di noi – credo – potrebbe dire altrettanto di se stesso, perché certamente la cosa che colpisce di più immediatamente rivedendo Giussani è – e noi possiamo dire di farne esperienza anche in tanti momenti della nostra vita – la comunicazione di una certezza, una certezza di cemento armato che però non divide, anzi, ti fa venire voglia di essere come lui, di seguirlo. E questa cosa che dice Modiano noi la stiamo vedendo in tanti modi. Domani uscirà il libro (Un’attrattiva che muove) che raccoglie tanti degli interventi che sono stati fatti di presentazione del libro di Savorana Vita di don Giussani, in cui emerge come siano avvenuti tanti incontri simili a quello che è accaduto a Modiano. Pensando a tutto questo, ciò che colpisce è che sicuramente queste cose nascono e sono legate alla figura di don Giussani, ma questo può essere ancora un giudizio superficiale, perché dobbiamo veramente capire che cosa vuol dire per noi. Io me lo chiedo per me stesso. Perché per molto tempo, e comunque ancora oggi lo si vede, lo si può ritrovare magari in articoli di giornale, in commenti eccetera, c’è stato e c’è il tentativo di dividere, di separare don Giussani, il fondatore, dal movimento come dire: don Giussani bene, CL male. Ma quello che risulta giorno dopo giorno più evidente è che, man mano che lo si conosce, don Giussani diventa un punto di interesse, di giudizio, di curiosità e il giudizio su Giussani e il movimento è rovesciato, come abbiamo sentito nella testimonianza di Modiano, dice: «Mi si chiude il cerchio», perché l’incontro, il primo incontro l’ha fatto attraverso persone di CL. Il movimento con la sua vita, e anche la testimonianza diretta di don Giussani tramandata attraverso la vita del movimento, sta facendo conoscere sempre di più don Giussani al mondo. E qui, secondo me, già si affaccia qualcosa proprio rispetto alla consapevolezza che noi possiamo avere del nostro compito oggi per quello che ci è capitato; perché giudizi come quello che abbiamo appena ascoltato non hanno la loro radice in una sorta di moralità nuova nel senso che – come si diceva prima − siamo un po’ più buoni, che saremo sempre più buoni e saremo sempre migliori; secondo me non è questo il problema, noi non dobbiamo pensare che sia questo il problema, anzi, io penso che questo sia proprio un modo con cui − noi e gli altri − possiamo ridurre quello che realmente sta avvenendo nella nostra storia, come se fosse tutto ridotto al problema di essere migliori, in una sorta di “moralità” superiore. Io non mi sento per niente identificato da questo. A me sembra che il problema sia innanzitutto la proposta del movimento, cioè quello che il movimento è per sé e per il mondo. La proposta del movimento – se stiamo a quello che vediamo e se ci rendiamo conto della portata che ha ciò che sta accadendo, tra di noi e fuori di noi, ciò di cui noi stiamo partecipando – è solo una: l’immedesimazione col carisma. Perché che una persona possa dire a Carrón o a uno di noi quello che abbiamo appena ascoltato: «L’ho conosciuto da un sacco di gente che l’ha conosciuto, quindi un po’ l’ho conosciuto, indirettamente […] sono cose che forse m’aspettavo, ma viste, viste di persona danno molto senso a quello che ho saputo
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 indirettamente di lui; cioè, si chiude un po’ il cerchio vedendolo», questo è potuto accadere perché attraverso quello che ha incontrato ha potuto conoscere chi è Giussani e ha potuto vederlo incarnato in una realtà umana. Il punto è che questa cosa così convincente diventi un fattore normale, ordinario dentro la vita; ordinario, ma che nella sua ordinarietà, proprio per questa certezza di fede, diventa straordinario.

 Carrón.  Qui abbiamo un esempio palese, che è davanti a tutti, di come uno nel presente può raggiungere una certezza su don Giussani, che non ha mai incontrato, perché Modiano ha raggiunto una certezza su di lui attraverso l’incontro con le persone del movimento che ha conosciuto nella sua vita, che lo hanno portato poi a entrare con curiosità in un rapporto; e poi lo hanno invitato a partecipare alla presentazione di Vita di don Giussani. Così ha raggiunto la certezza su don Giussani; adesso ne ha avuto la conferma, ma l’aveva già nella sua esperienza. Il video su Giussani, come ha dichiarato, «chiude il cerchio». Questa è l’unica possibilità, come abbiamo visto, di raggiungere la certezza su Cristo nel presente; adesso, così come fu per Giovanni e Andrea. È sperimentando una tale esperienza del vivere che sei affascinato sempre di più. E in che cosa lo vedi? Nel cambiamento che provoca in te. Non che innanzitutto tu faccia meno errori, ma stai davanti alla realtà con una certezza, con una capacità di fascino, di curiosità, di intelligenza nuova del reale, di consistenza che prima non ti sognavi! Perciò l’unica possibilità per noi di raggiungere questa certezza è essere immersi in una realtà come quella del movimento; ma non ci si può stare senza renderci conto di che cosa sta succedendo. Noi possiamo stare davanti al video di don Giussani e non capire; per cui basta che poi succeda qualsiasi cosa e ci sentiamo soli, smarriti. Se l’appartenenza al movimento non genera una capacità di cogliere questa diversità e di generare una persona certa, noi saremo sempre più smarriti. È questo che noi portiamo: la possibilità di raggiungere la certezza della presenza oggettiva di Cristo ora. 

Abbiamo allestito la mostra su don Giussani «Dalla mia vita alla vostra» in una piazza molto bella. Sono andato a fare il volantinaggio davanti all’ingresso per invitare le gente a visitare la mostra. L’ho fatto domenica dalle due alle quattro, pioveva da matti, ci saranno stati quattro gradi. Ho immaginato: secondo me, non c’è gente in giro, mi mandano a casa. Ed ero anche un po’ contento… Dopo di che sono andato e sono rimasto impressionato. È da un bel po’ che sono del movimento, è trent’anni che faccio i volantinaggi. Ecco: io mai ho avuto un’adesione così, mai! Statisticamente tre persone su dieci mi dicevano: «Ah»; guardavano il volantino, si giravano di novanta gradi ed entravano alla mostra. Addirittura uno mi dice – sul volantino c’era scritto: «Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione» –: «Questo sono io; anzi, don Giussani è come me», ed è entrato. Era un uomo di settant’anni, sono rimasto colpito. Ce ne sono stati molti di esempi così. Siccome pioveva e c’era un caos tremendo, spesso davo il volantino (tutto bagnato!) a della gente che usciva dalla mostra. Usciva, io davo il volantino, e loro mi dicevano: «Ma sono appena uscito!». Io pensavo: la solita scusa di chi non vuole entrare! E allora, per metterli anche un po’ alla prova, ribattevo: «E come è stata la mostra?». Si fermavano, si giravano, mi guardavano negli occhi: «Bellissima! Lo sai che cos’è che ci ha colpito di più? Quei ragazzi che ce la spiegavano». «Perché?», «Me l’hanno fatta vivere». Alcune persone mi hanno anche detto: «Io vorrei essere così». Uno era del movimento, e mi ha detto: «Vorrei che tornasse a questa freschezza la mia appartenenza al movimento. Il “capo” del movimento lì dove vivo è una persona sempre arrabbiata, che fa solo dei discorsi. Me ne sono andato, sono andato in parrocchia ad aiutare il prete che ha bisogno». A parte questi aneddoti, a me ha colpito la disponibilità di questa gente, anzi, da cosa si faceva colpire. Io alla fine mi sono detto: è vero ciò che ci diciamo, cioè che stare dentro la realtà è la verifica della fede. E io mi sono reso conto di più di ciò che ho incontrato attraverso queste persone.

Il bello sono quei ragazzi che spiegano la mostra! Attraverso quei ragazzi, come attraverso ciascuno di noi, può arrivare agli altri la grazia che hanno ricevuto. E la gente lo capisce, e non innanzitutto perché siano più bravi o perché senza macchia, ma per la diversità, per la proposta,
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per lo sguardo che portano. Anche se sono soli a spiegarla, lo portano dentro di sé, perché la certezza di don Giussani è diventata una certezza loro. La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 25 marzo alle ore 21,30. Continueremo a lavorare su Perché la Chiesa, cominciando il capitolo terzo: «Seconda premessa: difficoltà odierna nel capire il significato delle parole cristiane». È un capitolo impegnativo, per questo occorre attrezzarsi, senza spaventarsi. Questo capitolo ha il vantaggio di aiutarci a capire l’origine del crollo delle evidenze che oggi è davanti a tutti, come è accaduto lungo la storia degli ultimi secoli. Perciò può essere veramente decisivo per cogliere in noi l’origine della difficoltà a comprendere il significato delle parole cristiane, perché noi siamo immersi nelle difficoltà di tutti. Allora io vi suggerisco due domande: dov’è cominciata l’origine di questo crollo, che adesso è palese a tutti, e in che cosa lo possiamo riconoscere? Udienza del Papa. Il 7 marzo noi andiamo con gratitudine dal Papa, perché riconosciamo e accettiamo con semplicità, come è scritto nella lettera, che «la vita di ciascuno di noi dipende dal legame con un uomo in cui Cristo testimonia la sua perenne verità nell’oggi di ogni momento storico». Quell’esperienza che gli altri riconoscono incontrandoci, noi la possiamo vivere solo per il legame con la fragilità di questo uomo che si chiama «Papa». Senza questo legame noi la sogniamo un’esperienza come quella del movimento, tanto è vero che se non lo riconosciamo, diventiamo una tra le tante interpretazioni del fatto cristiano di cui abbiamo fatto menzione prima, una tra le tante. Dobbiamo decidere. Amici, dobbiamo decidere! Perché la non decisione è già una decisione a fare un altro tipo di esperienza. Quando il dottore americano, dopo dieci minuti di video (La strada bella, uscito in occasione dei 60 anni di Comunione e Liberazione), riconosce: «È questo!», lui che era passato dal buddismo al protestantesimo, a sessantacinque anni dice: «È questo!», lo dice perché ha colto la differenza, ma l’ha colta solo perché noi viviamo questo legame con Pietro. Senza questo legame non ci sarebbe l’esperienza del movimento. Per questo andiamo da papa Francesco; non andiamo a fare una gita a Roma perché non abbiamo altro da fare, ma ci andiamo per la consapevolezza di che cosa si gioca della nostra vita e della nostra esperienza. Perciò aiutiamoci a vivere l’incontro con il Papa già a partire dal viaggio di andata, fino alla modalità con cui staremo in piazza, seguendo le indicazioni che permetteranno un ordine e una bellezza, vivendo con attenzione tutti gli aspetti del gesto: il canto, la preghiera, l’ascolto, tutto. È ancora possibile iscriversi presso le proprie comunità. L’udienza è anche un’occasione per far conoscere l’esperienza del movimento. Sono stati creati per questo una pagina Facebook e un account Twitter, per raccontare come ci stiamo preparando all’udienza. L’hashtag che legherà tutti questi racconti e testimonianze è: #CLdalPapa. DVD di don Giussani realizzato per i dieci anni della morte. Come sapete, il video di don Giussani uscito con il Corriere della Sera rimarrà in vendita in edicola fino al 21 marzo. In questi giorni sarà in distribuzione una nuova ristampa. Conviene per questo prenotare il DVD presso gli edicolanti. Un’attrattiva che muove. Uscirà domani in libreria il volume Un’attrattiva che muove. La proposta inesauribile della vita di don Giussani, che raccoglie gli interventi di molte personalità (intellettuali, giornalisti, ecclesiastici, docenti e politici) che raccontano il loro personale incontro con don Giussani attraverso la lettura della Vita di don Giussani. 
Veni Sancte Spiritus

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