mercoledì 28 gennaio 2015

Un quid contro la cultura del rifiuto


Dall'esigenza di guardare con più profondità i fatti di Parigi, un incontro con padre Samir Khalil Samir e don Stefano Alberto, insieme al giornalista Giorgio Paolucci. La strada per la convivenza? Nasce da una domanda: «Io a Chi appartengo?»
«Je ne sui pas Charlie HebdoIo non sono Charlie, io sono me stesso. Anzi, direi che il problema della libertà è proprio qui». Risponde così don Stefano Alberto, docente di Introduzione alla Teologia alla Cattolica di Milano, a una delle quattro domande su cui si è modellato l’incontro milanese di venerdì 23 gennaio, nella sala di Palazzo Marino, “La scelta tra senso religioso e l’ideologia. Parigi e un mondo in guerra”. Un momento pubblico di lavoro proposto dal Centro Culturale di Milano, in cui tentare di dare un giudizio «per non mettere la testa sotto la sabbia», come ha suggerito il giornalista di AvvenireGiorgio Paolucci, moderatore della serata, di fronte alla crudeltà dei fatti francesi del 7 gennaio.

La prima domanda porta in medias res: molti hanno individuato nella religione la causa di tutta questa violenza, nel momento in cui pretende di possedere la verità. Come è possibile che la religiosità si corrompa e porti al male?

Don Stefano risponde citando il discorso di Regensburg di Benedetto XVI: «La caratteristica della cultura moderna è considerare le religioni come una sorta di sottocultura, per cui al massimo sono tollerate, ma non fanno parte di una vera cultura». L’Occidente è immerso in «questo sottofondo culturale che produce frutti di violenza», aggiunge: «Perché c’è l’illusione che lo spazio comune, laico, debba essere vuoto, vuoto di simboli religiosi per esempio». Una mentalità che alla lunga «non produce tolleranza, ma violenza».

Come vincere questa contraddizione? «Partire dalla propria esperienza. Dall’impatto della realtà sorgono domande ultime. Domande che implicano un livello per cui non c’è nessun uomo che non viva anche solo cinque minuti senza affermare qualcosa di ultimo per cui vale la pena di vivere». Occorre un quid, un ultimo a cui darsi. E «se questo quid diventa qualche cosa di scelto e misurato, è chiaro che la religiosità diventa ideologia».

Frenare questa dilagante «cultura del rifiuto», di cui il terrorismo è intriso, significa educare il senso religioso ad abbracciare l’altro. E, in questo, le religioni, come ha affermato il cardinale Jean-Louis Tauran, citato durante l’incontro, «non sono il problema, ma rappresentano la soluzione».

Parte dalla sua esperienza l’altro interlocutore dell’incontro: padre Samir Khalil Samir, gesuita e islamologo, docente di cultura araba all’Università Saint Joseph di Beirut. È sorpreso del fatto che alcuni affermino che la religione sia la causa della violenza in Occidente dopo un secolo come il Novecento: «Uno deve essere “prefabbricato nel suo cervello” per dire una cosa del genere. La violenza è nella natura animale della persona, la religione è quello che cerca di spiritualizzare l’uomo per renderlo meno animale. Che qualcuno possa usare la religione come mezzo di violenza è verità. Ma affermare che le religioni sono le cause è una contro-verità». Prosegue spiegando con chiarezza le origini dell’islam e sceglie di partire da una questione spinosa: «La violenza fa parte dell’islam sì o no? Io direi sì e no».

Padre Samir spiega come l’islam è nato, con le due fasi della rivelazione di Maometto: la prima, pacifica, legata a La Mecca, la seconda violenta, quando, dopo l’insuccesso dell’inizio, visto che le persone non riconoscono Maometto come profeta, si sceglie di convertire le persone con la forza. Il terrorismo «c’entra con l’islam, perché prende come modello uno degli atteggiamenti di Maometto. Ma dire che l’islam sia “per natura” violento è falso», afferma padre Samir, e aggiunge: «La violenza può essere suscitata da qualsiasi desiderio». Dopotutto l’intero mondo musulmano sta affrontando una profonda crisi le cui ragioni sono legate anche a questa ricerca di una soluzione nel passato. Cosa chiede questo ai cristiani? «Il nostro compito è di aiutare l’islam a trovare la strada che gli permetta di aprirsi al mondo. Come dice san Paolo, esaminando tutto e scegliendo il meglio», risponde padre Samir.

Altro grande tema: la libertà. Don Alberto racconta di Mina, uno studente egiziano della Cattolica, cristiano copto. Durante il loro pranzo di Natale, proprio il 7 gennaio, la televisione per ore «inizia a riversare le immagini dell’orrore. Mina prova due fortissime pressioni, entrambe sentite come un attacco alla sua libertà. La prima è stata la paura», riporta il sacerdote. La seconda, un sentirsi costretto a schierarsi: con l’Islam o con la libertà in Occidente? Il ragazzo dice no ad entrambe. Da una parte la crudeltà, e dall’altra scendere in piazza, ma, in fondo, per che cosa? Mina appartiene a Swap (Share with all people), un gruppo di ragazzi universitari di diversi ambienti culturali, cristiani e musulmani, mossi dal desiderio di riscoprire la propria origine.

Don Stefano riassume il percorso che Mina ha fatto con alcune domande: ma io che esperienza vivo? Da dove vengo? Dove sono? A chi appartengo? «Questo è il percorso di libertà per cui ogni assassinio è un orrore. Ma non possiamo accontentarci di superare la paura creando nuovi slogan, in cui continuiamo, come diceva don Giussani, a “usare la libertà da alienati”».

L’incontro prosegue ricco e denso: dall’intervista al Papa in viaggio di ritorno da Manila sulla libertà di espressione, «che deve tenere conto della realtà umana e perciò dico che deve essere prudente», a padre Samir che insiste sui punti nevralgici del mondo musulmano in rapporto all’Europa e sul valore della convivenza, «diversa dal dialogo e più importante». Fino a esempi concreti da guardare, come l’esperienza di Portofranco, il doposcuola milanese.

Vivere in una società multietnica implica una convivenza. Ormai per molti un dato di fatto, «è anche una grande risorsa», conclude don Stefano Alberto: «E questo è verificabile proprio a partire dall’esperienza di ciascuno, per riscoprire di che cosa consiste l’io, che cosa rende l’io di ciascuno di noi veramente se stesso».

Nessun commento: