venerdì 29 gennaio 2010

«Relativismo, ostacolo al dialogo delle culture»


Il discorso tenu­to ieri da Benedetto XVI ai membri delle Pon­tificie Accademie in occasione della 14ª «Se­duta pubblica».
Signori cardinali, venerati fratelli nell’e­piscopato e nel sacerdozio, illustri pre­sidenti e accademici, signore e signori! Sono lieto di accogliervi e di incontrarvi, in oc­casione della Seduta pubblica delle Pontificie accademie, momento culminante delle mol­teplici attività dell’anno. Saluto monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio di coordinamento fra Accademie Pontificie, e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivol­to. Estendo il mio saluto ai presidenti delle Pontificie Accademie, agli accademici e ai so­dali presenti. L’odierna Seduta pubblica, nel corso della qua­le è stato consegnato, a mio nome, il Premio delle Pontificie Accademie , tocca un tema che, nell’ambito dell’Anno Sacerdotale, riveste par­ticolare importanza: « La formazione teologi­ca
del presbitero ».
O ggi, memoria di san Tommaso d’A­quino, grande dottore della Chiesa, desidero proporvi alcune riflessioni sulle finalità e sulla missione specifica delle benemerite istituzioni culturali della Santa Se­de di cui fate parte e che vantano una varie­gata e ricca tradizione di ricerca e di impegno in diversi settori. Gli anni 2009-2010, infatti, per alcune di esse, sono segnati da una specifica ricorrenza, che costituisce ulteriore motivo per rendere grazie al Signore.
In particolare, la Pontificia Accademia Roma­na di Archeologia ricorda la fondazione avve­nuta due secoli fa, nel 1810, e la trasformazio­ne in Accademia Pontificia, nel 1829. La Pon­tificia Accademia di San Tommaso d’Aquino e la Pontificia Accademia Cultorum Martyrum
hanno ricordato il loro 130° anno di vita, es­sendo state fondate entrambe nel 1879. La Pontificia Accademia Mariana internaziona­le ha celebrato, poi, il 50° della propria tra­sformazione in Accademia Pontificia. Le Pon­tificie Accademie di San Tommaso d’Aquino e di Teologia hanno ricordato, infine, il de­cennale del loro rinnovamento istituzionale, avvenuto nel 1999 con il motu proprio Inter munera Academiarum, che reca proprio la da­ta
del 28 gennaio. T ante occasioni, dunque, per rivisitare il passato, attraverso la lettura attenta dei pensieri e delle azioni dei fondatori e di quanti si sono prodigati per il progresso di queste istituzioni. Ma lo sguardo retrospetti­vo e la memoria del glorioso passato non pos­sono costituire l’unico approccio a tali even­ti, che richiamano soprattutto il compito e la responsabilità delle Accademie Pontificie di servire fedelmente la Chiesa e la Santa Sede, rinnovando nel presente il ricco e diversifica­to impegno, che già ha prodotto preziosi frut­ti anche nel recente passato. La cultura contemporanea, e ancor più gli stes­si credenti, infatti, sollecitano continuamen­te la riflessione e l’azione della Chiesa nei va­ri ambiti in cui emergono nuove problemati­che e che costituiscono anche settori in cui o­perate, come la ricerca filosofica e teologica; la riflessione sulla figura della Vergine Maria; lo studio della storia, dei monumenti, delle te- stimonianze ricevute in eredità dai fedeli del­le prime generazioni cristiane, a cominciare dai martiri; il delicato ed importante dialogo tra la fede cristiana e la creatività artistica, a cui ho voluto dedicare l’incontro con personalità del mondo dell’arte e della cultura, svoltosi nella Cappella Sistina lo scorso 21 novembre. In questi delicati spazi di ricerca e di impegno, siete chiamati a offrire un contributo qualifi­cato, competente e appassionato, affinché tut­ta la Chiesa, e in particolare la Santa Sede, pos­sa disporre di occasioni, di linguaggi e di mez­zi adeguati per dialogare con le culture con­temporanee e rispondere efficacemente alle domande e alle sfide che l’interpellano nei va­ri ambiti del sapere e dell’esperienza umana. Come ho più volte affermato, l’odierna cultura risente fortemente sia di una vi­sione dominata dal relativismo e dal soggettivismo, sia di metodi e atteggiamenti talora superficiali e perfino banali, che dan­neggiano la serietà della ricerca e della rifles­sione e, di conseguenza, anche del dialogo, del confronto e della comunicazione inter­personale. Appare, pertanto, urgente e neces­sario ricreare le condizioni essenziali di una reale capacità di approfondimento nello stu­dio e nella ricerca, perché ragionevolmente si dialoghi ed efficacemente ci si confronti sul­le diverse problematiche, nella prospettiva di una crescita comune e di una formazione che promuova l’uomo nella sua integralità e com­pletezza.
Alla carenza di punti di riferimento ideali e morali, che penalizza particolarmente la con­vivenza civile e soprattutto la formazione del­le giovani generazioni, deve corrispondere un’offerta ideale e pratica di valori e di verità, di ragioni forti di vita e di speranza, che pos­sa e debba interessare tutti, soprattutto i gio­vani. Tale impegno deve essere particolar­mente cogente nell’ambito della formazione dei candidati al ministero ordinato, come esi­ge l’Anno Sacerdotale e come conferma la fe­lice scelta di dedicargli la vostra annuale Se­duta pubblica. na delle Pontificie Accademie è inti­tolata a san Tommaso d’Aquino, il U
Doctor Angelicus et communis , un mo­dello sempre attuale a cui ispirare l’azione e il dialogo delle Accademie Pontificie con le di­verse culture. Egli, infatti, riuscì ad instaurare un confronto fruttuoso sia con il pensiero a­rabo, sia con quello ebraico del suo tempo, e, facendo tesoro della tradizione filosofica gre­ca, produsse una straordinaria sintesi teolo­gica, armonizzando pienamente la ragione e la fede. Egli lasciò già nei suoi contemporanei un ricordo profondo e indelebile, proprio per la straordinaria finezza e acutezza della sua intelligenza e la grandezza e originalità del suo genio, oltre che per la luminosa santità della vita.
Il suo primo biografo, Guglielmo da Tocco, sot­tolinea la straordinaria e pervasiva originalità pedagogica di san Tommaso, con espressioni che possono ispirare anche le vostre azioni: fra’ Tommaso – egli scrive – «nelle sue lezioni introduceva nuovi articoli, risolveva le que­stioni in un modo nuovo e più chiaro con nuo­vi
argomenti. Di conseguenza, coloro che lo ascoltavano insegnare tesi nuove e trattarle con metodo nuovo, non potevano dubitare che Dio l’avesse illuminato con una luce nuo­va :
infatti, si possono mai insegnare o scrive­re opinioni nuove, se non si è ricevuta da Dio una ispirazione nuova? » ( Vita Sancti Thomae Aquinatis, in Fontes Vitae S. Thomae Aquina­tis notis historicis et criticis illustrati, ed. D. Prümmer M.-H. Laurent, Tolosa, s.d., fasc. 2, p. 81). I l pensiero e la testimonianza di san Tom­maso d’Aquino ci suggeriscono di studia­re con grande attenzione i problemi e­mergenti per offrire risposte adeguate e crea­tive. Fiduciosi nella possibilità della «ragione umana», nella piena fedeltà all’immutabile de­positum fidei , occorre – come fece il «Doctor Communis» – attingere sempre alle ricchezze della Tradizione, nella costante ricerca della «verità delle cose».
Per questo, è necessario che le Pontificie Ac­cademie siano oggi più che mai istituzioni vi­tali e vivaci, capaci di percepire acutamente sia le domande della società e delle culture, sia i bisogni e le attese della Chiesa, per offrire un adeguato e valido contributo e così promuo­vere, con tutte le energie ed i mezzi a disposi­zione, un autentico umanesimo cristiano.
R ingraziando, dunque, le Pontificie Ac­cademie per la generosa dedizione e per l’impegno profuso, auguro a cia­scuna di arricchire le singole storie e tradizio­ni di nuovi, significativi progetti attraverso cui proseguire, con rinnovato slancio, la propria missione. Vi assicuro un ricordo nella pre­ghiera e, nell’invocare su di voi e sulle istitu­zioni a cui appartenete l’intercessione della Madre di Dio, Sedes Sapientiae , e di san Tom­maso d’Aquino, di cuore imparto la benedi­zione apostolica.
Benedetto XVI

martedì 26 gennaio 2010

Giornatala della memoria 27 gennaio Poesia di Bertolt Brecht "A coloro che verranno"

Per ricordare coloro che hanno subito la tragedia della shoah

Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta Una fronte distesa
vuoi dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha saputa ancora.
Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
io mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici

che sono nell’affanno.
E vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che fo m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri,
sono perduto).
«Mangia e bevi! », mi dicono: «E sii contento di averne».
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d'acqua?
Eppure mangio e bevo.
Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tèma trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!
Nelle città venni al tempo del disordine,
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m'era stato dato.
Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all'amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m'era stato dato.
Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude6.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me ; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m'era stato dato.
Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m'era stato dato.

Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.
Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c'era, e nessuna rivolta.
Eppure lo sappiamo:
anche l'odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l'ira per l'ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.
Ma voi, quando sarà venuta l'ora
che all'uomo un aiuto sia l'uomo,
pensate a noi
con indulgenza.

Per il giorno della Memoria: Il diario di Anna Frank "Speranze"

E' un grande miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze pur se
sembrano assurde e inattuabili.
Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell'intima bontà dell'uomo.
Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione.
Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l'avvicinarsi del rombo che uccide noi pure, partecipi al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà; che ritorneranno l'ordine, la pace e la serenità.

lunedì 25 gennaio 2010

HAITI Il Mistero nascosto dentro a queste macerie


21/01/2010 - La testimonianza di un missionario che si trova a Port-au-Prince. Nella frenesia dei soccorsi e nelle analisi, qualcosa rischia di essere taciuto. Serve «guardare veramente» il silenzio e l'accettazione della gente

Padre Leonardo Grasso ad Haiti.Siamo arrivati in Venezuela da alcuni giorni insieme a Juan Carlos dell'associazione civile Icaro e adesso ci troviamo a Port-au-Prince, la città più colpita dal terremoto che ha scosso tutto il Paese martedì 14 gennaio. Le tracce di quell'avvenimento si possono vedere con drammatica evidenza nella quantità di edifici che sono crollati in città: tutto è ridotto in macerie, costruzioni di alcuni piani adesso sono alte solo un paio di metri, a causa del crollo di vari piani uno sopra l'altro e ora solo pochi centimetri li separano.
Camminando per la città si assiste a un'impressionante distruzione, che colpisce con forza e non può smettere di scuotere tutto il nostro umano.
Senza dubbio c'è qualcosa che mi colpisce con ancora più violenza in questa situazione drammatica. Qui a Port-au-Prince si assiste a una frenesia di solidarietà: ong e organizzazioni di ogni genere si prodigano nell'affronto dell’emergenza; volontari giunti da tutte le parti del mondo si affannano nel portare servizio ai bisognosi; i governi donano milioni di dollari per ricostruire; i mezzi di comunicazione dedicano tutta la propria programmazione all'emergenza Haiti; personalità di tutti i settori proclamano la propria solidarietà alle vittime; tutti lanciano appelli di solidarietà...
Tutto questo dispositivo di solidarietà, di generosità, di iniziative, di febbrile e ininterrotta attività manifesta mi sembra qualcosa che lascia perplessi. La generosità e l’impegno di tanta gente sono evidenti e commoventi, ma si ha l’impressione di assistere a un'immensa onda di sentimenti che generano un'attività impressionante e commovente. Ma manca qualcosa.
La solidarietà, la mobilitazione, l'emergenza e l'urgenza dominano l'orizzonte e la percezione di ciò che è accaduto. È come se la giusta e addirittura ammirabile iniziativa di migliaia di persone smorzasse tutta la posizione umana di fronte a ciò che è successo. Sembra che tutta la macchina di solidarietà internazionale dia per scontato e diffonda la coscienza che tutto ciò che è accaduto sia solo una disgrazia, una lamentabile anomalia della realtà a cui si deve contrapporre la più perfetta ed efficiente capacità di mobilizzazione e di iniziativa dell'uomo, correggendone le conseguenze negative con l'organizzazione e la forza di volontà mascherata a volte sotto il nome di certi "valori".
Si ha inoltre l'impressione che tutto cospiri per mettere a tacere qualcosa che sta nel profondo di ciò che è accaduto, qualcosa dentro a ciò che è accaduto, qualcosa di presente tra le macerie di questi edifici distrutti e tra il dolore di questa gente.
A ciò contribuiscono le notizie che distorcono la realtà parlando di un popolo determinato dalla disperazione, con continui episodi di violenza, con saccheggi ad opera di gruppi spinti dalla fame e con gravi mancanze nell'organizzazione umanitaria. Tutto ciò è falso e lo posso dire per esperienza mia diretta, non per averlo letto nelle agenzia internazionale. Ma sembra che si voglia dare l'immagine di un popolo disperato e quasi disumanizzato di fronte alla difficoltà.
Passando per Port-au-Prince oggi non potevamo non fermarci di fronte a ogni edificio crollato, non potevamo non restare in silenzio di fronte a quelle rovine, non potevamo non guardare quelle macerie e quei corpi imprigionati e già in decomposizione, senza lasciarci scuotere dall'evidenza che da lì sorgeva: quella di un luogo misteriosamente ma evidentemente sacro. "Misteriosamente" perché uno non riesce a cogliere tutto il significato di quella realtà con i suoi piccoli criteri e comprendere ciò che sta accadendo davanti ai nostri occhi; ma allo stesso tempo "misteriosamente sacro", perché è quasi impossibile (o è possibile solo censurando la propria umanità) non rendersi conto che lì, proprio tra quelle macerie, c’è presente qualcosa di grande, qualcosa che ha a che fare con il destino di ognuno di quegli uomini che stanno sotto quelle rovine e con il destino di ognuno.
Guardare le macerie delle due università che sono crollate mentre erano zeppe di professori che facevano lezione, di impiegati e operai che prestavano il proprio servizio e di centinaia di giovani studenti che si stavano formando; vedere le rovine di alcune scuole che adesso custodiscono i corpi di migliaia di bambini e giovani adolescenti che stavano frequentando le loro lezioni; entrare tra le macerie dell’arcivescovado al cui interno giacciono ora i corpi dell’arcivescovo, di vari sacerdoti e di decine di fedeli che si erano riuniti li con lui; camminare sopra ciò che resta dei tre seminari in cui quasi duecento seminaristi hanno trovato la morte; incrociare lo sguardo di uomini e donne che sono di fronte alle proprie case distrutte al cui interno inaccessibile si trovano i corpi dei loro figli; pensare a tutti quelli che sono rimasti sotto le macerie con il proprio desiderio di felicità e pienezza; cercare di immaginare gli ultimi momenti di vita di quegli uomini; ascoltare i racconti delle persone che sono sopravvissute e di quelle che sono state estratte dalle macerie dopo ore o giorni... Tutto questo ci fa stare in silenzio con una domanda che sorge dal cuore sul significato, il valore, il significato segreto di quel fatto. Nello sguardo e nella disperazione di molti dei soccorritori si rende evidente la percezione che hanno di ciò che è accaduto solo come un disastro, una maledizione; in molti volontari delle ong si percepisce la calcolata efficienza degli "esperti di emergenze"; in tanti operatori dei media il desiderio di trovare la notizia sensazionale; in molti politici la preoccupazione dell'analisi della situazione.
E la gente semplice di Haiti?
È impressionante vedere l’umiltà e la forza con cui vive questa situazione; il silenzio della gente quasi ammutolita di fronte a tanto dolore; la tranquillità (che molti soccorritori confondono con apatia o indolenza) addirittura nella tragedia; i gesti semplici di aiuto e fraternità nel condividere quel poco che possiedono, l'assenza di violenza e di disperazione; dormire per terra in piazza o in piena strada senza lamentarsi o maledire nessuno; l'accettare con forza le proprie ferite fisiche (sono moltissimi i feriti e coloro che hanno perso mani e braccia), e addirittura le ferite causate dalla morte dei propri cari; lo sguardo sorpreso e a volte distante di fronte a tanta attività dei soccorritori che presumono di sapere ciò di cui la gente ha bisogno e che cercano di inculcare loro le proprie soluzioni; l'impressione che traspare spesso dai loro sguardi pieni di gratitudine per l'aiuto che ricevono, ma consapevoli che i soccorritori non li capiscono, che molti di coloro che sono lì ad aiutarli non capiscono quello che loro capiscono, non capiscono ciò che essi custodiscono nel loro intimo.
Certamente non si tratta di non agire o di smettere di aiutare. Non si tratta di trattenersi ma, al contrario, di potenziare il modo di stare e agire in questa realtà, mettendosi con umanità di fronte a quello che sta accadendo e alle persone che soffrono le conseguenze del terremoto. Si tratta di guardare. Di guardare veramente. Si tratta di mettersi di fronte a questa realtà con tutto il nostro umano spalancato, senza aver paura dell’apparente contraddizione, senza fuggire nell'attivismo per non affrontare le domande che il dolore ci suscita, senza chiudere in un banale sentimentalismo ciò che, al contrario, costituisce una provocazione alla nostra ragione, lasciandoci toccare nel profondo, nelle esigenze profonde che ci costituiscono, per poter vedere ciò che abita veramente dentro ciò che sta succedendo. Si tratta in fin dei conti di chiedere un cuore semplice, capace di riconoscere la presenza del Mistero tra quelle macerie e poter così agire in modo pienamente umano, capace di abbracciare la realtà nella totalità dei fattori che la costituiscono e per questo veramente utile ai nostri fratelli haitiani.di Padre Leonardo Grasso

Per sostenere le attività di AVSI indicare nella causale “terremoto Haiti”:Credito Artigiano - Sede Milano Stelline, Corso Magenta 59
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Anche CESAL - organismo spagnolo di volontariato collegato ad AVSI e
presente ad Haiti con alcuni progetti - ha promosso una raccolta fondi.
Per informazioni: www.cesal.orgi padre Leonardo Grasso

domenica 24 gennaio 2010

LA MORTE NON HA PRESO TUTTO È IL MOMENTO DI PUNTARE LO SGUARDO E APRIRE IL CUORE

Haiti vivrà. Può sembrare quasi assur­do dirlo ora, mentre immagini di ogni tipo di scempio continuano ad arrivarci dalla isola tormentata. Ma Haiti vivrà, e la catastrofe non avrà l’ultima parola.
Ora sembra che la rovina e che la dispera­zione coprano tutto l’arco del visibile. Sì, ci riempiono gli occhi, ci tolgono il respiro e le parole dalla bocca. Ma sempre, sempre, anche quando l’inferno sembra dominare in terra, tra morte degli innocenti e scene di ogni indecente ferocia, occorre guarda­re bene. E decidere su che cosa tenere pun­tato lo sguardo. Perché c’è il novantanove per cento di morte e distruzione, ma non il cento per cento. C’è quasi tutto in malo­ra. Ma non tutto. Ad esempio, ben più di cento hanno resistito per giorni sotto le macerie: le hanno sconfitte, e sono vivi. De­cine e decine di migliaia sono morti, e il dolore per tutto questo, lo sgomento e la pena sono una montagna sul petto. Ma c’è chi ce l’ha fatta. E poi ci sono gli occhi dei bimbi: hanno commosso il mondo, che su­bito si è agitato per dare loro una casa in qualche modo. Quegli occhi sono pieni di disperazione, ma sono bambini. Sono cioè luce del futuro.
Haiti vivrà, perché in lei qualcosa ancora vi­ve. Non solo possiamo vedere la grande per quanto confusa macchina – o, meglio, chia­miamolo polmone o anima – degli aiuti che si è mobilitata. Non solo per questa pode­rosa gara di bene e di solidarietà possiamo dire Haiti vivrà, ma lo possiamo, lo dob­biamo dire per la luce di dignità che ve­diamo nei sopravvissuti, e in quei bimbi che saranno i giovani haitiani di domani. Quando ci sono catastrofi così immense, ci si riempiono gli occhi di immagini di morte, e possono sorgere due atteggia­menti prevalenti. Uno è quello di chi si ab­bandona allo sconforto e tira via gli occhi, decide di non guardare. Sa che esiste l’or­rore ma cerca riparo in altre visioni. Sa che l’orrore è grande, e maledettamente vicino in questo mondo che ci ha reso tutti coin­quilini anche se non tutti fratelli. E però appunto decide di girare lo sguardo, di ri­fugiarlo in qualche cosa di carino, di con­solante, di tranquillo. E poi ci può essere l’atteggiamento di chi, preso dallo sconfor­to e pur sinceramente commosso da quan­to accaduto, si pasce per così dire di tutto questo dolore.
C’è nell’uomo, lo sappiamo, un sinistro pia­cere del dolore, una possibile tendenza a fa­re pasto di ciò che fa pena. Come se a furia di ingurgitarne a grandi dosi se ne dimi­nuisse il sapore amaro, e si potesse sop­portare, anestetizzare un po’. Ci sono que­sti due atteggiamenti, in maggioranza. Li vediamo intorno a noi, li sentiamo nei commentatori tv, li sorprendiamo in noi stessi a volte.
Ma c’è anche un’altra possibilità: puntare lo sguardo a ciò che non è stato vinto dal­­l’orrore, a ciò che non è distruzione ed è scampato alla furia della strage, o è stato più forte di lei. Anche nell’inferno di Haiti ( ma no, non chiamiamolo più così, si ab­bia almeno questo rispetto delle parole) anche nella distruzione di Haiti c’è qual­cosa che non è sottomesso alla parola fine. Gli scampati, i ragazzini che hanno futuro. Haiti vivrà. Dipende dagli haitiani come vi­vrà. E dipende anche da noi. Chi guarda la distruzione ma non solo la distruzione sen­te una doppia responsabilità. Stare vicino ad Haiti ora, perché lotti con la prova im­mensa a cui è sottoposta. E stare con Hai­ti già puntando sul suo futuro, perché la morte ha colpito duro, ha colpito forte, ma non ha preso possesso di tutto. Ci sono quei sopravvissuti, e quei bambini...
Davide Rondoni

sabato 23 gennaio 2010

Guardare ciò che accade, come un bambino



La copertina del libro.Come si diventa “bambini” davanti al Mistero? È la domanda da cui sono partiti, lo scorso agosto, gli Esercizi spirituali per sacerdoti guidati da monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo della Diocesi della Madre di Dio a Mosca. Due lezioni con al centro la fede, «compimento di un’attesa», e la speranza, «esaltazione di un desiderio», che vengono oggi pubblicate da Marietti nel volumetto Guardare ciò che accade (pp. 96, 10 €, con introduzione e conclusione di Julián Carrón).
Come chiedeva Nicodemo a Gesù, è possibile rinascere quando si è vecchi? «All’uomo è impossibile - scrive monsignor Pezzi nella prefazione -. Ciò che è impossibile all’uomo, però, è possibile a Dio. L’Eterno ha trovato la strada per rendersi esperibile all’uomo, a me e a te, che viviamo nel tempo e nello spazio, nel limite del tempo e dello spazio, in cui tutto invecchia e muore». Questo permette di affrontare la situazione in cui ci troviamo, descritta nel saluto introduttivo di don Julián Carrón: «Questa confusione, questo smarrimento ci riguarda... Perciò, davanti a questa situazione che accade anche a noi di subire, di sperimentare, qual è l’urgenza più grande che sentiamo sulla nostra pelle, che sentiamo nel profondo del nostro io, nel vivere? Solo rispondendo a questa urgenza possiamo veramente aiutarci e aiutare i nostri fratelli».
Scopo di queste lezioni, quindi, è aiutare chi legge a fare un passo in più: «La vita stessa è un cammino - spiega monsignor Pezzi -, in cui ogni giorno siamo chiamati a capire meglio chi siamo». Per «tornare bambini e perciò diventare adulti».

Paolo Pezzi
Guardare ciò che accade
Marietti
pp. 96 - € 10

di Fabrizio Rossi

DOMANI RACCOLTA NELLE CHIESE UN SEGNO DI LUCE CI CHIAMA A FEDELE SOLIDARIETÀ

Mentre i titoli su Haiti scompaiono dalle prime pagine di molti quo­tidiani, uno scarno, inosservato lancio d’agenzia della americana Catholic News Agency aggiunge un particolare sul ritrovamento, sotto alla cattedrale di Port-au-Prince il 20 gennaio, del cor­po del vicario generale Charles Benoit. Quando è stato dissepolto dalle mace­rie il vicario, afferma la Cna, stringeva fra le mani la pisside con le ostie con­sacrate. Dunque Benoit, colto in chie­sa dal terremoto, prima di cercare di fuggire ha avuto il pensiero di portare in salvo ciò che gli era più caro: il cor­po di Cristo custodito nel tabernacolo. Non ce l’ha fatta. Le volte gli sono crol­late addosso in un fragore di tuono, in una apocalisse di urla e di pietre.
Come l’anziana donna trovata viva due giorni fa sotto la cattedrale, il corpo del vicario doveva essere così coperto di polvere da sembrare una statua. Una statua con quel vaso avvinto al petto, nell’irrigidimento della morte; in una stretta più forte della morte.
Che Chiesa viva dev’essere quella un cui pastore, faccia a faccia col proprio ultimo istante, rimane fisso col cuore al corpo di Cristo, fedele fino all’ultimo respiro. La Chiesa viva di Haiti ha pa­gato il suo tributo alla strage: ancora trenta seminaristi mancano all’appel­lo. Il nunzio apostolico, Bernardito Au­za, percorre le vie della città incenerita cercando di portare conforto, e a chi gli chiede di cosa c’è bisogno risponde u­milmente: «Abbiamo un infinito biso­gno di tutto». Di tutto, anche se l’aeroporto della città è intasato di generi di prima emergen­za, e accanto al Catholic Relief Services decine di agenzie di ogni parte del mon­do cercano di curare e assistere la po­polazione. C’è «un infinito bisogno di tutto», perché l’attenzione dei media si affievolirà presto, e assieme l’onda di e­mozione che questa strage ha solleva­to. Spenti i riflettori, partiti i giornalisti, Haiti resterà con le sue moltitudini di senzatetto, con le sue migliaia di muti­lati e orfani; sola con il suo lutto imma­ne sepolto nel fragore delle ruspe nelle fosse comuni. Chi ricostruirà le case di Port-au-Prince, chi rieducherà chi ha perso una gamba a camminare, chi creerà lavoro per questa folla immen­sa che mangia solo grazie alla carità in­ternazionale? Già i titoli scivolano dal­le prime pagine, come è inevitabile che sia; ma la tragedia di Haiti, piombata su una antica miseria, su endemici ma­li, è una tragedia di lungo corso.
Ci vorrà molto tempo. Ci vorrà una pa­zienza infinita, una miriade di lunghe oscure dedizioni per questo popolo, che forse ora è il più povero del mondo. E così disgraziato che a qualcuno cinica­mente può venire la tentazione di dire: lasciamo perdere laggiù, arrendiamoci. Passata l’emozione svegliata dagli occhi di quei bambini, il rischio è che il mon­do si abitui a sapere di avere, nei Carai­bi, una annichilita isola di disperati.
Ci vorrà molto tempo, e forze, e uo­mini, e denaro. La Chiesa italiana do­mani chiederà ai fedeli, a messa, un aiuto per questo: per una presenza che durerà negli anni, tenace. Per il tem­po che occorre a un bambino mutila­to a riprendere, con le stampelle, a camminare; ai padri, per tornare a da­re da mangiare ai figli; a tanti, di rico­minciare a sperare.
Perché la speranza, è cosa a cui biso­gna essere fedeli. Cocciutamente, an­che quando tutto sembra volerla ne­gare. Fedeli come quel vicario che mentre la navata della cattedrale va­cillava nel mugghio atroce del terre­moto, è tornato indietro e ha afferra­to la pisside con le ostie. Il corpo di Cristo. La Speranza, in persona. Di­cendoci in quel gesto qualcosa di Hai­ti, del suo popolo, della sua fede, che nessuna tv ci ha raccontato. Quasi in una profezia per questa terra, quel cor­po di Cristo sepolto insieme a quelli degli uomini – ma strappato alle ma­cerie, e riportato alla luce.
MARINA CORRADI

mercoledì 20 gennaio 2010

TERREMOTO AD HAITI - La nostra vita appartiene a un Altro

«La nostra vita appartiene a qualcosa d’Altro. L’inevitabilità [di ciò che accade] è come il sinonimo più chiarificatore di questa non appartenenza a noi della cosa, e soprattutto non appartiene a noi ciò da cui tutto deriva: la nostra vita appartiene a un Altro.
In questo senso si capisce perché la vita dell’uomo è drammatica: se non appartenesse a un Altro sarebbe tragica. La tragedia è quando una costruzione frana e tutti i sassi e i pezzi di marmo e i pezzi dimuro, crollano. E tutto nella vita diventa niente, è destinato a diventar niente, perché di ciò che abbiamo vissuto nel passato, di ciò che abbiamo vissuto fino a un’ora fa, fino a cinqueminuti fa, non esiste più niente di formato, di costruito non esiste più niente. E questo è tragico. La tragedia è il nulla come traguardo, il niente, il niente di ciò che c’è.
Mentre se tutto appartiene a un Altro, a qualcosa d’Altro, allora la vita dell’uomo è drammatica, non tragica. Riconosco che ti appartengo, riconosco che il tempo non è statomio, nonmi apparteneva, come il tempo fino ad oggi nonmi appartiene, nonmi appartiene. Prendi pure la mia vita, accetto che nonmi appartenga, riconosco che nonmi appartiene, accetto che nonmi appartenga.
Ciò che possiede il nostro tempo è morto per noi, si presenta ai nostri occhi e al nostro cuore come il luogo dove è amato il nostro destino, dove è amata la nostra felicità, tanto che Colui che possiede il tempo muore per il nostro tempo. Il Signore, Colui a cui appartiene il tempo, è buono».
(L.Giussani, Si può vivere così?)

«Il nostro pensiero, in questi giorni, è rivolto alle care popolazioni di Haiti, e si fa accorata preghiera. Seguo e incoraggio lo sforzo delle numerose organizzazioni caritative, che si stanno facendo carico delle immense necessità del Paese. Prego per i feriti, per i senza tetto, e per quanti tragicamente hanno perso la vita».
(Benedetto XVI, Angelus del 17 gennaio 2010)

È la certezza di questa appartenenza che sostiene la nostra speranza e ci fa sentire come nostro il dramma dei fratelli di Haiti.
Perquesto,accogliendol’appello del Papa, sosteniamo la raccolta fondi lanciata da AVSI per intervenire in favore della popolazione e far fronte alla grave emergenza umanitaria che si è creata nell’isola.AVSI è presente ad Haitidal 1999 con alcuni progetti asostegno della realtà locale.

Per sostenere le attività di AVSI indicare nella causale “terremoto Haiti”:
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Anche CESAL - organismo spagnolo di volontariato collegato ad AVSI e
presente ad Haiti con alcuni progetti - ha promosso una raccolta fondi.
Per informazioni: www.cesal.org

Comunione e Liberazione
20 gennaio 2010.

lunedì 18 gennaio 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón-Milano, 13 gennaio 2010

Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 289-318.
• Canto “Como busca”
• Canto “Give me Jesus”
Sul volantone di Natale mi ha colpito la frase di Giussani che diceva che non si può rimanere nell’amore a sé se Cristo non è una presenza ora – ora – come la madre per il figlio. A me ha colpito questo perché sono capitati dei fatti faticosi durante questo mese, dove mi sono riscoperto a entrare con una modalità diversa, non più – dicevo a un amico – in apnea, per cui uno entra alla mattina turandosi il naso e spera di uscire il più in fretta possibile. È come se fosse stato inesorabile riconoscere che inevitabilmente questa Presenza c’era. E la sera mi capitava di andare a letto in pace per questa cosa. Capisco che il riconoscere questo per me è decisivo, perché è come se tutte le volte fosse iniziata una festa; e tutte le volte il mio cuore aveva voglia che questa festa potesse continuare. Dopo le vacanze ho ripreso in mano l’articolo che hai fatto per Natale, e mi ha colpito un passaggio che dice: «Il cristianesimo ha bisogno di trovare l’uomo che vibra in ciascuno
di noi per mostrare tutta la portata della sua pretesa». A me ha colpito questo, perché è come se avessi riconosciuto che se non fossi stato così, tutto quello che mi era capitato non poteva essere una festa.
Cristo ha bisogno di trovare l’umano. In che misura tu hai visto accadere questo in te?
Innanzitutto per la pace con cui andavo a letto, come ho detto prima, e poi perché riconoscevo che le situazioni cambiavano inesorabilmente, e dovevo solo riconoscerlo.
Volevo raccontarti un fatto semplice che c’entra – credo – con l’articolo sul Natale. Molto brevemente, una sera bisticcio ferocemente con mia moglie che mi ha proprio fatto arrabbiare. Però quella sera – sottolineo questo particolare – avevo ragione io, e più ci pensavo e più dicevo: «Ho proprio ragione io! E stavolta non mollo, assolutamente non mollo!”. Sono andato a letto
dicendo: «Non mollo, domani mattina manco la saluto, perché ho ragione io». La mattina mi avevano invitato degli amici ad andare a fare una passeggiata; già nell’alzarsi uno si chiede a cosa va incontro – e quindi già si era introdotta per certi versi una novità –, però quando sono arrivato al paesello dove mi aspettavano, vedere la loro faccia, come loro han guardato me, non so che riverbero han visto però mi è tornato addosso e io lì ho detto: «Tu» (non riesco a spiegarlo in modo
diverso). Ma la cosa che mi ha colpito è che per questa cosa che è entrata ho dovuto resistere qualche secondo, poi ho mandato un messaggio a mia moglie chiedendo scusa per il giorno prima (perché la cosa era stata abbastanza forte) e augurandole buona giornata. Non che il problema in sé sia stato risolto, nel senso che ne stiamo anche parlando e lo affronteremo, però l’entrata di questa novità mi ha “sciolto” in dieci secondi.

Questo dice molto bene qual è la situazione in cui ci veniamo a trovare quando ci incastriamo: può essere con la moglie, sul lavoro, può essere che mi arrabbio con la vita (ciascuno di noi può documentarlo con tantissimi esempi); e tante volte noi pensiamo che si risolva attraverso un tentativo nostro, un nostro progetto di perfezione. Invece, quello che il tuo intervento descrive è un’altra cosa: quel che t’ha cambiato è lasciare entrare un’altra cosa, lasciare entrare una Presenza
che ha fatto saltare la tua misura. Questo è importante, perché inevitabilmente – ciascuno di noi lo può riconoscere nella propria vita – ci si trova davanti a queste due possibilità in qualsiasi momento della giornata. E qui sta la sfida di don Giussani: entrare nel reale con una mentalità diversa. Come il Signore ci insegna, qual è questa mentalità diversa? Non facendo una lezione, ma facendolo accadere. Il contenuto e il metodo nel cristianesimo coincidono. Facendo accadere una Presenza
risolve, ci “scioglie”. Per questo la vera questione non è tanto se io riesco o non riesco: non riesco! 2
Posso magari farcela parzialmente, ma è diverso: un conto è mandare un messaggino di malavoglia, un’altra cosa è mandare un messaggino liberati e contenti. Le azioni possono essere quasi le stesse, ma l’esperienza umana che uno vive è totalmente diversa. Uno è veramente liberato: non è che deve cedere dando ragione alla moglie, ma deve cedere a quella Presenza! La vera moralità è cedere o non cedere a questa Presenza; per questo quando ci troviamo incastrati – il che è inevitabile, per un
motivo o per un altro la vita non ci viene risparmiata –, che dinamica si genera in noi? Abbozziamo un tentativo nostro (e poi ci arrabbiamo perché non ci riusciamo) oppure lasciamo entrare una Presenza? Nel rapporto con Dio non ci sono misure, sarebbe moralismo; non è una misura, ma uno sguardo amoroso quello di cui abbiamo bisogno. È questo sguardo amoroso che rintraccia il mio io così arrabbiato, così incastrato, affinché il Mistero possa “sciogliermi” e dire: «Guarda chi sono
Io!» (perché questo tu non lo puoi fare). Ma è tutto diverso dal progetto di perfezione il guardare in faccia Cristo. Questa è una documentazione palese di cosa sia la diversità del cristianesimo, che è un avvenimento, è qualcosa che accade.

Quando è uscito l’articolo di Natale l’ho trattato come qualcosa di già saputo. Finché l’altro giorno un amico mi fa: «Ma l’hai letto?». Mi sono incuriosito per come lui me lo diceva e allora l’ho riletto, ma mi sono fermato alla terza riga, quando mi sono sentito addosso la domanda: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?». Mi sono detto: «Io dico tutti i giorni: “Gesù”. Ma chi sei Tu veramente per
me? Cosa provo io quando punto il dito e Ti indico nella mia giornata? Cosa mi accade, comefaccio io a essere certo che sei Tu, senza illusioni?». Mi sono venute in mente, senza tanti ragionamenti, due cose. La prima è che attraverso di Lui passa qualcosa che non passa da nessun’altra parte, cioè una cosa quasi impossibile. La seconda: in questi giorni con alcuni amici siamo andati in Kazakhstan a trovare alcuni amici e vedendo la loro faccia mi son detto: «Io una letizia così non la posso ricostruire, una letizia che li investe così nella difficoltà, in centomila
condizioni diverse dalle mie, non la posso ricostruire, non ho gli strumenti per poterla ricostruire».
E allora chiedo: posso dire: «Tu» perché mi investe in un modo impossibile ad altri?

Tu cosa dici?

Io dico di sì: gli Apostoli cosa avranno visto che io non ho ancora visto?

La modalità con cui Lui si rende presente è qualcosa di impossibile all’uomo, infatti quando la gente vedeva certi miracoli e si trovava davanti a quello sguardo unico, subito doveva pensare a Dio. Perché quello che vedevano non era possibile all’esperienza che loro facevano della vita, non era possibile generarlo da loro stessi. Analogamente, certi fatti eccezionali o certi testimoni sono così al di là della nostra misura che uno è il primo a sorprendersi di essere davanti al Mistero
presente. La settimana scorsa a Dublino parlavo con un amico che era andato per lavoro in un carcere e, sapendo che una persona che conosceva era rinchiusa lì, ha chiesto di poterla vedere. Quando l’ha incontrato, l’altro non è riuscito a guardarlo tanta era la vergogna che sentiva su di sé per la situazione a causa della quale era stato messo in carcere. Il mio amico, invece, era stupito perché lui, sì, aveva potuto guardarlo. Mi sarebbe piaciuto che tutti quanti voi foste stati lì per
vederlo raccontare questo episodio, perché non si capacitava, tanto era lui stesso sorpreso di questa cosa: non era qualcosa che poteva attribuire all’esito di un allenamento o di un moralismo o di una coerenza («Dobbiamo guardare così»). E io che ero lì a guardarlo raccontare ero tutto stupito, tutto commosso del suo tentativo di dare ragione di questo: in quello sguardo c’era dentro qualcosa più grande. Il segno più persuasivo che Cristo è Dio, il miracolo più grande da cui tutti rimanevano
colpiti, più ancora che le gambe raddrizzate o la cecità guarita, era uno sguardo senza paragoni; e il segno che Cristo non è una teoria o un insieme di regole è quello sguardo che non posso creare io (cercando di essere coerente con le regole). Il Vangelo è pieno del Suo modo di trattare l’umano, di entrare in rapporto con coloro che trovava sulla Sua strada. Ma non solo: quel che mi stupisce è che
anche questo fascino del Suo sguardo nel Vangelo non lo avremmo colto, se don Giussani non ci avesse educato testimoniandolo. Amici, questo è il segno del divino nel carisma! Perché una cosa così è impossibile che sia generata non dico da noi, ma nemmeno da lui (pur con tutta la sua bravura
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e statura umane). Allora, come io, un europeo colto del nostro tempo, posso credere questo? Non come l’esito di un discorso, non come l’esito di una logica, ma perché – educato da un padre – vedo questi fatti con tutta la profondità che hanno: «Guardate che la ragione ultima di questa diversità è che Io sono Dio». Questa è l’unica spiegazione adeguata a questa esperienza. Perciò – rispetto alla domanda di Dostoevskij – il problema è che senza quell’uso pieno della ragione che un europeo
colto dei nostri giorni ha, quando è fedele alla grande tradizione che lo precede, noi la fede, in un clima culturale come quello in cui viviamo, non riusciamo a sostenerla in maniera adeguata, con consapevolezza e profondità. Perciò non dobbiamo far fuori tutta un’educazione o tutta una cultura; dobbiamo, anzi, usarla secondo la sua vera natura. Questa è l’unica modalità adeguata della fede oggi, altrimenti il vento ci porta via tutto, come vediamo. E questo è il lavoro che siamo costretti a
fare davanti alla domanda che faceva il nostro amico: è un’illusione o è qualcosa che io sono costretto a riconoscere? Come abbiamo letto a pagina 272, «la ragione non può percepirlo come si concepisce che sei qui tu, è chiaro? Però non posso non ammettere che [quella Presenza] c’è.
Perché? Perché c’è un fattore [...] così sorprendente che se non affermo qualcosa d’altro non dò ragione dell’esperienza, perché la ragione è affermare la realtà sperimentabile secondo tutti i fattori che la compongono, tutti i fattori». Cioè: per credere oggi non basta che accada, occorre che io usi la ragione secondo la sua vera natura per cogliere quel fattore ultimo senza il quale non dò ragione dell’esperienza. E queste cose noi abbiamo la grazia di vederle, fatti di questo tipo ne vediamo in continuazione; la questione è se noi rimaniamo soltanto all’impatto sentimentale che ci provocano, dopodiché tutto svanisce, o se non ci fermiamo, fino al punto di riconoscere, di dare ragione totale dell’esperienza che facciamo.


Avevo due esempi e una domanda. Da ottobre, quando è ricominciata la Scuola di comunità, seguivo le cose che dicevi e qualcosa mi faceva dire: «Il metodo che dice è giusto, mi fa rendere ragione dell’esperienza che faccio, però mi sembra artificioso, ma io lo applico perché so che seguendo Carrón nella mia vita l’esperienza poi l’ho fatta». E questi due fatti che mi sono capitati mi hanno fatto sorprendere invece del fatto che il metodo non è artificioso proprio per niente. Il
primo fatto è questo: il 4 dicembre di tredici anni fa è morta mia mamma, e quest’anno, come ogni anno, quel giorno io vado a Messa. Ero sola, perché chi si ricorda più che mia mamma è morta?
Non ho fratelli, mio papà è morto, quindi ero sola ed ero veramente triste, pur essendo a Messa di fronte a Cristo io ero proprio triste, ero proprio desolata nel senso che pensavo: «Della vita di mia madre, del destino di mia madre, di quello che lei è stata, di questa promessa di eterno, a chi importa? Sono qua io, ma che ne è di lei? Cenere». Ed ero a Messa proprio scettica (figurati nella vita)!

Dove era lo sbaglio lì?

Che non ero di fronte a Cristo.

Il problema non è che gli altri si dimenticano, che mistero è che la debolezza sia debole? Il problema è che la nostra speranza non è che si ricordino gli altri, ma che si ricordi Uno. Se voi vi dimenticate di me, ma se ne ricorda Cristo, questo mi basta.

Infatti il punto è che io, ribadisco, pur essendo a Messa non ero di fronte a Cristo.

Questo ci costringe ad andare fino al fondo di questo, perché altrimenti poggiamo sempre su qualcosa che ha tutta la sua fragilità.

Però la tenerezza di Cristo è stata così sovrabbondante che al momento del segno della pace mi volto e vedo una persona che era intervenuta qualche giorno prima qui alla Scuola di comunità, e vedere lui e pensare a cosa era stata la Scuola di comunità qui con te mi ha sorpreso e mi ha commosso, perché in quell’istante è come se avessi inteso che ancora c’era un destino buono per me e per mia mamma. Io non so come, perché non è stato un pensiero mio o un ragionamento artificioso, ma è stato una sorpresa del fatto che ero in ginocchio davanti a Lui. E lì ho visto una
storia di momenti, di persone che hanno accompagnato mia madre, che sono…
E che continuano a esserci.

Esatto.

A volte ci lasciamo prendere dall’apparenza di essere da soli; ma quando tu sei a Messa sei ontologicamente insieme a tutta la comunità cristiana. A volte ci sconcertiamo di questo metodo, che sembra artificioso: «E adesso che cosa faccio, che non vedo nessuno qua?». Ma se uno non va al fondo di questo, se uno non usa l’arma che ha, la ragione, per rendersi consapevole di tutto quanto sta accadendo lì, rimane bloccato; invece se non si lascia prendere da quella misura, dal
dispiacere, e va fino in fondo, questo gli consente poi di recuperare tutto.


L’altro esempio è che quest’anno mia figlia ha iniziato la prima elementare e ho pensato di fare la rappresentante di classe perché è un compito: sto vicino alle mamme, sono più dentro la scuola(una serie di pensieri buoni). Poi proprio le cose che tu hai detto in tutti questi mesi mi hanno provocato, perché alla fine non mi bastavano queste buone azioni, questi buoni ragionamenti, tanto è vero che dopo la terza riunione ti stufi, dopo la terza colletta di soldi ti stufi; e allora mi sono
costretta a rendere ragione del perché ho iniziato questa cosa, e l’unica risposta adeguata è: perché voglio bene a mia figlia, in qualche modo voglio essere a servizio di questa esperienza che sta facendo. E cosa è capitato? Che all’uscita della scuola c’era una mamma africana che non sa ancora bene l’italiano, e io ero reduce dalla Scuola di comunità della sera prima e per la prima volta l’ho guardata in modo diverso, ho guardato il viso di questa donna senza avere un progetto
mio, ascoltando semplicemente dei racconti di una quotidianità assolutamente banale, però ho avuto la percezione di chiedermi: «Cristo, chissà Tu attraverso questo volto dove mi conduci?», tanto che il volto di questa mamma rispetto a quelle che sono anche più amiche è diventato preferito per me, quando io la vedo fuori dall’uscita della scuola, magari non parliamo, ma per me è un richiamo della mendicanza a Cristo, e anche questa è stata una sorpresa, perché le cose che tu ci dici non sono artificiose.

Questo secondo me è fondamentale: partecipando a un luogo che ci introduce a una nuova conoscenza lei (reduce della Scuola di comunità) si è sorpresa a guardare in un altro modo. Questa novità nello sguardo è il valore conoscitivo dell’incontro: chi mi allarga la ragione è Cristo, che mi introduce a un modo di guardare le persone, di guardare il reale con tutta la misteriosità che c’è dentro. Dice in fondo a pagina 292: «La nostra vita appartiene a qualcosa d’Altro – diciamo così per
abbreviare l’intendimento – di strano in sé, di enigmatico, di misterioso; noi siamo abituati a chiamarlo Dio, ma non possiamo neanche chiamarlo Dio, non abbiamo il diritto di chiamarlo Dio [perché pensiamo che Dio sia un “già saputo”] se non lo percepiamo nella sua inafferrabile misteriosità». Poi più avanti continua: «Per questo la vita dell’uomo è drammatica, […] è fatta di un’umanità, in cui l’io riconosce che tutto ciò che è appartiene a Te, anche se questo Te sfuma in
qualcosa di enigmatico, si oscura in qualcosa di enigmatico, di misterioso». Noi sappiamo che il Mistero è presente perché introduce questa misteriosità nella vita, allarga la ragione, allarga la capacità di vedere tutta la profondità della realtà che abbiamo davanti quando uno guarda l’altro. Sono stato a Londra nel fine settimana e un amico cui è stato diagnosticato un cancro mi ha detto di
percepirlo come una preferenza del Mistero, ma non in termini banali, dandolo per scontato, bensì come fatto che gli fa scoprire veramente che la vita non gli appartiene, che non la può possedere, che non la può controllare, che non è nelle sue mani. In questo senso è una preferenza – perché tutti siamo condannati a morire, cancro o non cancro –, perché introduce una profondità nella coscienza di me che mi rende più vero, mi rende più consapevole di che cosa sono io, di qual è il Mistero cui appartengo. Don Giussani afferma due cose quando parla del tempo: che il tempo non ci appartiene (cioè che la vita non ci appartiene) e che questo Mistero a cui appartiene la vita ci ha donato un luogo che ci rende più consapevoli di Lui. «E invece siamo stretti, stretti d’attorno, stretti proprio ai fianchi da una compagnia che ci richiama continuamente al destino, al Mistero che fa le cose per il
nostro bene, per un nostro destino di felicità. Questo Mistero è bene, questo Tu enigmatico è buono»; ci dà un luogo come questo perché possiamo guardare così l’altro, la malattia, la circostanza, la moglie, gli amici, tutto, con questa densità enigmatica, misteriosa. È la differenza tra qualcosa di piatto e qualcosa di tridimensionale! Questo è quello che introduce Cristo, questa profondità nello sguardo del quotidiano, di quello che succede nella vita. E questo lo fa accadere in
noi in certi momenti precisi, affinché poi questa sia la nostra modalità sempre più quotidiana,5
familiare, di entrare in rapporto con il reale. Allora tutto ci parla con un’intensità che prima non ci sognavamo. Adesso la domanda.


Dopo tutte queste cose che ho visto, che ho sperimentato ancora una volta, in questi giorni sto leggendo gli Esercizi del Clu. E quando si parla del volantino sulla questione dei crocifissi mi sono proprio vergognata perché anch’io difenderei la croce per il significato culturale. Poi invece tu introduci il fatto del chiedersi chi è l’Uomo appeso alla croce per me. Io lì sono rimasta davvero pietrificata, perché a me sembrava di avere messo in azione il massimo delle…

L’aspetto culturale non è sbagliato. È un aspetto, ma non è questo che ci salva! Infatti non dà ragione della tua esperienza.

Infatti, in quei due fatti che mi sono capitati, la nostalgia che io provo nel raccontarteli pensando a quella mamma africana, che è il modo in cui io vorrei guardare mio marito tutti i giorni, cioè non conoscendolo, non è che la faccio fuori dicendo: «È una questione culturale o un’integrazione razziale».

Questo è quello su cui insite quel volantino.

Però è bestiale: uno ti vuole seguire, però poi è sempre un’altra cosa.

E come ti corregge la Scuola di comunità? Qui parla della vergogna, ma la riconduce subito al dolore, perché la vergogna è ancora tutta centrata su di te che non sei stata in grado, e questo ti produce la vergogna. Ma la vera questione non è la vergogna, che t’importa della tua vergogna? La vergogna non ti serve a nulla. Qui la questione è, carissima, che c’è un luogo che ti riprende sempre: a un certo momento, prende il sopravvento un’altra cosa, sei più contenta e più travolta dal fatto che ci sia un luogo che ti riprende sempre che non dalla vergogna che ti provoca il non essere riuscita. È lo spostamento affettivo. Se questo non prevale, siamo come gli altri, in fondo ci aspettiamo dalla nostra capacità di performance la soluzione: siamo poveracci. Per questo non è che, a un certo momento, noi possiamo possedere il discorso o possedere il cristianesimo: non lo possediamo, abbiamo sempre bisogno di questa contemporaneità di Cristo presente, che ci spalanca costantemente, che – come dicevamo prima – rompe costantemente la misura, perché quello che prevale è che Lui c’è, c’è e continua a essere presente per te oggi. E pian piano uno è sempre più
commosso di questa spropositata affezione nei nostri confronti, e tutta la nostra affezione è calamitata da Lui. Altro che: «Lo so già»! No, uno si stupisce sempre di più che continui a non stancarsi (perché noi con gli altri ci stanchiamo subito...). E cominciamo a percepire con costanza questa diversità, la cui unica spiegazione è il divino: è un Tu che domina, e così ci rende sempre più Suoi.


In questo ultimo periodo ho preso coscienza della difficoltà del momento che sto attraversando, infatti da un paio di mesi ho improvvisamente ricominciato a non riuscire più a gestire come prima la normalità della vita quotidiana. Io sono sposata e ho cinque figli; sempre più spesso arrivavo a fine giornata senza essere riuscita a completare le quotidiane incombenze domestiche, non riuscivo a stare dietro alle esigenze di una normale vita di famiglia (i figli, la scuola, le visite mediche), cominciavo anche a dimenticarmi una cosa dietro l’altra e a perdere un sacco di colpi. La ragione che mi sono data di tutto questo era che fosse la naturale conseguenza della morte di mio papà, avvenuta lo scorso mese di agosto, e in particolare la conseguenza dello stress psicologico e fisico dei sei mesi di malattia precedenti, resi ancora più faticosi dall’impegno richiestomi
contemporaneamente dalla mia ultima figlia, che allora era neonata. Era come se mi fossi ritrovata improvvisamente svuotata di tutte le energie usate in quel periodo, avevo anche preso la decisione dopo la morte di mio papà di riprendere a lavorare, avevo pensato a un tipo di lavoro nuovo (io sono medico) che mi sembrava ben conciliabile con il mio impegno di madre di famiglia e che pure mi piaceva, ma finora non ho ricevuto nessuna offerta. Mi trovavo per la prima volta in vita mia in
una situazione di grande debolezza, che nettamente strideva con la persona che ero sempre stata, certamente non modello perfetto di organizzazione domestica e di successo professionale, ma pur sempre autonoma, ben decisa. La naturale ragione di questo cedimento e la prospettiva che il tempo avrebbe migliorato la situazione non mi bastavano, io non mi riconoscevo, così incapace,6
inconcludente e non mi piaceva vedermi così; poi ho visto l’articolo pubblicato sul Corriere della Sera e, leggendolo e rileggendolo, ho cominciato a provare una crescente tenerezza nei confronti di me stessa; il mio limite, la mia incapacità e la mia conseguente insoddisfazione erano il segno più eclatante di quella che è la mia vera natura, il buon Dio mi metteva dentro questa “depressione” perché potessi chiedere, con la stessa insistenza che avevo già usato in altri momenti, che Lui
riaccadesse nella mia giornata e che io Lo potessi riconoscere, certa dell’aver sperimentato io stessa, e dell’averLo visto testimoniato abbondantemente anche intorno a me, che è solo questo che riempie il desiderio del mio cuore. Ero sì più affannata, ma in un certo senso ero più sincera e più vera nel vedermi così bisognosa piuttosto che infallibilmente organizzata. Ho smesso quindi di riporre le aspettative di un possibile cambiamento nei miei goffi propositi del tipo: siccome non riesco a fare le cose, mi alzo presto la mattina così esco di casa che almeno ho già fatto qualcosa. Oppure: in casa mia non esce nessuno finché tutti non hanno fatto il loro letto, non hanno sistemato la colazione, non hanno sistemato la stanza. Oppure: mi iscrivo in palestra perché dopo cinque figli mi rimetto in forma così mi piaccio di più, cresce l’autostima. Non che di per sé tutte queste cose
fossero sbagliate – perché è meglio che i figli escano avendo rifatto il letto ed è meglio fare ginnastica che non farla –, ma perché io guardavo a queste cose come al rimedio a una ferita che invece era più vero che rimanesse aperta; mi porto dentro la certezza che il punto non sono le cose che mi succedono, specie quando non corrispondono a quello che vorrei o addirittura mi sembrano
ingiuste, ma l’uso che faccio di queste cose: se queste diventano l’occasione per cui mi trovo a domandare con più sincerità e più insistenza che il Mistero si renda presente. Ben venga anche questo, perché quando mi troverò faccia a faccia con il Mistero, Gesù non mi chiederà conto di quanto sono stata capace o come mi sono mantenuta in forma, ma mi chiederà: «Tu quanto Mi hai amato?».

Guardate che in tutte queste vicende umane, umanissime, si ripete quello che dicevamo all’inizio: ilcristianesimo ha bisogno di trovare l’umano che vibra in ciascuno di noi per mostrare tutta la portata della sua pretesa. Tante volte noi siamo tentati – dico nell’articolo – di pensare che l’umano invece di un aiuto sia un ostacolo, una complicazione, un intralcio e cerchiamo anzitutto di “sistemarlo”; ma facendo così noi mostriamo già un giudizio su che cosa è l’origine del disagio che
ci troviamo addosso. Tanto è vero che i tentativi che facciamo (i propositi, la palestra, l’autostima eccetera) implicano uno sguardo su quel disagio. Cercando di riassumere: tante volte tutto questo lo prendiamo come i sintomi di una malattia o di qualcosa che non va e che dobbiamo cercare di rimettere a posto (con le modalità che ci vengono in testa), non come i segni della nostra grandezza, del mistero che c’è in noi. In questo giudizio che diamo c’è, poi, tutta la modalità con cui cerchiamo di rispondere: perché se riduci le esigenze, riduci anche la risposta. Come hai detto benissimo, ti sei spostata a cercare la risposta a questa tua ferita altrove, in un rapporto con Lui. Quando ci sei riuscita? Quando – rileggendo l’articolo – hai sentito tutta la tenerezza su te stessa: è il bisogno non
ridotto, l’umano non ridotto. Allora si capisce che queste difficoltà sono sintomi di qualcosa d’altro, di un bisogno più grande. Il problema è che per noi, tante volte, questa è l’ultima spiaggia: dopo avere fatto la ginnastica, il proposito e la visita medica, alla fine, se resta qualcosa di irrisolto – e resta sempre, grazie a Dio! –, pensiamo a Cristo... E allora scopriamo che avevamo, sì, giudicato,
ma in modo incompleto. E quando capiamo che è incompleto? Quando cominciamo a sentire una tenerezza che risponde di più al tuo bisogno che neanche tutti i tuoi pensieri: allora capisci qual è la natura del disagio. Senza questo, Cristo non può manifestare Chi è, e perciò non abbiamo le ragioni della fede. Invece, quando tu Lo vedi all’opera allora capisci: «Se non ci fossi Tu, Cristo mio, sarei creatura finita». Allora prende di nuovo il sopravvento il fatto che Lui ci sia e che ti venga incontro in una modalità sorprendente anche in mezzo a tutte le riduzioni che hai fatto, rispondendo più adeguatamente al tuo disagio. Dobbiamo mettercelo bene in testa: una delle modalità più abituali con cui la mentalità comune entra in noi è questa riduzione dell’io ai fattori antecedenti.


Mi colpiva una frase molto semplice, a pagina 309: «Giovanni e Andrea avevano fede, perché avevano certezza 7
abbiamo saputo che mio papà si era ammalato di un tumore ai polmoni; non sapevo come fare a far compagnia a mio papà. In realtà ho capito dopo che non era tanto far compagnia a mio papà: io avevo bisogno di compagnia. Ho avvertito subito un paio di miei amici più cari i quali, amorosamente, hanno subito cercato di farmi alzare la testa. Di solito io ho sempre, rispetto alla realtà, una facilità di approccio, sono sempre abbastanza determinato ad appassionarmi a quello che c’è da affrontare. In questo frangente, invece, ho capito che bisognava piegare le ginocchia e chiedere tutto. Allora ho mandato una mail ai miei amici, dicendo: «Guardate, io non mi nascondo dietro a un dito, io non ci sto capendo niente; bisogna che pieghiamo le ginocchia e chiediamo tutto». E tutti questi amici della Fraternità in maniera molto amorevole hanno cominciato a invitarmi a casa loro a mangiare, a telefonarmi alla mattina e poi a fare una cosa molto bella: hanno fatto dire ai loro figli, in tutto quasi una trentina di bambini, delle preghiere per mio papà.
Ecco, questo era un bene certo: la loro amicizia dava voce alla preghiera che non ero capace di dire. Allora ho chiamato i miei bambini, ho spiegato loro che cosa era successo al nonno e ho detto se per piacere andavano ogni tanto a trovare il nonno a chiedergli come andava, poi la mattina ho aperto la porta di mio papà e ho cominciato ad andare lì ogni giorno a vedere come andava. Sto imparando che ho bisogno di fare esperienza del volto di Cristo, di qualcuno che in certi momenti
porti il tuo desiderio, la tua domanda, quando non sei capace neanche di chiedere. Qualcuno che ti ricorda che quel “sì” è possibile.

Ti ringrazio, perché questo introduce la vera questione del prossimo capitolo della Scuola di comunità. Tante volte, come ha detto lui, la prima questione che ci viene in mente è rispondere al problema altrui (del suo papà), ma ci rendiamo conto che siamo noi i primi bisognosi e che soltanto se noi troviamo risposta, allora della sovrabbondanza di quello che trabocca da noi possono profittare gli altri. Tanto è vero che tu hai cominciato a poter guardare tuo papà, a parlare ai tuoi figli. Questo dice molto chiaramente qual è la natura del nostro bisogno: per parlare della carità non possiamo che essere consapevoli di questo bisogno. Questo esempio tuo fa capire a tutti che le cose non funzionano dicendo: «Adesso ho capito tutto, e devo avere carità con mio padre, accompagnandolo nella malattia». Perché noi non possiamo dimenticare mai, qualsiasi sia il punto della strada, qual è la natura bisognosa del nostro io. Per questo il Papa nella Deus caritas est afferma che la carità (l’amore proprio di Dio) «è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi». E quello che è apparso benissimo nel tuo intervento è che tu, proprio lì, ti sei reso conto di chi sei tu, cioè che per poter rispondere a tuo papà il passaggio non lo puoi fare direttamente: rispondere a tuo papà necessita di un passo previo, per potere rispondere tu hai bisogno di qualcosa d’altro, che qualcuno risponda al tuo bisogno. Questo ci consente di capire come noi non possiamo fare come facciamo di solito: parlare della carità occupandoci subito di quello che dobbiamo fare agli altri. È quello che a te è venuto spontaneo (la prima immagine che ci viene è questa): dimenticarti di te e cercare di occuparti di tuo papà. Noi
possiamo fare compagnia all’altro, se prima di tutto c’è Uno che fa compagnia a noi. Questo è quello che don Giussani sottolinea in un modo molto efficace in tutta la prima parte di questo capitolo sulla carità: la vera carità è che il Signore ha avuto pietà del nostro niente. Questa precedenza della mossa di Cristo verso di noi ci aiuta a non ridurre, di nuovo, il cristianesimo a un’etica. La prima carità è quella sconfinata del Mistero nei nostri confronti. Per questo la Bibbia parla sempre di questo “prima”: è Dio che ci ha amato per primo, noi siamo quelli che prima di tutto hanno conosciuto l’amore di Dio e poi, per questo, abbiamo creduto. E questo è quello che ci consente di capire l’altra domanda suggerita dal Papa: chi è Dio? Perché anche questo lo diamo per scontato, siamo così abituati a parlare di Dio, a sentire parlare dell’amore di Dio che lo diamo per scontato. Ma noi dobbiamo capire tutta la novità che introduce Cristo. Dobbiamo renderci consapevoli che per le religioni antiche Dio non poteva amare, perché l’unica cosa che esse capivano dell’amore è che esso è desiderio, eros, l’amore cui manca qualcosa; perciò riconoscere che gli dei avevano desideri sarebbe stato contraddittorio rispetto al concetto di divinità. Il cristianesimo, avendo avuto un’esperienza di Dio tutta diversa, ha dovuto insistere non sull’eros, ma sull’agape, ha sottolineato con un’altra parola greca la natura nuova di questo amore, che nasce sto amore, che nasce8
proprio non dalla mancanza, ma dalla sovrabbondanza della Trinità, dalla sovrabbondanza di ciò che Essa vive in Sé e vuole condividere con l’essere umano. Si svela così qual è la natura del Mistero. Per questo don Giussani ci dice che tutto il percorso che abbiamo fatto attraverso la fede e la speranza ci porta, con la carità, all’intimità di quella Presenza; e ci fa capire perché Giovanni e Andrea sono stati affascinati da quell’Uomo il cui cuore è carità sterminata, tenerezza che
rispondeva al vero bisogno. Il poeta Mario Luzi si chiede: «Di che è mancanza questa mancanza?».
Soltanto se noi abbiamo consapevolezza di questa mancanza possiamo capire veramente la natura di Dio; e la natura di Dio a sua volta ci rende consapevoli di che mancanza è questa mancanza. Questaè la prospettiva entusiasmante con cui incominciamo questa nuova parte della Scuola di comunità.
La prossima volta ci troviamo avendo lavorato sulle pagine 321-337. Nel frattempo vi invito a leggere anche il libretto degli ultimi Esercizi del Clu, allegato a Tracce di gennaio. Lì trovate, molto più sviluppato, quanto contiene il mio articolo sul Natale pubblicato dal Corriere della Sera e da El Mundo. Penso che possa accompagnare utilmente il nostro lavoro di Scuola di comunità.
• Gloria

venerdì 15 gennaio 2010

QUALE SPERANZA PER HAITI?

Secondo le prime stime, sono tra le 100.000 e le 500.000 le vittime provocate dal
terremoto che martedì notte ha raso al suolo Haiti.

Inevitabilmente è grande il contraccolpo di fronte a tanta sofferenza e tanto male, che ci feriscono profondamente perché ci sembrano del tutto inspiegabili.

Che senso ha quello che è accaduto? Perché devono esserci ancora una volta tanto male e tanta sofferenza?

A evidenziare quanto il nostro cuore ferito avverta potentemente tanto dolore, è la
grande opera di volontariato che da subito è partita da tutte le parti del mondo e alla quale ci uniamo immediatamente con le modalità riportate in fondo al volantino.

Ci accorgiamo però che tale spinta benevola, così giusta e umana, non si potrebbe
mantenere senza un orizzonte più ampio del proprio impegno, che permetta
all’impegno stesso di durare nonostante le difficoltà e di non spegnersi domani
nell’indifferenza delle tante cose che ciascuno “deve fare”.

Essere cristiani significa aver incontrato una storia di bene che, nonostante tutta la nostra incomprensione dinanzi al male, ci fa essere certi che c'è un bene per tutti, che la vita, la morte e il dolore hanno un significato.

L'unico orizzonte adeguato per sostenere l’urto e la ferita che le immagini di giornali e televisioni suscitano, infatti, è che la vita abbia un compito, che ci abiliti a partecipare anche alla ricostruzione di Haiti, rilanciandoci a vivere ogni giorno, ovunque siamo, testimoniando nella vita quotidiana che c'è un disegno buono su di noi e sulla nostra esistenza, che la vita ha un senso, un significato.

Da LUNEDI’ 18 GENNAIO ci saranno banchetti informativi per aderire alla sottoscrizione aperta dall’AVSI (Associazione Volontari per il Servizio Internazionale – www.avsi.org)
che da anni opera con numerosi progetti in quei territori.

Per chi volesse fare una donazione:
Causale “terremoto Haiti”: Credito Artigiano ‐ Sede Milano Stelline, Corso Magenta 59
IBAN IT 68 Z0351201614000000005000
Conto Corrente postale n° 522474, intestato AVSI


Comunione e Liberazione Universitari ‐ Abruzzo

Ecco la testimonianza, pubblicata sul sito di Avsi, di Fiammetta Cappellini, volontaria che lavora a Port-au-Prince-"Pregate per questo Paese"


TERREMOTO AD HAITI «Pregate per questo Paese»
13/01/2010 - Alle 22.53 ora italiana di ieri un violento terremoto ha colpito Haiti.
Port-au-Prince, Haiti. Soccorsi alle vittime.Le comunicazioni sono quasi impossibili, manca corrente, si è spento tutto, i generatori sono merce rara. Anche per la sede operativa di Avsi a Milano non è semplice comunicare con la sua équipe.
Dalla capitale di Haiti, Port-au-Prince, Fiammetta Cappellini, rappresentante di Avsi in Haiti, scrive via chat utilizzando skype: «Cerco di essere breve perché cerchiamo di fare economia di batterie. Come sapete il terremoto è avvenuto alle 17 ora locale, mentre ci accingevamo a chiudere gli uffici.
La prima scossa è stata fortissima ed è durata sicuramente più di un minuto. Appena possibile abbiamo lasciato i locali. Constatato che non c’erano danni rilevanti, siamo andati tutti a casa. Le strade però si sono rivelate una trappola. Io e la seconda macchina con Jean Philippe e un collega haitiano siamo rimasti bloccati per ore. Alla fine abbiamo deciso di far ritorno all’ufficio. Ci siamo riforniti di acqua potabile e cose simili e ci siamo diretti verso la ex-casa di Carlo Zorzi (rappresentante di Avsi in Haiti prima di Fiammetta, ora in Costa d’Avorio), unica meta raggiungibile.
Qui però ci ha sorpresi la seconda scossa, al che abbiamo deciso di dormire fuori. Non potendo raggiungere casa mia, abbiamo chiesto ospitalità in una struttura dell’ambasciata brasiliana di Port-au-Prince.
Quando la situazione nelle strade si è un po’ normalizzata, verso le 10 di sera, ci siamo avventurati verso casa mia. Abbiamo praticamente attraversato la città. Il panorama è devastante. I più importanti edifici sono scomparsi. Danni ingenti si registrano ovunque. Solo da quello che abbiamo visto noi, i morti non possono che contarsi a migliaia. Interi edifici di diversi piani sono completamente rasi al suolo. Gravissimi danni ha subito un noto supermercato che a quell’ora non poteva essere che pieno di gente. È praticamente ridotto a niente.
Verso mezzanotte ho potuto ritrovare mio marito, al che abbiamo fatto un giro a casa di Jean Philippe, il francese che lavora con noi, che è gravemente danneggiata e chiaramente non più abitabile. Quindi per ora sta da me. La casa dove vivono i "nostri" Edoardo e Alberta non sembra apparentemente aver subito gravi danni. Il nostro ufficio principale della città è integro. Fortunatamente i nostri colleghi stanno bene.
Attraversando la città abbiamo visto scene di devastazione terribili. Abbiamo notizia di almeno due colleghi che hanno trovato la casa rasa al suolo. D’altronde anche quella di fianco alla mia non esiste più.
Per le strade vagano persone in preda a crisi di panico e isteria, feriti in cerca di aiuto. Gli ospedali sono difficilmente raggiungibili, le strade della capitale impraticabili. Il nostro viaggio verso casa è durato oltre 2 ore per fare meno di 10 chilometri. E per fortuna avevamo la jeep.
Abbiamo cercato di portare aiuto come potevamo per trasportare i feriti, almeno i bambini non accompagnati, ma ci siamo presto resi conto di quanto poco servisse rispetto alla dimensione di questa tragedia. Si sentono dalle macerie le grida di aiuto di chi è rimasto sotto e i parenti impotenti si disperano. Mancano luci per illuminare la scena e continuare a scavare di notte. Non possiamo che attendere la mattina, ma anche questa notte è veramente nera per tutti noi. Il commissariato di Delmas 33, con annessa prigione e centro di detenzione di minori, un edificio di tre piani, non esiste più. Sul posto la Minustah ha montato luci a grande potenza per poter continuare l’opera di soccorso. L’hotel Montana, dove oggi ho pranzato, è semidistrutto e conta 200 dispersi. Non ho più notizie della mia ospite di oggi... Spero per lei. Tutti i mezzi della missione Onu sono mobilitati per portare aiuto, ma le Nazioni Unite stesse hanno subito gravi danni, con il loro quartier generale semidistrutto e diversi impiegati civili dati per dispersi.
In tutta la città la gente resta in strada: chi non ha più una casa, ma anche chi teme nuove scosse.
Della maggior parte dei colleghi haitiani non abbiamo notizie, come anche di moltissimi amici e colleghi.
Abbiamo incontrato in strada il capomissione di "Action contre la faim". Ci ha raccontato che il loro edificio è interamente distrutto e che per ore hanno cercato i colleghi vittime del crollo. Un loro collega haitiano manca all’appello. Lo stesso capo missione era leggermente ferito e cercava a piedi di raggiungere la propria abitazione e avere notizie della famiglia.
Ciò che abbiamo visto col collega Jean Philippe nell’attraversare la città è spaventoso. Non so davvero da che parte potremo ricominciare, ma lo faremo. È terribile. Penso ai 4 bambini che abbiamo soccorso oggi pomeriggio, 4 fratellini che si sono trovati sotto una casa distrutta senza i genitori non ancora rientrati dal lavoro. Uno di loro aveva gravissime ferite alla testa e piangeva disperato. La sorellina piangeva chiedendo: "Come fa la mamma a ritrovarci che la casa non c’è più?". Pregate per questo Paese sfortunatissimo. Ciao, Fiammetta».
*** AIUTIAMO HAITI ***Per chi volesse fare una donazione – indicando nella causale “terremoto Haiti”:
Credito Artigiano - Sede Milano Stelline, Corso Magenta 59
IBAN IT 68 Z0351201614000000005000
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Conto corrente postale n° 522474, intestato AVSI

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Aiutiamo Haiti inviando un sms al n. 48541 (2€) da cellulari Tim&Vodafone o
da rete fissa(Telecom)mentre 48540 da Wind e Tre3

HAITI «Qui c’è bisogno dell’abbraccio di Cristo»


15/01/2010 - Il terremoto si è abbattuto su uno dei Paesi più poveri del mondo. Davanti a migliaia di vittime e ad intere città distrutte, è possibile ancora sperare? Suor Marcella, in missione sull’isola dal 2004, ci racconta la sua esperienza

La cattedrale di Port-au-Prince dopo il terremoto.«Non basta ricostruire le case: questa gente ha bisogno di una speranza». Suor Marcella Catozza conosce bene Haiti: francescana originaria di Busto Arsizio, è stata in missione a Port-au-Prince dal 2004 fino allo scorso settembre, quando s’è trasferita nella vicina Santo Domingo per assistere gli immigrati haitiani. Al telefono ci descrive la situazione di un Paese tra i più poveri al mondo («Sono stata in Albania, in Mozambico, in Brasile e nel Vietnam, ma non ho mai trovato una situazione simile»), dove con il terremoto di martedì «alla disperazione di un popolo si è aggiunto altro dolore». Perché in un minuto gli haitiani hanno visto crollare il poco che avevano. Le vittime sono migliaia, impossibile contarle. Ma le immagini approdate in tv o sui giornali parlano da sole: gli edifici devastati, i corpi estratti dalle macerie, i sopravvissuti assiepati nei parchi o in mezzo agli incroci per passare la notte, le squadre di soccorritori all’opera... Non si può non sentire la propria impotenza, schiacciati dalle notizie che arrivano.
Suor Marcella, che ha passato le ultime settimane in Italia, non sa ancora se sono sopravvissute le persone che lavoravano con lei: «Non riesco a contattare nessuno. Non so neanche se è rimasto in piedi l’ambulatorio che seguivo: all’ora del terremoto probabilmente era pieno di famiglie coi bambini...». Quell’edificio di due piani era tutta la sua opera, da quando il Vescovo le aveva chiesto di occuparsi dei poveri di Waf Jeremie, una baraccopoli di 300mila abitanti a Port-au-Prince: «Il nostro ambulatorio era un punto di riferimento per tutti. Come una casa. Lì dentro sembra una goccia nel mare, ma in questi anni abbiamo salvato 250 bambini». E oggi? «Quella zona è stata rasa al suolo. Conto sul fatto che le baracche reggono più degli edifici in mattone. Ma finora i ragazzi che mi davano una mano sono tutti dispersi: Alex, Puxon, James, Nicolas, Lucienne... che ne sarà di loro?».
Suor Marcella sta cercando di tornare ad Haiti: «So bene che posso fare poco rispetto alla macchina degli aiuti, ma mi rendo conto che quelle persone vedono nella nostra presenza un segno di speranza. Per quel che portiamo, per ciò cui appartengo». Quando a settembre è rientrata da un periodo in Italia, la gente di Waf Jeremie non finiva di farle festa: «La signora Nos, la più anziana della baraccopoli, mi è venuta incontro e mi ha detto: “Ero certa che il Signore non ci avrebbe abbandonato”».
Ma come si può parlare di speranza in una situazione simile? «È un problema che riguarda tutti, anche chi in Italia ha ancora un tetto: in cosa speriamo? Non possiamo affidare la vita al fatto che “ci è andata bene” perché la nostra casa è in piedi: la speranza è data dalla certezza che nulla può mai essere contro di noi. Vado a cercare i nostri amici per dire che la speranza che hanno conosciuto non è stata sepolta da pochi minuti di terrore: Cristo ha già vinto la morte».
di Fabrizio Rossi

lunedì 11 gennaio 2010

Il bisogno che abbiamo: Chi sono? Dove sto andando?

Lo aveva già detto Péguy che il mondo moderno, “laico, positivista e ateo, democratico, politico e parlamentare”, con la sua scienza e i suoi metodi moderni, credeva di essersi sbarazzato di Dio. “Mangiatori di buon Dio”, scriveva, è la formula popolare dei nostri demagoghi anticattolici che “hanno assorbito molto più di buoni Dei e di cattivi Dei di quanto non credano”. E noi post moderni? Ciò che rende grave la nostra condizione è l’insinuarsi nel cuore di questo modernismo intellettuale. È come il penetrare di una scheggia appuntita, sottile e acuminata che si nasconde tra le pieghe della pelle. Talvolta non si avverte neppure subito il dolore. Scoppia improvviso e costringe a fermarsi. Ma è proprio qui che si apre la possibilità di scoprire ciò che ci ha invaso, come un corpo estraneo, ingombrante, pesante come un macigno. È una strada in salita. Ma è la strada della salvezza. Scoprire il bisogno che abbiamo, da cui siamo costituiti, tanto che senza di quello non ci riconosciamo più, non sappiamo dire più niente di noi. Il volto umano è segnato da una domanda, appassionata e incuriosita di fronte al reale e poi di fronte a se stessi. Chi sono? Dove sto andando? Il modernismo del cuore è l’antidomanda, l’antistupore, il già saputo; quindi la povertà del pensiero, della ragione e della creatività che non trovano l’alimento necessario alla vita. All’inizio di un nuovo anno il primo, sentito augurio è che prendiamo coscienza del bisogno che siamo. È l’Epifania del Signore, la Sua manifestazione come la Verità che s’irraggia sul mondo, ad aprire l’anno. La luce della stella si offre a tutti come traccia da seguire per scoprire la risposta che il cuore, libero dall’ingombro della presunzione, cerca. Se siamo domanda è perché c’è una risposta. È la ragione che lo esige. Cosa si oppone a questa evidenza della ragione? La mancanza “di umiltà autentica e di coraggio autentico, che porta a credere a ciò che è veramente grande, anche se si manifesta in un Bambino inerme.” Lo ha ricordato il Papa celebrando la festa dell’Epifania e rileggendo il percorso dei Magi, “uomini di scienza in un senso ampio, che non si sono vergognati di chiedere istruzioni ai capi religiosi dei Giudei”. Essi non hanno evitato, secondo la nostra mentalità odierna, ogni “contaminazione” tra la Scienza e la Parola di Dio. Così hanno sperimentato l’armonia tra la ricerca umana, che li portava a scrutare gli astri e a conoscere la storia dei popoli, e la Parola di Dio. Hanno raggiunto la vera sapienza, quella che si “apre al Mistero che si manifesta in maniera sorprendente” e testimonia “l’unità tra l’intelligenza e la fede. Il nuovo anno ci trovi “autentici ricercatori della verità di Dio, capaci di vivere sempre la profonda sintonia che c’è tra ragione e fede, scienza e rivelazione"
Elena Pagetti- Fonte: CulturaCattolica

domenica 10 gennaio 2010

Benedetto XVI "La fraternità non si può stabilire mediante un’ideologia, tanto meno per decreto di un qualsiasi potere costituito.-



PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Questa mattina, durante la santa Messa celebrata nella Cappella Sistina, ho amministrato il sacramento del Battesimo ad alcuni neonati.
Tale consuetudine è legata alla festa del Battesimo del Signore, con la quale si conclude il tempo liturgico del Natale.

Il Battesimo suggerisce molto bene il senso globale delle Festività natalizie, nelle quali il tema del diventare figli di Dio grazie alla venuta del Figlio unigenito nella nostra umanità costituisce un elemento dominante. Egli si è fatto uomo perché noi possiamo diventare figli di Dio. Dio è nato perché noi possiamo rinascere.

Questi concetti ritornano continuamente nei testi liturgici natalizi e costituiscono un entusiasmante motivo di riflessione e di speranza. Pensiamo a ciò che scrive san Paolo ai Galati: "Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli" (Gal 4,4-5); o ancora san Giovanni nel Prologo del suo Vangelo: "A quanti l’hanno accolto / ha dato potere di diventare figli di Dio" (Gv 1,12). Questo stupendo mistero che è la nostra "seconda nascita" – la rinascita di un essere umano dall’"alto", da Dio (cfr Gv 3,1-8) – si realizza e si riassume nel segno sacramentale del Battesimo.

Con tale sacramento l’uomo diventa realmente figlio, figlio di Dio. Da allora, il fine della sua esistenza consiste nel raggiungere in modo libero e consapevole ciò che fin dall’inizio è la destinazione dell’uomo. "Diventa ciò che sei" – rappresenta il principio educativo di base della persona umana redenta dalla grazia. Tale principio ha molte analogie con la crescita umana, dove il rapporto dei genitori con i figli passa, attraverso distacchi e crisi, dalla dipendenza totale alla consapevolezza di essere figli, alla riconoscenza per il dono della vita ricevuta e alla maturità e alla capacità di donare la vita. Generato dal Battesimo a vita nuova, anche il cristiano inizia il suo cammino di crescita nella fede che lo porterà ad invocare consapevolmente Dio come "Abbà – Padre", a rivolgersi a Lui con gratitudine e a vivere la gioia di essere suo figlio.

Dal Battesimo deriva anche un modello di società: quella dei fratelli. La fraternità non si può stabilire mediante un’ideologia, tanto meno per decreto di un qualsiasi potere costituito. Ci si riconosce fratelli a partire dall’umile ma profonda consapevolezza del proprio essere figli dell’unico Padre celeste.
Come cristiani, grazie allo Spirito Santo ricevuto nel Battesimo, abbiamo in sorte il dono e l’impegno di vivere da figli di Dio e da fratelli, per essere come "lievito" di un’umanità nuova, solidale e ricca di pace e di speranza. In questo ci aiuta la consapevolezza di avere, oltre che un Padre nei cieli, anche una madre, la Chiesa, di cui la Vergine Maria è il perenne modello. A lei affidiamo i bambini neo-battezzati e le loro famiglie, e chiediamo per tutti la gioia di rinascere ogni giorno "dall’alto", dall’amore di Dio, che ci rende suoi figli e fratelli tra noi.

DOPO L’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Due fatti hanno attirato, in modo particolare, la mia attenzione in questi ultimi giorni: il caso della condizione dei migranti, che cercano una vita migliore in Paesi che hanno bisogno, per diversi motivi, della loro presenza, e le situazioni conflittuali, in varie parti del mondo, in cui i cristiani sono oggetto di attacchi, anche violenti.

Bisogna ripartire dal cuore del problema! Bisogna ripartire dal significato della persona! Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura, e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare, nell’ambito del lavoro, dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita. La violenza non deve essere mai per nessuno la via per risolvere le difficoltà. Il problema è anzitutto umano! Invito, a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un’anima, una storia e una vita: è una persona e Dio lo ama come ama me.

Vorrei fare simili considerazioni per ciò che riguarda l’uomo nella sua diversità religiosa. La violenza verso i cristiani in alcuni Paesi ha suscitato lo sdegno di molti, anche perché si è manifestata nei giorni più sacri della tradizione cristiana. Occorre che le Istituzioni sia politiche, sia religiose non vengano meno – lo ribadisco – alle proprie responsabilità. Non può esserci violenza nel nome di Dio, né si può pensare di onorarlo offendendo la dignità e la libertà dei propri simili.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

martedì 5 gennaio 2010

Per San Benedetto la prima Regola era la virtù dell'amicizia



Il tema dell’amicizia non è trattato in modo sistematico né nella Regola né nella Vita di san Benedetto scritta da Gregorio Magno, ma le due opere sono impregnate di amicizia, intesa come aiuto e compagnia offerta all’uomo per il compimento di sé in questo mondo e per la felicità eterna. Gregorio Magno racconta che san Benedetto «desiderando di piacere solo a Dio abitò con se stesso, perché, sempre vigilante alla custodia di se stesso, sentendosi sempre sotto lo sguardo del Creatore, sempre scrutandosi, non divagò fuor di se stesso l’occhio della sua anima».
Egli intende dire che la condizione dell’amicizia è la capacità di stare con se stessi. Il primo modo in cui si manifesta l’amicizia è la conversazione. A questo proposito san Gregorio narra l’ultimo incontro di Benedetto con la sorella Scolastica, nel quale avevano «passato l’intera giornata lodando Dio e in santi colloqui». Venuta la sera, Benedetto doveva tornare al suo monastero, ma la preghiera di Scolastica, desiderosa di stare ancora in compagnia di suo fratello, ottenne che si scatenasse una grande tempesta, impedendo così a chiunque di muoversi: così, al di là di ogni regola, «passarono tutta la notte vegliando, saziandosi di sacri colloqui col ridire l’uno all’altro le cose della vita spirituale».

Benedetto «si trovò di fronte a un miracolo ottenuto dall’affetto di una donna in virtù dell’onnipotenza di Dio, poiché, secondo la parola di Giovanni, “Dio è amore”, per giustissimo giudizio poté di più colei che amava di più». L’amicizia di san Benedetto per i suoi monaci si rivela nell’attenzione concreta alla loro situazione. San Gregorio racconta di un Goto entrato in monastero, che aveva perso un utensile mentre liberava dai roveti un terreno. Era dispiaciuto e temeva la penitenza che gli sarebbe stata prescritta. San Benedetto miracolosamente gli restituì il ferro, dicendogli: «Tieni, lavora, e sii contento».
L’amicizia non esclude, là dove si renda necessaria, la correzione. Questo tema percorre tutta la Regola fin dal prologo, in cui san Benedetto afferma di aver scritto la sua opera, affinché il discepolo «possa per la fatica dell’obbedienza tornare a colui dal quale si era allontanato per l’inerzia della disobbedienza». Un esempio del modo con cui egli intendeva e praticava la correzione è narrato ancora da san Gregorio. Il re goto Totila, dopo aver cercato di ingannarlo, si inginocchiò a terra davanti a san Benedetto. Egli gli disse di alzarsi, «ma quegli non osava dinanzi a lui levarsi da terra. Allora Benedetto, servo del Signore Gesù Cristo, si degnò recarsi egli stesso vicino al re prostrato e lo sollevò da terra; poi lo riprese delle sue male azioni», tanto che egli se ne andò «e da allora fu meno crudele».

La virtù dell’amicizia porta con sé l’ammirazione per la santità dell’altro. Nella Regola san Benedetto chiede ai monaci di rendersi onore reciprocamente. Egli prescriva all’abate che non usi preferenze in monastero. Non ami l’uno più dell’altro, a meno che non l’abbia trovato migliore nelle buone opere e nell’obbedienza».
ilsussidiario.net 5 gennaio

LETTERA/ Lucchini (Banco Alimentare): il vero spreco? Non è gettare il pane, ma non aiutare chi combatte la fame


Egregio Direttore,
ho deciso di scriverle solo ora in quanto c’è voluto un po’ di tempo prima che mi rendessi conto che, un articolo letto domenica scorsa, fosse veramente un importante quotidiano nazionale. Infatti ero convinto di aver sfogliato un giornalino locale, dove le notizie si costruiscono con difficoltà ed è difficile fare delle ricerche approfondite per dare completa informazione al lettore, per cui ho dato poco valore alla cosa ma mi sono sbagliato.
La notizia era proprio sul più importante quotidiano italiano, addirittura a pag 19, Il Caso: “Il pane che Milano butta via. Ogni giorno 180 quintali”. Dopo questo fragoroso titolo, il pezzo riportava anche una serie di interviste da far venire i brividi al lettore: “[…] pensiamo alle enormi quantità di pomodori e arance che vengono distrutte”, [...] “Insomma non ne vale più la pena, costerebbe troppo recuperarlo e anche le leggi non aiutano”.
Addirittura un esponente del non profit ritieneva più comodo e conveniente farselo regalare che attrezzarsi per recuperare tutto quel ben di Dio. Per fortuna, alla fine, una possibile soluzione veniva lanciata dal presidente di un importante rivista per i consumatori: “obblighiamo ad abbassare i prezzi dopo le sei del pomeriggio […]” (chissà perchè mi è vento alla mente Chavez che ha appena minacciato le catene dei supermercati di statalizzarle cosi da garantire prezzi bassi al popolo). A dar forza all’articolo, un altro pezzo dove si citavano anche Slow Food, la Caritas Milanese e un professore di Bologna, che volentieri rilascia interviste. Con energia proponevano slogan, studi, proposte, modelli. Si esprimevano tutti al futuro o al condizionale..” ci confronteremo su questo tema nel prossimo futuro” [...] “Sono certo che i milanesi pagherebbero qualcosa in più per recuperare” [...] ”in Italia si potrebbero salvare [...]”. Non bastasse, il Ministro dell’Agricoltura in persona, prendeva carta e penna e scrivendo al direttore. Scandalizzato da questo sistema non etico evocava la saggezza contadina e la filiera corta, e sul finale un piccolo suggerimento: ”sostenere realtà come Banco Alimentare”.
Oddio, mi ero cosi spaventato che non mi ricordavo più che il Banco Alimentare opera in Italia da 20 anni e che solo, nell’anno appena trascorso, ha raccolte più di 60.000 tonnellate di alimenti che nell’articolo venivano definiti “spreco” (tra i quali qualche migliaia di tonnellate erano proprio frutta e verdura e anche circa 300 tonn proprio di pane nella città di Milano) distribuendole a più di 8.000 associazioni caritative, in Italia, poi utilizzate per sfamare 1.500.000 di poveri (il 50% circa delle persone in uno stato di povertà alimentare, secondo la prima “Indagine sulla povertà alimentare” realizzata dalla Fondazione per la Sussidiarietà).
Allora forse la vera notizia da pubblicare non è lo spreco alimentare (cosa tra l’altro presente in tutte le civiltà ed epoche) ma lo scarso sostegno (economico e comunicativo) nel dar forza a chi già offre una risposta concreta e affidabile, fino al punto anche di fare leggi innovative (vedi legge del 1997 per gli sgravi fiscali e del 2003 più famosa come Legge del Buonsamaritano che permette di recuperare gli alimenti deperibile). A chi non guarda se “vale la pena”, perché propone non solo un programma di lotta nel futuro ma una quotidiana possibilità di accogliere le energie gratuite di decine di migliaia di persone che desiderano essere protagonisti e non solo “opinionisti”. Va sempre ricordato che il cibo è un dono che l’uomo ha ricevuto dal suo Creatore fin dalla sua origine e continua a ricevere ogni bambino che nasce attraverso il seno materno
Quindi, ciò che è impossibile alle leggi del mercato può essere possibile con la legge suprema dell’uomo che è la Carità. Don Luigi Giussani (oltre che fondatore di CL anche promotore, insieme al Cav. Danilo Fossati, dello sviluppo del Banco Alimentare in Italia) ricordava ai suoi ragazzi che andavano dalle famiglie povere della Bassa Milanese, inutilmente per i ben pensanti di allora: “La Carità non fa solo buoni cristiani ma cittadini nuovi”. Per questo occorre sostenere chi rischia alleanze (più di 500 sono le aziende della filiera alimentare che collaborano con il Banco Alimentare) che non hanno come misura solo il proprio tornaconto ma anche la passione per il bene di un popolo. Favorire un’opera come il Banco Alimentare, anche per le realtà non profit, che hanno come scopo aiutare i poveri e non occuparsi di trasporti e logistica, sarà un beneficio e cosi non dovranno più dire “non abbiamo la possibilità”.
Come ha ricordato Don Julian Carron nel suo intervento all’Assemblea Generale della Compagnia delle Opere, nel novembre scorso: “Cercare di tenere in piedi un’opera di questi tempi è veramente una cosa ardua. Voi lo sapete bene, voi che vi dibattete tra continuare a costruire questo bene o gettare la spugna, chiudendo i battenti. La tentazione dell’individualismo è sempre in agguato. L’insidia del si salvi-chi-può è più forte che mai. Per tanti di voi sarebbe più comodo. Vi risparmiereste non poche preoccupazioni. Eppure non vi siete chiusi in voi stessi, dimenticando gli altri”.
Concludo comunicandole che vorrei ringraziare, attraverso il suo quotidiano ondine, anche la giornalista del Corriere della Sera. Infatti, grazie al suo articolo, ieri mattina sono stato contattato dalla Federazione Italiana Panificatori per realizzare un progetto per il recupero del pane invenduto, proprio mentre stavo finendo una riunione dove avevamo programmato tutte le azioni da svolgere nel 2010. Non credo di aver sprecato la mattina avendo poi rivisto la programmazione a seguito di quella telefonata.
Per noi ne valeva la pena.
Cordiali saluti
Marco Lucchini
Direttore generale Fondazione
Banco Alimentare-ONLUS
( da :ilsussidiario.net)