mercoledì 28 gennaio 2015

Udienza generale: padri assenti, gravi conseguenze


Dio è Padre
Il Papa, all’udienza generale di oggi tenuta nell’Aula Paolo VI in Vaticano, ha ripreso le sue catechesi sulla famiglia, lasciandosi guidare dalla parola padre. “Una parola – ha detto - più di ogni altra cara a noi cristiani, perché è il nome con il quale Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio: Padre. Il senso di questo nome ha ricevuto una nuova profondità proprio a partire dal modo in cui Gesù lo usava per rivolgersi a Dio e manifestare il suo speciale rapporto con Lui. Il mistero benedetto dell’intimità di Dio, Padre, Figlio e Spirito, rivelato da Gesù, è il cuore della nostra fede cristiana”.
Una società senza padri
“Padre – ha proseguito - è una parola nota a tutti, una parola universale. Essa indica una relazione fondamentale la cui realtà è antica quanto la storia dell’uomo. Oggi, tuttavia, si è arrivati ad affermare che la nostra sarebbe una ‘società senza padri’. In altri termini, in particolare nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, svanita, rimossa. In un primo momento, la cosa è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani”.
Dall’autoritarismo all’assenza del padre
“Talvolta – ha osservato - in alcune case regnava in passato l’autoritarismo, in certi casi addirittura la sopraffazione: genitori che trattavano i figli come servi, non rispettando le esigenze personali della loro crescita; padri che non li aiutavano a intraprendere la loro strada con libertà - ma non è facile educare un figlio in libertà, eh! -; padri che non li aiutavano ad assumere le proprie responsabilità per costruire il loro futuro e quello della società. Questo, certamente, è un atteggiamento non buono; però, come spesso avviene, si passa da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su se stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani. Già da vescovo di Buenos Aires avvertivo il senso di orfanezza che vivono oggi i ragazzi; e spesso domandavo ai papà se giocavano con i loro figli, se avevano il coraggio e l’amore di perdere tempo con i figli. E la risposta era brutta, eh! La maggioranza dei casi: ‘Ma non posso, perché ho tanto lavoro …’ E il padre era assente da quel figliolo che cresceva. E non giocava con lui …non perdeva tempo con lui”.
Assenza del padre può avere gravi conseguenze
“Ora – ha aggiunto - in questo cammino comune di riflessione sulla famiglia, vorrei dire a tutte le comunità cristiane che dobbiamo essere più attenti: l’assenza della figura paterna nella vita dei piccoli e dei giovani produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi. E in effetti le devianze dei bambini e degli adolescenti si possono in buona parte ricondurre a questa mancanza, alla carenza di esempi e di guide autorevoli nella loro vita di ogni giorno, alla carenza di vicinanza, alla carenza di amore da parte dei padri. E’ più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono tanti giovani”.
 Improbabile rapporto alla pari padre-figlio
“Sono orfani – ha detto - ma in famiglia perché i papà sono spesso assenti, anche fisicamente, da casa, ma soprattutto perché, quando ci sono, non si comportano da padri, non fanno un dialogo con i loro figli, non adempiono il loro compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle parole, quei principi, quei valori, quelle regole di vita di cui hanno bisogno come del pane. La qualità educativa della presenza paterna è tanto più necessaria quanto più il papà è costretto dal lavoro a stare lontano da casa. A volte sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare in famiglia e come educare i figli. E allora, nel dubbio, si astengono, si ritirano e trascurano le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto ‘alla pari’ con i figli. Ma, è vero che tu devi essere compagno di tuo figlio, ma senza dimenticare che tu sei il padre, eh! Ma se tu soltanto ti comporti come un compagno alla pari del figlio, non farà bene al ragazzo”.
Responsabilità comunità civile
“Ma anche questo lo vediamo nella comunità civile. La comunità civile con le sue istituzioni, ha una certa responsabilità – possiamo dire paterna - verso i giovani, una responsabilità che a volte trascura o esercita male. Anch’essa spesso li lascia orfani e non propone loro una verità di prospettiva. I giovani rimangono, così, orfani di strade sicure da percorrere, orfani di maestri di cui fidarsi, orfani di ideali che riscaldino il cuore, orfani di valori e di speranze che li sostengano quotidianamente. Vengono riempiti magari di idoli ma si ruba loro il cuore; sono spinti a sognare divertimenti e piaceri, ma non si dà loro il lavoro; vengono illusi col dio denaro, e negate loro le vere ricchezze”.
Gesù non ci lascia orfani
“E allora farà bene a tutti, ai padri e ai figli, riascoltare la promessa che Gesù ha fatto ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18). E’ Lui, infatti, la Via da percorrere, il Maestro da ascoltare, la Speranza che il mondo può cambiare, che l’amore vince l’odio, che può esserci un futuro di fraternità e di pace per tutti. Qualcuno di voi potrà dirmi: ‘Ma Padre, oggi lei è stato troppo negativo. Ha parlato soltanto dell’assenza dei padri, cosa accade quando i padri non sono vicini ai figli … È vero, ho voluto sottolineare questo, perché mercoledì prossimo proseguirò  questa catechesi, mettendo in luce la bellezza della paternità. Per questo ho scelto di cominciare dal buio per arrivare alla luce. Che il Signore ci aiuti a capire bene queste cose. Grazie”.  

Rinfrancate i vostri cuori


Index 



PER LA QUARESIMA 2015
Rinfrancate i vostri cuori (Gc 5,8)

Cari fratelli e sorelle,
la Quaresima è un tempo di rinnovamento per la Chiesa, le comunità e i singoli fedeli. Soprattutto però è un “tempo di grazia” (2 Cor 6,2). Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). Lui non è indifferente a noi. Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente a quello che ci accade. Però succede che quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani, dobbiamo affrontare.
Quando il popolo di Dio si converte al suo amore, trova le risposte a quelle domande che continuamente la storia gli pone. Una delle sfide più urgenti sulla quale voglio soffermarmi in questo Messaggio è quella della globalizzazione dell’indifferenza.
L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani. Abbiamo perciò bisogno di sentire in ogni Quaresima il grido dei profeti che alzano la voce e ci svegliano.
Dio non è indifferente al mondo, ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza di ogni uomo. Nell’incarnazione, nella vita terrena, nella morte e risurrezione del Figlio di Dio, si apre definitivamente la porta tra Dio e uomo, tra cielo e terra. E la Chiesa è come la mano che tiene aperta questa porta mediante la proclamazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la testimonianza della fede che si rende efficace nella carità (cfr Gal 5,6). Tuttavia, il mondo tende a chiudersi in se stesso e a chiudere quella porta attraverso la quale Dio entra nel mondo e il mondo in Lui. Così la mano, che è la Chiesa, non deve mai sorprendersi se viene respinta, schiacciata e ferita.
Il popolo di Dio ha perciò bisogno di rinnovamento, per non diventare indifferente e per non chiudersi in se stesso. Vorrei proporvi tre passi da meditare per questo rinnovamento.
1. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” (1 Cor 12,26) – La Chiesa
La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza, ci viene offerta dalla Chiesa con il suo insegnamento e, soprattutto, con la sua testimonianza. Si può però testimoniare solo qualcosa che prima abbiamo sperimentato. Il cristiano è colui che permette a Dio di rivestirlo della sua bontà e misericordia, di rivestirlo di Cristo, per diventare come Lui, servo di Dio e degli uomini. Ce lo ricorda bene la liturgia del Giovedì Santo con il rito della lavanda dei piedi. Pietro non voleva che Gesù gli lavasse i piedi, ma poi ha capito che Gesù non vuole essere solo un esempio per come dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. Questo servizio può farlo solo chi prima si è lasciato lavare i piedi da Cristo. Solo questi ha “parte” con lui (Gv 13,8) e così può servire l’uomo.
La Quaresima è un tempo propizio per lasciarci servire da Cristo e così diventare come Lui. Ciò avviene quando ascoltiamo la Parola di Dio e quando riceviamo i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. In essa diventiamo ciò che riceviamo: il corpo di Cristo. In questo corpo quell’indifferenza che sembra prendere così spesso il potere sui nostri cuori, non trova posto. Poiché chi è di Cristo appartiene ad un solo corpo e in Lui non si è indifferenti l’uno all’altro. “Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor 12,26).
La Chiesa è communio sanctorum perché vi partecipano i santi, ma anche perché è comunione di cose sante: l’amore di Dio rivelatoci in Cristo e tutti i suoi doni. Tra essi c’è anche la risposta di quanti si lasciano raggiungere da tale amore. In questa comunione dei santi e in questa partecipazione alle cose sante nessuno possiede solo per sé, ma quanto ha è per tutti. E poiché siamo legati in Dio, possiamo fare qualcosa anche per i lontani, per coloro che con le nostre sole forze non potremmo mai raggiungere, perché con loro e per loro preghiamo Dio affinché ci apriamo tutti alla sua opera di salvezza.
2. “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9) – Le parrocchie e le comunità
Quanto detto per la Chiesa universale è necessario tradurlo nella vita delle parrocchie e comunità. Si riesce in tali realtà ecclesiali a sperimentare di far parte di un solo corpo? Un corpo che insieme riceve e condivide quanto Dio vuole donare? Un corpo, che conosce e si prende cura dei suoi membri più deboli, poveri e piccoli? O ci rifugiamo in un amore universale che si impegna lontano nel mondo, ma dimentica il Lazzaro seduto davanti alla propria porta chiusa ? (cfr Lc 16,19-31).
Per ricevere e far fruttificare pienamente quanto Dio ci dà vanno superati i confini della Chiesa visibile in due direzioni.
In primo luogo, unendoci alla Chiesa del cielo nella preghiera. Quando la Chiesa terrena prega, si instaura una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio. Con i santi che hanno trovato la loro pienezza in Dio, formiamo parte di quella comunione nella quale l’indifferenza è vinta dall’amore. La Chiesa del cielo non è trionfante perché ha voltato le spalle alle sofferenze del mondo e gode da sola. Piuttosto, i santi possono già contemplare e gioire del fatto che, con la morte e la resurrezione di Gesù, hanno vinto definitivamente l’indifferenza, la durezza di cuore e l’odio. Finché questa vittoria dell’amore non compenetra tutto il mondo, i santi camminano con noi ancora pellegrini. Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, scriveva convinta che la gioia nel cielo per la vittoria dell’amore crocifisso non è piena finché anche un solo uomo sulla terra soffre e geme: “Conto molto di non restare inattiva in cielo, il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime” (Lettera 254 del 14 luglio 1897).
Anche noi partecipiamo dei meriti e della gioia dei santi ed essi partecipano alla nostra lotta e al nostro desiderio di pace e di riconciliazione. La loro gioia per la vittoria di Cristo risorto è per noi motivo di forza per superare tante forme d’indifferenza e di durezza di cuore.
D’altra parte, ogni comunità cristiana è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione con la società che la circonda, con i poveri e i lontani. La Chiesa per sua natura è missionaria, non ripiegata su se stessa, ma mandata a tutti gli uomini.
Questa missione è la paziente testimonianza di Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà ed ogni uomo. La missione è ciò che l’amore non può tacere. La Chiesa segue Gesù Cristo sulla strada che la conduce ad ogni uomo, fino ai confini della terra (cfr At1,8). Così possiamo vedere nel nostro prossimo il fratello e la sorella per i quali Cristo è morto ed è risorto. Quanto abbiamo ricevuto, lo abbiamo ricevuto anche per loro. E parimenti, quanto questi fratelli possiedono è un dono per la Chiesa e per l’umanità intera.
Cari fratelli e sorelle, quanto desidero che i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericordia in mezzo al mare dell’indifferenza!
3. “Rinfrancate i vostri cuori !” (Gc 5,8) – Il singolo fedele
Anche come singoli abbiamo la tentazione dell’indifferenza. Siamo saturi di notizie e immagini sconvolgenti che ci narrano la sofferenza umana e sentiamo nel medesimo tempo tutta la nostra incapacità ad intervenire. Che cosa fare per non lasciarci assorbire da questa spirale di spavento e di impotenza?
In primo luogo, possiamo pregare nella comunione della Chiesa terrena e celeste. Non trascuriamo la forza della preghiera di tanti! L’iniziativa 24 ore per il Signore, che auspico si celebri in tutta la Chiesa, anche a livello diocesano, nei giorni 13 e 14 marzo, vuole dare espressione a questa necessità della preghiera.
In secondo luogo, possiamo aiutare con gesti di carità, raggiungendo sia i vicini che i lontani, grazie ai tanti organismi di carità della Chiesa. La Quaresima è un tempo propizio per mostrare questo interesse all’altro con un segno, anche piccolo, ma concreto, della nostra partecipazione alla comune umanità.
E in terzo luogo, la sofferenza dell’altro costituisce un richiamo alla conversione, perché il bisogno del fratello mi ricorda la fragilità della mia vita, la mia dipendenza da Dio e dai fratelli. Se umilmente chiediamo la grazia di Dio e accettiamo i limiti delle nostre possibilità, allora confideremo nelle infinite possibilità che ha in serbo l’amore di Dio. E potremo resistere alla tentazione diabolica che ci fa credere di poter salvarci e salvare il mondo da soli.
Per superare l’indifferenza e le nostre pretese di onnipotenza, vorrei chiedere a tutti di vivere questo tempo di Quaresima come un percorso di formazione del cuore, come ebbe a dire Benedetto XVI (Lett. enc. Deus caritas est, 31). Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci compenetrare dallo Spirito e portare sulle strade dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle. In fondo, un cuore povero, che conosce cioè le proprie povertà e si spende per l’altro.
Per questo, cari fratelli e sorelle, desidero pregare con voi Cristo in questa Quaresima: “Fac cor nostrum secundum cor tuum”: “Rendi il nostro cuore simile al tuo” (Supplica dalle Litanie al Sacro Cuore di Gesù). Allora avremo un cuore forte e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza.
Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.
Dal Vaticano, 4 ottobre 2014
Festa di San Francesco d’Assisi
Francesco

 


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Un quid contro la cultura del rifiuto


Dall'esigenza di guardare con più profondità i fatti di Parigi, un incontro con padre Samir Khalil Samir e don Stefano Alberto, insieme al giornalista Giorgio Paolucci. La strada per la convivenza? Nasce da una domanda: «Io a Chi appartengo?»
«Je ne sui pas Charlie HebdoIo non sono Charlie, io sono me stesso. Anzi, direi che il problema della libertà è proprio qui». Risponde così don Stefano Alberto, docente di Introduzione alla Teologia alla Cattolica di Milano, a una delle quattro domande su cui si è modellato l’incontro milanese di venerdì 23 gennaio, nella sala di Palazzo Marino, “La scelta tra senso religioso e l’ideologia. Parigi e un mondo in guerra”. Un momento pubblico di lavoro proposto dal Centro Culturale di Milano, in cui tentare di dare un giudizio «per non mettere la testa sotto la sabbia», come ha suggerito il giornalista di AvvenireGiorgio Paolucci, moderatore della serata, di fronte alla crudeltà dei fatti francesi del 7 gennaio.

La prima domanda porta in medias res: molti hanno individuato nella religione la causa di tutta questa violenza, nel momento in cui pretende di possedere la verità. Come è possibile che la religiosità si corrompa e porti al male?

Don Stefano risponde citando il discorso di Regensburg di Benedetto XVI: «La caratteristica della cultura moderna è considerare le religioni come una sorta di sottocultura, per cui al massimo sono tollerate, ma non fanno parte di una vera cultura». L’Occidente è immerso in «questo sottofondo culturale che produce frutti di violenza», aggiunge: «Perché c’è l’illusione che lo spazio comune, laico, debba essere vuoto, vuoto di simboli religiosi per esempio». Una mentalità che alla lunga «non produce tolleranza, ma violenza».

Come vincere questa contraddizione? «Partire dalla propria esperienza. Dall’impatto della realtà sorgono domande ultime. Domande che implicano un livello per cui non c’è nessun uomo che non viva anche solo cinque minuti senza affermare qualcosa di ultimo per cui vale la pena di vivere». Occorre un quid, un ultimo a cui darsi. E «se questo quid diventa qualche cosa di scelto e misurato, è chiaro che la religiosità diventa ideologia».

Frenare questa dilagante «cultura del rifiuto», di cui il terrorismo è intriso, significa educare il senso religioso ad abbracciare l’altro. E, in questo, le religioni, come ha affermato il cardinale Jean-Louis Tauran, citato durante l’incontro, «non sono il problema, ma rappresentano la soluzione».

Parte dalla sua esperienza l’altro interlocutore dell’incontro: padre Samir Khalil Samir, gesuita e islamologo, docente di cultura araba all’Università Saint Joseph di Beirut. È sorpreso del fatto che alcuni affermino che la religione sia la causa della violenza in Occidente dopo un secolo come il Novecento: «Uno deve essere “prefabbricato nel suo cervello” per dire una cosa del genere. La violenza è nella natura animale della persona, la religione è quello che cerca di spiritualizzare l’uomo per renderlo meno animale. Che qualcuno possa usare la religione come mezzo di violenza è verità. Ma affermare che le religioni sono le cause è una contro-verità». Prosegue spiegando con chiarezza le origini dell’islam e sceglie di partire da una questione spinosa: «La violenza fa parte dell’islam sì o no? Io direi sì e no».

Padre Samir spiega come l’islam è nato, con le due fasi della rivelazione di Maometto: la prima, pacifica, legata a La Mecca, la seconda violenta, quando, dopo l’insuccesso dell’inizio, visto che le persone non riconoscono Maometto come profeta, si sceglie di convertire le persone con la forza. Il terrorismo «c’entra con l’islam, perché prende come modello uno degli atteggiamenti di Maometto. Ma dire che l’islam sia “per natura” violento è falso», afferma padre Samir, e aggiunge: «La violenza può essere suscitata da qualsiasi desiderio». Dopotutto l’intero mondo musulmano sta affrontando una profonda crisi le cui ragioni sono legate anche a questa ricerca di una soluzione nel passato. Cosa chiede questo ai cristiani? «Il nostro compito è di aiutare l’islam a trovare la strada che gli permetta di aprirsi al mondo. Come dice san Paolo, esaminando tutto e scegliendo il meglio», risponde padre Samir.

Altro grande tema: la libertà. Don Alberto racconta di Mina, uno studente egiziano della Cattolica, cristiano copto. Durante il loro pranzo di Natale, proprio il 7 gennaio, la televisione per ore «inizia a riversare le immagini dell’orrore. Mina prova due fortissime pressioni, entrambe sentite come un attacco alla sua libertà. La prima è stata la paura», riporta il sacerdote. La seconda, un sentirsi costretto a schierarsi: con l’Islam o con la libertà in Occidente? Il ragazzo dice no ad entrambe. Da una parte la crudeltà, e dall’altra scendere in piazza, ma, in fondo, per che cosa? Mina appartiene a Swap (Share with all people), un gruppo di ragazzi universitari di diversi ambienti culturali, cristiani e musulmani, mossi dal desiderio di riscoprire la propria origine.

Don Stefano riassume il percorso che Mina ha fatto con alcune domande: ma io che esperienza vivo? Da dove vengo? Dove sono? A chi appartengo? «Questo è il percorso di libertà per cui ogni assassinio è un orrore. Ma non possiamo accontentarci di superare la paura creando nuovi slogan, in cui continuiamo, come diceva don Giussani, a “usare la libertà da alienati”».

L’incontro prosegue ricco e denso: dall’intervista al Papa in viaggio di ritorno da Manila sulla libertà di espressione, «che deve tenere conto della realtà umana e perciò dico che deve essere prudente», a padre Samir che insiste sui punti nevralgici del mondo musulmano in rapporto all’Europa e sul valore della convivenza, «diversa dal dialogo e più importante». Fino a esempi concreti da guardare, come l’esperienza di Portofranco, il doposcuola milanese.

Vivere in una società multietnica implica una convivenza. Ormai per molti un dato di fatto, «è anche una grande risorsa», conclude don Stefano Alberto: «E questo è verificabile proprio a partire dall’esperienza di ciascuno, per riscoprire di che cosa consiste l’io, che cosa rende l’io di ciascuno di noi veramente se stesso».

Preghiera della tristezza e della stanchezza – Don Giussani

Giussani

Le due grazie che il Signore dona sono:
la tristezza e la stanchezza.
La tristezza perché mi obbliga alla memoria
E la stanchezza mi obbliga alle ragioni del perché faccio le cose.
Fa’ o Dio che una positività totale guidi il mio animo,
in qualsiasi condizione mi trovi,
qualunque rimorso abbia,
qualunque ingiustizia senta pesare su di me,
qualunque oscurità mi circondi,
qualunque inimicizia, qualunque morte mi assalga,
perché Tu che hai fatto tutti gli esseri sei per il bene,
Tu sei l’ipotesi positiva su tutto ciò che io vivo.
(Don Giussani)

lunedì 26 gennaio 2015

Papa: la fede è dono dello Spirito Santo trasmesso soprattutto dalle donne


Sono principalmente le donne a trasmettere la fede: è quanto ha affermato il Papa nella Messa presieduta a Santa Marta nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria dei Santi Timoteo e Tito, commentando in particolare la seconda Lettera di San Paolo al discepolo Timoteo. 
Sono le mamme e le nonne che trasmettono la fede
Paolo ricorda a Timoteo da dove viene la sua “schietta fede”: l’ha ricevuta dallo Spirito Santo “tramite la mamma e la nonna”. “Sono le mamme, le nonne” – afferma il Papa – che trasmettono la fede. E aggiunge: “Una cosa è trasmettere la fede e altra cosa è insegnare le cose della fede. La fede è un dono. La fede non si può studiare. Si studiano le cose della fede, sì, per capirla meglio, ma con lo studio mai tu arrivi alla fede. La fede è un dono dello Spirito Santo, è un regalo, che va oltre ogni preparazione”. Ed è un regalo che passa attraverso il “bel lavoro delle mamme e delle nonne, il bel lavoro di quelle donne” in una famiglia, “può essere anche una domestica, può essere una zia”, che trasmettono la fede:
“Mi viene in mente: ma perché sono principalmente le donne a trasmettere la fede? Semplicemente perché quella che ci ha portato Gesù è una donna.  E’ la strada scelta da Gesù. Lui ha voluto avere una madre: anche il dono della fede passa per le donne, come Gesù per Maria”.
Custodire il dono della fede perché non si annacqui
“E dobbiamo pensare oggi – sottolinea il Papa - se le donne … hanno questa coscienza del dovere di trasmettere la fede”. Paolo invita poi Timoteo a custodire la fede, il deposito, evitando “le vuote chiacchiere pagane, le vuote chiacchiere mondane”. “Tutti noi – afferma - abbiamo ricevuto il dono della fede. Dobbiamo custodirlo, perché almeno non si annacqui, perché continui a essere forte con la potenza dello Spirito Santo che ce lo ha regalato”. E la fede si custodisce ravvivando questo dono di Dio:
“Se noi non abbiamo questa cura, ogni giorno, di ravvivare questo regalo di Dio che è la fede, ma la fede si indebolisce, si annacqua, finisce per essere una cultura: ‘Sì, ma, sì, sì, sono cristiano, sì, sì…’, una cultura, soltanto. O una gnosi, una conoscenza: ‘Sì, io conosco bene tutte le cose della fede, conosco bene il catechismo’. Ma come tu vivi la tua fede? E questa è l’importanza di ravvivare ogni giorno questo dono, questo regalo: di farlo vivo”.
Timidezza e vergogna non fanno crescere la fede
Contrastano “questa fede viva” – dice San Paolo - due cose: “lo spirito di timidezza e la vergogna”:
“Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza. Lo spirito di timidezza va contro il dono della fede, non lascia che cresca, che vada avanti, che sia grande. E la vergogna è quel peccato: ‘Sì, ho la fede, ma la copro, che non si veda tanto…’. E’ un po’ di qua, un po’ di là: quella fede, come dicono i nostri antenati, all’acqua di rose, così. Perché mi vergogno di viverla fortemente. No. Questa non è la fede: né timidezza, né vergogna. Ma cosa è? E’ uno spirito di forza, di carità e di prudenza. Questa è la fede”.
La fede non si negozia
Lo spirito di prudenza – spiega Papa Francesco - è “sapere che noi non possiamo fare tutto quello che vogliamo”, significa cercare “le strade, il cammino, le maniere” per portare avanti la fede, ma con prudenza.
“Chiediamo al Signore la grazia – conclude il Papa - di avere una fede schietta, una fede che non si negozia secondo le opportunità che vengono. Una fede che ogni giorno cerco di ravvivarla o almeno chiedo allo Spirito Santo che la ravvivi e così dia un frutto grande”.

venerdì 16 gennaio 2015

Lo strano schiamazzo di Vittorio Messori


Vittorio Messori
Sono convinto che il credente, soprattutto se scrive di cose direttamente religiose, abbia dei doveri verso i suoi lettori. Dovere, innanzitutto, di rassicurarli che colui i cui scritti prendono sul serio può, a sua volta, essere preso sul serio. Dovere, dunque, di spiegare che cosa si è voluto dire, perché lo si è detto e (in caso di contestazione) perché si pensa, in coscienza, di non avere sbagliato.
Eccomi qui dunque a spiegare (non certo per fatto personale ma per un doveroso impegno verso chi mi segue su questa rubrica) che cosa è davvero successo tra lo scorso Natale e l’Epifania, quando inaspettatamente mi sono trovato al centro di una sorta di bufera mediatica.
Per tutti quei giorni ho taciuto, non ho replicato se non in due casi specifici. Il primo, quando il Corriere della Sera, su cui avevo pubblicato l’articolo “scandaloso” (mentre sono convinto che non lo fosse affatto e così era convinto pure il direttore De Bortoli, pur ammiratore di papa Francesco che da lui si è fatto intervistare), il Corriere, dunque, senza avvertirmi se non all’ultimo momento, ha pubblicato un confuso, ingiurioso articolo di Leonardo Boff. Come forse si ricorda, l’ormai quasi ottantenne leader della teologia detta della liberazione, dopo gli ammonimenti dell’allora cardinal Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e i richiami di Giovanni Paolo II, decise di lasciare il saio francescano e di andare a vivere con una campagna.

Dopo pochi anni su di lui – come su tutti gli altri cattolici, sacerdoti e laici, che avevano scoperto entusiasti il marxismo, credendo fosse il futuro, mentre invece stava morendo – su di lui e i suoi compagni nella nuova fede si abbatterono le rovine del muro di Berlino. Così, l’ex frate, alla pari di molti altri, scippati in modo imprevisto della disastrosa utopia rossa, passarono a quella verde. In Boff, l’ambientalismo si è trasformato in un vero e proprio culto sincretista, con al centro la Madre Terra invocata come Gaia, con forti accenti new age. Nella fazenda brasiliana dove vive con la compagna e alcuni figli adottivi, si è forgiata una liturgia di fantasia, nella quale battezza, celebra la messa, benedice i matrimoni. E tutto questo nel silenzio acquiescente dell’episcopato brasiliano. Insomma, una vera e propria Chiesa tra panteismo e verdismo: dai dogmi cattolici (che detestava) a quelli marxisti, per finire in quelli ambientalisti.

Pubblicando l’attacco di Boff, il Corriere mi chiedeva di replicare il giorno seguente, come in effetti feci: non fu certo difficile liberarmi di quel caos di politica e miti ecologici. Il mio fu, dunque, un intervento, obbligato. Come fu obbligato il secondo, dove l’interlocutore era ben diverso: il senatore della sinistra Franco Monaco che presiedette l’Azione Cattolica ambrosiana ai tempi di quel cardinal Martini cui era legato da grande comunanza personale e condivisione teologica. Il giornale gli aveva pubblicato un articolo dove mi poneva precise questioni, alle quali era per me doveroso rispondere.
Molti mi invitavano a una risposta completa ai detrattori, spesso di una aggressività e di una violenza che sfiorava l’odio (ho più volte sperimentato che nessuno è più temibile e implacabile degli apostoli del pacifismo, della tolleranza, della non violenza…), ma ho preferito rimandare, per potermi spiegare con più libertà qui, sul Timone, dove si è in famiglia e si possono dire liberamente le cose. Ho rimandato, anche perché da molto tempo ho imparato che, nelle polemiche giornalistiche, ci sono sempre due vittime inevitabili: la carità e la verità. La carità, perché ogni polemica è un duello, l’obiettivo è colpire l’avversario, possibilmente ucciderlo, nel senso di ridurlo al silenzio. Muore anche la verità, perché ciò che importa non è chiarire l’oggetto della contesa, non è cercare una verità più alta e ricca, ma è far prevalere il proprio punto di vista, con ogni mezzo, riducendo la prospettiva dell’altro a schema insipiente se non ridicolo. E, invece, di rado è così: una parte almeno di verità sta anche nell’antagonista, ma si è costretti a cercare di occultarla per imporsi nella lotta. Come diceva Pascal, polemista pentito e, guarda caso, proprio contro i gesuiti: «La verità senza la carità è un idolo diabolico, perché ha l’aspetto di un’opera virtuosa».
Non ho replicato, dunque, per cercare di spegnere una disputa che, come tutte, porta con sé conseguenze da cui un cristiano deve rifuggire. Ma se ho potuto trattenermi, malgrado la violenza pari alla inconsistenza degli attacchi, è perché di eventi simili ne ho già vissuti non pochi nel mio lavoro di cronista che non si sforza di dire cose che piacciano a tutti. I meno giovani ricordano, credo, l’uragano mondiale, di una malizia e violenza che soltanto certi church-intellectuals sanno esercitare, scatenato dalla pubblicazione, a metà degli anni Ottanta, del Rapporto sulla fede, la prima intervista della storia a un Prefetto dell’ex-Sant’Uffizio, il cui secolare silenzio era proverbiale.

I “cattolici aperti” – e non soltanto i cattolici, ma lo schieramento di tutto il sedicente progressismo mondiale, pure quello laico – si scagliarono non solo contro il cardinal Ratzinger ma anche contro il cronista che qui scrive. Il quale non soltanto aveva dato voce al Grande Inquisitore, ma aveva mostrato adesione a quel suo programma che fu marchiato come antievangelica “restaurazione”. Ma, sempre i meno giovani, ricordano pure come nel Novanta, presentando al Meeting di Rimini il mio libro Un italiano serio – biografia del beato Francesco Fàa di Bruno, un patriota che fu perseguitato da coloro che volevano costruire l’Italia unita, ma sradicandola dalla sua religione –, presentando quel libro, dunque, fui accusato della colpa più grave. Nientemeno quella, proverbiale, di “avere parlato male di Garibaldi”.

Avevo infatti osato toccare, presentando la vita di quell’uomo di Dio, uno dei miti fondanti dell’Italia moderna, quello che è glorificato sin dal nome: il Risorgimento. Questo nostro Paese sopravvive su tre miti: la borghesia tra Otto e Novecento si appoggiò a quello, appunto, risorgimentale; il fascismo su quello di Roma imperiale; la democrazia postbellica su quello della Resistenza. Sta di fatto che, almeno allora, Garibaldi e tutti gli altri erano ancora intoccabili e lo sperimentai con una campagna di aggressione inaudita. Ma non la faccio lunga, con altri casi, che pur ci sarebbero: quanto detto mi basta per dire che sono forgiato dall’esperienza, dunque non perdo né la testa, né il sonno, né l’appetito per questi strepiti. Prima o poi le voci diventano rauche e cessano di gridare. E, per dirla con quel grande scrittore, ciò che resta è solo il silenzio delle passioni sprecate.
Per venire, allora, alla bagarre tra Natale e l’Epifania. Innanzitutto, ciò che ha sorpreso non solo me ma anche la stessa direzione del Corsera, e i molti lettori che hanno voluto dirmi la loro solidarietà, è il fatto che coloro che insultavano, scrivevano appelli drammatici, raccoglievano firme, gridavano al complotto, invocavano provvedimenti di censura, ebbene costoro sembravano uniti da una caratteristica: non aver letto affatto l’articolo che provocava il loro sdegno. Si basavano su dei sentito dire, su titoli faziosi di giornali, su post nei siti internet, su ossessioni ideologiche, su fantasmi inconsistenti.

Dunque, primo suggerimento che mi permetto di dare ai lettori di questo nostro Timone: se non lo hanno fatto – e, naturalmente, se il caso gli interessa – leggano quanto ho scritto davvero. Potranno trovare il testo in molti luoghi, nella Rete. Il più spiccio è sul sito che Sebastiano Mallia, un giovane e capace avvocato siciliano, ha voluto (dopo molte insistenze sue e resistenze mie) costruirmi e che ormai da molti anni gestisce con affetto pari all’abilità. Colgo qui l’occasione per ringraziarlo. L’indirizzo del sito è: www.vittoriomessori.it. Si vedrà come il tono sia del tutto pacato; l’informazione corretta; esplicito il rispetto verso il “Vescovo di Roma”; la prospettiva religiosa messa in primo piano; ricordata quale debba essere la prospettiva del cattolico; non dimenticata l’umiltà di chi sa che può sbagliare e non vuole condurre altri all’errore e sa anche che a lui non è dato quel carisma che lo Spirito Santo riserva all’eletto nella Cappella Sistina. Non sto celebrandomi: credo che si tratti di realtà oggettive, come hanno riconosciuto coloro, pochi, che si sono dati la briga di leggere.

In ogni caso sarà bene ricordare ai lettori, anche cattolici, quanto sancisce il Diritto Canonico, la legge che regge la Chiesa, al Canone 212, paragrafo 3: «In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, i laici hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della persona». La libertà del “popolo di Dio”, in casi come questi, è dunque proclamata e salvaguardata. È ciò che hanno dimenticato proprio quelli che da sempre invocano e pretendono la partecipazione del “popolo di Dio” alla gestione quotidiana della Chiesa.
Per tornare a noi: c’è da riflettere su fatti curiosi, certo inediti nella Catholica: il direttore del quotidianoAvvenire, quello del quale l’episcopato italiano risana da sempre i debiti col nostro 8 per mille, si è recato in una sorta di “visita di riparazione” a Radio Radicale, quasi scusandosi con Pannella e dicendo che, a ben vedere, gli obiettivi di quell’anziano guru anticristiano sono spesso quegli stessi dei cattolici. Devo dire, al proposito, che molti sono rimasti sorpresi da una ostinazione persecutoria di quell’Avvenire da cui i cattolici sensati aspettavano, semmai, prospettive diverse dalla mia ma esposte pacatamente, non con una sorta di persecuzione tenace: prima un editoriale, ovviamente negativo; poi una intera paginata di lettere al vetriolo con la sentenza senza attenuanti e senza appello del direttore; il giorno dopo e l’altro ancora, altre lettere di lettori adirati, quasi non esistessero messaggi solidali con il blasfemo Messori. Eppure, nella mia casella di posta sono giunti a decine. Qua e là, poi, sparsi in molti articoli ed editoriali punture di spillo o pugnalate, tanto da far pensare che nel direttore di quel giornale, che peraltro non ho mai incontrato e neppure mai visto, ci sia una sorta di fatto personale. È strano, visto che per anni, al foglio che ora dirige, ho dato quanto potevo, con risultati forse non trascurabili, iniziando proprio lì quella rubrica “Vivaio” che è arrivata sino a questo Timone.
Per stare sempre a fatti inediti: coloro (spesso anziani, in quanto vedovi e orfani della contestazione sessantottina) che, per decenni, hanno versato quantità industriali di sterco su Paolo VI, su Giovanni Paolo II, su Benedetto XVI hanno indossato per l’occasione le divise da zuavi pontifici, hanno redatto e firmato vibranti appelli, hanno addirittura organizzato banchetti per la raccolta di firme a difesa del “vescovo di Roma”, contro il codardo aggressore che qui scrive. Accennavamo, come a caso esemplare, allo sdegno di un Leonardo Boff che, dopo gli strali annosi lanciati contro i pontificati precedenti, dopo essere uscito dalla Chiesa sbattendo la porta, dopo avere creato un culto tutto suo, nominatosi sacerdote di Gaia, invoca da quella Chiesa che ha rifiutato provvedimenti severi verso chi osa anche solo porre domande, rispettose quanto sofferte e fondate, a un Papa. È singolare in lui, e in molti altri come lui, sentire l’elogio e l’invocazione della censura contro la libertà di pensiero del cattolico, per giunta in ciò che non è dogma ma semplice pastorale!
Naturalmente, tra chi gridava alla bestemmia solo per avere espresso alcune, rispettose, perplessità era ovvio che il Messori era solo lo strumento, naturalmente ben pagato, di un oscuro complotto. Dicevo, in apertura di quel mio articolo, che avrei volentieri fatto a meno, in quel momento, di espormi con quella sorta di confessione, non avendo ancora ben capito quale sia il progetto preciso di Francesco. Dunque, dicevo che mi rassegnavo a scrivere perché mi era stato “richiesto”. Era scontato che quella “richiesta” veniva dalCorriere, con il quale da almeno una dozzina d’anni ho un contratto di collaborazione. Sbagliavo a non precisare, dimenticando l’istinto pavloviano alla dietrologia di un certo mondo. Così, si è scritto, con l’aria vissuta di chi conosce i retroscena, che la richiesta mi era in realtà venuta dalla massoneria, dall’Opus Dei, dai lefebvriani, dalla Confindustria, da cardinali dissidenti, dalla Curia romana, da partiti politici, da lobby di fautori della restaurazione e così via, in un delirio di “ecco chi c’è dietro”. Rispondendo a Franco Monaco, che mi poneva egli pure la domanda, gli confessavo che – per la delusione dei complottardi – tutto era stato di una banale normalità; scrivendo per un giornale non avevo fatto altro che rispondere a una richiesta del giornale stesso, senza indicazioni previe su come scrivere il pezzo e senza aggiustamenti, a pezzo scritto, di chicchessia.
Si potrebbe continuare ma basta così, lo schiamazzo non è poi così importante da meritare un impegno ulteriore. Per terminare, volevo solo confermare ai lettori ciò che peraltro è scontato e non avrebbe bisogno di essere ribadito: quel che mi ha mosso in quell’articolo e che, spero, mi muoverà in futuro non è altro che l’amore per la Chiesa e il rispetto per colui che, secolo dopo secolo, è chiamato a guidarla in terra. Un rispetto quale si deve a un padre, dunque tale non solo da permettere ma anzi da esigere lo scambio di vedute, il confronto pacato di opinioni, ovviamente su ciò che non attiene al Credo di cui solo lui, il Papa, è custode. Quel “vescovo di Roma” per il quale, come ricordavo alla fine dell’articolo maudit, ogni cattolico ha il dovere di pregare.

La Chiesa in uscita è una Chiesa che va nel mondo e lo fa con la sua capacità operativa

Luigi-Negri
il messaggio dell’arcivescovo Luigi Negri, alla Diocesi di Ferrara.

Nel suo intervento al III Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, che si è svolto a Roma dal 20 al 22 novembre 2014, sul tema «La gioia del Vangelo: una gioia missionaria…» (cfr. Evangelii gaudium, 21), il Santo Padre Francesco ha riproposto le linee fondamentali per l’approfondimento delle identità e quindi dei carismi delle varie realtà ecclesiali, ma soprattutto ha spinto nella direzione di una riutilizzazione di queste energie, da parte della Chiesa, in funzione della missione, particolarmente intesa come Nuova Evangelizzazione.
Vorrei soffermarmi su un punto che sento di particolare importanza e che mi sembra possa costituire il riferimento fondamentale per un programma unitario della nostra Arcidiocesi all’interno delle vicende e tensioni dell’ora presente.
Il Papa ha detto con chiarezza: «La comunione consiste nell’affrontare insieme e uniti le questioni più importanti, come la vita, la famiglia, la pace, la lotta alla povertà in tutte le sue forme, la libertà religiosa e di educazione. In particolare, i movimenti e le comunità sono chiamati a collaborare per contribuire a curare le ferite prodotte da una mentalità globalizzata che mette al centro il consumo, dimenticando Dio e i valori essenziali dell’esistenza». In contrasto aperto con tante letture minimalistiche, ottimistiche e ireniche dei discorsi del Santo Padre, mi pare che su queste indicazioni siamo tutti costretti ad una profonda presa di coscienza e ad una conversione dell’intelligenza e del cuore.
Il Papa, infatti, dice con chiarezza che ci sono questioni importanti che le varie realtà ecclesiali devono affrontare unite ed insieme, e si riferisce a quei valori fondamentali quali la vita della persona e della società su cui, nella sua storia, la Chiesa ha insistito in modo deciso e franco, pur nella varietà delle condizioni e delle situazioni storiche.
Non possiamo indugiare quando ci sentiamo richiamare fortemente sulla vita, la famiglia, la lotta alla povertà, la libertà religiosa e la libertà di educazione, come valori che non possono non essere al centro di un’azione missionaria e di intervento nella laicità della vita sociale. Io credo che in questo richiamo di Francesco si saldi, in maniera profondamente positiva, il Magistero dell’attuale Pontefice con la Dottrina Sociale della Chiesa, in particolare per come è stata approfondita e riproposta nel Magistero di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
La Chiesa in uscita è una Chiesa che va nel mondo e lo fa con la forza della sua identità, della sua consapevolezza critica, ma soprattutto con la sua capacità operativa.
È evidente che il Papa non approva un mondo cattolico italiano frammentato nelle più diverse articolazioni e che, soprattutto, soffre di un assenteismo nei confronti dei grandi problemi e delle grandi questioni della vita culturale e sociale. È indubbio che si augura – e questo è detto esplicitamente nell’intervento – che torni a rinnovarsi un’unità di carattere culturale, sociale ed operativo per consentire ai cristiani di essere presenti, in maniera attiva e fattiva, dentro le vicende del nostro tempo. Poiché questa è sempre stata esattamente la mia preoccupazione – da più di cinquant’anni – io raccolgo con entusiasmo le indicazioni di Papa Francesco e ritengo di poter chiedere a tutte le realtà laicali della nostra Arcidiocesi di realizzarle il più possibile come programma di vita e di azione del prossimo futuro.

Francesco: no alle colonizzazioni ideologiche della famiglia.


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INCONTRO CON LE FAMIGLIE
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Mall of Asia Arena, Manila
Venerdì, 16 gennaio 2015


Care famiglie,
Cari amici in Cristo,
Sono grato per la vostra presenza qui questa sera e per la testimonianza del vostro amore per Gesù e la sua Chiesa. Ringrazio il Vescovo Reyes, Presidente della Commissione Episcopale per la Famiglia e la Vita, per le sue parole di benvenuto a vostro nome. In maniera particolare ringrazio coloro che hanno presentato le testimonianze – grazie! – e ed hanno condiviso la loro vita di fede con noi. La Chiesa nelle Filippine è benedetta dall’apostolato di molti movimenti che si occupano della famiglia, e io li ringrazio per la loro testimonianza!
Le Scritture parlano poco di san Giuseppe e, là dove lo fanno, spesso lo troviamo mentre riposa, con un angelo che in sogno gli rivela la volontà di Dio. Nel brano evangelico che abbiamo appena ascoltato, troviamo Giuseppe che riposa non una, ma due volte. Questa sera vorrei riposare nel Signore con tutti voi. Ho bisogno di riposare nel Signore con le famiglie, e ricordare la mia famiglia: mio padre, mia madre, mio nonno, mia nonna… Oggi io riposo con voi e vorrei riflettere con voi sul dono della famiglia.
Ma prima vorrei dire qualcosa sul sogno. Il mio inglese però è così povero! Se me lo permettete, chiederò a Mons. Miles di tradurre e parlerò in spagnolo. A me piace molto il sogno in una famiglia. Tutte le mamme e tutti i papà hanno sognato il loro figlio per nove mesi. E’ vero o no? [Sì!] Sognare come sarà questo figlio… Non è possibile una famiglia senza il sogno. Quando in una famiglia si perde la capacità di sognare, i bambini non crescono e l’amore non cresce, la vita si affievolisce e si spegne. Per questo vi raccomando che la sera, quando fate l’esame di coscienza, ci sia anche questa domanda: oggi ho sognato il futuro dei miei figli? Oggi ho sognato l’amore del mio sposo, della mia sposa? Oggi ho sognato i miei genitori, i miei nonni che hanno portato avanti la storia fino a me. E’ tanto importante sognare. Prima di tutto, sognare in una famiglia. Non perdete questa capacità di sognare!
E quante difficoltà nella vita dei coniugi si risolvono se noi conserviamo uno spazio per il sogno, se ci fermiamo a pensare al coniuge, e sogniamo la bontà che hanno le cose buone. Per questo è molto importante recuperare l’amore attraverso il ‘progetto’ di tutti i giorni. Non smettete mai di essere fidanzati!
Il riposo di Giuseppe gli ha rivelato la volontà di Dio. In questo momento di riposo nel Signore, facendo una sosta tra i nostri numerosi doveri e attività quotidiani, Dio parla anche a noi. Ci parla nella Lettura che abbiamo ascoltato, nelle preghiere e nelle testimonianze, e nel silenzio del nostro cuore. Riflettiamo su che cosa il Signore ci sta dicendo, specialmente nel Vangelo di questa sera. Ci sono tre aspetti di questo brano che vi prego di considerare. Primo: riposare nel Signore. Secondo: alzarsi con Gesù e Maria. Terzo: essere voce profetica.
Riposare nel Signore. Il riposo è necessario per la salute della nostra mente e del nostro corpo, eppure è spesso così difficile da raggiungere, a causa alle numerose esigenze che pesano su di noi. Il riposo è anche essenziale per la nostra salute spirituale, affinché possiamo ascoltare la voce di Dio e comprendere quello che ci chiede. Giuseppe fu scelto da Dio per essere padre putativo di Gesù e sposo di Maria. Come cristiani, anche voi siete chiamati, come Giuseppe, a preparare una casa per Gesù. Preparare una casa per Gesù! Voi preparate una casa per Lui nei vostri cuori, nelle vostre famiglie, nelle vostre parrocchie e nelle vostre comunità.
Per ascoltare e accogliere la chiamata di Dio, e preparare una casa per Gesù, dovete essere capaci di riposare nel Signore. Dovete trovare il tempo ogni giorno per riposare nel Signore, per pregare. Pregare è riposare nel Signore. Ma voi potreste dirmi: Santo Padre, lo sappiamo; io vorrei pregare, ma c’è tanto lavoro da fare! Devo prendermi cura dei miei figli; ho i doveri di casa; sono troppo stanco perfino per dormire bene. E’ giusto. Questo potrebbe essere vero, ma se noi non preghiamo non conosceremo mai la cosa più importante di tutte: la volontà di Dio per noi. Inoltre, pur con tutta la nostra attività, con le nostre mille occupazioni, senza la preghiera concluderemo davvero poco.
Riposare in preghiera è particolarmente importante per le famiglie. È prima di tutto nella famiglia che impariamo come pregare. Non dimenticate: quando la famiglia prega insieme, rimane insieme. Questo è importante. Lì arriviamo a conoscere Dio, a crescere come uomini e donne di fede, a sentirci membri della più grande famiglia di Dio, la Chiesa. Nella famiglia impariamo ad amare, a perdonare, ad essere generosi e aperti e non chiusi ed egoisti. Impariamo ad andare al di là dei nostri bisogni, ad incontrare gli altri e a condividere la nostra vita con loro. Ecco perché è così importante pregare in famiglia! Così importante! Ecco perché le famiglie sono così importanti nel piano di Dio per la Chiesa! Riposare nel Signore è pregare. Pregare insieme in famiglia.
Vorrei anche dirvi una cosa molto personale. Io amo molto san Giuseppe, perché è un uomo forte e silenzioso. Sul mio tavolo ho un’immagine di san Giuseppe che dorme. E mentre dorme si prende cura della Chiesa! Sì! Può farlo, lo sappiamo. E quando ho un problema, una difficoltà, io scrivo un foglietto e lo metto sotto san Giuseppe, perché lo sogni! Questo gesto significa: prega per questo problema! 
Ora consideriamo “alzarsi con Gesù e Maria”. Questi preziosi momenti di riposo, di pausa con il Signore in preghiera, sono momenti che vorremmo forse poter prolungare. Ma come san Giuseppe, una volta ascoltata la voce di Dio, dobbiamo scuoterci dal nostro sonno; dobbiamo alzarci e agire (cfr Rm 13,11). In famiglia, dobbiamo alzarci e agire! La fede non ci toglie dal mondo, ma ci inserisce più profondamente in esso. Questo è molto importante! Dobbiamo andare in profondità nel mondo, ma con la forza della preghiera. Ognuno di noi, infatti, svolge un ruolo speciale nella preparazione della venuta del Regno di Dio nel mondo.
Proprio come il dono della Santa Famiglia fu affidato a san Giuseppe, così il dono della famiglia e il suo posto nel piano di Dio viene affidato a noi. Come San Giuseppe. Il dono della Santa Famiglia è stato affidato a san Giuseppe, perché lo portasse avanti. A ciascuno di voi e di noi - perché anch’io sono figlio di una famiglia – viene affidato il piano di Dio perché venga portato avanti. L’Angelo del Signore rivelò a Giuseppe i pericoli che minacciavano Gesù e Maria, costringendoli a fuggire in Egitto e poi a stabilirsi a Nazaret. Proprio così, nel nostro tempo, Dio ci chiama a riconoscere i pericoli che minacciano le nostre famiglie e a proteggerle dal male.
Stiamo attenti alle nuove colonizzazioni ideologiche. Esistono colonizzazioni ideologiche che cercano di distruggere la famiglia. Non nascono dal sogno, dalla preghiera, dall’incontro con Dio, dalla missione che Dio ci dà, vengono da fuori e per questo dico che sono colonizzazioni. Non perdiamo la libertà della missione che Dio ci dà, la missione della famiglia. E così come i nostri popoli, in un momento della loro storia, arrivarono alla maturità di dire “no” a qualsiasi colonizzazione politica, come famiglie dobbiamo essere molto molto sagaci, molto abili, molto forti, per dire “no” a qualsiasi tentativo di colonizzazione ideologica della famiglia, e chiedere a san Giuseppe, che è amico dell’Angelo, che ci mandi l’ispirazione di sapere quando possiamo dire “sì” e quando dobbiamo dire “no”.
I pesi che gravano sulla vita della famiglia oggi sono molti. Qui nelle Filippine, innumerevoli famiglie soffrono ancora le conseguenze dei disastri naturali. La situazione economica ha provocato la frammentazione delle famiglie con l’emigrazione e la ricerca di un impiego, inoltre problemi finanziari assillano molti focolari domestici. Mentre fin troppe persone vivono in estrema povertà, altri vengono catturati dal materialismo e da stili di vita che annullano la vita familiare e le più fondamentali esigenze della morale cristiana. Queste sono le colonizzazioni ideologiche. La famiglia è anche minacciata dai crescenti tentativi da parte di alcuni per ridefinire la stessa istituzione del matrimonio mediante il relativismo, la cultura dell’effimero, una mancanza di apertura alla vita.
Penso al Beato Paolo VI. In un momento in cui si poneva il problema della crescita demografica, ebbe il coraggio di difendere l’apertura alla vita nella famiglia. Lui conosceva le difficoltà che c’erano in ogni famiglia, per questo nella sua Enciclica era molto misericordioso verso i casi particolari, e chiese ai confessori che fossero molto misericordiosi e comprensivi con i casi particolari. Però lui guardò anche oltre: guardò i popoli della Terra, e vide questa minaccia della distruzione della famiglia per la mancanza dei figli. Paolo VI era coraggioso, era un buon pastore e mise in guardia le sue pecore dai lupi in arrivo. Che dal Cielo ci benedica questa sera.
Il mondo ha bisogno di famiglie buone e forti per superare queste minacce! Le Filippine hanno bisogno di famiglie sante e piene d’amore per custodire la bellezza e la verità della famiglia nel piano di Dio ed essere di sostegno e di esempio per le altre famiglie. Ogni minaccia alla famiglia è una minaccia alla società stessa. Il futuro dell’umanità, come ha detto spesso san Giovanni Paolo II, passa attraverso la famiglia (cfr Familiaris consortio, 85). Il futuro passa attraverso la famiglia. Dunque, custodite le vostre famiglie! Proteggete le vostre famiglie!Vedete in esse il più grande tesoro della vostra nazione e nutritele sempre con la preghiera e la grazia dei Sacramenti. Le famiglie avranno sempre le loro prove, non hanno bisogno che gliene aggiungiate altre! Invece, siate esempi di amore, perdono e attenzione. Siate santuari di rispetto per la vita, proclamando la sacralità di ogni vita umana dal concepimento fino alla morte naturale. Che grande dono sarebbe per la società se ogni famiglia cristiana vivesse pienamente la sua nobile vocazione! Allora, alzatevi con Gesù e Maria e disponetevi a percorrere la strada che il Signore traccia per ognuno di voi.
Infine, il Vangelo che abbiamo ascoltato ci ricorda che il nostro dovere di cristiani è essere voci profetiche in mezzo alle nostre comunità. Giuseppe ha ascoltato la voce dell’Angelo del Signore e ha risposto alla chiamata di Dio di prendersi cura di Gesù e Maria. In questo modo egli ha svolto il suo ruolo nel piano di Dio ed è diventato una benedizione non solo per la Santa Famiglia, ma per tutta l’umanità. Con Maria, Giuseppe è stato modello per il bambino Gesù mentre cresceva in sapienza, età e grazia (cfr Lc2,52). Quando le famiglie mettono al mondo i bambini, li educano alla fede e ai sani valori e insegnano loro a contribuire al bene della società, diventano una benedizione per il mondo. Le famiglie possono diventare una benedizione per il mondo! L’amore di Dio diventa presente e attivo attraverso il modo con cui noi amiamo e le buone opere che compiamo. Così diffondiamo il Regno di Cristo nel mondo. Facendo questo, siamo fedeli alla missione profetica che abbiamo ricevuto nel Battesimo.
Durante quest’anno, che i vostri Vescovi hanno qualificato come Anno dei Poveri, vi chiederei, in quanto famiglie, di farvi particolarmente attenti alla nostra chiamata ad essere discepoli missionari di Gesù. Questo significa essere pronti ad andare oltre i confini delle vostre case e prendervi cura dei fratelli e delle sorelle più bisognosi. Vi chiedo di interessarvi specialmente a coloro che non hanno una famiglia propria, in particolare degli anziani e dei bambini orfani. Non lasciateli mai sentire isolati, soli e abbandonati, ma aiutateli a sentire che Dio non li ha dimenticati. Oggi mi sono commosso tantissimo dopo la Messa, quando ho visitato questa casa di bambini soli, senza famiglia. Quanta gente lavora nella Chiesa perché questa casa sia una famiglia! Questo significa portare avanti, profeticamente, il significato di una famiglia.
Potreste essere voi stessi poveri in senso materiale, ma avete un’abbondanza di doni da offrire quando offrite Cristo e la comunità della sua Chiesa. Non nascondete la vostra fede, non nascondete Gesù, ma portatelo nel mondo e offrite la testimonianza della vostra vita familiare!
Cari amici in Cristo, sappiate che io prego sempre per voi! Prego per le famiglie, lo faccio! Prego che il Signore continui ad approfondire il vostro amore per Lui, e che questo amore possa manifestarsi nel vostro amore vicendevole e per la Chiesa. Non dimenticate Gesù che dorme! Non dimenticate san Giuseppe che dorme! Gesù ha dormito con la protezione di Giuseppe. Non dimenticate: il riposo della famiglia è la preghiera. Non dimenticate di pregare per la famiglia. Pregate spesso e portate i frutti della vostra preghiera nel mondo, perché tutti possano conoscere Gesù Cristo e il suo amore misericordioso. Per favore, “dormite” anche per me: pregate anche per me, ho davvero bisogno delle vostre preghiere e conterò sempre su di esse. Grazie tante!



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Quella parola che mancava

È uscito il primo numero di "Charlie Hebdo" dopo la strage. In copertina, Maometto. Eppure sono spuntate una lacrima sul volto del profeta e una frase: «Tutto è perdonato». Come se, per non rimanere schiacciati dal dolore...
«Ho disegnato Maometto e poi ho scritto “Io sono Charlie”. L’ho guardato e ho aggiunto: “Tutto è perdonato”. Poi ho pianto. Avevo trovato la soluzione. Ed era la nostra soluzione, non era tutto quello che gli altri volevano che noi facessimo». Così ieri Renald Luzier, in arte Luz, aveva spiegato a centinaia di giornalisti schierati come aveva pensato e disegnato la copertina del primo numero di Charlie Hebdo, dopo la strage del 7 gennaio. 

La cronaca ci dice che i tre milioni di copie non sono bastati, perché i francesi si sono messi in coda all’edicola sin dall’alba: E così ne è stata fatta un'extra tiratura di due milioni. Tutto previsto e prevedibile. Tutto tranne quella copertina, in cui fa capolino una parola anomala nella prospettiva inesorabilmente laica del giornale satirico francese: perdono. Una parola imprevista che una volta accettata e messa in pagina, suona un po’ come una liberazione: «Ho pianto», ha infatti confidato il disegnatore. 

Personalmente non amo lo stile delle vignette di Charlie Hebdo. Lo trovo abbastanza datato, ingolfato di indignazioni che appartengono a stagioni ormai tramontate. Uno stile emblematico di una Parigi che s’illude di essere ancora barricadera. 

In più aggiungo che non avevo per nulla condiviso la scelta di pubblicare quelle vignette, per altro neanche tanto brillanti, su Maometto. Ma questa volta, quando forse meno ce lo aspettavamo, Charlie Hebdo ci ha sinceramente sorpresi. 

E viene da chiedersi da dove sia scaturita questa intuizione così imprevista e fuori copione. L’unica risposta credibile è di tipo umano:arrivano momenti in cui il dolore che ha investito la nostra vita è talmente fuori proporzione e talmente insostenibile, da costringerci a uscire da noi stessi. Ad affidarci ad una logica che sino a quel momento avevamo guardato magari con un po’ di altezzosità. 

A Luz e ai suoi amici che lo hanno lasciato fare, credo sia accaduto proprio questo. Ha disegnato Maometto, quasi volesseproseguire nell’oltranzismo di sempre, senza “se” e senza “ma”. Poi deve aver avuto un tentennamento. Proviamo ad immaginare: quel tentennamento non era dettato dalla paura, ma dalla domanda «cosa c’entra questo che sto disegnando con il dolore che ho vissuto?». E così è spuntata la lacrima, quasi un po’ stravagante, sul volto del profeta. Nel muro, a quel punto, si era già aperta una breccia. Ma non bastava. 

C’era bisogno di una parola a cui attaccarsi per andare avanti, per non restare schiacciati dall’accaduto. E quella parola è spuntata fuori, contro ogni schema e fuori da ogni copione. Perché è una parola familiare al vocabolario della Bibbia e del Corano («Mi abbandono a Colui che perdona, Egli è il migliore dei perdonatori», dice un passo bellissimo del libro sacro dell’Islam): ed è ben noto quanto quelli di Charlie vedessero le religioni come fumo negli occhi... Ma c’era bisogno di una parola così, una parola pienamente umana. Perdono. 

Chissà cosa ne hanno pensato quei 5 milioni di francesi che si sono fiondati a comperare Charlie HebdoGiuseppe Frangi

mercoledì 14 gennaio 2015

«Dio non è come Allah: alcuni dei suoi seguaci teorizzano la violenza»



L'arcivescovo di Ferrara non usa mezzi termini: «Nessuna pietà per chi non aderisce al credo musulmano. Noi cristiani siamo più tolleranti»


L'Islam è un'ideologia di origine teocratica, che trasforma la religione in strumento del regno».
Parole chiare quelle di Sua Eccellenza Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara e Comacchio.
Non c'era da dubitarne. La scorsa estate, alla vigilia di Ferragosto, festa dell'Assunta durante la quale si sarebbe pregato per la pace in Medio Oriente, Negri aveva fatto affiggere sulla facciata dell'arcivescovado il simbolo dei cristiani perseguitati dagli islamisti iracheni.
Il marchio rappresentava «l'iniziale della parola Nassarah (Nazzareno), il termine con cui il Corano individua i seguaci di Gesù di Nazareth - che viene imposto dalle milizie dell'autoproclamatosi califfo al-Baghdadi agli infedeli-cristiani per i quali non c'è posto nello Stato islamico dell'Iraq e del Levante a meno che si convertano».
In questa intervista l'arcivescovo di Ferrara ha accettato di parlare delle radici religiose della violenza che ha insanguinato le strade di Parigi.
In questi giorni si ripetono accuse nei confronti delle religioni come fossero tutte causa di violenza, morte e carneficine. È corretto o sono necessari dei distinguo?
«Sono più che necessari. Per la conoscenza che ho delle grandi religioni occidentali e asiatiche, la violenza non è nelle teorie ma è un fatto comportamentale. Più facilmente, come ha mostrato la storia del Novecento, è l'ideologia condita di ateismo, a produrre violenza. Perché si vuole piegare al proprio credo chi lo rifiuta. Fatta questa precisazione, l'unica religione che tematizza la violenza come direttiva teorica e pratica è l'Islam. Ma qui si apre un'altra riflessione. Nella sua essenza l'Islam è un'ideologia di origine teocratica, che rende quindi la religione strumento del regno».
Una religione che divide il mondo in fedeli e infedeli?
«Alle religioni nelle quali la violenza è teorizzata e indicata come atto pratico ci si deve opporre con nettezza».
Anche i cristiani, storicamente, sono stati violenti usando la fede come strumento di dominio.
«Questo è un fatto storico. I cristiani hanno potuto essere violenti, anche se non credo nelle dimensioni nelle quali viene spesso narrato, perché hanno assunto le modalità di espressione e di comportamento del loro tempo. Di suo, il cristianesimo non è violento».
Quindi tra Allah e Dio c'è differenza in rapporto all'uso della violenza.
«La violenza nell'Islam ha tutt'altra natura perché è intollerante verso chi non aderisce al credo musulmano. Noi cristiani siamo esortati dalla tradizione della Chiesa e dal magistero papale a non far prevalere i nostri istinti sulla dottrina».
Non crede all'esistenza dell'Islam moderato?
«Credo nella natura umana animata, secondo sant'Agostino, dal desiderio di bellezza, verità, bontà. Più che nel prevalere dell'Islam moderato confido nell'emergere di questo umanesimo comune a tutti: cristiani, musulmani e appartenenti a tutte le confessioni religiose. La ricerca di questa bontà e benevolenza è la base per un rapporto corretto e ragionevole anche con l'Islam».
Anche di fronte alla sacralità della vita ci sono atteggiamenti diversi?
«I cristiani rintracciano le ragioni del rispetto della vita in questo umanesimo. Spero che prevalga anche tra i musulmani rispetto a certe formulazioni ideologiche che ritroviamo nell'Islam».
Perché sui simboli religiosi cristiani si può scherzare mentre Maometto non può essere fatto oggetto di ironia?
«Se per ironia s'intende la consapevolezza della differenza tra dottrina e modalità con cui viene conosciuta e comunicata, ben venga. Senza ironia la vita diventa insopportabile. Se invece significa disprezzo per i contenuti della fede, allora non ci sto. Nella cultura islamica non esiste la possibilità di ironizzare su certi eccessi dei credenti. Invece, nel mondo cattolico l'autoironia dei cristiani è segno di adesione matura». 

domenica 11 gennaio 2015

QUELLE MERVEILLE!

Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo
"Il problema dell'esegesi coincide ampiamente con il problema della filosofia. Le gravi difficoltà della filosofia, ossia quelle in cui si è dibattuta la ragione orientata in senso positivista, sono diventate le gravi difficoltà della nostra fede. Quest'ultima non può diventare libera, se la ragione stessa non si apre nuovamente. Se rimane chiusa la porta della conoscenza metafisica, se restano invalicabili i confini posti da Kant alla conoscenza umana, la fede è destinata ad atrofizzarsi: le manca il respiro. Certo, il tentativo di volersi tirare fuori dalla palude delle incertezze, per così dire prendendo sé stessi per i capelli, attraverso una ragione rigorosamente autonoma, che non vuole sapere nulla in fatto di fede, non può avere successo. La ragione umana infatti non è per nulla autonoma. Essa vive sempre in particolari contesti storici. Essi le offuscano la vista (come possiamo constatare); perciò essa ha bisogno anche di venir soccorsa sul piano storico, per poter superare le barriere che le provengono dalla storia. Ritengo che il razionalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i preambula fidei con una ragione rigorosamente indipendente dalla fede, con una certezza puramente razionale; tutti gli altri tentativi, che vorranno fare lo stesso percorso, otterranno alla fine gli stessi risultati. Su questo punto aveva ragione Karl Barth, nel rifiutare la filosofia come fondamento della fede indipendente da essa: la nostra fede si fonderebbe allora, in fondo, su mutevoli teorie filosofiche. Ma Barth sbagliava nel definire perciò stesso la fede come un puro paradosso, che può sussistere solo contro la ragione e in totale indipendenza da essa. Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla appunto nuovamente a sé stessa. Lo strumento storico della fede può liberare nuovamente la ragione come tale, in modo che quest'ultima - messa sulla strada della fede - possa vedere di nuovo da sé. Dobbiamo sforzarci di ottenere un simile rapporto nuovo tra fede e filosofia, perché esse hanno bisogno l'una dell'altra. La ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza la ragione non diventa umana.
...deve addirittura apparire un miracolo che nonostante tutto si continui a credere cristianamente... Come mai la fede ha ancora in assoluto una possibilità di successo? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo. L'uomo infatti possiede una dimensione più ampia di quanto Kant e le varie filosofie postkantiane gli abbiano attribuito. Kant stesso con i suoi postulati lo ha anche dovuto ammettere in qualche modo. Nell'uomo vi è un'inestinguibile aspirazione nostalgica verso l'infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell'ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l'uomo. Il nostro compito è quello di servire a lui con umile coraggio, con tutta la forza del nostro cuore".
(J. RATZINGER, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2005, pagg. 141-143)