venerdì 28 febbraio 2014

I vescovi non siano crociati, ma pastori scelti da Dio e vicini al popolo

Vescovi con Francesco
(©ANSA) VESCOVI CON FRANCESCO

In udienza alla congregazione per i vescovi traccia con un discorso molto personale i criteri per la selezione dei pastori: no a scelte di scuderia, servono vescovi oranti, che annunciano la salvezza. Il concilio di Trento e il cardinale Siri


Vescovi che non siano “apologeti delle proprie cause né di crociati delle proprie battaglie” e non vengano scelti in base a “eventuali scuderie, consorterie o egemonie”. Vescovi che rimangano in diocesi e non vadano in giro per “incontri e convegni”. Vescovi selezionati in Vaticano perché “scelti  dallo Spirito santo”, richiesti dal “Popolo santo di Dio” (“Non esiste un pastore standard per tutte le Chiese”), testimoni della risurrezione, annunciatori della salvezza, pastori capaci di agire non “per sé” ma “per la Chiesa, per il gregge, per gli altri, soprattutto per quelli che secondo il mondo sono da scartare”. Papa Francesco ha concesso stamani una inedita udienza alla congregazione per i vescovi, il dicastero vaticano che selezione i vescovi di tutto il mondo. Ha ringraziato il cardinale prefetto Marc Ouellet, i cardinali, i vescovi, gli officiali per il “compito generoso e impegnativo”. Ed ha indicato, in un discorso lungo e molto personale, i criteri e il senso della scelta dei successori degli apostoli.


Il Papa è partito dalla domanda di rito posta da chi presiede un’ordinazione episcopale alla “Chiesa riunita” che presenta il candidato, “Avete il mandato?”, per spiegare che tale questione “si potrebbe anche esprimere così: Siete certi che il suo nome è stato pronunciato dal Signore”. Di conseguenza, “questa Congregazione – ha detto il Papa nel discorso pronunciato alle 9.30 nella sala Bologna del palazzo apostolico e diffuso in fine mattinata dalla sala stampa della Santa Sede –  esiste per aiutare a scrivere tale mandato, che poi risuonerà in tante Chiese e porterà gioia e speranza al Popolo Santo di Dio. Questa Congregazione esiste per assicurarsi che il nome di chi è scelto sia stato prima di tutto pronunciato dal Signore. Ecco la grande missione affidata alla Congregazione per i Vescovi, il suo compito più impegnativo: identificare coloro che lo stesso Spirito Santo pone alla guida della sua Chiesa”.


“Il Popolo santo di Dio – ha detto Bergoglio – continua a parlare: abbiamo bisogno di uno che ci sorvegli dall’alto; abbiamo bisogno di uno che ci guardi con l’ampiezza del cuore di Dio; non ci serve un manager, un amministratore delegato di un’azienda, e nemmeno uno che stia al livello delle nostre pochezze o piccole pretese. Ci serve uno che sappia alzarsi all’altezza dello sguardo di Dio su di noi per guidarci verso di Lui”. Per questo, “la gente percorre faticosamente la pianura del quotidiano, e ha bisogno di essere guidata da chi è capace di vedere le cose dall’alto. Perciò non dobbiamo perdere mai di vista le necessità delle Chiese particolari a cui dobbiamo provvedere. Non esiste un pastore standard per tutte le Chiese. Cristo conosce la singolarità del Pastore che ogni Chiesa richiede perché risponda ai suoi bisogni e la aiuti a realizzare le sue potenzialità. La nostra sfida è entrare nella prospettiva di Cristo, tenendo conto di questa singolarità delle Chiese particolari”.


Il Papa ha poi ricordato “il momento in cui la Chiesa Apostolica deve ricomporre il Collegio dei Dodici dopo il tradimento di Giuda” per indicare i criteri di riferimento: “C’è bisogno di selezionare tra i seguaci di Gesù i testimoni del Risorto”. Innanzitutto, “il coraggio di morire, la generosità di offrire la propria vita e di consumarsi per il gregge sono inscritti nel DNA dell’episcopato. La rinuncia e il sacrificio sono connaturali alla missione episcopale. E questo voglio sottolinearlo: la rinuncia e il sacrificio sono connaturali alla missione episcopale. L’episcopato non è per sé ma per la Chiesa, per il gregge, per gli altri, soprattutto per quelli che secondo il mondo sono da scartare”. Pertanto, “per individuare un vescovo, non serve la contabilità delle doti umane, intellettuali, culturali e nemmeno pastorali” e “il profilo di un vescovo non è la somma algebrica delle sue virtù”. Certo servono persone che hanno “relazioni sane”, “solidità cristiana”, “comportamento retto”, “preparazione culturale”, “ortodossia”, “discipilina”, “capacità di governare con paterna fermezza”, “trasparenza” e “distacco nell’amministrare i beni della comunità”, ma “tutte queste imprescindibili doti devono essere tuttavia una declinazione della centrale testimonianza del Risorto, subordinati a questo prioritario impegno”.


Nella selezione dei vescovi di tutto il mondo, la congregazione vaticana deve poi “assicurare la sovranità di Dio”, che è “il vero Autore delle nostre scelte”: “Le scelte non possono essere dettate dalle nostre pretese, condizionate da eventuali ‘scuderie’, consorterie o egemonie. Per garantire tale sovranità ci sono due atteggiamenti fondamentali: il tribunale della propria coscienza davanti a Dio e la collegialità”.


I vescovi devono poi essere “kerigmatici” e annunciare la salvezza: “Uomini custodi della dottrina non per misurare quanto il mondo viva distante dalla verità che essa contiene, ma per affascinare il mondo, per incantarlo con la bellezza dell’amore, per sedurlo con l’offerta della libertà donata dal Vangelo. La Chiesa – ha detto il Papa argentino – non ha bisogno di apologeti delle proprie cause né di crociati delle proprie battaglie, ma di seminatori umili e fiduciosi della verità, che sanno che essa è sempre loro di nuovo consegnata e si fidano della sua potenza. Vescovi consapevoli che anche quando sarà notte e la fatica del giorno li troverà stanchi, nel campo le sementi staranno germinando. Uomini pazienti perché sanno che la zizzania non sarà mai così tanta da riempire il campo”. I vescovi devono pertanto essere pazienti. “Dicono – ha detto a questo punto Bergoglio – che il cardinale Siri soleva ripetere: ‘Cinque sono le virtù di un Vescovo: prima la pazienza, seconda la pazienza, terza la pazienza, quarta la pazienza e ultima la pazienza con coloro che ci invitano ad avere pazienza’”.

Il vescovo, ancora, deve essere “orante”, uomo di preghiera, “capace di ‘entrare in pazienza’ davanti a Dio, guardando e lasciandosi guardare, cercando e lasciandosi cercare, trovando e lasciandosi trovare, pazientemente davanti al Signore”, perché “un uomo che non ha il coraggio di discutere con Dio in favore del suo popolo non può essere vescovo - questo lo dico dal cuore, sono convinto - e neppure colui che non è capace di assumere la missione di portare il popolo di Dio fino al luogo che Lui, il Signore, gli indica”.


Infine, i vescovi devono essere pastori “vicini alla gente”, ha detto il Papa rievocando il suo discorso ai rappresentanti pontifici: “La Chiesa – ha detto citando il testmaneto dell’apostolo Paolo – rimane quando si dilata la santità di Dio nei suoi membri. Quando dal suo cuore intimo, che è la Trinità Santissima, tale santità sgorga e raggiunge l’intero Corpo”. Il Concilio Vaticano II, ha ricordato, afferma che ai vescovi “è pienamente affidato l’ufficio pastorale, ossia l’assidua e quotidiana cura del gregge”. In questo senso, “è importante ribadire che la missione del vescovo esige assiduità e quotidianità. Io penso che in questo tempo di incontri e di convegni è tanto attuale il decreto di residenza del Concilio di Trento: è tanto attuale e sarebbe bello che la Congregazione dei Vescovi scrivesse qualcosa su questo. Al gregge – ha detto il Papa – serve trovare spazio nel cuore del Pastore. Se questo non è saldamente ancorato in sé stesso, in Cristo e nella sua Chiesa, sarà continuamente sballottato dalle onde alla ricerca di effimere compensazioni e non offrirà al gregge alcun riparo”. Il Papa ha concluso augurando alla congregazione per i vescovi di vivere di una “santa inquietudine”.IACOPO SCARAMUZZI

Francesco alla conquista di Facebook

Papa Francesco
PAPA FRANCESCO

In Vaticano si stanno definendo gli ultimi dettagli tecnici in vista dell’imminente apertura del profilo sul celebre social network

Un profilo per Francesco sul più celebre social network. In Vaticano si stanno definendo gli ultimi dettagli tecnici prima per consentire l'apertura della pagina Facebook di papa Bergoglio. Secondo quanto appreso in  Curia da "Vatican Insider", l'operazione è in fase molto avanzata di elaborazione e se ne occupano gli uffici tecnici del Vaticano. In vista dello sbarco del Pontefice su Fb, infatti, la Santa Sede ha assegnato a un équipe di informatici il compito di studiare come ovviare all'eventuale tentativo di pubblicazione sul profilo  di messaggi e contenuti offensivi o inappropriati da parte degli utenti della Rete. 


I dati dimostrano che le nuove tecnologie rappresentano una straordinaria opportunità di diffusione per la predicazione di un Pontefice popolarissimo e apprezzato dai giovani di tutto il mondo. Già adesso, oltre dodici milioni di persone seguono Francesco su Twitter. Inoltre i suoi "cinguettii" sono più retwittati persino di quelli del presidente Usa, Obama e raggiungono una platea di sessanta milioni di utenti.

L'account papale «@Pontifex», voluto da Joseph Ratzinger, era stato inaugurato il 12 dicembre 2012 in otto lingue. Poi il 17 gennaio 2013 è stata aggiunta una nona lingua, il latino, che ha subito suscitato interesse e un sorprendente seguito. Circa 3 milioni di seguaci erano già stati raggiunti il 28 febbraio, giorno della fine del pontificato di Benedetto XVI. Durante la sede vacante l’account è stato sospeso per essere riaperto il 17 marzo, cinque giorni dopo l’elezione di Bergoglio. Da allora si è registrato un crescendo inarrestabile. Attualmente la lingua-record è lo spagnolo, seguita dall’inglese e dall’italiano. Ma non ci sono solo i "seguaci diretti": un numero cinque volte superiori di utenti riceve i tweet di Francesco grazie al fenomeno del re-tweetting. Cioè i messaggi del Papa vengono «re-tweettati», cioè rilanciati dai suoi «amici» e in questo modo, secondo un calcolo per difetto (come osserva monsignor Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali) più di 60 milioni di persone ricevono il tweet del Papa che l’arcivescovo definisce «una pillola», «una goccia di spiritualità e di speranza».


Aggiunge Celli: «Il Papa vuole parlare agli uomini e alle donne di oggi con un linguaggio che è comprensibile e molto usato». Quindi «utilizza 140 caratteri per un suo pensiero e quel tweet che possiamo leggere sul cellulare ci aiuta a capire che c’è una vicinanza, che non siamo soli». Inoltre «anche la presenza del Papa su News.va ha una risonanza in continuo aumento». È «nel silenzio che si può acquistare la capacità di trasmettere concetti e valori che sono fondamentali per la vita dell’uomo contemporaneo». E ciò «con semplicità e immediatezza: in appena 140 caratteri».


Il cardinale Gianfranco Ravasi, ministro vaticano della Cultura, contestualizza teologicamente gli effetti sull’individuo e la società delle innovazioni tecnologiche. «La lingua italiana conta 150 mila vocaboli, mentre i giovani oggi ne usano dagli ottocento ai mille», spiega il porporato. «È mutato il modello antropologico dei “nativi digitali”, quindi un vescovo che non sa muoversi in questa nuova atmosfera si mette fuori della sua missione». Nulla di nuovo sotto il sole. «Gesù anticipa il linguaggio sintetico dei tweet: “Il regno di Dio è vicino, convertitevi”, “Ama il prossimo tuo come te stesso”», precisa Ravasi. 


Già Benedetto XVI, nel messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali del 2011, aveva sottolineato che Facebook e le chat non sono da demonizzare, anzi «permettono alle persone di incontrarsi oltre i confini dello spazio e delle stesse culture, inaugurando così un intero nuovo mondo di potenziali amicizie». Quindi, «bene i social network, però sul Web non createvi falsi profili». Da parte sua Joseph Ratzinger ha elogiato la rivoluzione sociale provocata da Internet, mettendo però in guardia i giovani dal confinarsi solo in territori virtuali e in «un mondo parallelo».


E' stato, infatti, Benedetto XVI a dettare le linee-guida per un uso etico della Rete. Dunque, nella partecipazione ai «social network» e nella ricerca di un sempre maggior numero di «amici» bisogna restare «fedeli a se stessi» e mai cedere a trucchi o «illusioni» come la creazione di una falsa identità attraverso il proprio profilo. I «social network», a cui sempre più persone, soprattutto giovani, partecipano su Internet, offrono «nuove opportunità di condivisione, dialogo, scambio, solidarietà, creazione di relazioni positive». Occorre però «evitarne i pericoli», ossia «il rifugiarsi in una sorta di mondo parallelo o l'eccessiva esposizione al mondo virtuale». Come «ogni altro frutto dell'ingegno umano, le nuove tecnologie della comunicazione chiedono di essere poste al servizio del bene integrale della persona e dell'umanità intera». Se usate saggiamente, «possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l'aspirazione più profonda dell'essere umano». Esistono tuttavia «alcuni limiti tipici della comunicazione digitale: la parzialità dell'interazione, la tendenza a comunicare solo alcune parti del proprio mondo interiore, il rischio di cadere in una sorta di costruzione dell'immagine di sè, che può indulgere all'autocompiacimento». Il coinvolgimento nella pubblica arena digitale, quella creata dai social network, «conduce a stabilire nuove forme di relazione interpersonale, influisce sulla percezione di sé». Dunque, «si pone la questione non solo della correttezza del proprio agire, ma dell'autenticità del proprio essere». E' opportuno chiedersi anche sul Web «chi è il mio prossimo?» per non incorrere nel «pericolo di essere meno presenti verso chi incontriamo nella vita quotidiana».

Le vie telematiche, secondo la lezione di Benedetto XVI, vanno cristianizzate senza «annacquare il Vangelo per renderlo popolare». Proprio Joseph Ratzinger ha stigmatizzato come «un grave danno» il fatto che le tecnologie non siano «accessibili agli emarginati», nel timore di una spaccatura tra Occidente «digitale» e Terzo Mondo tagliato fuori. In più occasioni, fin dall'inizio del suo pontificato, Benedetto XVI ha espresso apprezzamento per la velocità e l’efficienza dei «new media», ma soprattutto per la loro capacità di rispondere «al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre». Un anelito innato al quale viene fornito un nuovo strumento, in grado di favorire contatti, amicizia, arricchimento morale e materiale. Per questo Benedetto XVI ha fornito alcune «istruzioni per l’uso»: rispetto, dialogo, vera amicizia. Attenti, quindi, a non farsi sopraffare da un desiderio di «connessione virtuale» che diventi «ossessivo», e «non giungere a sacrificare i rapporti con la famiglia, i vicini, i colleghi di lavoro, gli amici “reali”, altrimenti la persona si isola e interrompe la reale interazione sociale».


Una preoccupazione che ha ripreso una dura nota di cinque del dicastero vaticano della Famiglia contro la «realtà virtuale» e il monito della Cei per uno «scisma telematico» di fedeli «alienati» in Rete alla Chiesa. Un appello alla responsabilità a «coloro che operano nel settore della produzione e della diffusione di contenuti dei nuovi media», a «impegnarsi al rispetto della dignità e del valore della persona umana». Vanno evitate, quindi, pornografia, violenza e intolleranza, e tutto ciò che «svilisce la bellezza e l’intimità della sessualità umana, sfrutta i deboli e gli indifesi». La Rete potrebbe così dispiegare il suo immenso potenziale «per la vita e il bene della creazione», e diventare strumento di evangelizzazione, affidata da Benedetto XVI ai giovani cattolici. Il primo a richiamare l'attenzione sui «social network» fu nel 2009 il cardinale Ennio Antonelli, all'epoca ministro vaticano della Famiglia, con particolare riferimento alle chat e ai giochi di ruolo in rete, «in cui si entra con identità fittizie per lavorare, fare acquisti, costruire la casa, impiantare aziende, impiegare il tempo libero in modo gratificante, fare incontri interessanti, avere legami affettivi e sessuali, perfino celebrare il matrimonio». Un’«alienazione dalla realtà» che «detta modelli di pensiero estranei ai valori del Vangelo». GIACOMO GALEAZZI

Il Papa: ridare speranza ai giovani disincantati

Educare non è soltanto trasmettere conoscenze. La trasmissione della fede, solo attraverso l’insegnamento di contenuti, sarà superficiale o ideologica. E’ quanto ha detto Papa Francesco rivolgendo stamani un lungo discorso a braccio ai membri della Pontificia Commissione per l’America Latina. La trasmissione della fede – ha detto il Santo Padre - non avrà radici se non sarà accompagnata da comportamenti e da valori. 
Per poter trasmettere la fede, oltre alla divulgazione di contenuti di base, è necessario creare l’abitudine di una condotta, favorire la ricezione dei valori che la preparino e la facciano crescere. La trasmissione della fede – ha detto il Papa - si basa su tre pilastri: utopia, memoria e discernimento. Il primo, importante per i bambini e soprattutto per i giovani, "è la buona gestione dell’utopia". In America Latina – ha ricordato il Pontefice – "una gestione non del tutto equilibrata dell’utopia", come nel caso dell’Argentina, ha portato ragazzi dell’Azione Cattolica ad unirsi, negli anni Settanta, alla guerriglia. Ma saper far crescere l’utopia di un giovane "è una ricchezza". "Un giovane senza utopia è un vecchio precoce". Poi gli altri due pilastri: in un giovane – ha osservato Papa Francesco – un’utopia "cresce bene se accompagnata da memoria e discernimento. L’utopia guarda al futuro, la memoria guarda al passato e il presente si discerne. Il giovane deve ricevere la memoria e piantare le radici della sua utopia in questa memoria; discernere nel presente la sua utopia, il segno dei tempi. Sì l’utopia va avanti, ma è molto radicata nella memoria e nella storia che ha ricevuto. Discernere nel presente – abbiamo bisogno di maestri di discernimento per i giovani! – e già progettato nel futuro”.

La chiave per affrontare "l’emergenza educativa" - ha proseguito - è l’incontro tra generazioni, l’incontro tra giovani e anziani. Questo incontro permette infatti di conoscere il passato e di saper leggere il presente. La fede di un giovane – sottolinea quindi il Papa – matura se non mancano la memoria del passato, il discernimento del presente e l’utopia del futuro. Ma il vero problema nella società odierna è "la cultura dello scarto": "oggi, per l’economia che si è radicata nel mondo, al centro – ha affermato il Santo Padre - c’è il dio denaro e non la persona umana". E quindi "tutto quello che non entra in questo ordine, si scarta. Si scartano i bambini che soffrono, che danno fastidio e che non conviene che vengano", "si scartano gli anziani" e "in alcuni Paesi dell'America Latina c'è l'eutanasia nascosta": sono considerati a volte “materiali di scarto".

E poi ci sono i giovani. Oggigiorno – ha affermato – “dà fastidio a questo sistema mondiale la quantità di giovani ai quali è necessario dare lavoro” e dunque c’è “questa percentuale così alta di disoccupazione giovanile. Stiamo tenendo una generazione di giovani che non hanno l’esperienza della dignità!”. Così, “oggi anche i giovani fanno parte di questo materiale di scarto”. E il giovane che è senza lavoro “anestetizza l’utopia!”. La droga, che "sta distruggendo questa generazione di giovani" e "non è soltanto un problema di vizio", e "la proliferazione di dipendenze", quali la ludopatia, sono alcuni degli ostacoli lungo il cammino delle nuove generazioni. "L’utopia di un giovane entusiasta – ha detto il Papa – oggi si sta trasformando in disincanto". Ai giovani disincantati – ha affermato il Pontefice rivolgendosi ai membri della Pontificia Commissione per l’America Latina – "è necessario dare fede e speranza".

Nel discorso consegnato ma non letto, il Papa ha inoltre sottolineato che la "Chiesa vuole imitare Gesù nell’accostarsi ai giovani". Desidera ripetere che vale la pena seguire l’esempio che ci ha dato. Un esempio di dedizione, di servizio, di amore disinteressato e di lotta per la giustizia e la verità. E’ bello vivere come ha vissuto Gesù, scacciando l’egoismo e lasciandosi attrarre dalla bellezza e dalla bontà. "Chi conosce in profondità Gesù - si legge nel testo - non rimane in poltrona. Si unisce al suo stile di vita ed arriva ad essere un discepolo missionario del suo Vangelo, dando gioiosa testimonianza della sua fede, non risparmiando sacrifici". I giovani ascoltino la Parola di Gesù, ascoltino che Cristo non è un personaggio di una novella, ma una persona viva. I giovani – si legge infine del documento – sperano in noi. Non deludiamoli! "Che le comunità cristiane dell’America Latina e dei Caraibi - ha esortato il Pontefice - sappiano essere vicine, maestre e madri di tutti e di ciascuno dei suoi giovani".

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Il Papa: accompagnare, non condannare, quanti sperimentano il fallimento del proprio amore

Dietro la casistica c’è sempre una trappola contro di noi e contro Dio. E’ quanto affermato stamani da Papa Francesco nella Messa a Casa Santa Marta. Il Papa, commentando il Vangelo odierno, si è soffermato sulla bellezza del matrimonio ed ha avvertito che bisogna accompagnare, non condannare, quanti sperimentano il fallimento del proprio amore. Quindi, ha ribadito che Cristo è lo Sposo della Chiesa e dunque non si può comprendere l’una senza l’Altro.
I dottori della legge cercano di porre delle trappole a Gesù per “togliergli l’autorità morale”. Papa Francesco ha preso spunto dal Vangelo di oggi per offrire una catechesi sulla bellezza del matrimonio. I farisei, ha osservato, si presentano da Gesù con il problema del divorzio. Il loro stile, ha rilevato, è sempre lo stesso: “la casistica”, “E’ lecito questo o no?

“Sempre il piccolo caso. E questa è la trappola: dietro la casistica, dietro il pensiero casistico, sempre c’è una trappola. Sempre! Contro la gente, contro di noi e contro Dio, sempre! ‘Ma è lecito fare questo? Ripudiare la propria moglie?’. E Gesù rispose, domandando loro cosa dicesse la legge e spiegando perché Mosé ha fatto quella legge così. Ma non si ferma lì: dalla casistica va al centro del problema e qui va proprio ai giorni della Creazione. E’ tanto bello quel riferimento del Signore: ‘Dall’inizio della Creazione, Dio li fece maschio e femmina, per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne’”.

Il Signore, ha proseguito il Papa, “si riferisce al capolavoro della Creazione” che sono appunto l’uomo e la donna. E Dio, ha detto, “non voleva l’uomo solo, lo voleva” con la “sua compagna di cammino”. E’ un momento poetico, ha osservato, quando Adamo incontra Eva: “E’ l’inizio dell’amore: andate insieme come una sola carne”. Il Signore, ha quindi ribadito, “sempre prende il pensiero casistico e lo porta all’inizio della rivelazione”. D’altro canto, ha poi spiegato, “questo capolavoro del Signore non è finito lì, nei giorni della Creazione, perché il Signore ha scelto questa icona per spiegare l’amore che Lui ha verso il suo popolo”. Al punto, ha rammentato, che “quando il popolo non è fedele" Lui "gli parla, con parole di amore”:

“Il Signore prende questo amore del capolavoro della Creazione per spiegare l’amore che ha con il suo popolo. E un passo in più: quando Paolo ha bisogno di spiegare il mistero di Cristo, lo fa anche in rapporto, in riferimento alla sua Sposa: perché Cristo è sposato, Cristo era sposato, aveva sposato la Chiesa, il suo popolo. Come il Padre aveva sposato il Popolo di Israele, Cristo sposò il suo popolo. Questa è la storia dell’amore, questa è la storia del capolavoro della Creazione! E davanti a questo percorso di amore, a questa icona, la casistica cade e diventa dolore. Ma quando questo lasciare il padre e la madre e unirsi a una donna, farsi una sola carne e andare avanti e questo amore fallisce, perché tante volte fallisce, dobbiamo sentire il dolore del fallimento, accompagnare quelle persone che hanno avuto questo fallimento nel proprio amore. Non condannare! Camminare con loro! E non fare casistica con la loro situazione”.

Quando uno legge questo, è stata la sua riflessione, “pensa a questo disegno d’amore, questo cammino d’amore del matrimonio cristiano, che Dio ha benedetto nel capolavoro della sua Creazione”. Una “benedizione – ha avvertito – che mai è stata tolta. Neppure il peccato originale l’ha distrutta!”. Quando uno pensa a questo, dunque, “vede quanto bello è l’amore, quanto bello è il matrimonio, quanto bella è la famiglia, quanto bello è questo cammino e quanto amore anche noi, quanta vicinanza dobbiamo avere per i fratelli e le sorelle che nella vita hanno avuto la disgrazia di un fallimento nell’amore”. Richiamandosi infine a San Paolo, Papa Francesco ha sottolineato la bellezza “dell’amore che Cristo ha per la sua sposa, la Chiesa!”:

“Anche qui dobbiamo stare attenti che non fallisca l’amore! Parlare di un Cristo troppo scapolo: Cristo sposò la Chiesa! E non si può capire Cristo senza la Chiesa e non si può capire la Chiesa senza Cristo. Questo è il grande mistero del capolavoro della Creazione. Che il Signore ci dia a tutti i noi la grazia di capirlo e anche la grazia di mai cadere in questi atteggiamenti casistici dei farisei, dei dottori della legge”.

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UCRAINA - Le Voci che ci fanno guardare Maidan

Una pagina Facebook per le tante testimonianze del popolo di Kiev. Una rete di traduzioni che collega amici da Italia, Russia e non solo. Perché sia raccontata la vera rivoluzione, che nessuna analisi socio-politica potrebbe spiegare
#VociDalMaidan. Hashtag che sui social networks (per ora) non esiste. Ma che, dopo essere entrati nella pagina Facebook Voci Dal Maidan, bisognerebbe inventare.
«Da tempo leggevamo le numerose notizie dei nostri amici ucraini sulle loro pagine Facebook», dicono Isabella e Simona, insegnanti di italiano a Mosca: «Poi, ad un certo punto, ci siamo accorte che gli amici italiani, chiedendoci notizie di Kiev, erano molto confusi e non sapevano nulla di quello che leggevamo noi. Così,abbiamo sentito l’esigenza di condividerlo creando una pagina Facebookapposta con le traduzioni delle loro preziose testimonianze».

Una rete di traduzioni che sta coinvolgendo amici da Italia, Ucraina, Russia e non solo. Sono per la maggior parte ex-studenti di russo dell’Università Cattolica di Milano, professori di Mosca, dottorandi e ragazzi in Erasmus a Kharkov, città nel Nord-est dell’Ucraina. Un movimento internautico frutto di amicizie, «nato dall’esigenza che queste voci venissero innanzitutto ascoltate».
I giornali oggi tendono a trarre conclusioni che potrebbero spazzare via, in pochi giorni, tre mesi di un popolo testimone che «questa lotta ha portato più luce, ha illuminato il Male. Qui c’è gente che non ha paura di interrogarsi e senza le domande esistenziali non ci sarebbe stata Maidan. È questo il suo sublime», come dice la testimonianza riportata su La Stampa da Domenico Quirico nel suo articolo La rivoluzione? È all’inizio, postato da Anna sulla pagina web.

Lo scopo primo è che «la loro preziosa testimonianza di amore alla Verità e alla pace sia accessibile anche a chi non sa il russo», precisa Simona. E il primo modo per "ascoltare" le loro voci è guardare. Come spiega Laura, neo-insegnante di russo in Cattolica, anche lei una delle anime di questa piazza virtuale: «Ho sempre avuto l’esigenza di capire cosa stava succedendo veramente a Kiev. Per capire bisogna innanzitutto guardare, che è la cosa che, solitamente, si fa di meno. Mi sono accorta che un sacco di persone davano la vita per il loro Paese, vivendo pacificamente in tenda, a meno venti gradi. Pochi giornali hanno raccontato veramente quello che stava accadendo». Guardare in fondo, fino alla domanda che intercetta, come una spada, la propria esistenza: «Perché questa gente arriva a dare la vita per la libertà del suo popolo? Ho iniziato a capire solo stando di fronte a chi mi raccontava quello che stava vivendo. Persone libere di fronte ad una situazione infernale».

Stando di fronte, cioè traducendo le tante testimonianze dalla piazza giallo-blu delle ultime settimane. Come quella dell’attivista Andrey del 19 febbraio, addetto alla distribuzione dei viveri che le persone liberamente portavano nel cuore della città: «Oggi sono stato tutto il giorno presso la Cattedrale di San Michele a Kiev. (...) Tra le mille persone mi è rimasta impressa una signora, di circa 75 anni, che portava tra le mani una sacca fatta da lei, ricavata forse dal suo abito preferito (...). Alla mia domanda: “Come posso aiutarla?”, lei mi ha consegnato la sua sacca. L’ho ringraziata ed è scomparsa tra la folla. Quando ho aperto il pacco non ho potuto trattenere le lacrime. Ci ha portato: 200 grammi di zucchero, un mandarino, una cipolla, tre spicchi di aglio, due caramelle, poco più di metà bottiglia di aceto e 5 grivnie. Lei ci ha portato tutto quello che aveva». Andrey conclude il suo post citando il Vangelo di Marco: «Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Perché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”».

Qualsiasi lettura socio-politica non potrebbe spiegare nemmeno uno dei duecento grammi donati. «Ogni tipo di analisi fine a sé non terrà mai conto di questo fatto. Perché è un imprevisto che accade. La sola lettura razionalistica lo esclude. Invece le persone, guardando questo, possono anche convertirsi. Io posso convertirmi di fronte al gesto della signora che dona tutto quello che ha», afferma con decisione Laura.

La timeline di Voci Dal Maidan è per non perdere questa conversione. Un’occasione che è per tutti e non è “via di Damasco” dimentica del sangue versato, delle morti, delle riduzioni ideologiche. Basta vedere i video di commemorazione per le vittime: tappeti di candele sulle strade di Kiev, foto, migliaia di persone che innalzano luci in silenzio. «Centuria celeste. Memoria eterna!», recita il titolo di uno dei filmati.

O come confessa il messaggio di una giornalista moscovita, postato dal poeta Strotsev Dmitry: «Ho messo alla finestra una candela in memoria dei morti uccisi in Ucraina. Per il settore di destra, quello dei manifestanti, e per i Berkut. Per i moscoviti e per i nazionalisti, per gli armeni e per gli ebrei, i bielorussi, i russi e gli ucraini, per i kievliani e per quelli del Maidan, che credevano nella propria verità. Vi conceda il Signore la pace eterna, la memoria e l’affetto dei vostri cari».

post sono tanti, come ampio è il respiro culturale in cui questo strumento Voci Dal Maidan vive. Traduzioni in spagnolo, articoli da Le Monde, esponenti culturali di Kiev che, parallelamente alla lotta pacifica in piazza, stanno promulgando «il progetto intellettuale più violentemente pacifico che possa esistere, che costruisce un ponte tra le lingue e la cultura francese, ucraina e russa. Collaborando assieme».

Una pagina Facebook che comunica, come una poesia, la vera rivoluzione: «Sangue sul Maidan / violenza a Kiev / in Ucraina / facendo il gioco del diavolo / il nemico esulta / si inebria / del caos / ma si distrae / e dimentica / che Tu sei in mezzo a noi / Signore / e noi siamo vivi / con Te / e invincibili» (Poesia della rivoluzione, di Strotsev Dmitry).
 Elena Fabrizi

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón, 26 febbraio 2014


Giussani, ''All'origine della pretesa cristiana''


Testo di riferimento: L. Giussani, «La concezione che Gesù ha della vita», in All’origine della
pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, pp. 99-125.




• Parsifal (Canzone dell’ideale)
• Witness

Gloria

Ci eravamo dati una domanda per il nostro lavoro: «Chi è Gesù?». Che cosa abbiamo conosciuto di
più di Gesù lavorando sul capitolo ottavo? Questa non è una domanda retorica, che si pone
all’inizio e poi la si dimentica, perché tutto il capitolo parla di questa domanda, non c’è neanche una
riga che non parli di questa domanda. Allo stesso tempo, non soltanto rilancio la domanda, ma
rincaro la dose: come il fare questo capitolo, e quello che abbiamo conosciuto di Gesù, ci consente
di affrontare e di giudicare le sfide che si aprono davanti a noi, che la società, la cultura, la
legislazione stanno aprendo davanti ai nostri occhi? È possibile stare dentro le circostanze, dentro
queste sfide, con tutta la drammaticità che tali questioni introducono nella vita, con la luce che
irradia dalla Scuola di comunità? O la Scuola di comunità in fondo è una cosa intimistica, che non
serve per affrontare le grandi sfide antropologiche ed etiche che la società oggi dibatte? Sono le
questioni a cui dobbiamo rispondere a partire dalla seconda parte del capitolo, come abbiamo fatto
con la prima parte.
Inizio con una domanda che mi è stata fatta: «Mi ha molto colpito la domanda che alla Scuola di
comunità hai posto più volte: come rispondiamo alla domanda “Chi è Gesù?”; come ciascuno di
noi, lungo questo mese, ha risposto alla domanda: “Chi è Gesù?” [non in astratto, prendendo spunto
da questo o quel fatto, ma proprio facendo la Scuola di comunità]. Ogni volta che la ponevi sentivo
il cuore sobbalzare e desideravo con tutta me stessa di cercare di dare una risposta. Molto spesso
parlo di Gesù, parlo con Gesù, ma a questa domanda non sono riuscita a rispondere, e questo non
mi fa stare tranquilla. Durante questo anno molte volte L’ho visto all’opera, L’ho riconosciuto e ho
sperimentato… prima infatti ero molto cinica e titubante, ma dicendogli “Sì” si è più felici. Intuisco
che la mia felicità consiste nell’abbandonarmi a Lui, ma nel momento in cui non so rispondere alla
domanda “Chi è Gesù?” come può avere un fondamento, un senso tutto il resto?».
La stessa cosa dice un’altra persona: «Sono uscita dalla Scuola di comunità stupita dalla domanda
sintetica che ci hai posto verso la fine: “Questo capitolo deve farci sorgere la domanda ‘chi è
Gesù?’ e se lo stiamo conoscendo di più”. Sembra quasi elementare come domanda, ma non mi
stava neanche sfiorando la mente [eppure è la prima domanda che fa Giussani! Vedete che
possiamo fare la Scuola di comunità trascurando la chiave di volta del capitolo. Per questo, se noi
non prendiamo sul serio questa chiave, possiamo dire cose perfino bellissime del capitolo, ma esso
non è capito così come l’ha concepito don Giussani]. Ero totalmente frammentata nel cercare di
capire ogni singolo passaggio del capitolo e mi sembrava perfino di paragonarmi, ma la tua
domanda è la domanda che mi ripone in un dialogo amoroso. Mi chiedevo tornando a casa: “Chi sei
tu, Gesù, per me?”. L’ho lasciata lì nella speranza di vederla nella realtà. Il nostro gruppetto della
scuola ci invitava a prepararci tenendo presente queste tue parole: “Non è il ragionamento astratto
che fa crescere, che allarga la mente, ma il trovare nell’umanità un momento di verità raggiunta e
detta”. Ci risiamo. In questo io sono maestra! Sinceramente io faccio la Scuola di comunità, ma
quante volte mi perdo in perfetti ragionamenti che mi allontanano. Ma io dove sono? È tremendo
non avere uno sguardo serio e amoroso verso me stessa, ma spesso è così. Leggevo la Scuola di
comunità, leggevo di uno sguardo con cui Gesù mi guarda e mi ama e io stavo lì a cercare di tirarmi
via la nostalgia. Mi trovavo triste e “amputata”. Poi un giorno è successa una cosa che mai avrei
pensato. Come tutti i giorni, è tornata a casa da scuola mia figlia Letizia di tredici anni. Ci sediamo 2

e mangiamo insieme agli altri fratelli. Lei stranamente tiene banco (è abbastanza silenziosa
normalmente) e racconta che la prof di italiano le ha fatto conoscere il poeta Leopardi. Va in
camera, prende le poesie e ne legge dei pezzi. I fratelli più piccoli presto si stufano e se ne vanno.
Così lei ha più spazio per esprimersi. Io ho una grande passione per lei, ha un temperamento solare
ma anche “triste”; lei è per me tante volte strada, tante cose le ho capite con lei. Insomma è una gran
risorsa averla con noi. E così legge, racconta a braccio delle cose dette in classe. Cita a memoria
questa frase: “Chi ama molto, ma non è amato è destinato a vivere della mancanza”. A questo punto
capisco che il Leopardi spiegato non era appena quello de Il sabato del villaggio ma che la prof
aveva fatto un affondo sul cuore di Leopardi. E così le chiedo: “Dimmi perché ti piace così tanto e
dimmi perché lo stai raccontando”. Io non lo posso più dimenticare e permea le mie giornate, ha
risposto così: “Perché lui è triste e questo me lo fa sentire vicino; ma lui è troppo triste. Non si può
vivere così tutta la vita. Lo racconto a te perché tu, mamma, sei una gran ‘burlona’ ma io quando ti
guardo penso che tu sei nostalgia; e questo a me piace molto”. Io sono rimasta senza parole. Un
pezzo di realtà spiegava la realtà stessa e di che cosa sono fatta io. Avevo trovato nella mia umanità
“un momento di verità raggiunta e detta” che nessun mio pensiero perfetto avrebbe saputo
riprodurre». Una madre si rende veramente conto di chi è, di chi è come persona, perché si trova
davanti una figlia che le fa capire le cose meglio di tutti i suoi ragionamenti, e questo è possibile
perché alla figlia è successo qualcosa per cui può guardare la madre così; e la madre può sentirsi di
nuovo cosciente di sé. Perché? Soltanto il divino salva le dimensioni dell’umano. Possiamo
riconoscere che stiamo conoscendo Cristo, non perché facciamo un discorso su Cristo, ma perché ci
fa diventare noi stessi.
Un’altra amica mi dice: come la familiarità con Cristo non è intimismo? «Ti chiedo questo perché il
desiderio continuo che ho di questa familiarità [intuiamo che c’è qualcosa in questa familiarità che è
cruciale per la vita, ma tante volte ci viene la preoccupazione, il sospetto che questo parlare di
Cristo sia intimistico, che non sia veramente reale] lo spiega bene il don Gius in un intervento del
1982 che si intitola, appunto, La familiarità con Cristo. Lui dice che la familiarità con Cristo, “è
come se dovesse passare un vento a strapparci via tutto quello che siamo; allora il cuore ridiventa
libero, o meglio, diventa libero: continua a vivere nella carne, cioè sbaglia come prima, ma è come
se un’altra cosa fosse entrata nel mondo”. Questa è esattamente l’esperienza di libertà più grande
che io faccio. Io ho veramente bisogno che Lui mi liberi da quello che sono per rinnovarmi come
coscienza. Ogni giorno chiedo che questo possa riaccadere e non è sempre così facile e immediato,
ma non posso smettere di desiderarlo. Detto questo io, però, non so cosa chiedere alla compagnia
[vedete in quale problematica ci ingolfiamo?]. Pur avendo questo desiderio mi sento così estranea a
volte, anche con le persone a cui voglio più bene, che mi domando se non me la stia un po’
cantando e suonando da me, perché io una estraneità così non l’ho mai sentita in tanti anni di
movimento. La cosa grave è che questa ferita non si rimargina ma si approfondisce e spesso ho
paura di aver già lasciato il movimento. Facciamo gesti belli in cui il nostro cuore è evidentemente
felice, ma poi a mio parere questo non diventa giudizio tale da farci camminare di più verso ciò che
il nostro cuore desidera. Allora mi domando: ma a te come la compagnia aiuta a questo livello di
familiarità con Cristo? Come la compagnia è per te cammino?». Cioè, perché la familiarità con
Cristo non significa intimismo? Per me la compagnia aiuta a vivere una familiarità con Cristo
perché sempre mi provoca, anche quando manca di viverla nella sua verità, anche quando obietta;
anche quando mi trovo davanti a questioni che mi provocano, la compagnia sempre mi mette in
cammino a ricercare.
Di recente mi sono reso conto di due cose ascoltando la liturgia (che è una “scuola”). Il vangelo
racconta di quando Gesù va a Nazareth e dice che tutti restano stupiti. Sembrerebbe che la presenza
di Gesù faciliti le persone a entrare in questa familiarità con Lui e, quindi, nel mistero della Sua
persona. E uno direbbe: «Vedi? Questo mi fa compagnia». Ma quello che stupisce è che quella
persona, che provoca in me questo stupore, io posso non seguirla per darmi ragione adeguata di
questo stupore; e allora, invece di seguire questo stupore per capirlo sempre di più, comincia la
ritirata dall’impegno con lo stupore che mi ha provocato quella presenza, e uno dice, come riferisce 3

il vangelo: «Ma non è questo il figlio del falegname?»; è una domanda che ha già dentro tutto lo
scetticismo; non è la domanda di quelli che sempre di più si avvicinavano a Gesù e che dicevano:
«Ma chi è questo qui? Chi è costui?», che era una domanda vera, perché più Lui si rendeva
presente, più erano sollecitati a cercarLo. Invece l’altra domanda, «Ma non è questo il figlio del
falegname?», non è vera. E il testo finisce: «E si scandalizzavano di Lui». Quella compagnia era
data per una familiarità e per alcuni è diventata un ostacolo, uno scandalo.
Ed ecco la seconda cosa che ho scoperto attraverso la liturgia. La modalità con cui la compagnia ci
provoca può avere una faccia totalmente diversa: invece di uno stupore, una maledizione. Ritorna
Davide dalla guerra, esce uno della tribù di Saul e comincia a maledire Davide (la faccia della
compagnia è totalmente un’altra, qui è una maledizione, non lo stupore), e tutti i compagni di
Davide cominciano a dire: «Non continuiamo a permettere a questo cane di abbaiare, finiamola con
lui». Questa è la reazione. Ma Davide dice: «Ma se il Signore gli ha detto di abbaiare, di maledirmi,
se gli consente di maledirmi, chi siamo noi per impedirglielo?».
La compagnia, la modalità con cui la compagnia può venirmi incontro, che mi introduce alla
familiarità con Cristo, può avere una faccia o un’altra, il problema è se io, davanti alla modalità con
cui la compagnia mi viene incontro, anche con una faccia pur bella (lo stupore), mi ritiro, o se vado
al fondo anche se la faccia può essere quella di una maledizione, perché tutto è una provocazione a
entrare in rapporto con Lui. Allora guardiamo se ogni volta la compagnia che ci viene incontro con
una faccia o con un’altra, qualsiasi sia la faccia con cui appare davanti ai nostri occhi, è una
provocazione: dipende se mi ritiro o se vado al fondo, se io mi impegno fino a riconoscere a che
cosa mi introduce. La compagnia c’è sempre: a volte può avere una faccia, a volte può averne
un’altra, ma sempre mi provoca. In tante occasioni la compagnia me Lo rende talmente presente che
mi commuove fino alle lacrime, come la compagnia di Gesù si mostrava tante volte davanti a coloro
che vedevano la pesca miracolosa o la tempesta placata. Era talmente presente che era tutto tranne
che un intimismo. Non c’è alcun intimismo, tutto passa dal rapporto con la realtà attraverso cui il
Mistero, Cristo, ci viene incontro e allora tutto diventa occasione di rapporto con Lui. E questo non
dipende dalla faccia con cui mi viene incontro, perché il Mistero mi viene incontro, mi chiama, mi
richiama, attraverso qualunque circostanza, come dice Davide, anche attraverso uno che abbaia
come un cane. Il soggetto che è dietro il segno, la faccia che è dietro il segno, sempre è il Signore,
ma noi tante volte ci siamo ritirati prima di averlo potuto scoprire. Per questo se noi non capiamo
fino in fondo che è attraverso qualsiasi modalità che Lui si rende presente – perché la realtà è
Cristo, e tutto quello che mi viene incontro è segno di Lui –, tutto diventa un’obiezione, invece di
essere un’occasione per entrare nella familiarità con il Mistero.
Più uno va avanti e più si rende conto di come non sia umano dare la vita a un tutto anonimo,
perché il tutto a cui diamo la vita, a cui rispondiamo, appaia come appaia, è una persona, è Dio. Per
questo una persona mi domanda: «Stavolta devo scriverti. Credo che il lavoro di Scuola di comunità
sia una cosa strepitosa per l’intensità dei contenuti e per la novità che rappresenta per la mia vita.
Adesso per non riesco ad andare avanti e mi sembra un fatto cruciale per me se non capisco quanto
leggo a pagina 120: “Ma non è umano dare se stessi se non a una persona, non è umano amare se
non una persona [Dio] […]. Qualsiasi dovere, dunque, è coscienza della volontà di Dio”. Non l’ho
capito! Non ho capito niente! Che vuol dire che Dio è una persona? Che vuol dire che il “dovere” è
la coscienza della volontà di Dio? Che vuol dire che l’agire dell’uomo si identifica con la
preghiera?».
Rispondo con una testimonianza, invece che dare delle spiegazioni. «A partire da quello che mi sta
succedendo e dalla Scuola di comunità, leggendo il punto “Il dono di sé” mi ha molto colpito
quando Giussani scrive: “L’esistenza umana si snoda in un servizio al mondo, l’uomo completa se
stesso dandosi via, sacrificandosi”. E poco oltre [la felicità arriva secondo questo paradosso]: “Ci
viene sottolineata la paradossalità di questa legge: la felicità attraverso il sacrificio. Ma quanto più
uno lo accetta, tanto più sperimenta già in questo mondo una maggiore completezza. Gesù la
chiamava ‘pace’”. Se sulla prima parte non avevo nulla da obiettare, sulla seconda non mi tornava
qualcosa [e racconta che si è innamorato, che l’amore non è corrisposto e allora dopo tanti tentativi 4

si arrabbia, evita il luogo dove potrebbe incontrarla perché “occhio non vede, cuore non duole”; e
non sa come uscire da questo: come può dire che la felicità può arrivare attraverso questo sacrificio
che di fatto mi viene chiesto? A questo punto, invece di continuare a girare la testa da un’altra parte
o di continuare a fare tutti i tentativi che aveva fatto…]. Tornando a casa dopo la Scuola di
comunità ho pensato a quando era stata l’ultima volta che avevo fatto esperienza di pace e pienezza
[invece di seguire le nostre fantasie, partire, come siamo stati sempre educati, dall’esperienza:
quando fu l’ultima volta che ho fatto esperienza di pace e pienezza?]. Mi è venuto in mente quando
sono tornato dalla Terra Santa a gennaio. La circostanza non era diversa da quella che vivo adesso:
sempre la stessa non corrispondenza affettiva e la stessa fatica, ma io mi percepivo sempre in
rapporto con Lui. Mi ricordo che sull’aereo guardando giù, era notte mentre stavo per atterrare in
una città, guardavo le lucine delle case della gente e pensavo: “Signore, tu hai a cuore tutti loro, tutti
noi, ci hai fatti minuscoli, ma ci hai a cuore tutti e noi possiamo vivere solo dentro al rapporto con
Te”. E dentro tutta la sproporzione che percepivo tra Lui e me c’era comunque un rapporto presente
e vitale. Tornato dentro la fatica quotidiana dello studio e del rapporto con questa ragazza, ritrovavo
come fosse questo rapporto [questo rapporto con la persona di Dio], a permettere tutto, a liberarmi
dalla schiavitù del “come” e della “forma”, di come riuscivo a guardarla con una tenerezza che mi
spaventava talmente grande fosse e talmente poco fossi io a generarla, come quando una mamma
sente il bimbo nella pancia che si muove. È suo, è dentro di lei, ma non è suo, non è lei che lo fa
muovere, ha vita propria, è un altro. Così quella tenerezza per lei, tenerezza che mi permetteva di
non vederla né sentirla, e non per fuggirla, ma perché pieno di una sovrabbondanza, e così quella
curiosità nello studiare tutto da solo, la pazienza nel mettermi sui libri e preparare l’esame… Quello
che mi manca è questo [per vivere tutto così, perché attraverso questo sacrificio possa raggiungere
la felicità, è questo]. Facendo memoria di quando ho vissuto questa pace dentro al sacrificio, ho
capito cosa fosse il punto che mi mancava [E allora si capisce perché e che cosa vuol dire che Dio è
una persona]. Mi manca il rapporto con Lui [con questa Presenza], mi manca vivere riposando nella
certezza della Sua presenza carnale. Solo in rapporto con Lui posso amare lei gratuitamente [Questo
– come sa chiunque ne abbia avuto esperienza – non lo potrebbe dire se non perché ha avuto
esperienza di questo perché altrimenti, come prima, dominerebbe solo la mancanza e l’arrabbiatura
per non poterla raggiungere], sia da mille chilometri di distanza che da cinque centimetri, senza
illusione né dolore. Affaticato sì, ma non distrutto. Solo così posso affermare il suo destino, amare
il fatto che non sono io il compagno scelto per lei. Che magari questo compagno è la persona che
meno sopporto e meno immagino per lei. E quindi il sacrificio non è una sconfitta, non è una
castrazione del desiderio, ma è permettere a Lui di prendermi secondo il Suo disegno che è il mio
vero bene. E non lo dico perché è la cosa giusta da dire, ma perché fino a un mese fa questo era
esperienza. Io desidero restare in rapporto con Lui [vedete fino a che punto è questo che definisce la
persona? Quando ci troviamo dentro un rapporto cominciamo a capire che cosa è Dio come
persona]. E ora che non vivo pienamente questo rapporto mi sento proprio orfano». È così reale che
quando noi tagliamo questo rapporto siamo come un bimbo che ne sente tutta la mancanza, si sente
orfano. Ma come questo rapporto può essere alimentato? La risposta è nell’esperienza che ha
raccontato, solo tornando a riconscerLo come Lo aveva riconosciuto precedentemente, perché lui sa
che Lui esiste e quindi si può costantemente aprire a questa Sua presenza.
Potremmo continuare a leggere altri contributi, ma, come vedete, senza che tante volte queste cose
rispondano alla domanda. Tutte sono risposte vere, offrono spunti che possono essere significativi,
ma che non rispondono alla domanda del capitolo: perché questo capitolo risponde alla domanda
«Chi è Gesù?», in che cosa si vede nella completezza del capitolo, nell’insieme del capitolo?
Per questo voglio leggere un brano che può aiutare a capire il nesso di tutto il capitolo anche con le
vicende che ci troviamo ad affrontare. Don Giussani dice nella conclusione del capitolo ottavo:
«Gesù Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano, all’umana libertà o per
eliminare l’umana prova […]. Egli è venuto nel mondo per richiamare l’uomo al fondo di tutte le
questioni, alla sua struttura fondamentale e alla sua situazione reale. Tutti i problemi, infatti, che
l’uomo è chiamato dalla prova della vita a risolvere si complicano, invece di sciogliersi, se non sono 5

salvati determinati valori fondamentali. Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità
vera, senza della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione» dei problemi umani. Qui don
Giussani ci offre un criterio per verificare se stiamo affrontando nel modo giusto i problemi che
abbiamo, le sfide che abbiamo davanti e che non possiamo evitare. «Gesù Cristo è venuto a
richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza della quale è menzogna [non è che usi mezzi termini:
“È menzogna”] ogni pretesa di soluzione» dei problemi umani. Don Giussani indica nella religiosità
vera e nella dipendenza vissuta il criterio di giudizio e di soluzione dei problemi umani. Che
responsabilità e che compito derivano per ciascuno di noi nell’attuale situazione storica e culturale
italiana, in cui assistiamo al tentativo da parte del potere, della politica e dei media di stravolgere
l’idea cristiana di uomo e di famiglia, imponendo fin dai primi anni di vita un’educazione (Vedi
l’educazione nelle scuole secondo l’ideologia di genere)? Evidentemente è totalmente in contrasto
con la vera religiosità e con la concezione della libertà che da essa deriva. È un tema che brucia, c’è
qualcuno qui che non abbia sentito parlare di queste sfide? I giornali e le televisioni ne sono pieni.
Allora ciascuno può vedere in che modo questo capitolo gli è stato utile per rispondere a questa
sfida, perché altrimenti – primo – non capiremmo in che modo questo capitolo risponde alla
domanda: «Chi è Gesù?», e, in secondo luogo, questo capitolo sarebbe ridotto a “spiritualità
ciellina”, ma poi per rispondere alle sfide che abbiamo davanti dovremmo utilizzare altri mezzi,
altri strumenti. Per questo voglio rispondere con calma, per darci un aiuto per affrontare tali
questioni.

LETTURA DEL TESTO DI PAGINAUNO DI TRACCE, marzo 2014
Appunti dall’intervento di Julián Carrón alla Diaconia regionale di CL – Milano, 25 febbraio 2014
Sito di CL
Sito di Tracce

La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 26 marzo alle ore 21.30. Continueremo il lavoro
mettendo a tema il capitolo nono, «Di fronte alla pretesa».

Il tempo della Quaresima e il tempo di Pasqua sono sempre stati per la Chiesa un’occasione
privilegiata per mettersi di fronte a chi è Gesù, a che cosa ha fatto, perché la nostra vita sia più
umana, più vera e più felice. Gli Esercizi spirituali, così come le giornate della Settimana Santa per
il CLU e GS, don Giussani li ha voluti per accompagnarci in questo lavoro. L’invito a parteciparvi è
un’offerta alla libertà di ciascuno.

Veni Sancte Spiritus

Testimonianza e racconto


Gli appunti dall’intervento di Julián Carrón alla Diaconia regionale di Cl. Milano, 25 febbraio 2014


Domandiamoci: la Scuola di comunità sul capitolo ottavo de All’origine della pretesa cristiana (Rizzoli, Milano 2011) ci consente di affrontare e di giudicare le sfide che si aprono davanti a noi? È possibile stare dentro le circostanze con tutta la misura umana della drammaticità della vita alla luce della Scuola di comunità?
Davanti alla realtà in cui ci troviamo a vivere, la prima questione che ciascuno di noi si deve porre è quale tipo di provocazione genera in noi, perché la realtà ci provoca comunque, e noi possiamo accettare la provocazione secondo tutta la sua portata oppure ridurla. Ciascuno di noi reagisce alla medesima provocazione in modi diversi. E quindi cerca di rispondere. In ogni gesto personale o comunitario sta davanti alla questione con la domanda su che cosa è utile o no per rispondere. Infatti non basta affermare che la realtà mi provoca perché questo, di per sé, mi faccia raggiungere qualcosa di oggettivo che apra l’io dell’altro e ridesti un rapporto. Qui ciascuno di noi fa la verifica, indipendentemente dall’opinione che possiamo avere, se la risposta che dà alla provocazione del reale è in grado di offrire veramente una risposta, di rispondere al problema che mi provoca e mi sfida.

A questo proposito, la Scuola di comunità è un esempio palese di questa dinamica, perché anche Gesù era provocato dalla realtà: «Sono come pecore senza pastore» (Mt 9,36), diceva infatti del popolo, perché non avevano il senso di se stessi, non avevano il senso della persona. E tutta la Sua risposta è proprio un tentativo di rispondere a questa provocazione. Qui emerge il valore del capitolo ottavo, perché tutto il capitolo è una risposta di don Giussani alla domanda: «Chi è Gesù?».
Sfido ciascuno di voi a verificare se in tutte le nostre risposte alle provocazioni abbiamo presente tutti i fattori elencati in questo capitolo. Se lo prendessimo davvero sul serio, incominceremmo a vedere se la nostra risposta ha presente tutti i fattori in gioco. E potremmo scoprire se essa è in grado di ridestare la persona nella realtà.
È evidente che nella nostra storia - senza dovere adesso rifare tutta la storia - abbiamo provato in tanti modi a rispondere alle provocazioni. E don Giussani ci ha sempre accompagnato e corretto in tutte queste nostre risposte alle provocazioni: abbiamo cercato di rispondere al ’68 con il raduno al Palalido del 1973 (per dirlo sinteticamente) e don Giussani, di fronte a questa risposta, ha detto: questa è una posizione totalmente reattiva, non è in grado di rispondere adeguatamente alla sfida. Noi condividevamo con i contestatori il loro desiderio di liberazione, ma questo non bastava perché la risposta fosse adeguata. E per questo alla Giornata di inizio anno abbiamo ripreso il giudizio di don Giussani del 1976 («Come nasce una presenza?», Tracce, ottobre 2013, p. X).
Ma quando nel 1982 viene pubblicato il primo Volantone di Pasqua dal titolo “Cristo la compagnia di Dio all’uomo”, tutti rimangono allibiti - e sembrava tutto chiaro già dal ’76 -. Ascoltiamo che cosa dice don Giussani: «Siamo andati avanti per dieci anni lavorando sui valori cristiani e dimenticando Cristo, senza conoscere Cristo». (Uomini senza patria. 1982-1983, Bur, Milano 2008, pp. 88-89). Tutti avremmo potuto pensare che stavamo seguendo Cristo, ma don Giussani dice: attenzione! È diverso. Chi ha potuto vedere il video trasmesso questo fine settimana da Rete4, a motivo dell’anniversario della sua morte, alla domanda della giornalista: «Che cosa darà ai giovani? Dei valori?», risponde: «Dar loro non solo dei valori, ma innanzitutto e soprattutto l’esigenza di un significato ultimo, perché i valori se non sono percepiti come l’eco di un significato ultimo lasciano ancora indifferenti e servono soltanto a un progetto caso mai parziale, politico». Non è che uno pensi di fare “politica”; ma se la risposta è parziale, finisce inevitabilmente col diventare politico in tutto quello che fa.
Per questo, mettere davanti a tutti il Volantone su Cristo è stato per don Giussani come il recupero dell’origine, come un ritorno all’origine del movimento. Don Giussani si era reso conto che nel nostro fare c’era qualcosa che non corrispondeva più all’origine; anche seguendo la vita del movimento, rispondendo alle provocazioni della vita - e non rimanendo a casa davanti al camino! -, si stava verificando una perdita dell’origine. «Il Volantone è come il recupero dell’origine, è come un ritorno all’origine del movimento»; si era dato infatti «per scontato ciò per cui il movimento è sorto» (ibidem, p. 27). «Il Volantone ha riproposto l’origine (...), ha riproposto il movimento nel suo momento originale» (ibidem, p. 61). Allora vedete che non qualsiasi risposta alle provocazioni è adeguata, la nostra storia ce lo insegna costantemente.
E ancora, dopo i referendum sul divorzio e sull’aborto, don Giussani che cosa ha fatto? Ha proseguito questa battaglia o ha spostato tutta l’attenzione sulla battaglia contro la riduzione del desiderio operata dal potere, proprio perché senza desiderio non c’è la persona? Per questo ha insistito che il potere, attraverso l’esaltazione della menzogna come strumento, riduce il desiderio, tende a ridurre il desiderio. La riduzione del desiderio o la censura di talune esigenze è l’arma del potere. E questo - diceva - è diventato mentalità dominante: che noi possiamo difendere i valori, ma avendo ridotto i desideri.
Perciò, davanti a queste cose in cui vedeva venir meno l’io perché non si lasciava provocare in tutta la sua profondità di “io”, don Giussani ha parlato di «effetto Chernobyl» per dire a ciascuno di noi: «È come se non ci fosse più nessuna evidenza reale se non la moda, perché?la moda è un progetto del potere» (L’io rinasce in un incontro. 1986-1987, Bur, Milano 2010, p. 182).
Don Giussani identifica anche due conseguenze: 1) la vita cristiana fa fatica a diventare «convinzione»; 2) «per contrasto, ci si rifugia nella compagnia come in una protezione» (ibidem, p. 181).
Allora è per questo che acquista tutta la sua portata, proprio per rispondere alla provocazione, la sua affermazione del 1987 che «la persona ritrova se stessa in un incontro vivo» (ibidem, p. 182). Questa non è una frase spirituale, non è una scappatoia per non rispondere alle provocazioni. La questione è come stiamo noi dentro al reale fino a consentire questo ridestarsi dell’io, senza del quale il potere ci può lasciare andare avanti nella nostra lotta per i valori e intanto ci svuota dal di dentro. Ed è per questo che non c’è una descrizione più realistica di che cosa sia l’uomo di quella contenuta nel capitolo ottavo de All’origine della pretesa cristiana. In questo si dimostra chi è Cristo, e si vede come qualsiasi altro tentativo può sembrare la risposta a un aspetto del problema, ma non è una risposta cristiana; e quindi non è in grado di rispondere a tutta la drammaticità dell’uomo.
Ciascuno, poi, può decidere che cosa fare, ma il capitolo è un canto a questo, a questa comprensione senza della quale noi non faremmo - pur con tutta la nostra agitazione - niente che possa veramente rispondere a tutta la drammaticità della situazione. Per questo la Scuola di comunità dice: «Solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè [tutte] le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura e del suo destino» (p. 104). Solo una Presenza può ordinare l’istintività al fine, rispondere al disordine umano; «“Chi mi libererà da questa situazione mortale?” Questo grido [dice don Giussani] è l’unica origine perché un uomo possa considerare seriamente la proposta di Cristo» (p. 121). Per questo, il capitolo ottavo non è una lezione di spiritualità o di morale! È la documentazione di chi è Cristo, perché «la religiosità cristiana sorge come unica condizione dell’umano (...), senza della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione» (pp. 108, 124) dei problemi umani.
Capite bene che adesso non basta ripetere questa frase o cambiarla con un’altra e agitarci. No, questa è la verifica che ciascuno di noi deve fare dove è, se questo ci serve per vivere noi e se serve per gli altri, per tutti i drammi con cui la vita ci provoca ogni giorno attraverso le persone accanto a noi, se è in grado di rispondere alla provocazione del vivere. Se noi non siamo consapevoli di questo, il nostro agitarci non basterà, e per questo il potere ci consente questa agitazione - tanto, in fondo, una qualche legge la farà comunque chi ha il potere! -. Ma se non si ridesta la persona, se la persona non viene ridestata, è difficilissimo che non prevalgano altre preoccupazioni. Questo non vuol dire che, allora, non si prendano più iniziative, ma che, se non succede questo ridestarsi dell’io, saremo costantemente sconfitti.
Qui di nuovo uno potrebbe dire: «Ma davanti a certe provocazioni qualcosa occorrerà pur fare!». La prima cosa che occorre fare è giudicare la dimensione del problema - perché se noi trattiamo il tumore con la Tachipirina, può essere una risposta alla provocazione, ma quanto adeguata? -, perché la dimensione del problema che descrive il capitolo ottavo è di un calibro tale che non basta una qualsiasi «Tachipirina». È soltanto prendendo in considerazione la dimensione del problema che si capisce quale azione è proporzionata ad esso. E allora si comprende perché don Giussani ha insistito tanto sulla personalizzazione della fede: non è che non fosse realista o che non accettasse le provocazioni del reale!

Se non impariamo da questo, noi ripetiamo un tentativo che già di per sé si è dimostrato fallimentare, perché il tentativo illuministico di difendere i valori senza Cristo non è cristianesimo, è solo Kant. Perché l’Illuminismo non voleva cancellare i valori cristiani, si è illuso di poterli vivere e conservare senza Cristo.
Proprio a questo livello si colloca la correzione della Scuola di comunità: senza il divino l’umano e i suoi valori non si salvano. Solo il divino è in grado di conservare tutte le dimensioni dell’umano, come stiamo vedendo. Salvare i valori senza Cristo: che lo pensasse Kant lo capisco, mi stupisce che lo possiamo pensare noi dopo aver visto il risultato della storia nata dall’Illuminismo per cui ci allarmiamo. Quello che vediamo adesso non è altro che la documentazione del fallimento del tentativo di affermare i valori senza Cristo. Che noi possiamo pensare di riproporre quello che si è già documentato storicamente fallimentare, permettetemi di dire che mi stupisce. Perché in fondo è il prevalere in noi della mentalità dominante, illuministica, di tutti. Ma questo non è il movimento!
O recuperiamo l’origine, secondo tutte le dimensioni che la Scuola di comunità ci mette davanti, o saremo assolutamente «nessuno» nel mondo, perché significherebbe che il potere è riuscito a ridurre le esigenze dell’io, e noi finiremmo con l’essere strumentalizzati per altri scopi. Non dimentichiamo che siamo partiti tutti da leggi perfette, ma questo non è bastato perché in pochi decenni la valanga non facesse piazza pulita di tutto! E questo è un dato storico, possiamo arrabbiarci o no, ma non lo cambiamo con le nostre arrabbiature. E se noi ripetessimo quello che si è già dimostrato fallimentare, poveri noi!

Allora, il valore del capitolo ottavo è cruciale proprio per questo, perché ci offre uno sguardo completo e realista della reale situazione dell’uomo e l’indicazione da dove si può ripartire; significativamente papa Francesco a La Civiltà Cattolica ha detto: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione. (...) Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali» («Intervista a papa Francesco», a cura di A. Spadaro, La Civiltà Cattolica, III/2013, pp. 463-464). E alla luce di questa preoccupazione, nella Evangelii Gaudium sottolinea: «Il problema maggiore si verifica quando il messaggio che annunciamo sembra allora identificato con tali aspetti secondari che, pur essendo rilevanti [secondari non vuol dire che non siano rilevanti], per sé soli non manifestano il cuore del messaggio di Gesù Cristo. Dunque, conviene essere realisti e non dare per scontato che i nostri interlocutori conoscano lo sfondo completo di ciò che diciamo e che possano collegare il nostro discorso con il nucleo essenziale del Vangelo che gli conferisce senso, bellezza e attrattiva» (34). Pensate che tutto questo non lo avrebbe potuto sottoscrivere don Giussani?
Quando nel 2004 Giussani ha scritto a Giovanni Paolo II che voleva semplicemente riproporre gli «aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano (...) nei suoi elementi originali, e basta» (Tracce, aprile 2004, p. 2), stava dicendo la stessa cosa. Basterebbe avere presente uno dei primi libretti del movimento, Tracce di esperienza cristiana. Più elementare di quello non c’è niente.

Leggo ancora dalla Evangelii Gaudium: «L’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (35). La vera sfida è se questo accade, perché noi siamo stati scelti per poterlo testimoniare, per mostrare questa radiosità per cui si può ridestare la persona. «Tutte le verità rivelate procedono dalla stessa fonte divina e sono credute con la medesima fede, ma alcune di esse sono più importanti per esprimere più direttamente il cuore del Vangelo» (36).
Quando alla Messa per don Giussani il Cardinale Scola si è domandato come possiamo rispondere a tutte le sfide del vivere, ci ha detto: «Testimonianza e racconto». Ha parlato della testimonianza di una vita, e vediamo tra di noi tanti esempi di come questa vita si comunichi. Per questo ho raccontato tante volte l’episodio, per me estremamente chiarificatore, delle donne di Rose, nel quale vediamo che anche un valore così decisivo come quello della vita si può oscurare e che solo nell’incontro cristiano è ridestato in tutta la sua bellezza. Inizialmente Rose aveva pensato di rispondere alla provocazione che era stata per lei l’impatto con la malattia (l’Aids) di alcune donne di Kampala aiutandole a procurarsi le medicine, ma ben presto ha visto che questo non bastava perché, dopo averle prese qualche volta, smettevano e si lasciavano morire. Perciò, consapevole che solo il divino salva tutte le dimensioni dell’umano, ha cominciato ad annunciare loro Cristo, e questo ha ridestato in quelle donne la coscienza del valore della loro vita perché abbracciata e amata dal Mistero. Di conseguenza, hanno ricominciato a prendere le medicine. Questa stessa dinamica l’abbiamo vista accadere anche in tanti altri tra noi, come Natascia o i carcerati di Padova, che sono come una testimonianza della modalità con cui possiamo, oggi, difendere senza ambiguità la vita e la sua dignità infinita.
Riflettere su queste cose mi sembra cruciale, se non vogliamo perdere la bussola. 

Aforisma di venerdì 28 febbraio 2014

Kaliméra di Rainer Maria Rilke: "E se anche foste in un carcere, le cui pareti non lasciassero filtrare alcuno dei rumori del mondo fino ai vostri sensi, non avreste ancora sempre la vostra infanzia, questa ricchezza preziosa, regale, questo tesoro dei ricordi?"
Havete!
Don Carlo
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Ridere non è affatto un brutto modo per iniziare un’amicizia.”
Oscar Wilde



giovedì 27 febbraio 2014

DIFETTIVO E APPROSSIMATIVO


Ecco due parole da riscattare. Lo scopo? Forse avere qualche strumento per essere meno infelici e farci meno male, ad esempio tra moglie e marito. Difettivo ha il sapore, ahinoi consolidato, dell'imperfezione, della sfiga malefica, della minorazione, dell'impotenza irrisolvibile. C'ha provato Montale a riscattarlo, sia pure dolente, nella poesia dedicata alla biblica Rebecca: "ogni giorno di più mi scopro difettivo, manca il totale". Approssimativo equivale oggi a pressapochista, imperfetto, privo di rigore, scadente. E se fosse invece che sta per qualcosa o qualcuno che si avvicina, si approssima all'ideale? Siamo approssimativi e difettivi. Non siamo l'ideale, il divino, la perfezione, il totale. Non ne siamo però così lontani da non potere intravedere l'orizzonte. Se moglie e marito, prima dopo e durante, si accettassero in partenza così, quanti disastri prevenuti, quante sanguinose lacerazioni evitate o lenite. Idem sui figli. Non si tratta di rinuncia, di resa preventiva alla ricerca della bellezza e della felicità. E' il contrario. E' la premessa per andare alla caccia autentica della realizzazione. Si tratta di formulare con se stessi e con l'altro un patto umano, umanissimo. Siamo così, bisognosi. Del resto spesso e volentieri dietro quel difettivo o approssimativo, nella versione di condanna, si cela semplicemente la mentalità corrente, l'adesione, o la disillusione, rispetto ai modelli imposti dalla società, dal contesto esterno. Autenticamente difettivi e approssimativi, si va, proprio per questo, assieme alla ricerca e si custodisce assieme quel che si è trovato. Restiamo difettivi e approssimativi. Cioè vicini, in approssimazione permanente, a qualcosa di straordinario, di cui possiamo intuire la presenza o provare una nostalgia lacerante. Come Montale e Rebecca.



«La Sindone è veramente del I Secolo»


La Sindone esposta a Torino

La Sindone non finisce mai di stupire. Il prof. Giulio Fanti, esperto di livello mondiale per gli studi sindonici, ha appena dato alle stampe un testo dal titolo decisamente provocatorio: “La Sindone: primo secolo dopo Cristo!” (Ed. Segno). L'Università di Padova, grazie ad un progetto di ateneo, ha realizzato degli esperimenti di datazione della Sindone basati sull’analisi meccanica e opto-chimica e i risultati sono da punto esclamativo.
Prof. Fanti nel 1988, con grande clamore, la datazione al radiocarbonio aveva concluso che la Sindone era medioevale. I vostri esperimenti, invece, cosa dicono?
I risultati delle nostre analisi hanno stabilito che per la Sindone si può ragionevolmente parlare di una data del I secolo d.C., una data che è coerente con l'epoca in cui Gesù di Nazareth visse in Palestina. Il lavoro che abbiamo svolto ha prodotto datazioni compatibili fra loro fornendo una data del 33 a.C. con un’incertezza di ±250 anni. Vorrei ricordare che trattandosi di analisi scientifiche non pretendiamo di avere l'ultima parola, tuttavia siamo arrivati a queste conclusioni utilizzando tre metodi indipendenti che danno risultati coerenti tra loro. Attendiamo le reazioni del mondo scientifico che, per ora, sembrano positive.
Quindi nel 1988 qualcosa è andato storto?
In una recente pubblicazione su un’importante rivista di statistica si mostra come i risultati del 1988 sono stati affetti da un errore sistematico dovuto ad un probabile effetto ambientale che ha reso la data trovata priva di significato scientifico. Tra l'altro vi sono anche studi di altro tipo che indicano come la Sindone non possa essere considerata di epoca medioevale, ma doveva già essere conosciuta in epoca antica. Si tratta di approfondite indagini numismatiche sui volti di Cristo raffigurati nelle monete antiche. È risultato evidente che le prime monete coniate col volto di Cristo dall’imperatore Giustiniano II, a partire dal 692 d.C. (quindi sei secoli prima della datazione radiocarbonica) dovevano avere preso la Sindone come modello di riferimento.
Al di là della datazione l'immagine dell'Uomo della Sindone rimane misteriosa.
La scienza ha dimostrato che l’immagine corporea della Sindone non è ancora oggi riproducibile in tutte le sue particolarissime caratteristiche macroscopiche e microscopiche. Se si riesce a realizzare qualcosa di accettabile dal punto di vista macroscopico non si riesce a soddisfare moltissime caratteristiche a livello microscopico e viceversa. Ad oggi possiamo ragionevolmente ipotizzare che l'immagine dell'Uomo della Sindone si sia formata a causa di una notevole esplosione di energia proveniente dall’interno del corpo avvolto.
Questa “esplosione” potrebbe far pensare alla Risurrezione del Cristo narrata nei Vangeli?
Se da un punto di vista scientifico risulta piuttosto complesso stabilire quali cause possano aver determinato l'effetto dell'immagine sindonica (qualcuno recentemente ha parlato di un terremoto), il fenomeno della Risurrezione potrebbe risolvere il dilemma. Teniamo conto, tra l'altro, che i decalchi di sangue umano sul tessuto di lino non hanno la minima traccia di sbavature che sarebbero, invece, evidenti se il cadavere avvolto fosse stato rimosso fisicamente. Tutto lascia pensare che l'Uomo debba essere uscito dal lino dopo essere divenuto meccanicamente trasparente.
Ma l'uomo della sindone è davvero Gesù di Nazareth?
Gli studi scientifici sulla Reliquia fino ad oggi non riescono a fornire risposte conclusive sull’identità dell’Uomo che vi fu avvolto. La scienza umana deve ammettere i suoi limiti, ma la scienza supporta la fede e viceversa. In quest’ottica, attraverso i Vangeli che confermano tutto ciò che si può osservare sulla Sindone, ma che in più aggiungono informazioni su quello che avvenne durante quella Domenica di Pasqua, non è difficile riconoscere quell’Uomo in Gesù Cristo, il Risorto dai morti.  Lorenzo Bertocchi - http://www.lanuovabq.it

Eutanasia infantile, il dilemma di Re Filippo


Il re Filippo
Il 13 febbraio scorso il Parlamento belga ha approvato l’estensione dell’eutanasia ai bambini, con 86 voti a favore, 44 contro e 12 astensioni. Come già anticipato su queste pagine, la cultura della morte che sembra permeare la società belga ha prevalso nella quasi totale indifferenza della popolazione. Poche ma chiare le voci contrarie, da parte di un folto gruppo di pediatri e delle principali confessioni religiose. Tra queste ultime, i buddisti si sono significativamente distinti, dichiarandosi favorevoli... 
L’iter legislativo è ora giunto al suo termine: manca solo la firma di Re Filippo, cattolico praticante, salito al trono nel luglio scorso, succeduto al padre Alberto II che ha deciso di abdicare. È a lui che quest’oggi saranno consegnate le circa 210.000 firme di persone da tutto il mondo che chiedono di non firmare questa legge, degna dei nazisti. La petizione online è stata avviata al momento stesso dell’approvazione in Parlamento e vi si può ancora aderire cliccando qui. Molti osservatori tentano di sminuire una tale iniziativa, dal momento che i poteri del Re sono molto limitati e che la Costituzione odierna lo ha ridotto ad essere una sorta di “notaio del Governo”.
Re Filippo con la moglie Mathilde e i figli
Nessuno lo dice, ma in realtà, queste 210.000 firme fanno tremare i palazzi del potere del piccolo Belgio, stato federale e multilingue, dall’equilibrio nazionale delicato. Al di là del suo ruolo costituzionale ridotto, il settimo Re dei belgi è oggi più che mai il simbolo dell’unità della nazione. Un suo palese disaccordo con il Governo del socialista di origini abruzzesi, Elio Di Rupo, significherebbe un colpo all’unità del popolo belga che è in realtà decisamente frammentato: il ricco nord fiammingo, il meno prospero sud francofono più legato alla monarchia, e la minoranza germanofona all’est. 
La scelta di Filippo di non firmare la legge si appoggerebbe peraltro su di un precedente storico illustre: la decisione di suo zio, Re Baldovino, il quale al momento dell’approvazione della legge sull’aborto, nel 1990, scrisse al Primo Ministro: «Firmando questo progetto di legge e segnando il mio accordo nella mia qualità di terzo ramo del potere legislativo, stimo che mi assumerei inevitabilmente una certa responsabilità. E questo non posso farlo». Il processo legislativo fu in tal modo bloccato ed il Consiglio dei Ministri trovò un espediente giuridico per il quale il Re fu dichiarato «nell’impossibilità di regnare» e, due giorni dopo, una volta la legge sull’aborto ratificata, il Parlamento reintegrò il Re nel pieno delle sue funzioni. 
Secondo molti, però, l’attuale Governo non sarebbe affatto ben disposto a ripetere questo espediente giuridico, che rappresenta tuttora un vero rompicapo per tanti costituzionalisti. Il Re sarebbe semplicemente considerato irrispettoso del suo giuramento sulla Costituzione, che gli impone di ratificare le leggi democraticamente approvate dai due rami del Parlamento. Si aprirebbe così una crisi istituzionale della quale potrebbero approfittare le forze repubblicane, in un panorama di grande instabilità sociale e finanziaria.

In pratica, Re Filippo rischia di dover scegliere tra il trono ed il macchiarsi le mani di sangue, mettendo la firma ad una legge che estende l’eutanasia ai bambini, normalmente considerati incapaci di guidare o di votare, ma incredibilmente ritenuti in grado di decidere di morire. Anche se questa petizione non bloccherà la ratifica della legge, essa dà l’occasione al Re di dare testimonianza concreta della sua fede di fronte al mondo, segnalando con forza l’ingiustizia incarnata da questo progetto mortifero. E qualora il Re sceglierà il quieto vivere e la sicurezza del trono, di fronte all’avanzare implacabile della cultura della morte, le 210.000 firme raccolte in questi giorni resteranno a testimonianza della viva speranza di uomini e donne di buona volontà. Nicolò Fede