sabato 29 maggio 2010

“La voce unica dell’ideale” Incontro di don Julián Carrón con i maturandi di Gioventù Studentesca

Roma, 16 maggio 2010
Amici,questo momento della vostra vita è particolarmente decisivo,perché
in noi, in ciascuno di noi,c’è una battaglia in attotra la «voce unica dell’ideale» 1(come abbiamo cantato), che tutti sentiamo vibrare dentro di noi, e tutte
quelle circostanze che tante volte cercano di schiacciare questa voce, per cui
non sappiamo da che parte andare. Questa è una lotta che ciascuno di voi
vive dentro di sé, e perciò questo momento è particolarmente drammatico,
perché scelte come quelle che state per prendere sono determinanti nella
vita, perché uno comincia a prendere consapevolezza di tutti i fattori e vede
emergere il proprio volto: «Io che ci sto a fare al mondo?». E capisco benissimo
il dramma che ciascuno può vivere in questo periodo della vita; è un
periodo che ci costringe a scegliere; state per finire, occorre scegliere, occorre
incominciare a scegliere, non è che la vita ci aspetta; occorre scegliere,
perché non scegliere è già una scelta; di fatto, tutti alla fine delle superiori
scelgono, si pongono nella vita con un volto, e c’è questa lotta: «Non fermarti
alla corte delle anime nane che ripetono i gesti e non sanno capire.
Non salire al castello dei giovani giusti che adorano il sole»2. Invece l’ideale
ci invita a lottare contro questa riduzione. La prima consapevolezza che
dobbiamo avere è di questa lotta in atto.
La seconda questione è la strada, sapere la strada per raggiungere quell’ideale,
perché «cammina l’uomo quando sa bene dove andare»3.
Ci insegna don Giussani: «Solo nella chiarezza e nella sicurezza l’uomo
trova l’energia per l’azione»4. Per questo vogliamo aiutarci a chiarire quello
di cui abbiamo bisogno per poter vivere, per poterci buttare nella vita, perché
è un’esigenza del momento in cui vivete, un’urgenza che nasce nel profondo
del vostro essere, la scoperta che la vita è vocazione.
1)A CHE VALE LA PENA VIVERE?
La prima questione della vocazione, che dobbiamo guardare in faccia,
non è che cosa scegliere, questa è la conseguenza. La prima questione è
1
quella che urge tante volte ai nostri cuori: «Ma io perché ci sono? Perché
sono al mondo? A che vale la pena vivere? A che serve l’io? A che serve il
mio io?». Come vedete, è la questione della vita, la questione fondamentale
di ciascuno di noi. La primissima decisione è prendere sul serio questa
domanda, questa urgenza, perché, come dice R.M. Rilke, «tutto cospira a
tacere di noi»5 per farci agire secondo altri criteri. Fermare questa domanda
significherebbe far violenza alla natura dell’uomo, significherebbe uccidere
la natura dell’uomo, cioè bloccare il nostro io nel proprio slancio verso
la vita. Per questo siamo insieme questa mattina, anzitutto per non bloccare
questa domanda, per non bloccare la voce dell’ideale.
Immaginiamo che un pezzo di qualsiasi cosa, per esempio la ruota di una
macchina, si domandasse: «Qual è la mia utilità? Che cosa ci sto a fare
qua?». Lo si potrebbe comprendere soltanto all’interno del rapporto, nel
suo nesso con tutta la macchina, perché ogni pezzo del reale si capisce nel
suo nesso con il tutto. Per questo, se ci domandiamo: «A che cosa serve la
mia vita? Che cosa sono chiamato a fare?», la questione è trovare il criterio
che ci leghi al tutto, «quel criterio seguendo il quale l’uomo rende se stesso
utile al mondo in modo tale da camminare sempre di più verso la sua
personalità, verso la sua felicità, [...] non verso la sua perdita»6.
Attenzione, perché questo è fondamentale: non è che servire il mondo
significhi una perdita di noi, ma il servizio al mondo è il guadagno di noi,
è la realizzazione di noi.
Capire questo è fondamentale, perché tanti pensano che l’unica modalità
di realizzare se stessi sia autoaffermarsi (non affermarsi in rapporto
alla totalità, bensì in rapporto a sé) e per questo, poi, finiscono da soli
in un nascondiglio, domandandosi che senso ha la vita. Per questo è così
decisivo. Per la mia realizzazione io devo capire che cosa sto a fare al
mondo, perché senza di questo inesorabilmente mi perdo.Ma come capire
questo? Come capire che cosa sto a fare al mondo?A che cosa sono utile?
Per rispondere a questa domanda occorre capire qual è il senso del
mondo, qual è il significato del mondo. E questo, amici, per noi è misterioso:
qual è il senso della totalità, qual è il senso del mondo, della storia?
Come diceva san Paolo: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini,
perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine
dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino
a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno
di noi»7. Sarebbe veramente difficile scoprire il senso del mondo – o, in
altre parole,Dio –, e perciò la mia utilità in questo mondo, se rimanessimo
nel buio, in questo mistero: «Per tutta la vita la vera legge morale sarebbe
quella di essere sospesi al cenno di questo ignoto “signore”, attenti ai segni
di una volontà che ci apparirebbe attraverso la pura, immediata circostanza.
Ripeto: l’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa
all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così
volubile, così casuale che sono le circostanze»8. In termini teologicamente
eruditi, san Tommaso afferma: «La verità che la ragione potrebbe raggiungere
su Dio sarebbe di fatto per un piccolo numero soltanto, e dopo molto
tempo e non senza mescolanza di errori»9.
Ma il Mistero ha avuto pietà di noi; vedendoci così smarriti, ha avuto
pietà di noi ed è entrato nella storia per rivelarci ciò che noi da soli non
possiamo penetrare, è diventato uomo per aiutare gli uomini a essere se
stessi, per svelare il senso ultimo del mondo e aiutarli a capire il
significato della vita.Gesù Cristo ha usato un’espressione per descrivere qual
è il significato del mondo: il regno di Dio.
Tutto il valore della realtà è costruire il regno di Dio, è partecipare alla costruzione di questo regno, cioè partecipare
alla costruzione di un mondo che corrisponda all’Ideale che si è fatto
carne. Perciò ha dato un contributo fondamentale per capire il nostro
posto nel mondo. Il valore mio e il valore tuo stanno nella misura in cui
collaboriamo al regno di Dio, nella misura in cui aiutiamo l’umanità a
camminare verso la felicità. Perché è soltanto partecipando a questo regno
– che è il riconoscimento della Sua presenza tra noi – che il singolo può
raggiungere la propria felicità, il proprio compimento.
Su ognuna di queste frasi voi dovete lavorare chiedendovi: è vero o non
è vero? Non è che adesso ripetete le frasi come una sequenza logica e il
problema è finito; no!Voi dovete domandare, perché altrimenti non capirete
la portata di quello che ci diciamo e dopo deciderete a vanvera perché
non avete capito. In questi passaggi si gioca veramente la vita. Perciò, questo
è un momento prezioso, fondamentale, per fare un salto nella consapevolezza
di chi sono io, di che cosa sto a fare al mondo e qual è il senso
del mondo.
«Per la scelta della vocazione, dunque, il criterio non può essere che uno:
come io, con tutto quello che sono spiritualmente e intellettualmente,
come temperamento e come educazione e come fisico, posso servire di più
il regno di Dio»10.
2) LA SCOPERTA DELLA VOCAZIONE
Come posso capire i segni che mi consentono di chiarire come io posso
servire di più il regno diDio?Devo individuare quel complesso che io sono
per poter capire come posso usare tutto quello che ho, tutto quello che mi
trovo addosso e che mi è stato dato, per l’utilità del regno di Dio.
2
Prendo quel che dice don Giussani e lo suddivido, per chiarezza, in tre
grandi criteri.
Il primo criterio da guardare è il complesso di inclinazioni o doti naturali.
Ciascuno di noi si trova addosso una serie di capacità, desideri, impeti,
un temperamento. Sono doni preziosi che dobbiamo mettere al servizio
di qualcosa d’altro. Ci sono dati, tutti questi doni, per qualcosa nella
vita, per usarli, per vivere: come io posso usare tutti questi doni che il
Signore mi ha dato per servire di più il regno di Dio? «Per esempio, c’è un
temperamento di intelligenza che sembra scemo quando si applica alla
matematica ed è genialissimo quando si tratta di costruire [...] un racconto:
è un genio letterario, che in matematica sembrerebbe scemo. Se lo forzano
a fare il Politecnico, gli impediscono un rendimento per l’umanità»11.
Se ci sono il professore, il padre, la madre, il bambino, la tata, il cane che
dicono: «No, tu devi fare il Politecnico», ti “ammazzano”. Sembra banale,
non potrai essere contento, non potrai rendere, non potrai servire; tu non
hai trovato il tuo posto al mondo e per questo sarai fregato, perché tu scegli
qualcosa dal di fuori non avendo fatto i conti con i tuoi doni. «C’è, per
esempio, un tipo che è geniale nell’arte musicale. Se lo si costringe a fare
Diritto Pubblico e Privato, certamente si diminuisce il rendimento per
l’umanità di quell’individuo, e quindi si rende più pesante il suo cammino,
ché le due cose coincidono sempre. L’intensità o la bellezza... la bellezza
del cammino – siccome la bellezza è lo splendore del vero – coincide
con l’utilità che realizziamo nel mondo [...].
La bellezza del cammino corrisponde all’avverarsi della nostra vocazione.
Quindi, per individuare questo condizionamento [questo complesso di doni ricevuti, di inclinazioni, di doti], innanzitutto occorre l’attenzione alle proprie doti naturali, o capacità [a quello per cui io ho una tendenza,
ho una facilitazione, ho un genio].
Come si chiama quel fenomeno che porta a galla le doti, le capacità naturali?
Si chiama “inclinazione”, l’inclinazione. [...] La natura ci
introduce agli ideali,ma sempre attraverso un gusto o una inclinazione, al
piacere, o al bisogno. [...] Perciò, la prima grande regola pratica è [...]
la semplicità»12, la sincerità di guardare e riconoscere e abbracciare questi
doni come il primo segno che la realtà mi offre per capire che cosa ci faccio
io nel mondo. L’errore più grave che si può commettere nel determinare
la propria vocazione «è il porsi in una condizione di diffidenza verso
le proprie inclinazioni, verso il gusto, verso il piacere in quanto è autentico,
[…] in quanto è nativo»13. Possiamo riassumere: le doti, il temperamento,
le tendenze da cui siamo costituiti sono quelle che dobbiamo
guardare perché sono ciò attraverso cui il Mistero ci chiama, dandoci queste
capacità, queste inclinazioni dentro la carne; non ci manda un angelo,
ma ci plasma dentro le nostre viscere per dirci a che cosa ci chiama, perché
è Lui che ci ha fatto così. Perciò anche l’orientamento professionale,
per esempio, dovrà tener conto di queste tendenze native come il modo
per incamminarsi dove Dio, attraverso le capacità che ci dona, ci chiama.
Ti chiama, ma ti chiama non dall’esterno, ti chiama dandoti tutte queste
inclinazioni.
Secondo criterio: le condizioni inevitabili o le circostanze inevitabili.Dice
don Giussani che «la circostanza inevitabile è certamente – come dire? – la
cosa più amica che abbiamo al mondo, perché è il fattore più evidente della
nostra esistenza. Perché nella valutazione delle nostre inclinazioni e delle
nostre doti, spesso c’è la possibilità dell’incertezza, o la paura»14…Non tutti
sono Mozart e hanno la chiarezza dei doni e delle doti così chiaramente
dall’inizio; a volte non è così evidente, mentre le circostanze inevitabili
sono evidenti e uno, per esempio, può voler fare astronomia perché è
veramente dotato per questo, ma – pensiamo – per una circostanza familiare,
per mancanza di risorse, una circostanza veramente inevitabile, non può
farlo, perché la famiglia ha avuto un crollo economico con la crisi. Allora
risulta che deve andare a lavorare. Circostanze inevitabili determinano la
possibilità o no di fare certe cose: uno vuole fare ciclismo o andare alle
Olimpiadi perché è veramente dotato atleticamente,ma ha un incidente e
rimane zoppo. Per capire che cosa sta a fare al mondo la prima mossa non
è arrabbiarsi, ma accettare questa circostanza inevitabile. Immaginate che
quello, diventato zoppo, fosse lì tutto testardo a dire: «No, io voglio andare
alle Olimpiadi»; sarebbe una cocciutaggine, un capriccio! Dal punto di
vista vocazionale, don Giussani dice: «La circostanza inevitabile è al mille
per mille con sicurezza assoluta indice della strada da percorrere. Perciò
non esiste nulla di più amico, di più facilmente amico nostro, della circostanza
inevitabile, del fatto»15. Aggiungo un aspetto fondamentale, una
notazione fondamentale: niente è fatalità in questo, il destino non è il fato:
tutto, ma tutto, risulta strumento di vocazione! Tu sei sicuro che facendo
l’atleta potresti raggiungere la tua pienezza e la tua soddisfazione meglio
che attraverso quella circostanza inevitabile? No. Abbracciare questo incidente
come parte del cammino al destino è aspettare curioso come il
Signore se la caverà per portarmi alla felicità attraverso il mio essere zoppo.
Ma non introduce un dubbio! Non sono lì a lamentarmi per tutta la vita,
anzi: questa condizione inevitabile diventa elemento fondamentale attraverso
cui il Mistero mi farà raggiungere il destino, l’ideale, la felicità. Se
invece ci fermiamo all’arrabbiatura, sarà la tomba, perché nella vita si pos-
3
sono avere tanti incidenti di percorso che sono inevitabili, ma se noi non
avessimo la possibilità che la vita continui ad avere senso (e pensiamo che
possano raggiungere lo scopo soltanto certe persone con certe capacità),
dipenderemmo soltanto dal caso. Invece qualsiasi circostanza è parte del
raggiungimento del destino, della felicità. E questo è veramente liberante,
perché la felicità non dipende dalla riuscita mondana,ma dal mio servizio
al tutto, al regno di Dio (perciò può essere lo stesso fare il portinaio o il
ministro).
Terzo criterio: il bisogno sociale, o meglio, il bisogno del mondo e della
comunità cristiana.Dovete guardare in faccia il mondo in questo momento
storico: che bisogno ha? La Chiesa, che bisogno ha? La comunità cristiana,
che bisogno ha? Ciascuno deve guardare che cosa percepisce come più
urgente, perché ci possono essere epoche e situazioni in cui l’urgenza di
una dedizione totale a Dio è più forte, in un altro momento è più decisivo
che ci siano uomini in mezzo alla realtà, nel lavoro, nella famiglia, che possano
testimoniare dall’interno delle viscere della società dove tutti vivono
che cos’è la vita, qual è il senso del vivere.Anche così noi possiamo scoprire
a che cosa siamo chiamati.
«Il giudizio deve scaturire dal complesso di questi fattori messi insieme.
Ma questo comporta un’altra considerazione: senza riflessività e senza un
paragone – il paragone dialogico – con la comunità nella sua funzione
tipica, cioè con chi guida la comunità, è inevitabile che il nostro modo di
procedere sia istintivo e meccanico. Per tutte le cose noi riflettiamo,mentre
per questo, da cui dipende tutta la strutturazione della nostra vita nel
suo valore più personale, lasciamo fare automaticamente quel che sentiamo
dentro. Occorre riflettere; e riflettere significa paragonarsi al proprio
destino, al proprio fine, a Dio, allo scopo della vita, al servire il regno di
Dio. Chi ha ancora il problema intatto deve sentire il dovere di recuperare
immediatamente questi criteri; e chi ha alle spalle fattori ineliminabili,
anche lui, sia pure in altro modo, deve recuperare gli stessi criteri»16.
Immaginate di vincere al lotto, guadagnate qualche milione; la cosa normale
è domandare a qualcuno dovemettere i soldi per non perderli facendo
un investimento folle, no? Domandare non è un dovere,ma è un interesse:
mi interessa fare questo paragone per non perdere i soldi.Certo, alla
fine decido io,ma mi piacerebbe decidere con tutta la consapevolezza per
metterli a frutto al meglio. Se questo succede con i soldi, immaginate che
cosa succede con la vita: voglio essere sicuro di aver presente tutti quei fattori
che mi consentono una decisione completa, perché la ragione è la
consapevolezza di tutti i fattori.
3) LA SCELTA DELLA VOCAZIONE
Con tutto questo sono due le questioni fondamentali da decidere, due
sono le scelte fondamentali che ciascuno di noi è chiamato a fare nella vita.
a) La vocazione come scelta dello stato di vita
Ci sono due stati di vita fondamentali: uno è quello «normale», naturale,
di porsi, cioè, di fronte a Dio attraverso la mediazione di un’altra persona
»17. Che cosa vuol dire porsi davanti a Dio attraverso la mediazione di
un’altra persona? Che, innamorandoti, la persona che più ti fa vibrare, che
più ti apre, che più ti rilancia, che più ti richiama a qualcosa d’altro è
mediatrice: tu sei chiamato ad aprirti alla totalità attraverso questo fatto
che ti è capitato, che ti trovi addosso. Se Dio ti dona quella persona, non è
per bloccarti lì,ma per aprirti di più al Mistero, per aprirti di più a quella
totalità per cui tu sei fatto: allora incominci ad avere qualche segno di qual
è la vocazione a cui Dio ti chiama. Tu cammini verso il Destino attraverso
una mediazione, nella compagnia della mediazione di un altro o di un’altra.
In questo senso uno segue la grande legge che unisce l’uomo a Dio
attraverso la realtà mondana, e uno così dice: «Io con questa persona vado
in capo al mondo», vado al destino, sono chiamato ad andare al destino
con essa perché mi richiama di più allo scopo della vita. Non è che questa
persona mi possa rendere felice, perché non mi renderà felice – attenti, perché
in questo sbagliate sempre –, in quanto il mio desiderio è troppo grande
e dove questo si mette più in evidenza è proprio qui: nessuna persona ti
fa ridestare tutto il desiderio di felicità come quella persona lì,ma allo stesso
tempo nessuna è più incapace di compierlo come quella persona lì. Per
questo non si deve rimproverare al marito o alla moglie questa incapacità,
ma capire che essa è parte della vocazione, che quella persona ti è data per
ridestare tutto il desiderio di camminare insieme verso Colui che lo compie
(per questo è una vocazione, perché è la possibilità di raggiungere il
destino). Se tu, invece, identifichi il destino con quella lì e ti blocchi, succede
come a tutti: «Ah, adesso so perché sono nato». Quale diventa nella
vostra testa l’utilità per il mondo? Volere questa qua, punto! «Perché devo
andare oltre? Perché devo aprirmi oltre?». Dopodiché soffocano e si separano
perché non ne possono più: tanto sono fatti l’uno per l’altra che non
ne possono più! Se facciamo questo errore, finiamo come vediamo che
finiscono tanti adesso, perché non capiamo la natura dell’esperienza amorosa,
di quello per cui il Mistero ci fa così: per aprirci di più a Colui che può
riempire la vita. «Nell’ambito cristiano la realtà di questo stato [che è fare
una famiglia] è fondamentale perché ad esso viene affidata la possibilità
4

stessa del prolungarsi del regno di Dio nel mondo [attraverso i figli]»18.
Ma nella vita della Chiesa c’è un altro stato di vita, che è quello della verginità,
«che costituisce anch’essa una funzione fondamentale e che apparirà
anche più chiaramente se noi recuperiamo ilmotivo ultimo ed esauriente
per cui ci si offre a Dio: questo motivo è l’imitazione di Cristo [Cristo, il
Mistero fatto carne, ha messo nella storia una modalità di essere utile al
regno di Dio che è vivere per questo regno, vivere per fare la volontà di Dio
dando tutta la propria vita a questo: è proprio quello che ha fatto Gesù, che
non ha fatto una famiglia, ha dato tutta la sua vita a questo]. L’imitazione
di Cristo è la legge di tutti i cristiani, però nella scelta di uno stato di questo
genere essa oggettivamente tocca il suo vertice [una vocazione alla verginità
tocca il suo vertice], perché è l’imitazione dello stato di Cristo nella
sua pienezza. Lo stato di Cristo nella sua pienezza era un rapporto col
Padre che, da un certo punto di vista, come persona, non era mediato da
nulla [così come nel matrimonio il rapporto con il Padre è mediato da un
altro, qui il rapporto con il Padre non è mediato da nulla]»19. Coloro che
sono chiamati a questo stato sono chiamati a un rapporto unico, immediato,
diretto, con il Mistero.Questa è la verginità: Dio chiama,Dio introduce
nella vita un seme, un’esperienza del vivere tale per cui ti rende così pieno,
così grato, ti rende possibile un’esperienza di vita per cui dici: «Io voglio
questo», e questo ti rende libero per dare tutta la vita, non per mutilarla. È
per una pienezza, non prima di tutto per un sacrificio, è per l’essere stato
affascinato da Cristo che uno può sentire l’urgenza di dargli tutto: «Io sono
per te, Cristo». Attenzione, nessuno pensi a questa strada per altro motivo
che non sia questa pienezza! Non è perché è più perfetta, non è perché è
più bella, no; è che uno vive sospeso su un pieno e non vuole perderlo per
nulla al mondo, tanto è vero che le persone che se lo trovano addosso forse
avevano pensato all’altra strada,non avevano mai pensato a questa, e si trovano
addosso una tale pienezza che dicono: «Questo è troppo, troppo bello
per non seguirlo». Per questo dice don Giussani: «Cristo, con la sua verginità,
non era un mutilato. Perciò il concetto di rinuncia, se indica il riverbero
psicologico che l’esistenza genera in quel caso, dal punto di vista del
valore, dal punto di vista ontologico non è rinuncia a qualche cosa, ma è
l’addentrarsi in un possesso più profondo e più finale delle cose. La verginità
di Cristo era un modo più profondo di possedere la donna, un modo
più profondo di possedere le cose. Questo ha avuto, per così dire, il suo
compimento nel fatto della resurrezione, attraverso la quale Cristo possedette
tutte le cose come noi le possederemo alla fine del mondo. In questo
senso la verginità, nell’ambito della comunità cristiana, è la situazione
paradigmatica, esemplificativa, ideale cui si devono riferire tutti»20. È il
paradigma, l’esempio, l’ideale non di un non-possesso, bensì di un possesso
più vero.
L’altro giorno, nella pausa della lezione in Cattolica, è venuta una ragazza
che, dopo anni di fidanzamento,mi ha detto: «A me piacerebbe tornare
a quel primo momento, a quel primo barlume del rapporto con il mio
moroso», quando ancora non si erano sfiorati: questa è la verginità! E perché
questa ragazza dopo anni ha ancora nostalgia di quell’istante? Perché
tutto ciò che è successo dopo non ha ricreato neanche un brandello della
pienezza che aveva sperimentato allora.Questa ragazza è ancora fidanzata,
ma desidera questo, desidera un possesso dell’altro così, e l’essere posseduta
dal suo ragazzo così, come in quel primo commovente istante. La verginità
è un modo più profondo di possedere la donna, un modo più profondo
di possedere le cose. E oggi, che è l’Ascensione, è la festa di questo:
quando Cristo risorto è entrato nella profondità delle cose, possedendole.
Anche noi le possiederemo alla fine del tempo, è un compimento vero
affettivamente parlando, perché è quello a cui sono chiamati tutti:
«La verginità, dunque, nella vita della Chiesa [nel regno di Dio], rappresenta la funzione suprema, tanto è vero che la storia della Chiesa ha identificato la testimonianza nelle sue forme supreme in due punti: la verginità e il martirio.
La verginità, nell’ambito della comunità cristiana, costituisce funzione e testimonianza al fine della vita»21. In essa possiamo gridare a tutti:
«Guarda che ciò per cui tu ami la tua morosa, il tuo moroso, ciò per cui ti sposi, ciò per cui hai figli ha un nome che ti grido con la mia vita: Cristo.
Ed è possibile ciò per cui tu sei fatto avendo la moglie e i figli, esiste,
te lo testimonio.
Perché? Perché io ho dato la vita a questo e lamia vita non esisterebbe, non
ci sarebbe se non ci fosse Lui. Sarebbe impossibile se Cristo non fosse
entrato nella storia e ci avesse affascinati così tanto per poter vivere di Lui».
Quale delle due strade abbracciare, allora? «La scelta tra l’una e l’altra
strada non può essere una “creazione”nostra,ma deve essere una “ricognizione”
nostra. Dobbiamo riconoscere qualche cosa per cui siamo stati
destinati. Non deve essere una decisione nostra nel senso che la nostra
volontà costruisca la propria posizione, ma nel senso che la nostra libertà
aderisca alla indicazione che ci segna la strada»22. Allora la questione fondamentale
per la scelta della vocazione è educarci al Mistero, educarci a
essere tutti spalancati, tesi a scoprire i segni attraverso cui io posso capire a
che cosa sono chiamato.
E questo tante volte è complicato, amici. Perché siamo fatti per il “dunque”,
dobbiamo arrivare alla chiarezza e perciò vogliamo accelerare il cam-
5
mino quando non ci è ancora chiaro – ci sentiamo addosso uno strano
disagio,un’impazienza –. Siccome questa posizione è vertiginosa, vogliamo
superarla subito e tante volte sbagliamo; invece di aspettare che vengano
fuori i segni attraverso cui il Mistero mi dà tutte le indicazioni a cui obbedire,
o decidiamo noi o facciamo decidere a un altro. Perché la strada è, in
fondo, un’obbedienza; è un’obbedienza che ha dentro tutto quello per cui
io sono stato fatto, che tiene conto di tutti i fattori che mi rendono veramente
me stesso, non è una decisione “mia”.
b) La vocazione come scelta della professione
Tutto quanto abbiamo detto ci aiuta a capire anche la strada della scelta
della professione da svolgere, ma vorrei sottolineare fondamentalmente
una cosa. «La concezione moderna della vita mai si dimostra così lontana
dallo Spirito di Cristo come in questo punto. Il criterio con cui la mentalità
di oggi abitua a guardare l’avvenire fa centro il tornaconto, o il gusto, o
la facilità dell’individuo. La strada da scegliere, la persona da amare, la professione da svolgere, la facoltà cui iscriversi, tutto è determinato così da erigere a criterio assoluto l’utilità particolare del singolo. E ciò appare talmente
ovvio e scontato che il capovolgimento del richiamo sembra, anche a
troppi galantuomini, una sfida al buon senso, una infatuazione, una esagerazione.
Sono accuse ripetute anche da educatori che si sentono cristiani,
o da genitori peraltro preoccupati della buona riuscita umana dei figli. I
giudizi nelle situazioni private e pubbliche, i consigli per ben vivere, gli
ammonimenti o i rimproveri, tutto è detto da un punto di vista da cui è
totalmente assente la devozione al tutto e la preoccupazione del regno, ed
esiliata la realtà di Cristo»23. Possiamo essere diGs, possiamo aver incontrato
Cristo, ma nel momento decisivo delle scelte fondamentali Egli non
c’entra nulla. Perciò è drammatico questo momento, soltanto a dirlo mi
vengono i brividi; immagino che brividi verranno a voi che dovete scegliere,
tanto è contrario a tutta la mentalità in cui siamo immersi.
Capite perché è una lotta? La lotta in noi è tra seguire la voce unica dell’ideale
(che sia quella a indicarci la via) o farci inghiottire dalla mentalità
del mondo. Se non ci diciamo questo, non siamo amici; io ve lo dico perché
vi sono amico, perché la questione è lo scopo della vita, la questione è
che cosa stiamo a fare qua. Se noi, in questomomento-chiave della decisione,
non colleghiamo la scelta della professione a che cosa stiamo a fare qua,
ci perdiamo per strada. «“Che cosa il tutto potrà darmi? Come ottenere il
più possibile vantaggio dal tutto?”: questi sono i criteri immanenti della
saggezza più diffusa e del buon senso più riconosciuto. Invece la mentalità
cristiana travolge quelle domande, le contraddice, le mortifica, e rende
gigante proprio l’imperativo opposto: “Come io potrò donarmi con quel
che sono, servire di più al tutto, al regno, a Cristo?”.Questo è l’unico criterio
educativo della personalità umana come l’ha redenta la luce e la forza
dello Spirito di Cristo»24.
«Nella scelta del lavoro e della professione deve venire a galla quella terza
categoria cui è stato accennato [prima]: i bisogni della società.Ma per il cristiano
questi non possono essere un criterio isolato da un altro concetto più
profondo: il bisogno della comunità cristiana»25. Allora che significa in
fondo questa disponibilità se non prontezza, disponibilità alla vocazione? È
questo che dobbiamo chiedere: che il Signore ci dia la grazia di vedere tutti
i segni che ci consentano di identificare la vocazione in modo tale da non
sbagliare la strada e di renderci disponibili – perché a volte possiamo vederlo
con una chiarezza solare e non essere disponibili –.
«La profonda disponibilità di tutta la propria vita nel servizio al tutto è
di estrema importanza proprio anche per comprendere quale sia la funzione
che si è chiamati a svolgere, quale sia la personale vocazione»26. Perché la
vocazione, amici,non è un comando,nessuno vi comanda niente qua, questa
mattina, neanche Cristo ha dato un comando; è un suggerimento, un
invito, una possibilità intravista, e vi lascia tutta la libertà. Dopo quanto
abbiamo detto, tutta la libertà, drammaticamente, è nelle vostre mani.
6
TRACCE.IT / MAGGIO / 2010
1 C. Chieffo, «Parsifal (Canzone dell’ideale)», in
Canti, Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo,
Milano 2002, p. 236.
2Ivi.
3 C. Chieffo, «Il popolo canta», inCanti, op. cit., p.
238.
4 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza,
Rizzoli,Milano 2006, p. 119.
5 R.M.Rilke, «Elegia II», inLiriche, Sansoni, Firenze
1942, v. 42, p. 379.
6 L. Giussani, Intervento alle Vacanze Maturati,
Campitello, 28-30 luglio 1964 [Archivio di Cl].
7 At 17,26-27.
8 L.Giussani,Il sensoreligioso,Rizzoli,Milano 1997,
p. 189.
9 San Tommaso d’Aquino,Summa Theologiae, I, 1, 1.
10 L. Giussani, «La vocazione della vita», in Tracce-
Litterae Communionis, n. 6, giugno 2005, p. 2.
11 L. Giussani, Intervento alle Vacanze Maturati,
Campitello, 28-30 luglio 1964 [Archivio di Cl].
12 Ivi.
13 Ivi.
14 Ivi.
15 Ivi.
16 L.Giussani,«La vocazione della vita», in op. cit.,p.4.
17 Ibidem, p. 2.
18 Ivi.
19 Ivi.
20 Ibidem, pp. 2-3.
21 Ibidem, p. 3.
22 Ibidem, p. 4.
23 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza,
op. cit., p. 120.
24 Ibidem, pp. 120-121.
25 L. Giussani, «La vocazione della vita», in op. cit.,
p. 5.
26 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza,
op. cit., p. 121.

venerdì 28 maggio 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón - Milano, 26 maggio 2010

Testo di riferimento: «Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?», Esercizi della Fraternità
di Comunione e Liberazione (Rimini 2010), Società Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2010.
• Canto “Al mattino”
• Canto “Give Me Jesus”
Io voglio raccontare un fatto che mi è accaduto. Faccio questa premessa: gli ultimi anni li ho vissuti con una grande difficoltà per via di una situazione che si era venuta a creare al lavoro e che, dopo trent’anni, mi ha portato alla decisione di lasciare, di andare via. Naturalmente adesso mi trovo, comunque, a vivere anche la situazione di dover trovare un nuovo lavoro, che in questo momento e a quasi cinquant’anni non è cosa facile; però il mio problema non sono le circostanze,
ma come io le ho vissute, perché in tutto questo tempo ci sono un po’ soffocato dentro e ho perso un po’ anche il gusto del vivere. Nella lezione del venerdì degli Esercizi, a pagina 8, dici: «Se non vi è un cambiamento nel modo di percepire, di giudicare la realtà, vuol dire che la radice dell’io non è stata investita da alcuna novità, che l’avvenimento cristiano è rimasto esterno all’io». La settimana
scorsa c’è stato un incontro con padre Aldo; quando ha raccontato un dramma che ha vissuto, io ho sentito questa cosa come analoga a quello che stavo vivendo io: avevo lo scandalo di questa mancanza del gusto del vivere; pur essendo del Movimento, circondato dalla grazia di un sacco di gente che mi vuole bene, non riuscivo né a perdonare a me stesso questo scandalo né a confessarlo apertamente, fino in fondo, anche agli amici più cari. A un certo punto, padre Aldo ha detto: «Io sono cambiato quando dopo tanti anni in cui chiedevo perfino di morire ho incominciato a
guardare me stesso non come mi guardavo io, ma come mi guarda Dio». Io avevo già sentito altre volte padre Aldo, anche quest’anno, però uscivo sempre dagli incontri dicendo: «Lui è un santo, io no»; invece questa volta sono uscito e mi sono detto: «Se è possibile a lui, perché non a me?». Di fatto, lui aveva realmente toccato la radice del mio essere e io ho fatto l’esperienza di sentirmi
liberato perché lui in pratica mi ha ribaltato, però non ha distrutto me, ma il mio moralismo e lo scandalo che avevo per il mio peccato, tanto è vero che la prima cosa, il giorno dopo, è stata, alzandomi, dire a mia moglie: «Il rapporto tra te e me deve ricominciare imparando a guardarci come ci guarda Dio».

Mi sembra che tutti abbiate capito la portata di quello che dice. Questo è un esempio – e lo ringrazio – di che cosa vuol dire, che significato ha la parola lavoro di cui parliamo tante volte; perché noi possiamo essere qua per anni, come lui, in una appartenenza cordiale – nessuna obiezione –, ma senza prendere in mano neanche come ipotesi ciò che ci offriamo ogni volta: guardarci come ci guarda Dio. E per questo, tante volte, ci lamentiamo che non cambia la radice dell’io, non cambia
niente; stiamo lì aspettando che capiti qualcosa (ciascuno può immaginarla secondo la propria sensibilità: sentimentale, più o meno impattante). Invece qui mi colpisce il riconoscere che quello che a lui ha fatto veramente compagnia è stato questo giudizio di padre Aldo; non è che abbia parlato personalmente con lui o l’abbia abbracciato: semplicemente, sentendo raccontare quello che aveva cambiato padre Aldo, anche lui ha incominciato a guardare sé come lo guardava Dio, ha
preso in mano l’ipotesi che ci diciamo qua in continuazione: quel “prima” che è entrato nella storia con l’avvenimento cristiano. E questo è decisivo. Perché? Perché noi tante volte siamo colpiti dalle persone – questo è un passaggio decisivo! –, vediamo testimoni; ma la differenza è che lui in questa
occasione ha percepito la strada da fare, la strada! Tante volte che cosa diciamo? Quello che diceva lui: «Padre Aldo è un enorme testimone, grandissimo testimone, lui è santo e io sono uno stupido; sto davanti a una personalità eccezionale, lui è grandissimo, io sono un niente». E dopo aver sentito il contraccolpo di questa sua grandezza io vado a casa con il mio niente, senza che possa neanche

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immaginare, avere una briciola, un lumicino di che strada fare per raggiungerlo: lui rimane un gigante e io rimango un nano. Invece quel che mi ha colpito subito del Movimento è stato proprio questo: io avevo già incontrato personalità grandi, ma loro erano giganti e io un nano, e non sapevo
come raggiungerli, mentre don Giussani a noi dà una strada. Il cristianesimo propone una strada: incomincia a guardarti come ti guarda Dio. Appena l’ho percepito mi sono sentito libero. Ma uno può stare qua per anni arrivando tutti i mercoledì devotamente – per carità –, come uno può andare a Roma sul tapis roulant perché lo fa il Movimento, perché andiamo tutti, senza neanche fare un percorso, senza neanche lasciarsi sfidare dalla ragione, e questo non lascia entrare nessuna novità.
Questo è decisivo perché, come abbiamo detto agli Esercizi, questo contenuto diventa mio solo attraverso la mia libertà, quando io incomincio a prendere in mano quell’ipotesi, quella proposta che mi viene fatta sentendo uno come padre Aldo: incominciare a guardarmi come mi guarda Dio. E subito percepisco quel cambiamento che non sapevo come sarebbe potuto arrivare. Questa è la sfida che abbiamo davanti, perché altrimenti è come se l’avvenimento cristiano non toccasse, come citava
lui, la radice dell’io; possiamo partecipare a tante cose, qualche volta ci colpiscono anche emotivamente, ma non toccano la radice dell’io. Questa volta in lui è stata toccata la radice dell’io perché ha imboccato la strada, perché ha colto che la questione non era l’imponenza della personalità del testimone, ma che uno gli faceva intravedere la strada da percorrere; senza questo non penetriamo la crosta e possiamo partecipare a tante cose, ma poi andiamo a casa guardandoci come prima; e uno, a un certo momento, si stufa. Che cosa ci dice questo? È bastato un minuto di
sequela per vedere l’effetto. Chi – qualsiasi sia la situazione, qualsiasi sia la difficoltà che attraversa, qualsiasi sia la circostanza brutta in cui si trova, lo stato psicologico in cui si trova, quando è giù, giù, giù –, chi di quanti siamo qua presenti o di quelli che ci ascoltano, chi può dire che non resta un briciolo di libertà per incominciare a guardarsi come Dio ci guarda? Basta dare spazio – dicevamo agli Esercizi – a questo sguardo; non occorrono particolari doti, circostanze, energie, è semplicemente questa decisione della libertà di lasciarsi guardare così. Questo è il lavoro.
È complicato? Lo fanno perfino i bambini: lasciarsi guardare dalla mamma, lasciar entrare quello sguardo quando sono tutti chiusi su se stessi
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Qualche anno fa in un incidente ho perso quattro dita della mano destra; avevo ventitré anni e un sacco di sogni e di progetti da realizzare e la maggior parte, proprio per questa cosa, non mi è riuscita. Me la sono presa con Gesù, perché era l’unico forse che mi poteva ascoltare e darmi una ragione di quello che mi era successo, continuavo a chiedermi ogni giorno perché, perché proprio
a me questa cosa qui. Ho iniziato a non andare più in chiesa e ad avere riluttanza per tutto quello che era Chiesa, ho tagliato con tutto; ero convinto che Gesù mi avesse riservato una vita di serie B, dicevo: «Probabilmente per me aveva in mente una vita di serie B». Poi un giorno incontro un amico che mi invita a una vacanza; io ho detto di sì perché ero convinto di poter andare lì e di mostrare che lui si sbagliava, che non tutti sono destinati a esser felici.

Meno male che uno viene in vacanza così, con questa ipotesi di lavoro, non nel tapis roulant: uno che va per tentare di dimostrare agli altri che sbagliano. Che cosa è successo?
Sono rimasto lì solo tre giorni. Poi quando sono tornato mi sono accorto che iniziavo a cercare le persone che avevo conosciuto, iniziavo a chiamarle, non riuscivo a stare senza di loro, e così è iniziata la Scuola di comunità, che non sapevo neanche che cosa fosse. Ho iniziato semplicemente a seguire e a guardare i segni; mi dicevano: «Segui e guarda i segni». Però qualche tempo fa succede una cosa, succede che i segni cambiano perché i segni per me sono delle persone e le
persone a volte cambiano, possono essere più fragili o meno fragili perché anch’io sono così, e io faccio confusione quando cambiano e non so più cosa guardare. Infatti è iniziato un periodo buio, dove comincio a pensare e a desiderare di ritornare alla mia vita di serie B: forse non era poi tanto male. Però questa volta la differenza…
E perché non lo fai?
Non ci riesco.
Perché?
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Non ci riesco perché posso mettere in discussione le persone e me stesso, ma non quello che ho visto perché quello che ho visto è vero.
Allora?
E allora mi muovo, provo a fare l’unica cosa che mi riesce di fare: domandare, e una sera chiedo di incontrare un amico per parlare; il mio proposito è di andare lì e di raccontargli, di spiegargli, di dargli chiarimenti, di dirgli… E invece quando arrivo lì non riesco a dire niente perché mi sento abbracciato; non è un abbraccio fisico, ma è un abbraccio che per me è un giudizio: che io sono voluto bene. A me in fondo interessava solo quello, che qualcuno mi guardasse per come sono, con
tutta la mia miseria e con tutti gli errori che avevo combinato. E così decido di fare anche gli Esercizi a cui non volevo andare. E lì, la prima sera degli Esercizi, mi ritrovo a non guardare chi c’è intorno a me, a pensare semplicemente: «Io desidero solo che siano qui tutti per la stessa cosa». Faccio un esempio di quel che è successo dopo. Io lavoro in una cooperativa che fa manutenzione; veniamo chiamati a fare un intervento di manutenzione a casa di un signore anziano, arriviamo lì e la casa è tutta sporca, lui è tutto sporco con la barba lunga, gli operai non
possono intervenire perché è proprio troppo sporco e io non posso più far niente. A quel punto, però, mi fermo due minuti a parlare con lui che mi racconta un po’ di sé; gli dico: «Guarda, l’unica idea che ho per te è che domani o dopodomani passiamo a pulirti la casa così poi, magari, si può fare l’intervento». Torno dopo qualche giorno ed è tutto uguale, però c’è un particolare che a me commuove tantissimo: questo signore si è fatto la barba e io mi sono proprio commosso tanto,
perché io ho visto come un gesto di tenerezza che io desidero per me. La mia domanda era questa: quando capita che i segni cambino, cosa posso fare perché non succeda un ritorno alla serie B?

E perché ti preoccupi di questo? Hai generato tu questo uomo che si fa la barba? Ci pensa Gesù a questo, perché ti preoccupi? Noi ci preoccupiamo di quello di cui non ci dobbiamo preoccupare; hai trovato tu quelli che ti avevano colpito all’inizio in vacanza?
No.
Hai generato tu quello che hai incontrato agli Esercizi? Tu devi cominciare a guardare quello che hai detto: «Quello che ho visto è vero». I segni possono cambiare, ma quello che ho visto è vero, e questo è decisivo. Perché? Perché è proprio quello che rimane anche quando cambiano i segni.
Perché? Perché è un evento che è accaduto, e tu sei già diverso da quando lo hai visto, e lo hai visto per sempre; poi può succedere di tutto, ma tu sei già costituito da quello che hai visto. La verità non è qualcosa che tu affermi, bensì qualcosa che è successo in te. Infatti, anche se gli altri vanno via, quando ti chiedo: «Perché non te ne vai? Perché non te ne sei andato?», tu mi dici, persuaso:
«Perché quello che ho visto è vero». Vero, cioè reale. Questo è quello che interessa, del resto si occupa il Signore; noi a volte ci preoccupiamo di cose delle quali non dobbiamo preoccuparci; si preoccupa Lui di restare contemporaneo a noi secondo una modalità che noi non possiamo prevedere, ma che tu puoi riconoscere testimoniata attraverso una diversità di facce che ti fanno rivedere quello che hai visto. Grazie.

C’è un pezzo che mi aveva colpito molto degli Esercizi, sempre a pagina 8: «Ciascuno di noi può giudicare il lavoro di quest’anno, e verificare in che misura questa novità è entrata nella radice del proprio io. [...] Non sono nostri pensieri, non è una questione di opinioni, di interpretazioni: se Cristo è entrato come novità nella radice del nostro io e determina tutto in modo nuovo, ce lo portiamo addosso nel modo di vivere il reale». Tu lo riconducevi a gente impegnata nella sequela
della proposta che ci siamo fatti. Volevo raccontare la sorpresa di quel che mi è successo rispetto alla vicenda di Roma. Quando è stata proposto il pellegrinaggio a Roma avevo aderito subito, cordialmente: «Che cosa bella, va il Movimento, gli amici»... Ma l’ultima volta hai detto che noi andavamo non perché il Papa abbia bisogno di noi, ma perché noi abbiamo bisogno di quel testimone. Quella frase mi è entrata dentro e ha cambiato totalmente, giorno per giorno, mentre si
avvicinava quel momento, la modalità di adesione, perché avevo già deciso con gli amici di andare, ma all’improvviso ho come colto che quel gesto era l’occasione per me, per il mio cuore, di fare ancora una volta l’esperienza del rapporto con Cristo risorto, realmente. Allora è stata proprio
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un’attesa di essere lì con il suo popolo, segno di Cristo risorto, davanti al Papa per poterne gustare la corrispondenza. Mi impressiona perché è proprio vero che questo ha cambiato il modo di vivere il reale, perché siamo andati con la famiglia, cosa che un tempo non avrei mai fatto (con anche il neonato che è una complicazione enorme), è stato faticosissimo, eppure è stato determinato tutto da un’attesa e quindi da una letizia, da uno sguardo nuovo, è stato gustarsi la bellezza… A un certo
punto, si è introdotto un cambiamento per cui l’attesa che Cristo venisse ancora una volta ad allietare il cuore ha cambiato totalmente il modo di vivere quei due giorni. L’ultima cosa che voglio dire e che mi ha sorpreso è la commozione del Papa, che è diventata la mia di fronte a Cristo.

Grazie. Quello del pellegrinaggio a Roma è stato uno dei gesti educativi più importanti che abbiamo fatto, perché abbiamo fatto insieme un cammino che ci ha consentito di approfondire la ragione fino ad arrivare a questo giudizio; nella misura in cui venivano fuori le difficoltà, anche io sono stato costretto a rispondermi e per questo ho avuto la possibilità di poter approfondire io per primo tutta la portata di quello che stavamo facendo per aiutarci tutti. Ma voglio dire un’altra cosa: perché un gesto di questo tipo è educativo? Tante volte ci facciamo la domanda: io ho intenzione di seguire o seguo? Ciascuno ha davanti cosa ha fatto rispetto a Roma, sempre naturalmente avendo presente le circostanze inevitabili che sono quelle che il Signore ci dà. Ricordando quello che dice Giussani, un
fatto ha una sua inevitabilità: mettere davanti a tutti un fatto, una proposta di questo tipo con le ragioni che abbiamo dato, ci ha fatto decidere tutti; non c’è stata alcuna ambiguità. Siamo andati o siamo rimasti (adesso lascio fuori le persone rimaste a casa per un motivo giusto, non entro a definire questo), ciascuno si è visto in azione e questo è decisivo; io non voglio rimproverare nessuno, ma aiutarci a capire che attraverso questi gesti il Movimento offre a tutti la possibilità di
una verifica di che cos’è il cristianesimo. Se non fosse così, rimarremmo costantemente nell’interpretazione, o nel dubbio se stiamo seguendo o non stiamo seguendo. Qui, ciascuno, proprio per la natura della proposta, ha potuto verificare la fede, che cosa ha fatto, come ha usato questa occasione e può vedere come ha giocato la partita. È questo l’aiuto che ci diamo per venir fuori dall’ambiguità e rendere la strada più chiara.


Mi continua a stupire la consonanza tra la Scuola di comunità e la mia vita, in particolare per l’esperienza recente, nel nord Europa, della malattia e morte di una persona a me molto cara. La cosa che mi ha addolorato di più in questa circostanza è vedere questa persona amata soffrire e morire senza il conforto dei Sacramenti, a causa della mentalità laicista che impera in questi Paesi, una mentalità che ha veramente emarginato Cristo dalla vita. Lascio che sia Péguy che tu citi a
pagina 7 degli Esercizi a raccontare quello che ho visto sotto i miei occhi. «Per la prima volta, per la prima volta dopo Gesù, noi abbiamo visto, sotto i nostri occhi, noi stiamo per vedere un nuovo mondo sorgere, se non una città; una società nuova formarsi, se non una città; la società moderna, il mondo moderno; un mondo, una società costituirsi, o almeno assemblarsi, (nascere e) ingrandirsi, dopo Gesù, senza Gesù. E ciò che è più tremendo, amico mio, non bisogna negarlo, è che ci sono riusciti. […] È ciò che vi pone in una situazione tragica, unica». Questa circostanza è stata per me una grande occasione di verifica della mia fede; ho preso coscienza, infatti, che il Mistero mi stava convocando attraverso questa realtà, che avevo fra le mani un’opportunità unica per giocarmi nel reale, per testimoniare dove poggia la mia speranza. Scelgo di raccontarti solo un piccolo episodio, ma molto eloquente, grazie al quale sono stata protagonista, cioè mendicante. Per
la messa dei funerali di questa persona cara mi è stato chiesto di fare le preghiere dei fedeli e proprio nel momento in cui stava imperversando in Italia e in Europa l’attacco al Papa, attraverso lo scandalo dei preti pedofili, una delle preghiere che ho proposto era proprio per il Papa, i vescovi e i sacerdoti. Questa preghiera mi è stata sbarrata con un pennarello nero, mi è stato detto
che non dovevo recitarla, che non era il caso; però io l’ho recitata lo stesso anzi, già che c’ero, ho anche aggiunto: per il movimento di Comunione e Liberazione e per don Julián Carrón (scusa se mi sono permessa). Potrei raccontarne altri di esempi, ma mi fermo a questo per dovere di sintesi.
L’ostilità di questa circostanza ha acuito il mio desiderio e la mia domanda, facendomi capire di
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più la pertinenza della fede alle esigenze della mia vita, la sua ragionevolezza e la sua necessità esistenziale: io ho bisogno di Cristo. La più grande disgrazia che ci può capitare non è la malattia e neanche la morte, ma è l’assenza di Lui. Per questo il gesto del Regina Coeli dal Papa per me è stato perfettamente ragionevole, ero piena di ragioni, era un gesto corrispondente; la mia adesione a quel gesto era totalmente cosciente perché era sostenuta dall’esperienza appena vissuta. Ti
chiedo: è questa la dignità culturale della fede?

Certo che è questa la dignità culturale della fede. Soltanto uno che si rende conto di qual è la situazione (come descritto da Péguy) può capire la ragione del perché siamo andati a Roma; non era il pallino di qualcuno.
Perché io intuisco che andare al fondo della dignità culturale della fede per me è fondamentale per rispondere fino in fondo a ciò a cui sono chiamata.

Se non capiamo la situazione, non vediamo la ragionevolezza di un gesto così e non capiamo che noi andiamo per rimanere attaccati all’unica roccia che ci tiene legati a Cristo, l’unica speranza. Mi raccontava uno degli amici, a proposito di Roma, un dialogo che avrebbe avuto don Giussani con Giovanni Paolo II in cui questi diceva: «Don Giussani, il problema è la verità», e don Giussani gli
ha risposto: «Santità, mi consenta, il problema è Pietro», perché la verità senza il legame con il suo radicamento storico sfuma, sparisce frammentata in mille opinioni. Almeno questa consapevolezza dobbiamo averla – che siamo andati a Roma o non siamo andati –; tutto il Movimento ha guadagnato una consapevolezza: il giorno in cui perdiamo questo legame ci ritroviamo nel pantano.
Come mi diceva una persona questa mattina: questo rapporto con Pietro è legato al carisma che ci ha insegnato a guardare così il valore di Pietro, perché senza di questo saremmo anche noi come tanti altri.


Io volevo brevemente fare una constatazione e porre una domanda. La constatazione molto semplice è riferita a quello che tu hai detto il venerdì sera agli Esercizi: «Quando riaccade l’incontro avviene qualcosa e allora ti metti al lavoro». Io per lavoro giro il mondo e questo lo faccio più o meno da quindici anni; fino a pochi mesi fa ho sempre portato con me la Scuola di comunità, qualunque fosse, ma non l’ho mai fatta; all’andata ero troppo impegnato a preparare le
riunioni, al ritorno ero troppo stanco, dovevo riposarmi. Adesso c’è una novità che mi ha messo in moto, che è venire qui alla Scuola di comunità e, per grazia, aver fatto tanti incontri decisivi soprattutto l’anno scorso; questo per esempio nello specifico mi sta rendendo la Scuola di comunità così interessante che all’andata non c’è riunione più importante dei dieci minuti di Scuola di comunità e al ritorno non sono mai così stanco da mancarli. In questo, tra l’altro, scopro la Scuola di comunità così compagna per me nella quotidianità, è la scoperta del Mistero presente
alla mia vita nella concretezza della giornata. Questa è la constatazione. Invece la domanda è rispetto alla lezione di sabato mattina ed è sulla questione della provocazione del reale e del segno.
Il don Gius dice che per il cristiano compenetrato dalla coscienza della presenza di Cristo ogni cosa è segno. Ora, l’esperienza che io faccio è che le circostanze talvolta sono contraddittorie o fuorvianti, magari contraddittorie e fuorvianti allo stesso tempo, o almeno appaiono a me così, e allora io faccio questa cosa: mi distacco, penso a dove per me quello che ho visto non è stato così e
dove mi si è mostrata la presenza del Mistero. La questione è che non riesco a cogliere il Mistero dentro a determinate circostanze, e questo è molto frequente. La domanda è: questa è una condizione ineliminabile dal mio rapporto con il reale o è un difetto di posizione, di sguardo?

È ineliminabile che tu ti trovi davanti a queste circostanze. Il problema è che noi cataloghiamo le circostanze: quelle che hanno dentro il Mistero e quelle che non ce l’hanno, noi distinguiamo quelle che sono segno da quelle che non sono segno. Ma questa è una distinzione che io non ho fatto nella lezione; ho detto: «Tutto è segno». Questa è la sfida! Io vi rilancio la questione. Incominciamo a
guardare tutto così, perché io ti dico: è vero o non è vero che davanti a una circostanza contraddittoria o davanti a una malattia ti emerge molto più potentemente la domanda che ti rimanda oltre? Per negare questo dobbiamo staccarci dall’esperienza; quanto più è contraddittoria la
realtà ai nostri occhi, tanto più ci interroghiamo: «Ma perché ho subito questa ingiustizia? Ma
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perché?». O no? Soltanto se c’è l’avvenimento cristiano, se io guardo tutto così, allora posso stare davanti alla realtà senza distinguere. L’unica cosa che mi devo davvero domandare è: «Ma come se la caverà Gesù in questa circostanza per portarmi alla felicità che mi ha promesso? Come si svelerà qua?». Se io ho questa certezza, anche quella occasione si rivelerà secondo un disegno che non è il
nostro, e nei tempi e nei modi che noi non sappiamo Cristo si svelerà gloriosamente. Quante volte ci è già capitato nella vita?


Vorrei chiedere un aiuto sull’ultimo passaggio che hai fatto alla fine del primo punto quando rispondi alla domanda: «Perché l’incontro ha questa presa sull’io?». Agli Esercizi non me ne ero accorta, ma quando ho riletto il libretto ho riconosciuto che questo passaggio l’avevi già fatto all’assemblea dei responsabili della scorsa estate e io allora l’avevo letto, riletto, riletto, ma mi era
rimasto oscuro. Tu dicevi, citando Giussani, che «questa realtà eccezionale afferra così potentemente l’io […] per la coscienza della corrispondenza tra il significato del Fatto in cui ci si imbatte e il significato della propria esistenza». Io questa volta per capirlo mi sono chiesta che cosa mi era accaduto l’ultima volta che mi ero imbattuta in questa presenza eccezionale; è stato inevitabile pensare a quando a Roma abbiamo incontrato il Papa. Che genere di corrispondenza ho vissuto? Io ero sotto il porticato e non si sentiva molto bene; di quello che ha detto il Papa io ho
sentito solo due frasi, che però non dimenticherò mai, e poi quel “grazie” ripetuto più volte e poi quelle braccia aperte proprio in un abbraccio, un abbraccio vero a tutti noi, un abbraccio a me. E questo è il punto: la corrispondenza per me è stata che quelle uniche due frasi che ho sentito, quel grazie, quell’abbraccio erano per me; prima non potevo sapere che sarebbero accadute queste cose, però erano per me, erano ciò di cui avevo bisogno tanto che mi sono chiesta: «Ma chi sei Tu che sai più di me di che cosa ho bisogno?». Sono tornata da Roma lieta e appena c’è l’occasione
dico a chi c’è stato e a chi non c’è stato quanto è stato bello. Una sera mi è capitato che stavo brontolando con i miei figli per tutto quello che non fanno, poi mi è venuto in mente l’abbraccio del Papa e mi sono fermata. Desidero capire se quella coscienza della corrispondenza tra il significato
del Fatto in cui ci si imbatte e il significato della propria esistenza, di cui parla Giussani, è riconoscere che quello che accade è talmente per me che mi parla del Mistero.
Certo. È questo. Leggiamo questo clamoroso paragrafetto de Il rischio educativo, citato a pagina 14: «L’incontro con un fatto obiettivo originalmente indipendente dalla persona [...] adegua l’acume dello sguardo umano alla realtà eccezionale cui lo provoca. Si dice grazia della fede». Questo incontro è qualcosa d’indipendente, che io non creo: mi imbatto in questa realtà indipendentemente
da me. Ma questo segno è così eccezionale che ha dentro tutto il Mistero. Prendiamo un episodio del Vangelo così illuminante. Hanno cercato di pescare per tutta la notte, non hanno preso niente, arriva Gesù e dice: «Buttate le reti»; sono talmente tanti i pesci che non ce la fanno. Sono davanti a una sovrabbondanza così reale resa possibile da quell’Uomo, tanto che Pietro si mette in ginocchio davanti a Gesù: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore!»; il Mistero era lì davanti ai loro occhi, in una sovrabbondanza che esigeva di allargare lo sguardo per poter cogliere tutto quello che era lì implicato. Questa corrispondenza è ciò che l’uomo aspetta: un abbraccio così – dicevamo prima –, uno sguardo così, assolutamente più grande di quello di cui io sono capace. Tanto è vero che si incomincia a vedere la differenza tra il guardarmi come mi guarderei io e il guardarmi come
mi guarda Dio. Che cosa significa guardarmi come mi guarda Dio? Guardare con questo di più, con questa intensità, con questa capacità di abbracciare tutto: questa eccezionalità è quella che accade nell’avvenimento cristiano, che passa attraverso la carne e lo sguardo di qualcuno, ma è talmente sovrabbondante che allarga l’acume dello sguardo umano alla realtà che ha davanti. E questo è fondamentale per poter guardare in modo diverso il reale. Parlando al Pontificio Consiglio per i
Laici il Papa la settimana scorsa ha detto che «il contributo dei cristiani nella politica e nella cultura è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà» (21 maggio 2010). Cioè
se quello che accade allarga così tanto la mia capacità di comprendere il reale, di penetrare nel reale, che divento capace di comprendere la realtà fino in fondo. Se questo non diventa in noi stabile e usuale, il contributo nostro è nullo! Vediamo la realtà come tutti, lavoriamo come tutti,

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facciamo le opere come tutti; e poi mettiamo il bollino sopra, ma questo non cambia la mentalità, non cambia lo sguardo, non cambia niente. Il lavoro degli Esercizi è per questo, perché l’avvenimento della fede diventi intelligenza nuova della realtà; altrimenti la nostra diversità culturale è nulla.

Qualche giorno fa sono tornata a lavorare in reparto e c’era un nostro paziente che stava morendo.
Al momento della consegna dai miei colleghi io faccio un po’ di domande e capisco, dalla vaghezza delle loro risposte, che non entravano nella stanza di questo paziente da qualche ora (tanto più che
in questa stanza c’era la moglie, per cui, se fosse morto, la moglie avrebbe chiamato). Fatto sta che finisce il momento del passaggio delle consegne, i colleghi della notte vanno a casa e in quella
stanza suona il campanello. In quell’istante c’è stato un fuggi-fuggi generale, nel senso che ognuno aveva di colpo altro da fare.
Attenzione: fuggi-fuggi generale. Questo è il test. Erano tutti lì insieme, tutti professionisti, tutti in una squadra, ma quando suona il campanello perché uno sta per morire è il fuggi-fuggi. Questa è la
verifica della compagnia, un fatto così dice più di tutte le parole che cosa ci fa veramente compagnia quando suona il campanello perché uno sta morendo.
In quel momento io i miei colleghi li ho capiti, nel senso che quando c’è un uomo che sta morendo ci deve essere qualcosa che ti permette di stargli di fronte; e a me ha colpito perché in quell’istante io sono potuta entrare in quella stanza perché sapevo quell’uomo dove va a finire, che Cristo è risorto. E questo per me è stato un contraccolpo come di qualcosa che è accaduto, qualcosa che non era definibile da me, ma che mi definiva: un giudizio. Dopodiché passa qualche ora, a un certo
punto a metà mattina mi viene a chiamare una mia collega e mi dice: «Guarda che quel paziente ti chiama»; io lì per lì ero un po’ irritata e mi dicevo: «C’è dentro sua moglie, che cosa vuole da me? Sua moglie è la donna che per quarant’anni è stata con lui, che cosa può volere d’altro?». Quando sono entrata – erano poche ore prima di morire – aveva ancora un filo di coscienza e mi ha detto:
«Non te ne andare». Sono rimasta sinceramente sconcertata, perché io per quell’uomo in quell’istante ero indivisibile dal destino ultimo. Mi sono detta: «Cristo, Tu mi possiedi fino a questo punto?». La cosa più reale in quell’istante era questo possesso.

Uno che sta morendo sa chi davvero lo accompagna, e lo chiama. Può non essere la moglie con cui ha condiviso tutto, ma chiama chi può veramente accompagnarlo all’altra riva. E perché lo può accompagnare? Che cosa aveva intuito in lei per chiamarla tra i tanti volti in giro per l’ospedale?
Che cosa aveva intuito? Che cosa portava? Che cosa portiamo? L’altro lo capisce benissimo, chiama proprio lei per attraversare il buio della morte. E perché lei può farlo? Qui si comprende veramente qual è il nostro contributo al mondo: da una parte, uno che chiama lei e, dall’altra parte, lei che entra. In questi momenti viene a galla qual è il valore del nostro “sì” a Cristo; quando noi
diciamo “sì” a Cristo non ci rendiamo conto di qual è il valore di questo “sì” per il mondo. In questi momenti appare chiaro che quello di cui hanno bisogno gli uomini è proprio questo, e allora acquista tutta la portata il valore del “sì”; senza dire “sì” a Cristo così come ha fatto lei, lei non sarebbe stata in grado di entrare nel buio, anche lei sarebbe fuggita. E in quel momento si capisce che cosa è Cristo per ciascuno: se Cristo ha preso possesso di me – non perché io sia più bravo o
perché io abbia più energia o più capacità, non è questo –, questo mi consente di entrare. Quello che tutti aspettano da noi è poter trovare uno così, in cui continua a succedere quello che Gesù ha introdotto nella storia, come ha detto benissimo il Papa nel testo spettacolare a Torino davanti alla Sindone: «Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra
di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro
rimanere nella morte. La solidarietà più radicale. In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun

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raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di
abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. È successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano
che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”. Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione» (2 maggio 2010). Per questo possiamo entrare in
qualsiasi buio. Noi possiamo fare una strada che ci lega così a Lui, ci fa diventare così una sola cosa con Lui, che senza paura possiamo attraversare qualsiasi buio. Questo è lo scopo del lavoro che abbiamo tra le mani.
Andare a Roma il 16 maggio è stato un gesto educativo per tutti; il fatto che sia capitato in mezzo a tante situazioni già fissate o previste, ci ha costretto a cercare la ragione adeguata per decidere se esserci o no, perciò ci ha costretto a usare la ragione e la libertà. Questo ci ha fatto crescere nella consapevolezza delle ragioni proposte dal Movimento e ci ha portato ad essere in piazza San Pietro
con una coscienza più chiara di noi stessi, come avete raccontato tutti – è evidente il salto dalla volta scorsa a questa –. Una consapevolezza così è quella che rende la nostra presenza una presenza, perché tutti eravamo lì con la ragione chiara di questa presenza davanti al mondo; e quando siamo consapevoli delle ragioni che ci rendono veramente presenza, il Movimento ha una potenza assolutamente unica e tutto il clima intorno non ha potere su di noi. La modalità stessa con cui
abbiamo partecipato al gesto è stata quella di servire la Chiesa, e questo indica innanzitutto a noi la strada.
Processione del Corpus Domini. Come ho già accennato l’anno scorso, la partecipazione di tutti noi alla processione del Corpus Domini – un gesto semplice, una presenza davanti a tutti con l’Eucarestia –, fatta nelle proprie diocesi con il vescovo in testa, ha un valore educativo, è una proposta che ci aiuta ad avere una maggiore consapevolezza della nostra appartenenza a Cristo e alla Chiesa intera. Per la diocesi di Milano questa processione è giovedì 3 giugno alle ore 20; c’è la
Santa Messa nella chiesa di San Carlo al Corso in Piazza San Carlo e al termine la processione eucaristica da San Carlo al Duomo.
Pellegrinaggio Macerata-Loreto. È un gesto semplice di domanda. Si terrà sabato 12 giugno. È un gesto che tutti conosciamo: andiamo a esprimere con la preghiera il bisogno che noi abbiamo, l’urgenza, la domanda, il grido, per domandare in ogni circostanza della vita che Cristo ci accompagni. La preghiera cristiana per noi non è una “devozione”, ma è memoria, domanda e memoria, riconoscimento di una Presenza di cui conosco i tratti inconfondibili perché è all’opera.
• Gloria.

AI GIOVANI SERVONO MISURE ALTE PER INDICARE LA STRADA VERSO LA FELICITÀ



E ducare, cos’è? È suscitare la pas­sione dell’io per ciò che lo cir­conda: per l’altro, dunque, per il 'tu'; per gli uomini, per Dio – dice il Pa­pa. Educare, è un coltivare il deside­rio che ci spinge verso il reale. È, in fondo, un contagio di passione per l’uomo. Quella passione, dice il Pa­pa, che dobbiamo risvegliare fra noi. Nell’Aula del Sinodo Benedetto XVI parla ai vescovi italiani in assemblea generale. Due anni sono passati da quando denunciò la profondità del­la 'emergenza educativa'. Oggi la Cei mette al centro della pastorale della Chiesa italiana dei prossimi dieci an­ni l’educazione. (Come chi, davanti a una casa che sembra instabile, de­cida di mettere mano alle fonda­menta; a ciò che sta sotto, a ciò che viene prima).
E simmetricamente Benedetto, in un discorso che è lezione magistrale e augurio, va alle radici di quella diffi­coltà opaca, che però chi ha dei figli conosce. Quella strana resistenza a trasmettere ciò che abbiamo di buo­no, e prima di tutto il senso del vive­re; come se qualcosa confusamente ci remasse contro, come se l’anello fra generazioni fosse incrinato. Che cosa è stato, a infrangere una tra­smissione, di padre in figlio, antica, così che i padri balbettano, e i figli sembrano spesso incapaci di conti­nuarne la storia? Per Benedetto XVI – ma ci verrebbe da dire per il pro­fessor Ratzinger, tale è la lucidità del­l’analisi pure in poche righe – le ra­dici di questo male oscuro sono due. Primo, «una falsa idea di autonomia dell’uomo», come di un «io comple­to in se stesso»; secondo, «la esclu­sione delle due fonti che da sempre orientano il cammino umano»: na­tura e Rivelazione. Se la natura non è più creazione di Dio, e la Rivela­zione è soltanto figura di un remoto passato, vacillano gli architravi su cui poggia l’Occidente. E non c’è da stu­pirsi se, in questo humus ereditato, i figli disorientati cercano, senza tro­varli, una direzione, e degli argini, co­me un fiume smarritosi sulla strada del mare.

Ma qui il professor Ratzinger passa la mano al padre: e sollecita a ritro­vare la passione dell’educare. A libe­rare l’io dalla gabbia della fasulla au­tonomia in cui la modernità l’ha chiuso, e a spingerlo di nuovo al suo destino. Che è altro da sé: è la faccia, per prima, della madre, e poi i mille volti dell’altro, e quel Dio che sta die­tro quei volti, e domanda di essere liberamente riconosciuto. E no, «non è una didattica, o una tecnica», edu­care: è abitare famiglie, scuole, par­rocchie dove si incontrino facce cre­dibili nell’annunciare che c’è un de­stino per ognuno, ed è buono.

Poi, la lezione di Benedetto si fa an­cora più audace. Torniamo, dice, «a proporre ai figli la misura alta e tra­scendente della vita, intesa come vo­cazione ». Vocazione al matrimonio come al sacerdozio; 'vocazione', co­munque, a significare che la vita è ri­sposta a una chiamata, è adesione a un disegno non nostro. E certo, que­sta è l’antica visione della Chiesa; ma provate, oggi, in un crocchio di ra­gazzi fuori da una scuola, ad affer­mare che la vita non è «autorealiz­zazione » ma vocazione, adesione al disegno di Dio su ciascuno. Tanti vi guarderebbero come dei poveri fol­li; perché, cresciuti nella idea del­l’uomo «come un io completo in se stesso», sono magari generosi, entu­siasti, altruisti; e però in un espan­dersi, comunque, di un io che si con­cepisce come origine e orizzonte di ogni gesto. Poche cose sono lontane da noi, gente del terzo millennio, co­me la parola 'vocazione'; come l’i­dea che la felicità possa essere nell’a­desione ai piani di un Altro.

Eppure, non è forse proprio questo il nodo più profondo della opaca fa­tica di educare? Siamo 'nostri', o ap­parteniamo a un Padre? Siamo mo­nadi proprietarie di sé, o figli, e fra­telli, chiamati insieme a un destino? La sfida accolta dalla Chiesa italiana nel mettere davanti a tutto, per die­ci anni, l’educazione, è grande. A questa Chiesa il Papa indica un oriz­zonte radicale. Educare cristiana­mente è testimoniare ai figli, nella dittatura dell’io, nel trionfo orgo­glioso dell’umana scienza e potenza: bambino, tu sei di Dio, e quella feli­cità che fin dai primi passi insegui e cerchi – come a tentoni, ostinata­mente – abita, davvero, solo in Lui.
MARINA CORRADI

lunedì 17 maggio 2010

Ruini: l’educazione? Amore e libertà

"Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale. Occorrono maestri, e ce ne sono, che consegnino questa tradizione alla libertà dei ragazzi, che li accompagnino in una verifica piena di ragioni, che insegnino loro a stimare ed amare se stessi e le cose. L’educazione comporta un rischio ed è sempre un rapporto tra due libertà."


« In termini laici si può dire che il no­do di fondo della questione educa­tiva è la presenza, o l’assenza, di fi­ducia nella vita. In termini religiosi bisogna parlare della speranza cristiana, a cui Bene­detto XVI ha dedicato non a caso la sua se­conda enciclica. Quella speranza affidabile che, sola, può essere l’anima dell’educazione,come del­l’intera vita». È questa, secondo il cardina­le Ruini, la prima radice di quella “emergenza educati­va” denunciata dal Papa due anni fa, ma già da molto pri­ma percepita dai genitori e da chi lavori ad educare. Tema vivo e spesso dolente, e l’au­ditorium di Assolombarda, a due passi dal Duomo, è affollato nel convegno annuale dei Centri Culturali Cattolici della diocesi di Mi­lano.

Cosa rende così difficile oggi educare? La lec­tio magistralis di Ruini parte da una analisi delle correnti che pervadono la cultura con­temporanea. Primo, il relativismo per il qua­le, dice, «lo stesso parlare di “verità” viene considerato pericoloso e autoritario». Secon­do, il nichilismo: la “morte di Dio” annuncia­ta da Nietzsche, la sua scomparsa dall’oriz­zonte culturale, «che è alla radice della cadu­ta di tutti i valori». Terzo, aggiunge il cardina­le, il “naturalismo”, inteso come pensiero che tende a ridurre l’uomo al puro risultato di un’e­voluzione biologica. Pensiero che «contrasta radicalmente con l’idea ebraico - cristiana del­l’uomo come immagine di Dio», e nega una insormontabile differenza ontologica dell’es­sere umano. Andando a contestare quindi il primato assoluto della persona, ciò per cui, come disse Kant, l’uo­mo deve essere sempre un fine e mai un mezzo.

Ci troviamo dunque, è il senso del­la diagnosi di Ruini, a educare dentro una antropologia profon­damente cambiata; dobbiamo formare uomini, mentre il con­cetto stesso di “uomo” è stato al­terato. Poco prima Francesco Bot­turi, ordinario di Filosofia morale alla Uni­versità Cattolica di Milano, si era chiesto «che cosa ci rema oscuramente contro», nel tenta­tivo di educare; e rimandando alla “Caritas in veritate” diceva del nostro vivere «dentro un orizzonte tecnocratico, incapaci di trovare un senso che non sia prodotto da noi stessi». Due analisi, dunque, da Botturi a Ruini, conver­genti: i figli sono sempre gli stessi, ciò che va­cilla è la idea stessa dell’uomo; chi sia, e se ap­partenga a un creatore, o solo a se stesso.

Ma dentro a questa metamorfosi che ci per­vade e ci forma più di quanto non ricono­sciamo – Ruini parla di una “volgata” scienti­sta nei media e nella scuola, che quotidiana­mente forma i suoi discepoli – bisogna co­munque educare. Come? Il cardinale indica delle “piste” concrete. La prima base, dice, è sempre nella vicinanza e nell’amore; nel reci­proco amore, anche, fra i genitori, che gene­ra nei figli fiducia nella vita (la stabilità del ma­trimonio, aggiunge, non è quindi solo una questione pri­vata). Poi, il rapporto fra li­bertà e disciplina va liberato dall’errore di marca sessan­tottina, per il quale ogni di­sciplina è autoritarismo. La di­sciplina è necessaria, è però educare è sempre “incontro fra due libertà”: «occorre dun­que accettare il rischio della libertà, il “rischio educativo”, come diceva Giussani. Perché la libertà dell’uomo è sem­pre nuova, e anche i più grandi valori del pas­sato non possono essere semplicemente ere­ditati, ma vanno fatti nostri un una spesso sof­ferta scelta personale». E ancora dobbiamo riscoprire il rapporto fra educazione e espe­rienza del dolore: «nella mentalità comune il dolore è quell’aspetto oscuro della vita da cui in ogni caso bisogna preservare i giovani. Co­sì però cresciamo persone fragili e poco ge­nerose. Occorre invece non censurare la sof­ferenza, e non lasciare senza risposta le do­mande che essa pone». Ma, tornando alle radici della “emergenza e­ducativa”, serve – e quanto, prima di tutto a­gli adulti – «un fondamento solido, su cui si possa costruire». Ruini individua questo fon­damento appunto nella «fiducia nella vita», che per i credenti è la speranza nella salvez­za di Cristo. Speranza, aggiunge, oggi insidia­ta da molte parti, tanto che un fi­losofo non credente come Ha­bermas ha descritto la perdita collettiva della fiducia nella sal­vezza come il carattere nuovo del­l’Occidente. E tuttavia, senza quella speranza siamo come i pa­gani descritti da Paolo: «senza speranza e senza Dio nel mon­do ». E allora, conclude il cardi­nale, «un punto di partenza per ri­spondere alla sfida di oggi può essere nella ve­rità contenuta nel nichilismo: è vero cioè che, senza Dio, tutto manca di fondamento».

Questioni poderose alla radice della fatica a e­ducare. È il grande tema del Progetto cultura­le e dei prossimi orientamenti pastorali della Cei. Ma anche della “alleanza educativa” che la Chiesa italiana vuole proporre a tutto il Pae­se. Dentro una fiducia laica o dentro una cri­stiana speranza: comunque, insieme per e­ducare e continuare la storia.
MARINA CORRADI

domenica 16 maggio 2010

Benedetto XVI al Regina Caeli: servire Dio con radicalità e coerenza, combattendo il peccato e le seduzioni del mondo.



In Piazza San Pietro, 200 mila fedeli per esprimere vicinanza al Papa

Radicati in Dio, i cristiani combattano le seduzioni del mondo: è quanto affermato da Benedetto XVI al Regina Caeli in una Piazza San Pietro gremita da una moltitudine di pellegrini, che hanno raccolto, con entusiasmo, l’invito della Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laicali ad una manifestazione di solidarietà al Pontefice. Il Papa ha invitato i 200 mila fedeli presenti a combattere il peccato che a volte, purtroppo, "contagia anche i membri della Chiesa".

Una manifestazione di fede e solidarietà, “bella e spontanea”: Benedetto XVI definisce così, al Regina Caeli, lo straordinario colpo d’occhio di una Piazza San Pietro gremita di fedeli, accorsi da tutta Italia per esprimere vicinanza al Papa, che ricambia con affetto e “viva riconoscenza" all’entusiasmo dei pellegrini:
“Vi ringrazio di cuore, cari fratelli e sorelle, per la vostra calorosa e nutrita presenza! Grazie" (Applausi)
Benedetto XVI saluta i fedeli laici italiani accompagnati dal cardinale Angelo Bagnasco e rivolge anche un pensiero speciale ai tanti immigrati che in Piazza San Giovanni in Laterano, assieme al cardinale vicario Agostino Vallini, stanno celebrando la Festa dei Popoli:

“Cari amici, voi oggi mostrate il grande affetto e la profonda vicinanza della Chiesa e del popolo italiano al Papa e ai vostri sacerdoti, che quotidianamente si prendono cura di voi, perché, nell’impegno di rinnovamento spirituale e morale possiamo sempre meglio servire la Chiesa, il Popolo di Dio e quanti si rivolgono a noi con fiducia. Il vero nemico da temere e da combattere è il peccato, il male spirituale, che a volte, purtroppo, contagia anche i membri della Chiesa”.

“Viviamo nel mondo, ma non siamo del mondo”, rammenta il Papa e aggiunge che "dobbiamo guardarci dalle sue seduzioni".

“Dobbiamo invece temere il peccato e per questo essere fortemente radicati in Dio, solidali nel bene, nell’amore, nel servizio. E’ quello che la Chiesa, i suoi ministri, unitamente ai fedeli, hanno fatto e continuano a fare con fervido impegno per il bene spirituale e materiale delle persone in ogni parte del mondo”.

E’ quello, prosegue il Papa rivolto ai fedeli in Piazza San Pietro, che “specialmente voi cercate di fare abitualmente nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti: servire Dio e l’uomo nel nome di Cristo”. Di qui l’esortazione a guardare con speranza al futuro:

“Proseguiamo insieme con fiducia questo cammino, e le prove, che il Signore permette, ci spingano a maggiore radicalità e coerenza. E’ bello vedere oggi questa moltitudine in Piazza San Pietro come è stato emozionante per me vedere a Fatima l’immensa moltitudine, che, alla scuola di Maria, ha pregato per la conversione dei cuori. Rinnovo oggi questo appello, confortato dalla vostra presenza così numerosa! Grazie!” (Applausi)
Prima del saluto ai fedeli, il Papa si era soffermato sulla solennità dell’Ascensione del Signore. L’episodio dell’ultimo distacco del Signore dai suoi discepoli, ha detto, non rappresenta un abbandono, giacché Gesù “rimane sempre con loro in una forma nuova”:

“Il Signore attira lo sguardo degli Apostoli verso il Cielo per indicare loro come percorrere la strada del bene durante la vita terrena. Egli, tuttavia, rimane nella trama della storia umana, è vicino a ciascuno di noi e guida il nostro cammino cristiano: è compagno dei perseguitati a causa della fede, è nel cuore di quanti sono emarginati, è presente in coloro a cui è negato il diritto alla vita”.

Quindi, ricordando che oggi ricorre la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, ha messo l’accento sul tema del suo Messaggio per l’occasione, “Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola”:

“Rinnovo poi il mio particolare invito ai fratelli nel Sacerdozio, affinché “nella loro vita e azione si distinguano per una forte testimonianza evangelica” e sappiano utilizzare con saggezza anche i mezzi di comunicazione, per far conoscere la vita della Chiesa e aiutare gli uomini di oggi a scoprire il volto di Cristo”.

Aprendoci la via del Cielo, ha aggiunto, il Signore “ci fa pregustare già su questa terra la vita divina” ed ha concluso con un ricordo dell’emozionante visita al Santuario di Fatima:

"Ringrazio la Vergine Maria, che nei giorni scorsi ho potuto venerare nel Santuario di Fatima, per la sua materna protezione durante l’intenso pellegrinaggio compiuto in Portogallo".

© Copyright Radio Vaticana

venerdì 14 maggio 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón -Milano, 12 maggio 2010

Testo di riferimento: «Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?», Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione (Rimini 2010), Società Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2010.
• Canto “Il nostro cuore”
• Canto “Lela”
«Senza te non posso vivere»: questo è il contraccolpo, il punto sintetico della vita. Volevo incominciare leggendo due lettere. Sono due reazioni agli Esercizi. «Caro Julián, ho deciso di scriverti queste poche righe perché per la mia vita quello che è accaduto in questi giorni di ritorno da Rimini è un’esperienza unica. Per la prima volta ho scoperto in me una commozione reale per
tutte le cose che vivevo; uso la parola commozione perché non trovo altro termine che possa spiegare lo stupore carico di gratitudine per il bene di cui sono oggetto, e come temperamento e personalità non sono certo uno che manifesta molto i propri sentimenti ed emozioni quindi ciò che mi accade è un qualcosa che sicuramente è generato da un Altro: “rinascere di nuovo”. Questa commozione davanti alle cose: le figlie, mia moglie, gli amici, le persone al lavoro, la realtà tutta,
arrivata fino alle lacrime che letteralmente segnavano i miei occhi perché grato dell’esperienza di bene fatta a Rimini. Per la prima volta ho partecipato agli Esercizi [per questo volevo leggerlo] non partendo dall’analisi di me rispetto a quello che dicevi: “Qui non vado bene, questa cosa non l’ho ancora capita, ma perché?”, ma col passare delle ore e ascoltandoti mi sono sempre più scoperto
grato per essere stato preso dentro questo Bene, lieto e desideroso di tuffarmi nel mare della vita».
Mi ha colpito perché è come la descrizione letterale dell’inizio del capitolo decimo de Il senso religioso: non è prima di tutto l’analisi, ma il contraccolpo che provoca il reale (in questo caso un evento cristiano), poi uno – dice il don Gius – incomincia a identificare i volti, i tratti delle cose e poi incomincia a riconoscere l’io. Lasciarsi coinvolgere in questo è l’avvenimento cristiano, e può
capitare anche arrivando agli Esercizi scettico e arrabbiato come quest’altro: «Ho incominciato il venerdì e il sabato molto scettico, leggevo quella frase (“Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?”) e dicevo: “No, non è possibile, ma che ci sto a fare qui?”. Non potevo nemmeno sopportare i miei amici. Poi hai incominciato a parlare di quel ragazzo, quello che ti contestava in aula, anche lui era scettico; forse per questo mi sono inchiodato a sentire di botto, ho smesso di prendere gli appunti che prendevo controvoglia fino a quel momento, e mentre parlavi ero sempre
più inchiodato, sembrava durasse un’eternità, ogni parola era uno strano invito, bello. Piano piano mi stavo svegliando: “‘Secondo te, allora, la posizione più adeguata, la recondita partenza rispetto al reale, è il sospetto?’. ‘Certo che è il sospetto. È così evidente… Non penserà mica che sono scemo’. ‘Allora, secondo quanto mi dici, quando stamattina tua mamma ti ha messo davanti la tazza di caffè per la colazione, hai detto: Io non la bevo fin quando non la analizzo chimicamente per
assicurarmi che non ci sia dentro il veleno’. Ancora ricordo la reazione del ragazzo che, con la faccia arrabbiata, alza le mani e dice: ‘Ma sono sedici anni che abito con la mia mamma!’”. Di botto mi sono messo a piangere: una simpatia per la mia rabbia, per il mio scetticismo, qualcuno ha simpatia per me come sono. Sono tornato in albergo e non odiavo più nessuno, giuro che mi è preso un colpo, non ci potevo credere: “Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?”. “Sì”. Ho capito una cosa: ho sempre pensato che il problema non fosse la mancanza di umanità, dicevo
sempre: “Cavoli, di desiderio ne ho quanto ne vuoi!”. Ma in un uomo c’è molto di più: la libertà.
Non ci avevo mai pensato, non basta il desiderio dell’infinito, bisogna anche volerlo, bisogna voler rinascere. Strano, questo: uno può non volere il proprio bene; strano, assurdo, ma verissimo, io sono il testimone di me stesso in questo, tutta quella dinamica della libertà l’ho toccata fino nelle viscere

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lì, sulla sedia, non so perché è successo così questa volta, ma così è molto meglio, non mi è tolto il dolore. Essere voluti bene nel dolore è meglio del dolore e basta».
Lo rileggo all’inizio di questo lavoro sulla Scuola di comunità perché qualsiasi sia la situazione in cui uno arriva questa sera o arriverà alle prossime, la questione è se mantiene qualche spiraglio per lasciarsi colpire. Il problema non è che dobbiamo essere bravi o non arrabbiati o non stanchi; noi arriviamo qui come tutti, poveracci, non è questo il problema. L’unico vero problema è se io, quando accade una cosa così, mi lascio colpire; non occorre alcun’altra cosa, occorre lasciarsi
colpire, questa semplicità di cui abbiamo parlato (perché adesso, siccome abbiamo fatto le lezioni, abbiamo tutti i fattori davanti e possiamo capire che elemento della vita è in gioco davanti al reale). Ho iniziato così, stasera, perché ciascuno di noi deve desiderare questo, come dice lui: deve voler rinascere.


Io vorrei capire che cosa vuol dire educazione all’attenzione e all’accettazione nella circostanza che sto vivendo.
Siamo già alla seconda lezione o siamo ancora all’introduzione?

Lo so, però in realtà muove da una considerazione che tu hai fatto nell’introduzione. Quando tu la prima sera agli Esercizi hai detto che Cristo risorto è la nostra speranza, io mi sono resa conto che per me non era una cosa vera. Ti racconto un fatto in cui mi si è reso evidente questo. Proprio la
sera prima di partire per gli Esercizi mi trovavo alla festa di dottorato di una mia collega (io lavoro in università e ho fatto un dottorato); era circondata da un sacco di amici che le facevano festa, era contenta, serena, perché adesso ha un assegno di ricerca che le permette di continuare a fare il lavoro di ricerca in università, ha il moroso... A un certo punto, immersa nella festa, mi sono
estraniata e ho incominciato a pensare che io ero gelosa di lei, perché in questo momento ha tutto quello che io desidero, ma che a me non è dato (non ho la possibilità di continuare le ricerche che vorrei fare, la mia vocazione è tutt’altro che chiara, talvolta mi sembra che le amicizie vengano meno). Ho avvertito come un senso di sgomento e mi sono detta: «Beh, io potrei dire che ho Gesù» (lei si dichiara atea), però nel momento in cui dicevo e pensavo questa cosa («Io ho Gesù»), mi sono resa conto che non era vero, che era falso, che in quel momento per me Gesù non vinceva, non vince. Sono come al punto di partenza che tu dicevi la prima sera degli Esercizi, che a me, tocca fare quel lavoro che tu dicevi. Io però desidero capire cosa vuol dire in concreto per me in questa circostanza che sto vivendo; tu insistevi sulla mancanza dell’umano, ma a me sembra di mettere in gioco il mio umano; parlavi di educazione all’attenzione e all’accettazione, che cosa io non sto
accettando? Perché a me pare di mettere a tema dei desideri che sono strutturali, fondamentali: la prospettiva lavorativa, la vocazione, gli amici. Io ho bisogno di un aiuto, perché mi rendo conto che altrimenti la vita è un’arrabbiatura, e questo si vede anche all’esterno, e a me dispiace perché Gesù è venuto per cambiare la vita.

La cambia come abbiamo visto. Ti ringrazio, perché questo intervento veramente ci rende tutti consapevoli dell’inizio degli Esercizi, cioè del lavoro da fare (mi sono arrivate tante altre testimonianze di questo tipo, che adesso non leggo perché il problema è già chiaro). Perché? Perché questo è un esempio di quello che dicevamo: «Cristo è risorto! […] Questo è l’avvenimento che domina la storia, un evento che nessuno sbaglio nostro o dei nostri fratelli può far fuori e che tutto il
male che possa capitare non può cancellare. […] Non c’è una novità più grande [nemmeno la festa di dottorato della tua amica], non c’è mai stata una novità più grande che il fatto che Cristo è risorto. [...] Ci ritroviamo insieme questi giorni per viverli sotto la pressione di questa commozione […]. È successo: che luce, che respiro, che speranza porta alla vita questo fatto! […] È la Sua presenza vittoriosa in mezzo a noi che ci spinge a continuare il nostro percorso per cercare di
superare sempre più la frattura tra il sapere e il credere, affinché questo fatto riconosciuto dalla fede determini la vita più di tutto il resto. Se invece questo fatto rimanesse soltanto a livello pio o devoto, sarebbe come se non ci fosse stato, come se non avesse tutta la densità di realtà per cambiare la vita, per incidere sulla vita; e allora resteremmo determinati da tutto il resto [da tutto
quello che vediamo che non va], che ci travolge, che ci confonde, che ci scoraggia, che ci impedisce

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di respirare, di vedere, di toccare con mano la novità che Cristo risorto ha introdotto». È la documentazione del percorso che occorre fare, perché siamo davanti a un’alternativa: o Cristo non è risorto, e allora meglio che ce lo diciamo adesso e andiamo a dormire, o è veramente risorto. Ma questo sembra non toccare la nostra vita come un fatto reale. Questa è la questione: la frattura tra quello che io affermo come dato e quello che io percepisco. E tutti gli Esercizi sono stati il tentativo di offrire il percorso che dobbiamo accompagnarci a fare lungo questi mesi per vincere questa frattura. Perché, come vedi, è soltanto se tu sei determinata dalla Risurrezione che diventi libera da tutte le gelosie: quando tu vivi un’esperienza di pienezza, del resto puoi fare a meno. Senza fare questo percorso che ci suggerisce don Giussani rimangono il vuoto, lo iato; non perché Cristo non
sia risorto – questo non dipende da te e non dipende da me: è successo, punto! –, ma perché non determina ancora la vita, perché è come se non avesse la densità di realtà che ha qualsiasi altra cosa che tocchi. Se tu avessi la stessa consapevolezza esistenziale di Cristo risorto come l’avevano Pietro o Maria Maddalena, tu alla festa della tua amica avresti pensato: «Peccato che lei celebri soltanto
questa festa, perché ce n’è una molto più bella». Perché senza Cristo risorto quanto tempo le durerà questa gioia che tu adesso invidi, di cui tu sei gelosa? Quanto tempo? Ma tu non hai partecipato a tante feste nella vita? E quante volte ti è capitato di sorprenderti a dire: «E quanto dura?». Noi vogliamo che non finisca male non questa o quella festa, ma la festa totale della vita! Se siamo disponibili a questo percorso, vedremo che cosa succede. Aspetto che tu, tra qualche settimana, me
lo dica.

Il 16 maggio abbiamo la cresima di mio figlio; appena saputo di Roma abbiamo chiesto in tutte le parrocchie del mio paese di poterla spostare, ma non c’era verso e quindi abbiamo archiviato la vicenda. Poi, domenica sera, rientrato dagli Esercizi, stavo bevendo il caffé con mia moglie e ci siamo detti: «Ma a noi che cosa interessa? Certo, rispondere a quello che il Mistero ci sta chiedendo, ma siamo sicuri di averle provate tutte?». Verificato che per nostro figlio non sarebbe
stato un problema, abbiamo così pensato di provare nelle parrocchie più lontane e alla fine, con un po’ di peripezie, siamo riusciti a spostare la cresima; con le stesse peripezie ci siamo mossi ieri per trovare il modo per andare a Roma, e così nella mia famiglia andiamo giù in cinque con cinque mezzi diversi e anche i soldi alla fine non sono più un problema. Oggi continuavo a chiedermi:
«Ma perché ho fatto questo?». Mi sono risposto con quella frase semplice che ti ho sentito dire un anno fa: «Se una cosa ti interessa, corri»; mi sembra che il mio cuore mi porta là come un innamorato che va a manetta in strada per andare da lei, non conosce ostacoli. Uno corre se c’è un uomo vivo che ti aspetta; io voglio andare a Roma ad abbracciare mio padre, e la scoperta più grande che posso fare oggi è che inizio a intuire che posso godere la mia vita dentro l’opera che fa un Altro, per cui la vita mi sta diventando più semplice, perché basterebbe solo stare a come Lui
sta accadendo (poi io la complico sempre, perché ci voglio sempre mettere del mio).
Esatto.
Capisco che in questo momento la cosa più importante che il movimento ci sta indicando è il gesto di domenica a Roma; e capisco che il rischio mio è quello di aderire a una proposta in modo cieco: «Bisogna fare questa cosa». Io – ripensando a quanto è successo all’incontro del Papa coi movimenti di qualche anno fa – domenica a Roma non voglio perdere una possibilità per me. Volevo chiederti un aiuto su questo, per non perdere niente.

Collegato a questo vi leggo una e-mail che mi hanno mandato. «Dopo il tuo invito ad andare al pellegrinaggio a Roma che hai fatto agli Esercizi io ho deciso di schianto di aderire, cambiando tutti i piani, perché la proposta era per me; non potevo delegare, perché rinunciare sarebbe stato un non volermi bene. Ora mi rendo conto che la questione in gioco va ben oltre il semplice fidarsi di te
(cioè di uno a cui vuoi bene e che è per te come un padre), ma che anche questo pellegrinaggio è innanzitutto per verificare la pertinenza della fede alle esigenze della vita, come sempre ci ripeti. Io parto per Roma con questa domanda: “Chi sei Tu, Cristo, che mi fai muovere così, che fai muovere un popolo così?”; senza questo mi sembra a volte che il semplice seguire non sia un vero obbedire».

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Su questo vi racconto un episodio che mi è capitato la settimana scorsa e che è esemplificativo di tante conversazioni che io e altri abbiamo avuto. Proprio il giorno che avevo lezione in Cattolica, poco prima don Pino aveva fatto una riunione con tutti i ragazzi della comunità che non si erano ancora iscritti per Roma, ridando loro tutte le ragioni e sfidandoli in maniera commovente. Io sono
venuto a saperlo perché durante le pause tra un’ora e l’altra molti si sono avvicinati a me per discutere – reagendo a quello che aveva detto don Pino – se andare o meno. Allora sono stato costretto a dare delle ragioni, e mi è venuto un esempio che voglio riportarvi, perché dopo gli Esercizi è più facile identificare la dinamica della nostra mossa. Una ragazza mi dice: «Io ho fatto la catechista ai bambini della prima comunione per tutto un anno, la celebrazione è proprio quella
domenica, e allora mi sembra normale che io resti qua». Vedete? Prima uno riduce la realtà, nel primo approccio della libertà, e poi decide su una realtà già ridotta. Non occorreva darle tante spiegazioni sul gesto di Roma, le aveva già sentite tutte, ma le ho detto: «Ma se tuo papà avesse un incidente quel giorno lì, tu andresti alla prima comunione?». È rimasta disarmata, perché ha capito che davanti a una ragione di questo calibro cambiava tutta la prospettiva. Ho incalzato: «Vedi? Il
tuo problema è che la ragione che il movimento ti offre per andare a Roma non ha abbastanza potenza, non è sufficiente per rendere ragionevole il non andare alla prima comunione e per dire ai tuoi bambini che hai qualcosa di più importante da fare e che questo coincide col loro bene. Davanti a queste cose io adesso non voglio decidere al tuo posto, ti dico: guarda bene se la ragione che ti dà il movimento è veramente sufficiente o no per venire». La libertà di questa ragazza non poteva
mettersi in moto correttamente perché non aveva ancora capito la portata del gesto, e quindi lo metteva allo stesso livello degli impegni del catechismo. Vedete? La libertà si gioca nella scoperta del reale; se io nella scoperta del reale riduco il reale, che cosa succede? Che la mia libertà decide su una realtà già ridotta, che entra in conflitto con alternative di per sé imparagonabili. Allora non
sappiamo che cosa decidere. La questione è capire la portata della realtà. Ci sono alcuni di noi che avevano prenotato per andare alla Sindone e rinunceranno; e alcuni di noi che andranno alla Sindone mentre noi saremo a Roma. Ma vi chiedo: noi della Sindone, o di tante altre cose della vita cristiana, ci interesseremmo se non avessimo incontrato il movimento? È chiara la contraddizione?
Chi fa così non vincerà la confusione più totale, perché anche se affermano degli aspetti pur belli e pur veri, questo non basta a tenere unita la persona al nucleo centrale della fede. Per questo noi dobbiamo aiutarci a capire perché andiamo a Roma: non andiamo a Roma per sostenere il Papa, che non ha bisogno del sostegno nostro – basta e avanza lo Spirito Santo: «Sarò con te perché tu possa sostenere i fratelli», dice Gesù a Pietro –, ma perché noi abbiamo bisogno del Papa! Noi vogliamo
essere sostenuti da lui, vogliamo domandare a Dio che vinca sempre il legame con il punto storico del Papa, che ci impedisce di smarrirci e di cadere nella confusione più totale. Come insegna il protestantesimo, basta togliere questo punto storico, di per sé assolutamente fragile, e tutto va per aria. Noi andiamo a chiedere questo, che il Signore e la Madonna ci concedano di mantenere saldo questo legame. A chi, dentro e fuori la Chiesa, pensa con questi attacchi di riuscire a tagliare questo
legame, noi vogliamo dire con la nostra ragione, con la nostra libertà, con la nostra adesione, con la nostra preghiera, con il nostro grido a Cristo, che questo legame per noi è sacro! Per questo andiamo a Roma, perché è in gioco la fede; non è un gesto pio, non è un gesto tra gli altri, non è una gita; è che quando si cerca di slegarci da Pietro, noi diciamo di no. Chiaro? È abbastanza ragionevole? Ciascuno decida; come vedete, davanti a una proposta di questa portata, a tutti noi è
chiesta la messa in moto della ragione e della libertà, non è un semplice salire sul tapis roulant, ma è il darci le ragioni per andare dal Papa veramente con tutta la consapevolezza e tutta la domanda dentro: il Signore ci leghi a questo punto nel quale c’è – come dicevamo l’altra volta – l’àncora storica della nostra fede!


Per la prima volta ho frequentato gli Esercizi della Fraternità, ed è stata talmente un’esperienza straripante che ho desiderato essere qui questa sera. Dopo gli Esercizi la domanda che avevo prima, leggendo la Scuola di comunità sull’assemblea della carità, mi è comunque rimasta. In uno dei momenti più difficili della mia vita, nel quale dovevo operare delle scelte molto importanti, una
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ragazza assistita da me attraverso il Banco Alimentare mi aveva chiesto di andarla a trovare «al di là del pacco». Questa cosa già mi aveva colpito, però io ero talmente dentro a un’apocalisse che le avevo risposto un vago: «Sì, ci vediamo presto». Poi, dibattuta e distratta dalle mie vicende e sempre con troppo poca di fede nella grazia del Signore presente, ho aspettato un bel po’, troppo.
Quando mi decido ad andarla a trovare, la trovo pronta ad andare ad abortire il terzo figlio dal terzo padre diverso di lì a ventiquattrore; aveva già fatto la visita dall’anestesista. Lei mi aveva chiamato e io non avevo risposto, Cristo mi aveva chiamato e gli ho posto resistenza: non ho risposto. Un dolore acuto, una gran disperazione mi è presa e poi la preghiera che implora il perdono: «Ti prego Gesù aiutami, io Ti ho visto, adesso Ti vedo proprio». Ho cercato tutti gli amici
che potevano darmi una mano: proposte, soluzioni, collaborazioni, la promessa di una
condivisione. Salto tutto il resto. Bene, pochi giorni fa io e i miei amici siamo stati al Battesimo di questo bimbo che lei ha voluto chiamare Pietro. «Lo chiamo Pietro come il capo della Chiesa». Noi eravamo lì con lei e tutti i suoi parenti (ex galeotti, tossici, c’è di tutto), e poi i fuochi d’artificio, la festa con il karaoke... Che miracolo, amici, il Signore è sempre in azione ovunque, non Lo ferma
nulla pur di conquistare il nostro cuore. Ieri mattina prima di andare al lavoro, mentre tagliavo i peperoni, ho detto: «È strano come in questi giorni si sopporta meglio il freddo e la pioggia; in inverno ti copri ben bene, sei quasi rassegnato all’idea dei grigiore; in questi giorni, già svestiti e quasi allucinati da quei primi giorni di caldo e di sole che ci avevano avviato a un’ipotesi estiva,
siamo pronti a tutto. E con quale coraggio ci accontentiamo di un leggero raggio di sole continuando a tenere a tratti spalancate le finestre di casa». Ho sorriso che mi possa sorprendere a pensare a questo, non perché io sia impazzita rispetto all’estate, ma è immediata la similitudine con ciò che sto vivendo: sono svestita, quasi nuda perché non ho i soldi, ho dei figli sbalconati, ma non m’importa più niente, questi sono diventati particolari assolutamente marginali perché so – ne
sono certa ed è indiscutibile – che da un momento all’altro esploderà l’estate, piena di tutto ciò che hai desiderato e non ti mancherà più nulla. E nonostante il disagio della mia nudità, domani, fra un attimo, ora che lo sto vivendo, la luce e il calore estivo mi daranno tutto ciò di cui io ho bisogno.
Tutto questo, caro Carrón, mi sembra fantastico...
Ti sembra o è?
È: è il centuplo; non è un delirio mistico, perché è tre anni che dura questa cosa.

Tu hai poco delirio mistico, mi sembra.
Allora nell’assemblea sulla carità leggo che «è giusta la carità, tant’è vero che ti dà il centuplo quaggiù, ma tu non lo fai per avere il centuplo: se calcoli per avere il centuplo, ti brucia via il poco che hai». Ecco, io qui mi sono spaventata, perché provo tutti i giorni il centuplo, e mi sembrerebbe disumano non desiderarlo...

Non lo puoi non desiderare. La questione è che quando tu sei sotto la pressione di questa commozione, tu hai un rapporto con il reale gratuito e non cerchi il tornaconto.

Io ho una domanda: che rapporto c’è tra il fatto che la vita è un cammino (un po’ lo hai già accennato agli Esercizi, però voglio capirla bene) e il fatto che la verifica è nell’istante del rapporto con il reale? Perché io mi rendo conto che ci sono tanti istanti in cui posso dire che questo Tu domina, e posso dire anche che ci sono tanti istanti in cui questo Tu non solo non domina, ma non lo lascio neanche entrare nell’orizzonte. E mi rendo conto che la riduzione della creatura nuova a una irreprensibilità etica in me, tante volte, non è solo una cosa che mi abbatte
moralmente, ma che diventa la giustificazione per non fare il lavoro; è come se in fondo in fondo (non lo esplicito teoricamente perché so che sarebbe ridicolo farlo) il sottopensiero fosse: non ce l’ho fatta un’altra volta. L’osservazione è legata a quando tu dicevi che l’accusa di ipocrisia è la cosa più adeguata, perché il problema non è di intelligenza, ma è di moralità, cioè di disponibilità.
Ecco, tante volte è come se io i fatti che mi accadono, che sono il segno della Sua presenza, li giudicassi con una ragione e una libertà che è già sospesa dal rapporto con Cristo, al di fuori del rapporto con Cristo, e mi rendo conto che è una fregatura, perché concepisco il rapporto con Cristo come se non Lo avessi incontrato, pur avendoLo incontrato. Studiando la Scuola di
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comunità mi è ritornata una risposta che Giussani dà: «Nessuno di noi è capace di essere se stesso
[...] se non stende la mano e mendica da Dio che, dopo di averlo fatto, lo compia». L’ho percepita
agli Esercizi come una questione esistenzialmente molto drammatica: che la difficoltà non è che io
non ho fatto l’incontro, ma che nell’istante mi concepisco al di fuori del rapporto con Cristo.

Ma questo che cosa vuol dire? Qual è la differenza fra il bambino che sbaglia e l’adulto che sbaglia?
Che il bambino non interrompe questo legame, non può vedere neanche il suo sbaglio senza vederlo abbracciato dalla mamma un istante dopo. Invece a noi che cosa succede? Che pensiamo che in fondo dobbiamo cavarcela da soli. Non appartiene alla percezione abituale di noi stessi ciò che per il bambino è evidente, che non ce la fa. Per noi questa nostra fragilità è come una tappa da superare.
E pensiamo che, come noi ci arrabbiamo con noi stessi, così si arrabbia il Mistero con noi, proiettiamo su di Lui la nostra stessa misura. E così interrompiamo il legame. Cosa succede appena uno ti fa del male? Si introduce una distanza; capita anche con la persona a cui vuoi più bene.
Proprio questo è il male del male: colpire al livello del legame che introduce alla conoscenza vera. Per questo la vera questione non è non sbagliare – se fosse non sbagliare, saremmo finiti –, il problema è che il nostro legame sia più potente, determini la vita di più del nostro sguardo parziale.
Lo vediamo in Gesù: il male che subisce Gesù non ottiene lo scopo di staccarlo dal Padre.
Esattamente come vorrebbero staccarci dal Papa; non ci riusciranno non perché noi siamo più bravi, ma nella misura in cui domandiamo che prevalga la Sua presenza su qualsiasi possibilità di errore.


Anch’io voglio dirti di Roma. Siamo una famiglia con quattro figli. Domenica ci sono le cresime dei
bambini e il mio terzo figlio riceverà la Cresima. Di fronte a questo io e mia moglie abbiamo da subito deciso e dato per scontato che a Roma non si andava. La questione è cambiata perché domenica scorsa la seconda figlia ci ha detto che sarebbe voluta andare a Roma. Sapendo dell’affezione che lega i miei figli tra loro, rimango abbastanza stupito di questa decisione, ma dico con mia moglie che se la sua libertà le fa dire: «Vado», è importante che vada (tanto, penso fra me e me, la figlia maggiore non va e resta a casa per aiutarci a vivere il gesto della Cresima). Lunedì sera a cena anche la figlia maggiore ci dice che vorrebbe andare a Roma insieme con i suoi amici, dandoci le stesse ragioni che tu davi prima. A questo punto io e mia moglie non abbiamo che dovuto arrenderci di fronte a questa Presenza che si affermava, e abbiamo capito che la grandezza del gesto di Roma era più grande di qualsiasi altro progetto nostro, e che il «sì» delle mie figlie coincide con il «sì» di mio figlio ad accogliere lo Spirito nella Cresima.

Grazie. Allora ci vediamo a Roma.
Per lavorare sugli Esercizi, per incominciare a riprendere tutto quanto ci siamo detti, occorre partire dalla domanda o dalla ferita che abbiamo dentro, come abbiamo visto; perché se non censuriamo la domanda, ci renderemo molto più conto del contenuto del libretto. Infatti quando abbiamo una domanda, un’urgenza nella vita, siamo tesi al lavoro; quando ascoltiamo gli amici, quando sentiamo raccontare qualche fatto, se abbiamo una preoccupazione e siamo aperti, tutto ci parla di più.
Occorre l’umano per capire, e allora tutto diventa parte dell’avventura della conoscenza e perciò del significato; non abbiamo fretta di appiccicare le risposte, lasciamo aperte le domande perché la risposta venga dalla vita, dalla lettura, dall’esperienza, in modo che emerga la convenienza della fede nelle esigenze della vita.
È uscito Tracce di maggio con allegato il libretto degli Esercizi della Fraternità. Tracce è un esempio di uno sguardo sul reale nato dall’esperienza del movimento. Immedesimarci, leggerlo, non soltanto per sapere le notizie, ma per sapere come sono raccontate, per imparare uno sguardo, immedesimarci con la modalità di questo sguardo aiuta ad imparare uno sguardo, cioè un giudizio diverso, anche sulle altre notizie che ci arrivano e ci colpiscono, dai giornali, dalla televisione
eccetera, e a non essere disarmati davanti a queste notizie senza saper reagire nel modo adeguato.
Diceva una persona in una delle e-mail che avete mandato come il lavoro che stavamo facendo la trova meno disarmata davanti alla realtà, e siccome qui non possiamo affrontare ogni questione, incominciare a immedesimarci con quello sguardo nel modo di vedere le cose di tutti è una parte di

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questa educazione per vincere questo dualismo, questa frattura tra il sapere e il credere. Ciò che a me preme è che uno non resti disarmato, ma che sia in grado di giudicare, perché se giudica, allora sa distinguere cosa c’è di vero, cosa c’è di reale, cosa c’è di attendibile o non attendibile in una notizia che sente.
Tracce è uno strumento fondamentale per imparare questo sguardo e l’editoriale è
un aiuto a comprendere bene le ragioni del nostro andare a Roma dal Papa il 16 maggio per il Regina Coeli.
Ci vediamo tutti a Roma; adesso preghiamo, tutti i presenti e i collegati.
• Gloria