venerdì 16 gennaio 2015

Lo strano schiamazzo di Vittorio Messori


Vittorio Messori
Sono convinto che il credente, soprattutto se scrive di cose direttamente religiose, abbia dei doveri verso i suoi lettori. Dovere, innanzitutto, di rassicurarli che colui i cui scritti prendono sul serio può, a sua volta, essere preso sul serio. Dovere, dunque, di spiegare che cosa si è voluto dire, perché lo si è detto e (in caso di contestazione) perché si pensa, in coscienza, di non avere sbagliato.
Eccomi qui dunque a spiegare (non certo per fatto personale ma per un doveroso impegno verso chi mi segue su questa rubrica) che cosa è davvero successo tra lo scorso Natale e l’Epifania, quando inaspettatamente mi sono trovato al centro di una sorta di bufera mediatica.
Per tutti quei giorni ho taciuto, non ho replicato se non in due casi specifici. Il primo, quando il Corriere della Sera, su cui avevo pubblicato l’articolo “scandaloso” (mentre sono convinto che non lo fosse affatto e così era convinto pure il direttore De Bortoli, pur ammiratore di papa Francesco che da lui si è fatto intervistare), il Corriere, dunque, senza avvertirmi se non all’ultimo momento, ha pubblicato un confuso, ingiurioso articolo di Leonardo Boff. Come forse si ricorda, l’ormai quasi ottantenne leader della teologia detta della liberazione, dopo gli ammonimenti dell’allora cardinal Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e i richiami di Giovanni Paolo II, decise di lasciare il saio francescano e di andare a vivere con una campagna.

Dopo pochi anni su di lui – come su tutti gli altri cattolici, sacerdoti e laici, che avevano scoperto entusiasti il marxismo, credendo fosse il futuro, mentre invece stava morendo – su di lui e i suoi compagni nella nuova fede si abbatterono le rovine del muro di Berlino. Così, l’ex frate, alla pari di molti altri, scippati in modo imprevisto della disastrosa utopia rossa, passarono a quella verde. In Boff, l’ambientalismo si è trasformato in un vero e proprio culto sincretista, con al centro la Madre Terra invocata come Gaia, con forti accenti new age. Nella fazenda brasiliana dove vive con la compagna e alcuni figli adottivi, si è forgiata una liturgia di fantasia, nella quale battezza, celebra la messa, benedice i matrimoni. E tutto questo nel silenzio acquiescente dell’episcopato brasiliano. Insomma, una vera e propria Chiesa tra panteismo e verdismo: dai dogmi cattolici (che detestava) a quelli marxisti, per finire in quelli ambientalisti.

Pubblicando l’attacco di Boff, il Corriere mi chiedeva di replicare il giorno seguente, come in effetti feci: non fu certo difficile liberarmi di quel caos di politica e miti ecologici. Il mio fu, dunque, un intervento, obbligato. Come fu obbligato il secondo, dove l’interlocutore era ben diverso: il senatore della sinistra Franco Monaco che presiedette l’Azione Cattolica ambrosiana ai tempi di quel cardinal Martini cui era legato da grande comunanza personale e condivisione teologica. Il giornale gli aveva pubblicato un articolo dove mi poneva precise questioni, alle quali era per me doveroso rispondere.
Molti mi invitavano a una risposta completa ai detrattori, spesso di una aggressività e di una violenza che sfiorava l’odio (ho più volte sperimentato che nessuno è più temibile e implacabile degli apostoli del pacifismo, della tolleranza, della non violenza…), ma ho preferito rimandare, per potermi spiegare con più libertà qui, sul Timone, dove si è in famiglia e si possono dire liberamente le cose. Ho rimandato, anche perché da molto tempo ho imparato che, nelle polemiche giornalistiche, ci sono sempre due vittime inevitabili: la carità e la verità. La carità, perché ogni polemica è un duello, l’obiettivo è colpire l’avversario, possibilmente ucciderlo, nel senso di ridurlo al silenzio. Muore anche la verità, perché ciò che importa non è chiarire l’oggetto della contesa, non è cercare una verità più alta e ricca, ma è far prevalere il proprio punto di vista, con ogni mezzo, riducendo la prospettiva dell’altro a schema insipiente se non ridicolo. E, invece, di rado è così: una parte almeno di verità sta anche nell’antagonista, ma si è costretti a cercare di occultarla per imporsi nella lotta. Come diceva Pascal, polemista pentito e, guarda caso, proprio contro i gesuiti: «La verità senza la carità è un idolo diabolico, perché ha l’aspetto di un’opera virtuosa».
Non ho replicato, dunque, per cercare di spegnere una disputa che, come tutte, porta con sé conseguenze da cui un cristiano deve rifuggire. Ma se ho potuto trattenermi, malgrado la violenza pari alla inconsistenza degli attacchi, è perché di eventi simili ne ho già vissuti non pochi nel mio lavoro di cronista che non si sforza di dire cose che piacciano a tutti. I meno giovani ricordano, credo, l’uragano mondiale, di una malizia e violenza che soltanto certi church-intellectuals sanno esercitare, scatenato dalla pubblicazione, a metà degli anni Ottanta, del Rapporto sulla fede, la prima intervista della storia a un Prefetto dell’ex-Sant’Uffizio, il cui secolare silenzio era proverbiale.

I “cattolici aperti” – e non soltanto i cattolici, ma lo schieramento di tutto il sedicente progressismo mondiale, pure quello laico – si scagliarono non solo contro il cardinal Ratzinger ma anche contro il cronista che qui scrive. Il quale non soltanto aveva dato voce al Grande Inquisitore, ma aveva mostrato adesione a quel suo programma che fu marchiato come antievangelica “restaurazione”. Ma, sempre i meno giovani, ricordano pure come nel Novanta, presentando al Meeting di Rimini il mio libro Un italiano serio – biografia del beato Francesco Fàa di Bruno, un patriota che fu perseguitato da coloro che volevano costruire l’Italia unita, ma sradicandola dalla sua religione –, presentando quel libro, dunque, fui accusato della colpa più grave. Nientemeno quella, proverbiale, di “avere parlato male di Garibaldi”.

Avevo infatti osato toccare, presentando la vita di quell’uomo di Dio, uno dei miti fondanti dell’Italia moderna, quello che è glorificato sin dal nome: il Risorgimento. Questo nostro Paese sopravvive su tre miti: la borghesia tra Otto e Novecento si appoggiò a quello, appunto, risorgimentale; il fascismo su quello di Roma imperiale; la democrazia postbellica su quello della Resistenza. Sta di fatto che, almeno allora, Garibaldi e tutti gli altri erano ancora intoccabili e lo sperimentai con una campagna di aggressione inaudita. Ma non la faccio lunga, con altri casi, che pur ci sarebbero: quanto detto mi basta per dire che sono forgiato dall’esperienza, dunque non perdo né la testa, né il sonno, né l’appetito per questi strepiti. Prima o poi le voci diventano rauche e cessano di gridare. E, per dirla con quel grande scrittore, ciò che resta è solo il silenzio delle passioni sprecate.
Per venire, allora, alla bagarre tra Natale e l’Epifania. Innanzitutto, ciò che ha sorpreso non solo me ma anche la stessa direzione del Corsera, e i molti lettori che hanno voluto dirmi la loro solidarietà, è il fatto che coloro che insultavano, scrivevano appelli drammatici, raccoglievano firme, gridavano al complotto, invocavano provvedimenti di censura, ebbene costoro sembravano uniti da una caratteristica: non aver letto affatto l’articolo che provocava il loro sdegno. Si basavano su dei sentito dire, su titoli faziosi di giornali, su post nei siti internet, su ossessioni ideologiche, su fantasmi inconsistenti.

Dunque, primo suggerimento che mi permetto di dare ai lettori di questo nostro Timone: se non lo hanno fatto – e, naturalmente, se il caso gli interessa – leggano quanto ho scritto davvero. Potranno trovare il testo in molti luoghi, nella Rete. Il più spiccio è sul sito che Sebastiano Mallia, un giovane e capace avvocato siciliano, ha voluto (dopo molte insistenze sue e resistenze mie) costruirmi e che ormai da molti anni gestisce con affetto pari all’abilità. Colgo qui l’occasione per ringraziarlo. L’indirizzo del sito è: www.vittoriomessori.it. Si vedrà come il tono sia del tutto pacato; l’informazione corretta; esplicito il rispetto verso il “Vescovo di Roma”; la prospettiva religiosa messa in primo piano; ricordata quale debba essere la prospettiva del cattolico; non dimenticata l’umiltà di chi sa che può sbagliare e non vuole condurre altri all’errore e sa anche che a lui non è dato quel carisma che lo Spirito Santo riserva all’eletto nella Cappella Sistina. Non sto celebrandomi: credo che si tratti di realtà oggettive, come hanno riconosciuto coloro, pochi, che si sono dati la briga di leggere.

In ogni caso sarà bene ricordare ai lettori, anche cattolici, quanto sancisce il Diritto Canonico, la legge che regge la Chiesa, al Canone 212, paragrafo 3: «In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, i laici hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della persona». La libertà del “popolo di Dio”, in casi come questi, è dunque proclamata e salvaguardata. È ciò che hanno dimenticato proprio quelli che da sempre invocano e pretendono la partecipazione del “popolo di Dio” alla gestione quotidiana della Chiesa.
Per tornare a noi: c’è da riflettere su fatti curiosi, certo inediti nella Catholica: il direttore del quotidianoAvvenire, quello del quale l’episcopato italiano risana da sempre i debiti col nostro 8 per mille, si è recato in una sorta di “visita di riparazione” a Radio Radicale, quasi scusandosi con Pannella e dicendo che, a ben vedere, gli obiettivi di quell’anziano guru anticristiano sono spesso quegli stessi dei cattolici. Devo dire, al proposito, che molti sono rimasti sorpresi da una ostinazione persecutoria di quell’Avvenire da cui i cattolici sensati aspettavano, semmai, prospettive diverse dalla mia ma esposte pacatamente, non con una sorta di persecuzione tenace: prima un editoriale, ovviamente negativo; poi una intera paginata di lettere al vetriolo con la sentenza senza attenuanti e senza appello del direttore; il giorno dopo e l’altro ancora, altre lettere di lettori adirati, quasi non esistessero messaggi solidali con il blasfemo Messori. Eppure, nella mia casella di posta sono giunti a decine. Qua e là, poi, sparsi in molti articoli ed editoriali punture di spillo o pugnalate, tanto da far pensare che nel direttore di quel giornale, che peraltro non ho mai incontrato e neppure mai visto, ci sia una sorta di fatto personale. È strano, visto che per anni, al foglio che ora dirige, ho dato quanto potevo, con risultati forse non trascurabili, iniziando proprio lì quella rubrica “Vivaio” che è arrivata sino a questo Timone.
Per stare sempre a fatti inediti: coloro (spesso anziani, in quanto vedovi e orfani della contestazione sessantottina) che, per decenni, hanno versato quantità industriali di sterco su Paolo VI, su Giovanni Paolo II, su Benedetto XVI hanno indossato per l’occasione le divise da zuavi pontifici, hanno redatto e firmato vibranti appelli, hanno addirittura organizzato banchetti per la raccolta di firme a difesa del “vescovo di Roma”, contro il codardo aggressore che qui scrive. Accennavamo, come a caso esemplare, allo sdegno di un Leonardo Boff che, dopo gli strali annosi lanciati contro i pontificati precedenti, dopo essere uscito dalla Chiesa sbattendo la porta, dopo avere creato un culto tutto suo, nominatosi sacerdote di Gaia, invoca da quella Chiesa che ha rifiutato provvedimenti severi verso chi osa anche solo porre domande, rispettose quanto sofferte e fondate, a un Papa. È singolare in lui, e in molti altri come lui, sentire l’elogio e l’invocazione della censura contro la libertà di pensiero del cattolico, per giunta in ciò che non è dogma ma semplice pastorale!
Naturalmente, tra chi gridava alla bestemmia solo per avere espresso alcune, rispettose, perplessità era ovvio che il Messori era solo lo strumento, naturalmente ben pagato, di un oscuro complotto. Dicevo, in apertura di quel mio articolo, che avrei volentieri fatto a meno, in quel momento, di espormi con quella sorta di confessione, non avendo ancora ben capito quale sia il progetto preciso di Francesco. Dunque, dicevo che mi rassegnavo a scrivere perché mi era stato “richiesto”. Era scontato che quella “richiesta” veniva dalCorriere, con il quale da almeno una dozzina d’anni ho un contratto di collaborazione. Sbagliavo a non precisare, dimenticando l’istinto pavloviano alla dietrologia di un certo mondo. Così, si è scritto, con l’aria vissuta di chi conosce i retroscena, che la richiesta mi era in realtà venuta dalla massoneria, dall’Opus Dei, dai lefebvriani, dalla Confindustria, da cardinali dissidenti, dalla Curia romana, da partiti politici, da lobby di fautori della restaurazione e così via, in un delirio di “ecco chi c’è dietro”. Rispondendo a Franco Monaco, che mi poneva egli pure la domanda, gli confessavo che – per la delusione dei complottardi – tutto era stato di una banale normalità; scrivendo per un giornale non avevo fatto altro che rispondere a una richiesta del giornale stesso, senza indicazioni previe su come scrivere il pezzo e senza aggiustamenti, a pezzo scritto, di chicchessia.
Si potrebbe continuare ma basta così, lo schiamazzo non è poi così importante da meritare un impegno ulteriore. Per terminare, volevo solo confermare ai lettori ciò che peraltro è scontato e non avrebbe bisogno di essere ribadito: quel che mi ha mosso in quell’articolo e che, spero, mi muoverà in futuro non è altro che l’amore per la Chiesa e il rispetto per colui che, secolo dopo secolo, è chiamato a guidarla in terra. Un rispetto quale si deve a un padre, dunque tale non solo da permettere ma anzi da esigere lo scambio di vedute, il confronto pacato di opinioni, ovviamente su ciò che non attiene al Credo di cui solo lui, il Papa, è custode. Quel “vescovo di Roma” per il quale, come ricordavo alla fine dell’articolo maudit, ogni cattolico ha il dovere di pregare.

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