mercoledì 13 gennaio 2016

La cecità della cultura dominante


Sono tanti gli esempi che permettono di capire come il pensiero unico operi una sorta di auto-censura che non permette di vedere la realtà. Tutto ciò che non è coerente con i dettami della cultura dominante viene ignorato o non compreso. 

di GIUSEPPE ZOLA


E' sempre più chiaro ed evidente che il “pensiero unico” impedisce ai suoi seguaci di vedere veramente la realtà. E se la vedono, si costringono a non capirla, non riuscendo poi a trarne le conseguenze. Il pensiero unico opera una sorta di autocensura e di autolimitazione. Facciamo qualche esempio.
Forse, il caso più clamoroso è quello che impedisce ai pensatori collettivi di ammettere che all’interno dell’Islam esiste, da sempre, una corrente violenta, che dice di essere autorizzata dal Corano ad imporre la religione musulmana con la forza e anche con le armi (o con la leva fiscale). E’ vero che probabilmente la maggioranza dei musulmani è, come si usa dire, “moderata” (anche se molto timida nell’esprimersi prima delle grandi stragi). Ciò non toglie che non si può non vedere come i violenti (oggi terroristi) fanno parte integrante di quel mondo: non si può dire di loro che non sono islamici. Saranno una parte minoritaria, ma appartengono a quel mondo. La conseguenza più nefasta di questa cecità è che il mondo occidentale non riesce ad assumere le misure adeguate per combattere il terrorismo islamico, come hanno dimostrato i penosi comportamenti dei servizi segreti francesi e belgi. Chi prende atto dell’esistenza di questa parte violenta passa per razzista e viene subito catalogato tra gli “islamofobi” e quindi escluso dalle reti culturali, come sta avvenendo nei circoli anglosassoni e francesi.
Altro aspetto che i pensatori “unici” non vogliono vedere è la concezione corrente che molte culture hanno delle donne. Campionesse di questa cecità sono le nostre femministe, che oramai tacciono su tutto, ma soprattutto sull’emarginazione che le donne in molte parti del mondo sono costrette a subire. I gravissimi fatti accaduti in Germania la notte di capodanno stanno finalmente mostrando al mondo intero che cosa può produrre una certa cultura antifemminile. Ma se il pensiero unico fosse stato meno cieco, esso avrebbe potuto assumere in tempo le misure educative e di ordine pubblico necessarie a prevenire quei fattacci. E non si sarebbe fatto sorprendere da atteggiamenti che potevano facilmente essere previsti, se si avesse avuto il coraggio di guardare in faccia alla vera realtà e non di farsi imprigionare dai propri sogni e da una ignavia sempre più colpevole.
Mi permetto, poi, segnalare un esempio di tutt’altro tipo, che riguarda, soprattutto, gli intellettuali ed i critici del nostro Bel Paese. E’ il caso di Checco Zalone. Il pensiero unico non si capacita di come quel bravissimo comico (i suoi film sono da vedere) possa avere il successo, anche di cassetta, che sta avendo. Ma non riesce a capacitarsi perché non vede che Zalone interpreta quello che il grande Chesterton definirebbe “l’uomo comune”, cioè l’uomo non ideologizzato e non prevenuto. L’uomo che può ironizzare senza offendere nessuno. L’uomo che crede nei fattori essenziali ed elementari della vita. Il pensiero unico, invece, non può accettare che un uomo di successo non sia uscito dalle proprie file. I suoi seguaci si chiedono, sconsolati: «Ma come, siamo noi i più e gli unici intelligenti, come fa quello lì ad affascinare gli italiani?» Sarebbe bene che lor signori si chiedessero perché i film usciti da loro sono visti solo da quattro gatti e riescono a sopravvivere solo grazie ai finanziamenti statali.
Potremmo continuare con molti altri esempi, ma pensiamo di aver dato l’idea. Alle prossime puntate e buon anno a tutti.

“L’amore di Dio non è da ‘telenovela’: è come quello di una madre che si intenerisce per il proprio bambino”

Audience 30-12-2015
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 13 gennaio 2016
4. Il Nome di Dio è il Misericordioso
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi iniziamo le catechesi sulla misericordia secondo la prospettiva biblica, così da imparare la misericordia ascoltando quello che Dio stesso ci insegna con la sua Parola. Iniziamo dall’Antico Testamento, che ci prepara e ci conduce alla rivelazione piena di Gesù Cristo, nel quale in modo compiuto si rivela la misericordia del Padre.
Nella Sacra Scrittura, il Signore è presentato come “Dio misericordioso”. È questo il suo nome, attraverso cui Egli ci rivela, per così dire, il suo volto e il suo cuore. Egli stesso, come narra il Libro dell’Esodo, rivelandosi a Mosè si autodefinisce così: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (34,6). Anche in altri testi ritroviamo questa formula, con qualche variante, ma sempre l’insistenza è posta sulla misericordia e sull’amore di Dio che non si stanca mai di perdonare (cfr Gn 4,2; Gl 2,13; Sal 86,15; 103,8; 145,8; Ne 9,17). Vediamo insieme, una per una, queste parole della Sacra Scrittura che ci parlano di Dio.
Il Signore è “misericordioso”: questa parola evoca un atteggiamento di tenerezza come quello di una madre nei confronti del figlio. Infatti, il termine ebraico usato dalla Bibbia fa pensare alle viscere o anche al grembo materno. Perciò, l’immagine che suggerisce è quella di un Dio che si commuove e si intenerisce per noi come una madre quando prende in braccio il suo bambino, desiderosa solo di amare, proteggere, aiutare, pronta a donare tutto, anche sé stessa. Questa è l’immagine che suggerisce questo termine. Un amore, dunque, che si può definire in senso buono “viscerale”.
Poi è scritto che il Signore è “pietoso”, nel senso che fa grazia, ha compassione e, nella sua grandezza, si china su chi è debole e povero, sempre pronto ad accogliere, a comprendere, a perdonare. È come il padre della parabola riportata dal Vangelo di Luca (cfr Lc 15,11-32): un padre che non si chiude nel risentimento per l’abbandono del figlio minore, ma al contrario continua ad aspettarlo - lo ha generato - , e poi gli corre incontro e lo abbraccia, non gli lascia neppure finire la sua confessione - come se gli coprisse la bocca -, tanto è grande l’amore e la gioia per averlo ritrovato; e poi va anche a chiamare il figlio maggiore, che è sdegnato e non vuole far festa, il figlio che è rimasto sempre a casa ma vivendo come un servo più che come un figlio, e pure su di lui il padre si china, lo invita ad entrare, cerca di aprire il suo cuore all’amore, perché nessuno rimanga escluso dalla festa della misericordia. La misericordia è una festa!
Di questo Dio misericordioso è detto anche che è “lento all’ira”, letteralmente, “lungo di respiro”, cioè con il respiro ampio della longanimità e della capacità di sopportare. Dio sa attendere, i suoi tempi non sono quelli impazienti degli uomini; Egli è come il saggio agricoltore che sa aspettare, lascia tempo al buon seme di crescere, malgrado la zizzania (cfr Mt 13,24-30).
E infine, il Signore si proclama “grande nell’amore e nella fedeltà”. Com’è bella questa definizione di Dio! Qui c’è tutto. Perché Dio è grande e potente, ma questa grandezza e potenza si dispiegano nell’amarci, noi così piccoli, così incapaci. La parola “amore”, qui utilizzata, indica l’affetto, la grazia, la bontà. Non è l’amore da telenovela... È l’amore che fa il primo passo, che non dipende dai meriti umani ma da un’immensa gratuità. È la sollecitudine divina che niente può fermare, neppure il peccato, perché sa andare al di là del peccato, vincere il male e perdonarlo.
Una “fedeltà” senza limiti: ecco l’ultima parola della rivelazione di Dio a Mosè. La fedeltà di Dio non viene mai meno, perché il Signore è il Custode che, come dice il Salmo, non si addormenta ma vigila continuamente su di noi per portarci alla vita:
«Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode. Non si addormenterà, non prenderà sonno
il custode d’Israele. [...]
Il Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri, da ora e per sempre» (121,3-4.7-8).
E questo Dio misericordioso è fedele nella sua misericordia e San Paolo dice una cosa bella: se tu non Gli sei fedele, Lui rimarrà fedele perché non può rinnegare se stesso. La fedeltà nella misericordia è proprio l’essere di Dio. E per questo Dio è totalmente e sempre affidabile. Una presenza solida e stabile. È questa la certezza della nostra fede. E allora, in questo Giubileo della Misericordia, affidiamoci totalmente a Lui, e sperimentiamo la gioia di essere amati da questo “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore e nella fedeltà”.

Parole d’amore verso l’infinito

Young couple
Ogni linguaggio rappresenta lo specchio perfetto del proprio tempo. Riproduce gli aspetti positivi o negativi dell’epoca a cui appartiene.
Alcuni vocaboli e modi di dire, entrati nell’uso comune dei giovani, rappresentano il segnale d’allarme di un’epoca in cui sembra trionfare la non-cultura del vuoto e del non-impegno. Certe parole sono il frutto del non-pensiero imperante, che vorrebbe cancellare il concetto di “sforzo” dalla sfera dei rapporti con gli altri.
Oggi il campo più devastato dalla non-cultura del non-impegno è sicuramente quello delle relazioni umane. Lo si comprende dal modo in cui sono cambiate, in peggio, le parole che riguardano i sentimenti.
I rapporti umani sembrano bruciarsi rapidamente. Tante canzoni, trasmissioni televisive, riviste per ragazzi parlano d’amore. Ma di quale amore si tratta? Che tipo di valore viene attribuito a questo termine? Troppo spesso, purtroppo, tutto si riduce ad una banale manifestazione del proprio egoismo.
Amare qualcuno significa impegnarsi. Significa, soprattutto, saper vedere l’altro come un essere umano. Non come un oggetto da usare, gettandolo via quando non serve più.
Il desiderio d’amare e di essere amati nasce, troppo spesso, per colmare un vuoto o per soddisfare un proprio bisogno. Ma poi, quando è necessario fare sul serio, impegnarsi, sacrificarsi, cominciano i problemi. C’è una tendenza a fuggire e a non assumersi le proprie responsabilità.
Per accorgersene basta riflettere su un modo di dire che viene utilizzato per definire i legami amorosi. Due persone che si amano, secondo il linguaggio comune, vivono “una storia”.
Questa parola, di per sé, rappresenta già un inganno. La “storia”, infatti, ha sempre un inizio ed una fine. Quindi lascia intravedere l’idea di un rapporto incerto, pessimista, non duraturo, limitato ad un periodo di tempo. E’ qualcosa che, prima o poi, terminerà.
Un altro grave problema è la mancanza di progettualità. La non-cultura del non-impegno sta contribuendo a far scomparire il termine “fidanzato”, che viene sostituito dal più generico “ragazzo”: il mio ragazzo, la mia ragazza…
Ormai non si dice quasi più che due persone sono “fidanzate”. Si dice, banalmente, che “stanno insieme”. E quindi, ci si limita a prendere atto di una situazione ovvia.
E’ vero che due persone che si amano “stanno insieme”. Ma questa espressione nasconde un inganno. Al contrario del “fidanzamento”, comunica un senso di immobilità, di stasi. Non manifesta la prospettiva di uno sguardo verso il futuro.
La massima espressione del non-impegno è rappresentata da una parola inglese utilizzata sempre più spesso: il “partner”. E’ una parola fredda, anonima, insignificante, che riassume alla perfezione il nulla più assoluto e la mancanza di progettualità di certi rapporti di oggi.
Un’altra parola vuota è “compagno”: il mio compagno, la mia compagna… Tanti giovani rifiutano di crescere e di assumersi le proprie responsabilità.  Non vogliono sposarsi e scelgono la convivenza. Invece di essere marito e moglie, preferiscono essere “compagni”.
Che cosa si può fare per cambiare questa tendenza? Un primo passo potrebbe essere proprio quello di educare i giovani a ritrovare il più autentico significato delle parole, mettendo da parte i termini fumosi ed equivoci.
Basta con i “compagni” e con le “storie”!  Al piatto conformismo di certi linguaggi ingannevoli bisogna contrapporre la gioia della speranza, della scommessa sull’altro, dell’impegno quotidiano per un amore teso verso le vette dell’infinito.
http://www.zenit.org/

martedì 12 gennaio 2016

Rapporto tra verità e libertà


Alcune tendenze della teologia morale odierna […] propongono criteri innovativi di valutazione morale degli atti: sono tendenze che, pur nella loro varietà, si ritrovano nel fatto di indebolire o addirittura di negare la dipendenza della libertà dalla verità.
Se vogliamo operare un discernimento critico di queste tendenze, capace di riconoscere quanto in esse vi è di legittimo, utile e prezioso e di indicarne, al tempo stesso, le ambiguità, i pericoli e gli errori, dobbiamo esaminarle alla luce della fondamentale dipendenza della libertà dalla verità, dipendenza che è stata espressa nel modo più limpido e autorevole dalle parole di Cristo: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).

Dalla «Veritatis Splendor» del Sommo Pontefice GIOVANNI PAOLO II

Lo splendore della verità rifulge in tutte le opere del Creatore e, in modo particolare, nell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (cf Gn 1,26): la verità illumina l'intelligenza e informa la libertà dell'uomo, che in tal modo viene guidato a conoscere e ad amare il Signore. Per questo il salmista prega: «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7).
Gesù Cristo, luce vera che illumina ogni uomo
1. Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), gli uomini diventano «luce nel Signore» e «figli della luce» (Ef 5,8) e si santificano con «l'obbedienza alla verità» (1 Pt 1,22).
Questa obbedienza non è sempre facile. In seguito a quel misterioso peccato d'origine, commesso per istigazione di Satana, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), l'uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf 1 Ts 1,9), cambiando «la verità di Dio con la menzogna» (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18, 38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità.

4. […] Oggi, però, sembra necessario riflettere sull'insieme dell'insegnamento morale della Chiesa, con lo scopo preciso di richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate. Si è determinata, infatti, una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e psicologico, sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli insegnamenti morali della Chiesa. Non si tratta più di contestazioni parziali e occasionali, ma di una messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro radice sta l'influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità. Così si respinge la dottrina tradizionale sulla legge naturale, sull'universalità e sulla permanente validità dei suoi precetti; si considerano semplicemente inaccettabili alcuni insegnamenti morali della Chiesa; si ritiene che lo stesso Magistero possa intervenire in materia morale solo per «esortare le coscienze» e per «proporre i valori», ai quali ciascuno ispirerà poi autonomamente le decisioni e le scelte della vita.

7. «Ed ecco un tale...». Nel giovane, che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscereogni uomo che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo, Redentore dell'uomo, e gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle regole da osservare, è unadomanda di pienezza di significato per la vita. E, in effetti, è questa l'aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di ogni azione umana, la segreta ricerca e l'intimo impulso che muove la libertà. Questa domanda è ultimamente un appello al Bene assoluto che ci attrae e ci chiama a sé, è l'eco di una vocazione di Dio, origine e fine della vita dell'uomo. Proprio in questa prospettiva il Concilio Vaticano II ha invitato a perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione illustri l'altissima vocazione che i fedeli hanno ricevuto in Cristo, unica risposta che appaga pienamente il desiderio del cuore umano.
13. […] I comandamenti rappresentano, quindi, la condizione di base per l'amore del prossimo; essi ne sono al contempo la verifica. Sono la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertàil suo inizio: «La prima libertà — scrive sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini... come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta...»
17. […] La perfezione esige quella maturità nel dono di sé, a cui è chiamata la libertà dell'uomo.Gesù indica al giovane i comandamenti come la prima condizione irrinunciabile per avere la vita eterna; l'abbandono di tutto ciò che il giovane possiede e la sequela del Signore assumono invece il carattere di una proposta: «Se vuoi...». La parola di Gesù rivela la particolare dinamica della crescita della libertà verso la sua maturità e, nello stesso tempo, attesta il fondamentale rapporto della libertà con la legge divina. La libertà dell'uomo e la legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si richiamano a vicenda. Il discepolo di Cristo sa che la sua è una vocazione alla libertà. «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà» (Gal 5,13), proclama con gioia e fierezza l'apostolo Paolo. Subito però precisa: «Purché questa libertà non divenga pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (ibid.). La fermezza con la quale l'Apostolo si oppone a chi affida la propria giustificazione alla Legge, non ha nulla da spartire con la «liberazione» dell'uomo dai precetti, i quali al contrario sono al servizio della pratica dell'amore: «Perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Rm 13,8-9). Lo stesso sant'Agostino, dopo aver parlato dell'osservanza dei comandamenti come della prima imperfetta libertà, così prosegue: «Perché, domanderà qualcuno, non ancora perfetta? Perché "sento nelle mie membra un'altra legge in conflitto con la legge della mia ragione"... Libertà parziale, parziale schiavitù: non ancora completa, non ancora pura, non ancora piena è la libertà, perché ancora non siamo nell'eternità. In parte conserviamo la debolezza, e in parte abbiamo raggiunto la libertà. Tutti i nostri peccati nel battesimo sono stati distrutti, ma è forse scomparsa la debolezza, dopo che è stata distrutta l'iniquità? Se essa fosse scomparsa, si vivrebbe in terra senza peccato. Chi oserà affermare questo se non chi è superbo, se non chi è indegno della misericordia del liberatore?... Ora siccome è rimasta in noi qualche debolezza, oso dire che nella misura in cui serviamo Dio siamo liberi, mentre nella misura in cui seguiamo la legge del peccato siamo schiavi».

22 …. Nel medesimo capitolo del Vangelo di Matteo (19,3-10), Gesù, interpretando la Legge mosaica sul matrimonio, rifiuta il diritto al ripudio, richiamando ad un «principio» più originario e più autorevole rispetto alla Legge di Mosè: il disegno nativo di Dio sull'uomo, un disegno al quale l'uomo dopo il peccato è diventato inadeguato: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19,8). Il richiamo al «principio» sgomenta i discepoli, che commentano con queste parole: «Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi» (Mt 19,10). E Gesù, riferendosi in modo specifico al carisma del celibato «per il Regno dei cieli» (Mt 19,12), ma enunciando una regola generale, rimanda alla nuova e sorprendente possibilità aperta all'uomo dalla grazia di Dio: «Egli rispose loro: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso"» (Mt 19,11).
Imitare e rivivere l'amore di Cristo non è possibile all'uomo con le sole sue forze. Egli diventacapace di questo amore soltanto in virtù di un dono ricevuto. Come il Signore Gesù riceve l'amore del Padre suo, così egli a sua volta lo comunica gratuitamente ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Il dono di Cristo è il suo Spirito, il cui primo «frutto» (cf Gal 5,22) è la carità: «L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5)

23. «La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm 8,2). Con queste parole l'apostolo Paolo ci introduce a considerare nella prospettiva della storia della Salvezza che si compie in Cristo il rapporto tra la Legge (antica) e la grazia(Legge nuova). Egli riconosce il ruolo pedagogico della Legge, la quale, permettendo all'uomo peccatore di misurare la sua impotenza e togliendogli la presunzione dell'autosufficienza, lo apre all'invocazione e all'accoglienza della «vita nello Spirito». Solo in questa vita nuova è possibile la pratica dei comandamenti di Dio. Infatti, è per la fede in Cristo che noi siamo resi giusti (cf Rm3,28): la «giustizia» che la Legge esige, ma non può dare a nessuno, ogni credente la trova manifestata e concessa dal Signore Gesù. Così mirabilmente ancora sant'Agostino sintetizza la dialettica paolina di legge e grazia: «La legge, perciò, è stata data perché si invocasse la grazia; la grazia è stata data perché si osservasse la legge».

II - «Non conformatevi alla mentalità di questo mondo» (Rm 12,2) -
La chiesa e il discernimento di alcune tendenze della teologia morale odierna


Insegnare ciò che è secondo la sana dottrina (cf Tt 2,1)
28. La meditazione del dialogo tra Gesù e il giovane ricco ci ha permesso di raccogliere i contenuti essenziali della Rivelazione dell'Antico e del Nuovo Testamento circa l'agire morale.Essi sono: la subordinazione dell'uomo e del suo agire a Dio, Colui che «solo è buono»; ilrapporto tra il bene morale degli atti umani e la vita eterna; la sequela di Cristo, che apre all'uomo la prospettiva dell'amore perfetto; ed infine il dono dello Spirito Santo, fonte e risorsa della vita morale della «creatura nuova» (cf 2 Cor 5,17).

30. Rivolgendomi con questa Enciclica a voi, Confratelli nell'Episcopato, intendo enunciare i principi necessari per il discernimento di ciò che è contrario alla «sana dottrina», richiamando quegli elementi dell'insegnamento morale della Chiesa che sembrano oggi particolarmente esposti all'errore, all'ambiguità o alla dimenticanza. Sono, peraltro, gli elementi dai quali dipende «la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo origine e verso il quale tendiamo».
Questi e altri interrogativi, come: cosa è la libertà e qual è la sua relazione con la verità contenuta nella legge di Dio? qual è il ruolo della coscienza nella formazione del profilo morale dell'uomo? come discernere, in conformità con la verità sul bene, i diritti e i doveri concreti della persona umana?, si possono riassumere nella fondamentale domanda che il giovane del Vangelo pose a Gesù: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Inviata da Gesù a predicare il Vangelo e ad «ammaestrare tutte le nazioni..., insegnando loro ad osservare tutto ciò» che egli ha comandato (cf Mt 28,19-20), la Chiesa ripropone, ancora oggi, la risposta del Maestro: questa possiede una luce e una forza capaci di risolvere anche le questioni più discusse e complesse. Questa stessa luce e forza sollecitano la Chiesa a sviluppare costantemente la riflessione non solo dogmatica, ma anche morale in un ambito interdisciplinare, così com'è necessario specialmente per i nuovi problemi.
È sempre in questa medesima luce e forza che il Magistero della Chiesa compie la sua opera di discernimento, accogliendo e rivivendo il monito che l'apostolo Paolo rivolgeva a Timoteo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero» (2 Tm 4,1-5; cf Tt 1,10.13-14). 
«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32)
31. I problemi umani più dibattuti e diversamente risolti nella riflessione morale contemporanea si ricollegano, sia pure in vari modi, ad un problema cruciale: quello della libertà dell'uomo.
Non c' è dubbio che il nostro tempo ha acquisito una percezione particolarmente viva della libertà. «In questa nostra età gli uomini diventano sempre più consapevoli della dignità della persona umana», come costatava già la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. Da qui l'esigenza che «gli uomini nell'agire seguano la loro iniziativa e godano di una libertà responsabile, non mossi da coercizione bensì guidati dalla coscienza del dovere». In particolare il diritto alla libertà religiosa e al rispetto della coscienza nel suo cammino verso la verità è sentito sempre più come fondamento dei diritti della persona, considerati nel loro insieme.
Così, il senso più acuto della dignità della persona umana e della sua unicità, come anche del rispetto dovuto al cammino della coscienza, costituisce certamente un'acquisizione positiva della cultura moderna. Questa percezione, in se stessa autentica, ha trovato molteplici espressioni, più o meno adeguate, di cui alcune però si discostano dalla verità sull'uomo come creatura e immagine di Dio ed esigono pertanto di essere corrette o purificate alla luce della fede.
32. In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti ad esaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori. In questa direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee. Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male. All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di «accordo con se stessi», tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale.
Come si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione la crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l'individualismo sfocia nella negazione dell'idea stessa di natura umana.
Queste differenti concezioni sono all'origine degli orientamenti di pensiero che sostengono l'antinomia tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà.
33. Parallelamente all'esaltazione della libertà, e paradossalmente in contrasto con essa, la cultura moderna mette radicalmente in questione questa medesima libertà. Un insieme di discipline, raggruppate sotto il nome di «scienze umane», hanno giustamente attirato l'attenzione sui condizionamenti di ordine psicologico e sociale, che pesano sull'esercizio della libertà umana. La conoscenza di tali condizionamenti e l'attenzione che viene loro prestata sono acquisizioni importanti, che hanno trovato applicazione in diversi ambiti dell'esistenza, come per esempio nella pedagogia o nell'amministrazione della giustizia. Ma alcuni, superando le conclusioni che si possono legittimamente trarre da queste osservazioni, sono arrivati al punto di mettere in dubbio o di negare la realtà stessa della libertà umana.
Si devono anche ricordare alcune interpretazioni abusive dell'indagine scientifica a livello antropologico. Traendo argomento dalla grande varietà dei costumi, delle abitudini e delle istituzioni presenti nell'umanità, si conclude, se non sempre con la negazione di valori umani universali, almeno con una concezione relativistica della morale.
34. «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». La domanda morale,alla quale Cristo risponde, non può prescindere dalla questione della libertà, anzi la colloca al suo centro, perché non si dà morale senza libertà: «L'uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà». Ma quale libertà? Il Concilio, di fronte ai nostri contemporanei che «tanto tengono» alla libertà e che la «cercano ardentemente» ma che «spesso la coltivano in malo modo, quasi sia lecito tutto purché piaccia, compreso il male», presenta la «vera» libertà: «La vera libertà è nell'uomo segno altissimo dell'immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l'uomo "in mano al suo consiglio" (cf Sir 15,14), così che esso cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con la adesione a lui, alla piena e beata perfezione». Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor prima l'obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta. In tal senso il Card. J. H. Newman, eminente assertore dei diritti della coscienza, affermava con decisione: «La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri».
Alcune tendenze della teologia morale odierna, sotto l'influsso delle correnti soggettiviste ed individualiste ora ricordate, interpretano in modo nuovo il rapporto della libertà con la legge morale, con la natura umana e con la coscienza, e propongono criteri innovativi di valutazione morale degli atti: sono tendenze che, pur nella loro varietà, si ritrovano nel fatto di indebolire o addirittura di negare la dipendenza della libertà dalla verità.
Se vogliamo operare un discernimento critico di queste tendenze, capace di riconoscere quanto in esse vi è di legittimo, utile e prezioso e di indicarne, al tempo stesso, le ambiguità, i pericoli e gli errori, dobbiamo esaminarle alla luce della fondamentale dipendenza della libertà dalla verità, dipendenza che è stata espressa nel modo più limpido e autorevole dalle parole di Cristo: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).  A. Mondinelli - CulturaCattolica.it

La “mutazione genetica” di CL. Carrón e la vecchia guardia

martedì 12 gennaio 2016

Riporto questo articolo di Giovanni Cominelli, con le mie osservazioni e le note, tra parentesi quadre, di Andrea Mondinelli.

Ho letto questa riflessione di Giovanni Cominelli: «Si comprende bene che questa reinterpretazione del pensiero di Giussani possa aver generato una reazione di panico nella vecchia generazione ciellina, cresciuta a pane, fede e politica, come se le franasse il terreno sotto i piedi. Ma è forse quella mutazione che potrebbe consentire al movimento ecclesiale di CL di giocare un nuovo ruolo culturale e educativo nella società italiana e nella Chiesa.»
Mi chiedo:
1. Per Cominelli la «mutazione genetica» di CL sembra un dato assodato. Ne prendo atto, ma mi chiedo se questo è in linea col carisma di don Giussani o è un arbitrio di Carrón. Del resto proprio lui afferma: «La ripresa del tema della libertà è anche un messaggio rivolto verso l’interno, dove il centralismo carismatico ha finito per trasformare la sequela in obbedienza alla singola persona e all’organizzazione, il necessario esercizio dell’autorità in accentramento, il carisma in centralismo burocratico, generatore di conformismi e di irresponsabilità». Che anche in questo caso si sia di fronte alla trasformazione della «sequela in obbedienza alla singola persona e all’organizzazione»? Forse sarebbe il caso di approfondire quello che don Giussani affermava a proposito della «unità del movimento».
2. Personalmente non mi ritrovo nella «reazione di panico». È vero, appartengo al movimento di CL dal 1962 ma non la paura mi muove, ma il sincero desiderio di fedeltà a quello che lo Spirito ha insegnato. E quello che la Chiesa ha approvato con il riconoscimento della Fraternità di Comunione e Liberazione ha un suo volto e metodo inconfondibili. Sarà pur lecito cambiare, ma si deve avere il coraggio di dire se è un’altra cosa.
3. Sono personalmente contro e inorridito dagli OGM spirituali, perché anteporre la libertà alla verità mi fa sentire puzza di zolfo. In questo caso da «La verità vi farà liberi» a «la libertà vi farà veri».

TEMPO DI MUTAZIONI GENETICHE
È tempo di mutazioni genetiche. L’accezione che questa espressione ha assunto di recente nel dibattito politico-culturale è per lo più negativa: è sinonimo di tradimento, di snaturamento, di incoerenza, di abbandono dei fondamenti. In realtà, la mutazione genetica è necessaria. È la sola condizione alla quale un organismo può continuare a esistere e a svilupparsi in un ambiente storico che cambia.

JUAN CARRON E GIUSSANI
L’elaborazione condensata nel libro “La bellezza disarmata” di Julian Carrón, il presidente della Fraternità di Comunione e liberazione, sembra costituire la piattaforma della mutazione genetica di Comunione e liberazione. Se tale operazione sia un ritorno ai fondamenti di don Giussani o piuttosto il loro tradimento è già oggetto di una discussione interna a CL tanto lacerante quanto sotterranea. È certo che Carrón presenta il proprio pensiero come una fedele interpretazione di Don Giussani. Ma a chi assuma quale criterio di giudizio la capacità di un movimento ecclesiale di fare i conti con il mondo presente, il dibattito su continuità/discontinuità, fedeltà/infedeltà appare assai poco interessante.

LA STORIA RECENTE E NON DI CL
Intanto, la storia è nota. Qui si può solo sinteticamente ricordare che Cl nasce nel 1969 come esito post-traumatico del terremoto che nel ’68 investì Gioventù studentesca, un movimento di studenti deciso a far valere nella vita quotidiana delle scuole, dell’educazione, della cultura la presenza cristiana. CL si presentò sulla scena della società italiana come un movimento ecclesiale – riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa nel 1983 come Fraternità – che si articolerà anche come movimento politico (Movimento popolare) e movimento socio-economico (Compagnia delle Opere).

CL, GIUSSANI, LA “PRESENZA”
La categoria teorica fondativa è quella della “presenza”. Categoria per niente innocua, perché in opposizione a quella della “scelta religiosa”, che veniva teorizzata e praticata dalle tradizionali organizzazioni quali l’Azione cattolica o la Fuci. “Presenza” in nome di che cosa? Non nel nome di un’utopia, di un progetto di trasformazione del mondo. Don Giussani lo ribadì non solo in contrapposizione con i movimenti di sinistra degli anni ’70, ma anche nei confronti di un gruppo di propri intellettuali – da Buttiglione a Scola – che avevano fondato l’ISTRA (Istituto di studi per la transizione) e che pensavano di entrare in competizione con i gruppi intellettuali marxisti dell’epoca, anche loro impegnati a pensare la transizione verso una nuova società, non più capitalistica. “Presenza” significava, nel pensiero di don Giussani, testimoniare l’Avvenimento, cioè la presenza viva e sempre contemporanea del Cristo nella storia. Tuttavia, la sua declinazione storica concreta in termini ecclesiali, politici e socio-economici ha finito per generare una sorta di preminenza del movimento politico sugli altri due. “Gli inconvenienti”, reali o gonfiati da forze ostili, che ne sono derivati sono finiti sulle pagine dei giornali.

LA “CORREZIONE” DI CARRON  E LE INFEDELTÀ DEL MOVIMENTO
J. Carrón propone, ora, una revisione, se non della categoria astratta, almeno della pratica che ne è seguita. Si propone di “sfrondare” la presenza, denunciando la tentazione di sostituire la fede con un progetto e di contare troppo sulla politica. È un’imputazione di pelagianesimo, secondo il quale solo le opere salvano. Sottolinea il rischio che la presenza sia solo “reattiva” o solo “imitativa” e che, pertanto, “i politici cattolici siano più definiti dagli schieramenti partitici che dall’autocoscienza della loro esperienza ecclesiale”, così che, invece di segnalare “una presenza originale” i cattolici diventino “una fazione”. La presenza nasce e consiste nella persona quale si autocostruisce nella comunità cristiana. Questo discorso di Carrón è coerente con il pensiero di don Giussani? Parrebbe di sì. Ma se questo è vero, ciò significherebbe che l’intero movimento concreto di CL è stato poco fedele a quella “irrevocabile distanza critica” che Giussani stesso dichiarava essere una necessità del movimento ecclesiale.

IL CENTRALISMO BUROCRATICO DI CL
Alle spalle di questa “correzione” di Carrón sta un approccio alla storia del mondo e alla modernità, che è forse l’aspetto più originale del suo pensiero rispetto a Giussani. Fondendo il grande lascito intellettuale di Ratzinger sulla libertà umana – riconosciuta come un’acquisizione irreversibile della modernità – e sulla speranza (Enciclica Spe Salvi) con quello più recente di Papa Francesco sulla “bellezza che educherà il mondo”, Carrón invita a guardare il mondo presente con simpatia e ottimismo: “quando il mondo crolla, c’è qualcosa che permane: la realtà!”. La realtà è positiva “per il Mistero che la abita” [E’ ESATTAMENTE L’OPPOSTO: LA REALTÀ (DELLA NATURA UMANA) ERA BUONA MA E’ STATA FERITA DAL PECCATO ORIGINALE ED E’ STATA REDENTA DAL SANGUE DI CRISTO! RIFIUTANDO LA REDENZIONE O MISCONOSCENDOLA, COSA SUCCEDE? E’ POSITIVA, E’ BUONA LA REALTA’ DI PER SE’ DELLA NATURA UMANA?]. La ripresa del tema della libertà [SENZA VERITÀ?] è anche un messaggio rivolto verso l’interno, dove il centralismo carismatico ha finito per trasformare la sequela in obbedienza alla singola persona e all’organizzazione, il necessario esercizio dell’autorità in accentramento, il carisma in centralismo burocratico, generatore di conformismi e di irresponsabilità. “L’essenza della sequela non è eseguire ordini!”. L’appartenenza non può sostituirsi alle persone; la comunità è l’humus, ma il seme è la responsabilità individuale. Lo sguardo positivo sulla modernità inverte quella gerarchia delle epoche, diventata quasi una vulgata in CL, secondo la quale il Medioevo era il secolo dei Lumi e questo l’Evo oscuro. Di qui un rapporto diverso con il Concilio Vaticano II, che al mondo moderno ha cercato di aprirsi.
DALLA PRESENZA ALLA  TESTIMONIANZA
L’itinerario che Carrón delinea pare essere quello “dalla presenza alla testimonianza”. L’accesso alla verità si realizza attraverso la libertà [E’ IL SOLITO RIBALTAMENTO LUCIFERINO! GESU’ DICE: LA VERITA’ VI FARA’ LIBERI!]. Con ciò non soltanto si esclude l’imposizione violenta della verità, ma anche la protezione delle leggi e della politica. La testimonianza: “vivere gesti di umanità nuova nel presente”. Si comprende bene che questa reinterpretazione del pensiero di Giussani possa aver generato una reazione di panico nella vecchia generazione ciellina, cresciuta a pane, fede e politica, come se le franasse il terreno sotto i piedi.  Ma è forse quella mutazione che potrebbe consentire al movimento ecclesiale di CL di giocare un nuovo ruolo culturale e educativo nella società italiana e nella Chiesa. [E’ LA MUTAZIONE GENETICA DA CHIESA AD ANTI-CHIESA!]
Fonte: CulturaCattolica.it

“È la preghiera delle lacrime che porta avanti la Chiesa”

Pope Francis during the Morning Mass in Santa Marta, 13th of November 2015
Durante l’omelia del mattino, papa Francesco ricorda il primato dei santi, ovvero coloro che sanno implorare umilmente Dio

Non sono i papi, i vescovi o i sacerdoti a “portare avanti la Chiesa” ma i “santi”, con la loro preghiera. È la preghiera che scioglie i cuori e fa riscoprire il senso della pietà. Lo ha affermato papa Francesco durante l’omelia alla messa del mattino celebrata alla Casa Santa Marta.
È la Sacra Scrittura alla base di tale giudizio del Pontefice, come dimostra la prima lettura di oggi (Sam 1,9-20), dove è protagonista Anna, una donna disperata per la propria sterilità, che arriva a supplicare il sacerdote Eli che, inizialmente, la bolla come “ubriaca”, non mostrando alcuna compassione per lei.
Quella di Anna è la preghiera delle lacrime: “Anna pregava in cuor suo e si muovevano soltanto le labbra, ma la voce non si udiva”, ha spiegato il Papa.
“Questo è il coraggio di una donna di fede che con il suo dolore, con le sue lacrime, chiede al Signore la grazia”, ha aggiunto.
Ci sono tante donne che “vanno a pregare come se fosse una scommessa”, ha detto Francesco, indicando, tra le tante, l’esempio di “Santa Monica che, con le sue lacrime, è riuscita ad avere la grazia della conversione di suo figlio, Sant’Agostino”.
Parlando poi del sacerdote della prima lettura odierna, il Santo Padre ha confidato una “certa simpatia” per lui: “anche in me trovo difetti che mi fanno avvicinare a lui e capirlo bene”.
Di fronte alle ‘controtestimonianze’ è facile indulgere nella mancanza di pietà e nel ‘pensare male’, quando poi, non si comprende chi prega “col dolore e con l’angoscia” e le affida al Signore.
Così avvenne per Gesù nell’Orto degli Ulivi, “quando era tanta l’angoscia e tanto il dolore che gli è venuto quel sudore di sangue”.
E Gesù rispose a tale angoscia, allo stesso modo della donna della Prima lettura, ovvero con la “mitezza”, non rimproverando il Padre ma soltanto chiedendogli di togliergli quel dolore ma che venisse fatta la sua volontà.
“Delle volte, noi preghiamo, chiediamo al Signore, ma tante volte non sappiamo arrivare proprio a quella lotta col Signore, alle lacrime, a chiedere, chiedere la grazia”, ha dichiarato il Papa.
Bergoglio ha quindi ricordato un episodio della sua esperienza pastorale a Buenos Aires: un uomo, dopo aver fatto ricoverare la figlia di 9 anni, in fin di vita, si era recato al santuario della Vergine di Lujan. Trovata la cancellata della chiesa chiusa, si era fermato a pregare lì davanti per tutta la notte. Rientrato in ospedale, seppe che la bambina era guarita.
“La preghiera fa miracoli - ha detto il Papa -. Anche fa miracoli a quelli che sono cristiani, siano fedeli laici, siano sacerdoti, vescovi che hanno perso la devozione”.
A portare avanti la chiesa non sono “i Papi, i vescovi, i sacerdoti, le suore” ma “i santi”, come la donna della lettura odierna. “I santi sono quelli che hanno il coraggio di credere che Dio è il Signore e che può fare tutto”, ha poi concluso.Luca Marcolivio

venerdì 1 gennaio 2016

BUON ANNO!!!!


Il bellissimo discorso di Papa Francesco:
"Puoi aver difetti, essere ansioso e vivere qualche volta irritato, ma non dimenticate che la tua vita è la più grande azienda al mondo. Solo tu puoi impedirle che vada in declino.In molti ti apprezzano, ti ammirano e ti amano.Mi piacerebbe che ricordassi che essere felice, non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni.
Essere felici è trovare forza nel perdono, speranza nelle battaglie, sicurezza sul palcoscenico della paura, amore nei disaccordi.
Essere felici non è solo apprezzare il sorriso, ma anche riflettere sulla tristezza. Non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti. Non è solo sentirsi allegri con gli applausi, ma essere allegri nell'anonimato.Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi.Essere felici non è una fatalità del destino, ma una conquista per coloro che sono in grado viaggiare dentro il proprio essere.
Essere felici è smettere di sentirsi vittima dei problemi e diventare attore della propria storia.È attraversare deserti fuori di sé, ma essere in grado di trovare un'oasi nei recessi della nostra anima.
È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita. Essere felici non è avere paura dei propri sentimenti.
È saper parlare di sé.
È aver coraggio per ascoltare un "No".
È sentirsi sicuri nel ricevere una critica, anche se ingiusta.
È baciare i figli, coccolare i genitori, vivere momenti poetici con gli amici, anche se ci feriscono.
Essere felici è lasciar vivere la creatura che vive in ognuno di noi, libera, gioiosa e semplice.
È aver la maturità per poter dire: “Mi sono sbagliato”.
È avere il coraggio di dire: “Perdonami”.
È avere la sensibilità per esprimere: “Ho bisogno di te”.
È avere la capacità di dire: “Ti amo”.
Che la tua vita diventi un giardino di opportunità per essere felice ...
Che nelle tue primavere sii amante della gioia.
Che nei tuoi inverni sii amico della saggezza.
E che quando sbagli strada, inizi tutto daccapo.
Poiché così sarai più appassionato per la vita.
E scoprirai che essere felice non è avere una vita perfetta.Ma usare le lacrime per irrigare la tolleranza.
Utilizzare le perdite per affinare la pazienza.
Utilizzare gli errori per scolpire la serenità.
Utilizzare il dolore per lapidare il piacere.
Utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell'intelligenza.
Non mollare mai ....
Non rinunciare mai alle persone che ami.
Non rinunciare mai alla felicità, poiché la vita è uno spettacolo incredibile!"
AUGURO A TUTTI VOI DI VIVERE UN FELICE anno