giovedì 29 settembre 2011

La conferma di Pietro




29/09/2011 - Dalle aspettative allo spirito anticattolico. Un missionario della Fraternità San Carlo racconta cos'ha visto nel viaggio tedesco di Benedetto XVI. Un uomo che non si preoccupa «di come appare». Ma è solo «certo di chi l'ha chiamato»




La visita del Santo Padre in Germania.


È domenica sera, 25 settembre. Poche ore fa Benedetto XVI si è congedato dal Presidente Christian Wulff e dall’arcivescovo Robert Zollitsch all’aeroporto di Lahr. Sono stati quattro giorni intensi. Intensi per i vescovi e per la polizia, per i politici e per i tanti telespettatori, per tutti coloro che hanno partecipato ai vari momenti di Berlino, Erfurt o Friburgo. E sono stati intensi anche per me.
Ciò che mi rimane della visita del Papa sono soprattutto il contenuto dei suoi discorsi e il contraccolpo della sua persona. Provo a fissare brevemente queste impressioni.
La figura di un uomo anziano, dallo sguardo aperto, attento. E dal sorriso mite. I suoi gesti sono contenuti, si limita a stendere le braccia in un gesto di saluto. Nient’altro. Tutto qui! Colui che inizialmente i rotocalchi definivano "Cardinale panzer" è forse timido? Oppure è riservato di natura? Può essere. Ma non è tutto qui. Non solo quando indossa solenni vesti liturgiche di gusto barocco, ma sempre, quando interviene in pubblico, trovandosi così al centro dell’attenzione, sembra voler tenere in secondo piano la sua persona. È lì, ma non come un eroe o una star, ma piuttosto come uno che rappresenta un Altro più grande di lui. Proprio questo è così commovente in lui: non è più semplicemente Joseph Ratzinger: è Pietro. E come tale rappresenta Cristo. Perciò non ha bisogno di nulla in aggiunta, in più. È puramente e semplicemente certo di Colui che l’ha chiamato, e perciò non deve preoccuparsi di "come appare alla gente".
In questi giorni mi sono chiesto spesso cosa ne pensino gli altri, che effetto faccia su di loro. Non lo so. Sicuramente l’effetto sarà molto diversificato. Per me è soprattutto la persona che dice "sì" a Lui, Cristo, che l’ha chiamato a svolgere questo compito sovrumano. Lui è Pietro che oggi, anche davanti a me, dice al Signore: «Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!». In lui io vedo questa amorosa dedizione al suo Amico, Signore e Maestro. E questo ha rafforzato ancora una volta la mia vocazione.
Poi ci sono stati le omelie e i discorsi di questi giorni, e la montagna di aspettative che vi erano legate. Erano davvero tante le aspettative? Dai media si poteva dedurre che in fondo c’era solo una mezza dozzina di questioni sulle quali avrebbe potuto intervenire o cambiare qualcosa: celibato, abusi sui minori, democrazia nella Chiesa, sacerdozio femminile… Temi ampiamente noti a chiunque in Germania, dallo scolaro al tassista musulmano.
Ma lui non vi ha fatto cenno, nemmeno una parola. O no? Ci ha sorpreso tutti - credenti e critici - per come ha saputo cogliere la concreta situazione della Chiesa contemporanea a un livello più profondo, più radicale. Mai in toni polemici. Ma nemmeno con luoghi comuni scontati. Ma piuttosto realista, chiaro e profondo. Talvolta esigente nel senso che era necessario rileggere almeno due volte le sue parole con calma e farle proprie, ma sicuramente mai banale. E così sono arrivate le grosse sorprese - soprattutto nel discorso al Bundestag e in quello alla Konzerthaus di Friburgo. Con queste parole bisognerà ancora confrontarsi (speriamo che siano in parecchi a farlo). Ma anche nelle omelie il Pontefice ha riportato alla luce le verità fondamentali della fede, l’amore di Dio, la predestinazione, il peccato, la chiesa, la speranza, la vocazione personale… Non una teologia rivestita di retorica, ma semplicemente il messaggio biblico e la sua efficacia nel presente espressi in parole. Parole che hanno commosso e provocato anche me come prete. Non erano solo semplici parole: erano sempre verità che lui mi schiudeva.
«Conferma i tuoi fratelli!» - questo è uno dei compiti che Gesù ha dato a Pietro, e attraverso di lui a tutti i suoi successori fino a Benedetto XVI. Questa conferma nella fede è riaccaduta in questi giorni. In essa il Papa vede la possibilità fondamentale per una riforma nella Chiesa: il rinnovamento non viene dalle strutture, ma da un cuore rinnovato, afferrato dalla Sua Presenza.
Questa salda convinzione espressa in toni pacati cade su terreni differenti - come il seme nella nota parabola di Gesù. Nell’imminenza della visita si era fatta sentire molta polemica e aggressività. Non solo da parte dei movimenti omosessuali, ma anche negli ambienti di associazioni e comunità impegnate e attive. Non è un fenomeno nuovo, ma mi ha impressionato negativamente e fatto riflettere per la sua intensità e soprattutto per la sua estensione. Anche il fatto che il tono dei commenti sulla veglia dei giovani a Friburgo fosse schierato in modo così radicale contro il gesto con il Papa mi ha molto ferito. E ora che il Papa ha appena lasciato il suolo tedesco, leggo già i primi titoli come questo: «La chiesa dal basso incita alla disobbedienza». Tutto ciò suscita rabbia e fa venir voglia di partire al contrattacco. Ma in Benedetto XVI non ho mai visto atteggiamenti simili. È forse cieco o ingenuo? O invece è estremamente realista? È certo doloroso lo spirito "anticattolico" che serpeggia in certi strati del popolo di Dio. E tuttavia il Papa non parte mai da una polemica o da una condanna. Al contrario, si affida al fascino del buono e del vero, a ciò che corrisponde più profondamente all’uomo. Il Papa ben conosce le ferite e le prove dell’epoca in cui viviamo, ma il suo sguardo non resta attaccato a ciò che si è irrigidito ideologicamente, ma piuttosto a ciò che il Risorto opera anche ai giorni nostri. Anche questa è una lezione in grado di trasformare e far maturare la prospettiva del mio giudizio e della mia vita.
In questi giorni Pietro mi ha confermato ancora una volta nel mio cammino vocazionale.
di Romano Christen

mercoledì 28 settembre 2011

BENEDETTO XVI RICORDA AL PARLAMENTO TEDESCO LE RADICI CRISTIANE CHE HANNO FATTO GRANDE L'EUROPA



Senza il cristianesimo non ci sarebbero, ad esempio, l'idea dei diritti umani, l'idea dell'uguaglianza di tutti gli uomini, l'inviolabilità della dignità umana e la responsabilità degli uomini per il loro agire




In uno dei passaggi del suo discorso al Parlamento Federale Tedesco, Benedetto XVI ha richiamato un nucleo fondamentale del patrimonio culturale dell'Europa: «Sulla base della convinzione circa l'esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l'idea dei diritti umani, l'idea dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell'inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire».
Questo elenco, breve (si potrebbe allungare) ma fondamentale, dovrebbe essere tenuto presente da tutti coloro che accusano il cristianesimo di essere stato e di essere tuttora causa di arretramento culturale e sociale, o comunque da coloro che misconoscono le radici cristiane dell'Europa, non rendendosi conto che non possiamo non dirci cristiani, nemmeno nei casi in cui non siamo credenti, dato che il cristianesimo è stato il tronco (non l'unico, ma quello più importante) da cui sono rampollati e da cui sono stati irrorati i valori decisivi per la buona convivenza. Infatti, la dignità di ogni essere umano, i diritti umani, l'uguaglianza di fronte alla legge e la responsabilità personale sono le pietre angolari per edificare una società non predatoria bensì civile, non sottomessa alla legge del più forte bensì veramente a misura d'uomo. Alcuni di questi valori sono conoscibili senza presupporre l'esistenza di Dio, altri no (e vengono ricevuti e riaffermati da chi li ha ereditati da secoli di cristianesimo), ma non è qui rilevante delucidare quali. Ciò che qui preme è sottolineare l'importanza cruciale del cristianesimo, che li ha enunciati, proclamati, promossi, ancorché talvolta sia stato tradito anche da alcuni cristiani tralignanti (ma meno di quanto affermino certe leggende nere).
In effetti, la convinzione dell'esistenza di un Dio creatore, iniziata col giudaismo e poi approfondita dal cristianesimo, implica che ogni essere umano, nessuno escluso, sia da Dio voluto, creato e chiamato ad una comunione amorosa con sé, il che conferisce ad ognuno una dignità incommensurabile ed inviolabile. Ad ognuno: dunque anche alle donne, che erano disprezzate da quasi tutti i popoli precedenti, e lo sono tuttora quasi in ogni luogo in cui il cristianesimo non sia pervenuto in modo significativo; dunque anche ai bambini, che in moltissimi luoghi e situazioni venivano uccisi neonati a migliaia e che a tutt'oggi sono ancora uccisi, prima e dopo la nascita, e spesso solo perché di sesso femminile.
Inoltre, se ognuno è creato da un Dio che è Padre, allora siamo in un certo senso fratelli. Così, le differenze tra di noi ci sono ed in certi casi sono benefiche (per esempio la differenza sessuale, quella degli interessi, delle capacità innate e perciò delle specializzazioni, ecc.), nondimeno siamo pari in dignità e pertanto uguali di fronte alla legge ed il ruolo sociale diverso non dev'essere il criterio di giudizio di un tribunale.
Ancora, se abbiamo tutti una dignità inviolabile e se siamo uguali di fronte alla legge, ci è dovuto il riconoscimento di alcuni diritti, quelli che concernono beni come la vita, la libertà di agire e di espressione, la proprietà, ecc. infatti, se questi beni ci vengono negati la nostra dignità viene calpestata.
Infine, proponendo all'uomo la comunione amorosa con sé, Dio lo crea libero, perché un amore costretto è impossibile (sarebbe schiavitù o servilismo). Perciò, l'uomo non è un ingranaggio del Fato, non agisce necessariamente sulla base dei suoi istinti, è solo in parte condizionato dalla società, può agire liberamente, dunque è responsabile delle sue azioni e delle sue violazioni.
di Giacomo Samek Lodovici
Fonte: Avvenire, 24/09/2011

Il cattolico deve desiderare fortemente una società integralmente cristiana e con altrettanto vigore deve deplorare il neutralismo religioso




L'ERRORE NON HA OGGETTIVAMENTE ALCUN DIRITTO NE' ALL'ESISTENZA, NE' ALLA PROPAGANDA, NE' ALL'AZIONE
Il cattolico deve desiderare fortemente una società integralmente cristiana e con altrettanto vigore deve deplorare il neutralismo religioso che lo Stato moderno gli impone




Chi volga uno sguardo attento e non prevenuto alla situazione generale in cui oggi versa l'Occidente, non può non convenire sull'esistenza di una profonda crisi di civiltà. La società contemporanea si presenta come una società frammentata, o "liquida", secondo la nota formula di Zygmunt Baumann, votata a un processo di autodisgregazione che ricorda quanto avvenne nell'era del tramonto dell'Impero Romano.
Qual è il dovere e il ruolo dei cattolici in questa situazione? In primo luogo resta per ognuno di essi l'obbligo di santificarsi. Anche, e soprattutto, in un'epoca caotica come la nostra, vivere non significa trascinare la propria esistenza in maniera priva di senso, ma ordinarla a Dio, meditando le parole con cui sant'Agostino apre le sue Confessioni: «Ci hai fatto per te, o Dio, e il nostro cuore sarà instabile finché non riposerà in te».
Quando l'uomo si allontana da Dio per inseguire solo il proprio interesse e piacere è destinato a essere infelice. Avvicinarsi a Dio significa sforzarsi di seguire la sua volontà e la sua legge, e in questa conformità alla volontà divina consiste propriamente la santità.
Ma l'uomo, per agire, ha bisogno di modelli a cui richiamarsi ed è per questo che la Chiesa, canonizzando i santi, ci offre esempi concreti di vita da imitare. «La loro esperienza umana e spirituale – dice Benedetto XVI – mostra che la santità non è un lusso, non è un privilegio per pochi, un traguardo impossibile per un uomo normale; essa, in realtà, è il destino comune di tutti gli uomini chiamati ad essere figli di Dio, la vocazione universale di tutti i battezzati» (Udienza generale del 20 agosto 2008).

Il fine della società non è diverso dal fine dell'uomo. Ed è diritto di Dio essere il primo, in tutto, non solo nel cuore umano, ma nella società intera, che solo in Lui può trovare ordine e stabilità. Oggi la vita è organizzata in modo tale che l'uomo, e non Dio, ha il posto primario nelle idee, nei costumi e nelle leggi.
Il rovesciamento di quest'ordine è la causa principale dei mali politici e sociali che ci affliggono. La rinascita politica e sociale di cui tutti avvertono la necessità non può che partire dall'assegnare a Dio la priorità nella vita privata come in quella pubblica.
Ma l'uomo ha bisogno di modelli anche sul piano sociale, non solo su quello individuale. E poiché le società non hanno vita ultraterrena, è nella memoria storica che i modelli a cui ispirarsi vanno cercati. Nella storia, tra lo schierarsi pro o contro la verità religiosa, per le società non c'è altra scelta possibile.
Il rifiuto di Dio caratterizza le "ideologie del male" del secolo XX, quali il comunismo e il nazismo, ma anche le società laiciste contemporanee, che evolvono verso una implacabile "dittatura del relativismo".
A tali società, che rappresentano una sorta di "contro-ideale", sarebbe vano contrapporre il modello pluralista americano. È vero che negli Stati Uniti si professa pubblicamente l'esistenza di Dio, e ciò rappresenta un male minore della aggressiva imposizione del laicismo, ma l'equiparazione dei culti è un prodotto del libero esame che un cattolico non può in coscienza accettare. La parabola della zizzania mescolata al buon grano (Mt. 13,24-30), presenta un fatto, ma non sancisce un diritto, né un principio.
Un cattolico non può accettare il modello dello Stato etico hegeliano, nelle sue diverse declinazioni, dal liberalismo al fascismo, e neppure il dispotismo assoluto di Ancien Régime, in cui la volontà del principe si sostituisce alla legge. Tutti questi modelli accettano il principio della Ragion di Stato, fondato sulla emancipazione machiavellica della politica dalla morale.
Qual è l'unico modello storico a cui un cattolico può dunque guardare? È la società sacrale medievale, in cui, come affermava Leone XIII, «la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata ben addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli» e «la religione di Gesù Cristo, posta solidamente in quell'onorevole grado che le conveniva, cresceva fiorente all'ombra del favore dei principi e della dovuta protezione dei magistrati» (Enciclica Immortale Dei dell'1 novembre 1885).
Oggi si confonde il principio cattolico secondo cui nessuno può essere costretto con la forza a credere, con il principio del diritto all'errore in materia religiosa e morale. Ma quando la Chiesa insegna che l'uomo aderisce alla fede solo attraverso un libero atto della volontà, non intende assolutamente attribuire diritto di cittadinanza all'errore. Per questo Pio XII insegna che l'errore «non ha oggettivamente alcun diritto né all'esistenza, né alla propaganda, né all'azione» (Discorso Ci riesce del 6 dicembre 1953).
I cattolici possono accettare come un male minore il pluralismo religioso, ma un male minore non è certamente un diritto, e non è neanche necessariamente un piccolo male. Il cattolico deve desiderare con tutta la forza della sua anima una società integralmente cristiana e con altrettanto vigore deve deplorare il neutralismo religioso che costretto lo Stato moderno gli impone.
I cattolici liberali respingono istintivamente questi pensieri. Essi sono privi di spirito soprannaturale e credono più nelle forze dell'uomo che nell'aiuto di Dio. Ogni ideale sembra a loro inattuabile e tutto ciò che è sociologicamente visibile sembra a loro storicamente irreversibile. Nel fondo della loro anima essi rifiutano la lotta, che avvertono come la inevitabile conseguenza della professione della verità. Per viltà patteggiano con l'errore e per poca fede ne sono sopraffatti.
Non dobbiamo seguire il loro esempio, ma quello dei santi, che furono uomini come noi che vollero sempre dare il primo posto a Dio, nelle loro anime e nella società intera.
Per noi dunque non c'è altro ideale sociale che quello espresso dalla Regalità di Gesù Cristo. Pio XI nella enciclica Quas primas spiega che Cristo è Re non in senso metaforico, ma nel senso proprio della parola: il suo Regno non è di questo mondo (Gv. 18,36), perché dal mondo non trae la sua origine, ma ad esso si estende e in esso inizia a realizzarsi, per fiorire poi eternamente in Cielo.
Gesù possiede ogni potestà in cielo e in terra (Mt 18,28), ovvero detiene una sovranità assoluta sui cuori dei singoli uomini e su ogni genere di società umana, dalla famiglia allo Stato, in ogni tempo e in ogni luogo. Le condizioni storiche possono renderlo di difficile applicazione, ma il Regno di Gesù Cristo non è una formula devozionale: è l'unico modello a cui il cattolico possa tendere e l'unica condizione normale in cui gli uomini e le società possano vivere e prosperare.
di Roberto de Mattei
Fonte: Radici Cristiane

domenica 25 settembre 2011

L’ingresso in Diocesi del cardinale Scola: OMELIA


Venite e ascoltate»- La sequela di Cristo è propria dell’uomo saggio, che costruisce sulla roccia e non sulla sabbia

Duomo di Milano, 25 settembre 2011

1. «Non mancherà a Davide un discendente… ai sacerdoti leviti non mancherà mai chi stia davanti a me» (Prima Lettura, Ger 33,17-18). Proprio quando il Suo popolo, massacrato e deportato, sembrava perdere definitivamente la sua consistenza nazionale, Dio lo assicura per bocca del profeta Geremia con un annuncio che suona incredibile: «Come non si può… misurare la sabbia del mare, così io moltiplicherò… i leviti che mi servono» (Prima Lettura, Ger 33,22).
La liturgia eucaristica, in cui la Chiesa ambrosiana ricorda Sant’Anàtalo e i santi vescovi di Milano, rinnova oggi a noi la promessa evocata dalla Prima Lettura. Con l’ingresso in Diocesi del nuovo Arcivescovo, lo Spirito Santo garantisce l’ininterrotta catena di pastori nella Chiesa di Milano. La successione apostolica conferma che la promessa di fedeltà del Signore al Suo popolo non viene meno.
Nei mesi seguiti alla mia nomina ho spesso rivolto, con gratitudine, il pensiero alla nutrita schiera dei santi vescovi milanesi dei primi secoli e a tutti coloro che mi hanno preceduto su questa insigne cattedra di Ambrogio e di Carlo. La comunione con loro, nella fede e nell’esercizio del ministero, mi aiuterà a non dimenticare mai che il vescovo è preso a servizio del Popolo santo di Dio, per garantirne il profondo senso di fede. Solo se si lascerà condurre da questo sensus fidei, il vescovo potrà essere guida veramente autorevole.
2. «Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre!» (Seconda Lettura, Eb 13,8). Questo celebre versetto ci aiuta ad approfondire ulteriormente il contenuto centrale della promessa rinnovata oggi per noi dalla Parola di Dio. Essa si compie, una volta per tutte, in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Egli è il Vivente, l’Amato. In Lui ha preso forma definitiva l’alleanza di Dio con gli uomini. Gesù, della stirpe di Davide (cf. Prima Lettura, Ger 33,17), è il regno già in atto. Un regno di piena libertà per tutti gli uomini. Egli ci addita «la città futura» (cf. Seconda Lettura, Eb 13,13) e, in tal modo, è il profeta che ogni giorno schiude all’umanità una «speranza affidabile» (Benedetto XVI, Spe salvi 1). Egli è il sommo ed eterno sacerdote, definitiva via di accesso a Dio per ogni uomo (cf. Prima Lettura, Ger 33,18).
La Lettera agli Ebrei ci spinge a considerare attentamente l’esito della vita di Anàtalo e dei santi vescovi milanesi per imitarne la fede (cf. Seconda Lettura, Eb 13,7). Imitare la fede dei nostri santi pastori ci domanda anzitutto di accogliere l’annuncio che la Chiesa da duemila anni non si stanca di proporre: saggio è l’uomo che «costruisce la sua casa sulla roccia» (cf. Vangelo, Mt 7,24), cioè su Gesù Cristo vivente. Contro questa casa nulla possono le potenze del male, in ogni sua forma.
Tre mesi dopo l’ingresso a Milano dell’Arcivescovo Giovanni Battista Montini, il collegio dei parroci urbani lo sollecitò ad una missione cittadina. L’Epifania del 1956 l’Arcivescovo la propose, con una innovativa apertura a 360°, per l’autunno dell’anno successivo. Egli partiva da una lucida e profetica diagnosi sullo stato della vita cristiana nei battezzati. Scriveva già nel 1934, ben prima di diventare vescovo: «Cristo è un ignoto, un dimenticato, un assente in gran parte della cultura contemporanea». Nel giovane Montini era ben chiara una convinzione: un cristianesimo che non investa tutte le forme di vita quotidiana degli uomini, cioè che non diventi cultura, non è più in grado di comunicarsi. Da qui il processo che avrebbe portato inesorabilmente alla separazione tra la fede e la vita cui il magistero di Paolo VI fece spesso riferimento (cf. Paolo VI, Evangelii nuntiandi 22), e avrebbe condotto al massiccio abbandono della pratica cristiana con grave detrimento per la vita personale e comunitaria della Chiesa e della società civile.
Nei vent’anni del mio ministero episcopale, ho avuto dolorosa e crescente conferma dell’attualità di questa diagnosi, soprattutto per gli uomini e le donne delle generazioni intermedie. Essi sembrano sopraffatti dal “mestiere di vivere”. Normalmente non sono contrari al senso cristiano dell’esistenza, ma non riescono a vederne la convenienza per la vita quotidiana loro e dei loro cari.
D’altra parte la Chiesa non può prendere a pretesto, per attutire la necessità di fare i conti con questo giudizio, il travaglio proprio della convulsa transizione in cui siamo immersi, che ha nel male oscuro della cosiddetta crisi economica, finanziaria e politica la sua palese espressione.
Fin da ora voglio ripetere a tutti gli abitanti della diocesi l’invito dell’Arcivescovo Montini: «Se non vi abbiamo compresi … se non siamo stati capaci di ascoltarvi come si doveva, [oggi] vi invitiamo: “Venite ed ascoltate”» (Lettera di indizione della Missione cittadina). Tuttavia, come già fu per la missione montiniana, questo “Venite ed ascoltate” presuppone da parte dei cristiani un andare, un rendersi vicini agli uomini e alle donne in tutti gli ambiti della loro esistenza. Gesù stesso poté dire ai due discepoli del Battista che gli chiedevano di diventare suoi familiari «Venite e vedrete» (cf. Gv 1,39), perché con la Sua missione andava verso l’uomo concreto, per condividerne in tutto la condizione ed il bisogno. L’unico nostro intento è far trasparire Cristo luce delle genti sul volto della Chiesa (cf. Concilio Vaticano II, Lumen gentium 1; Sinodo dei Vescovi, Ecclesia sub Verbo Dei. Relatio finalis dell’Assemblea Straordinaria 1985, II. A2). Del resto questa è la ragione del suo esistere. Ma su tutto ciò ritorneremo nei quattro incontri con le realtà sociali e in quelli delle zone pastorali.
3. «Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (cf Seconda Lettura, Eb 13,14). Questa ricerca viene poi identificata dalla Lettera agli Ebrei con un continuo «sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome» (Seconda Lettura Eb 13,15). Se è ricerca domanda il rischio della nostra personale libertà. In quale direzione?
Il passaggio evangelico proclamato ci offre la risposta. Si situa alla conclusione del Discorso del Monte, dove Gesù parla delle beatitudini e contrappone l’«uomo saggio» all’«uomo stolto». Conviene riflettere un poco su questi due opposti tipi umani. La differenza tra loro si gioca tutta su una questione tanto semplice quanto impegnativa. Anche noi, sofisticati uomini del terzo millennio, siamo messi di fronte all’inevitabile alternativa: costruisce sulla roccia «chi ascolta le parole di Gesù e le mette in pratica» (cf. Vangelo Mt 7,24); mentre «chi ascolta le parole ma non le mette in pratica» (cf. Vangelo Mt 7,26), edifica sulla sabbia. Il primo ha davanti a sé un futuro, il secondo è inesorabilmente destinato a una «grande rovina» (cf. Vangelo Mt 7,27).
È Gesù che le parole del Vangelo di fatto identificano nell’uomo saggio. A noi è chiesto di seguirLo. Dobbiamo «uscire verso di Lui» (Seconda Lettura, Eb 13,13a) - ci esorta la Lettera agli Ebrei - superando ogni tentazione di adattamento alla mentalità di questo mondo ed accettando il rischio di «portarne il disonore» (Seconda Lettura, Eb 13,13b), cioè quella croce che Lo umiliò. Siamo appunto nella condizione di non avere «quaggiù una città stabile» (cf. Seconda Lettura, Eb 13,14).
Questa posizione umana è vertiginosa. E tuttavia non fa del cristiano un alienato. Anche se non è di questo mondo, egli è pienamente nel mondo. Lo abita lasciandosi abbracciare da Gesù, «centro del cosmo e della storia» (Giovanni Paolo II, Redemptor hominis 1). Egli edifica in tal modo la propria casa sulla roccia, sull’amore oggettivo ed effettivo. Nel dono totale di sé, reso possibile dalla sequela di Gesù, la vita fiorisce. Tanti di voi madri e padri, sposi, sacerdoti e consacrati … insomma, tutti coloro che amano veramente lo sanno bene. Il VII Incontro Mondiale delle Famiglie del maggio prossimo, in cui avremo il dono della presenza tra noi di Benedetto XVI, ci consentirà di riflettere sul significato dell’uomo-donna, del matrimonio, della famiglia e della vita. Aspetti che - con il lavoro ed il riposo (la festa), l’edificazione di una città giusta, la condivisione magnanima e perciò equilibrata delle fragilità, delle forme di emarginazione, del travaglio dell’immigrazione - descrivono l’esperienza comune di ogni uomo. Sono molto lieto di annunciare che il Consiglio Episcopale ha preparato l’Agenda Pastorale di quest’anno sui temi dell’Incontro Mondiale delle Famiglie.
Consentitemi un’ultima aggiunta per descrivere un poco questo umanissimo stile di vita di cui rendono testimonianza i santi vescovi che oggi celebriamo. Il brano evangelico, se letto nella sua intrinseca unità con tutta la Scrittura, ci offre tre preziosi orientamenti per la vita nuova in Cristo: una tensione indomita a fare il bene ed evitare il male; la pratica del culto cristiano, il culto umanamente conveniente (cf. Rom 12,1-2), che consiste nell’offerta di sé, autentica esperienza del bell’amore (cf. Sir 24,18); la decisa assunzione degli obblighi sociali, attraverso l’esercizio delle virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
L’uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia tocca con mano che il seguire questi orientamenti dilata il cuore. Diviene così testimone. Per comunicarsi agli uomini Cristo ha voluto avere bisogno degli uomini, di testimoni. Egli ha deciso di aver bisogno di me, di te, di ciascuno di noi. Qui sta la meraviglia della grazia di Cristo che esalta l’umana libertà.
4. Il Prefazio, che proclameremo fra poco, ci farà pregare con queste parole: «La Chiesa milanese, la comunità dei credenti si raccoglie in comunione col vescovo, lieta e grata di essere il Tuo popolo nuovo ravvivato dai doni dello Spirito Santo». Vescovi, presbiteri, diaconi, consacrate e consacrati, fedeli tutti e catecumeni, noi formiamo questo popolo nuovo. Noi crediamo fermamente che in questo momento lo Spirito del Risorto è sopra di noi, tra noi e perciò in noi.
Siete convenuti qui oggi, da ogni parte della nostra vasta diocesi, per accogliere il nuovo pastore. Con semplicità permettetemi di far mie le parole della Lettera agli Ebrei: «Obbedite ai vostri capi, state loro sottomessi - queste parole a prima vista ostiche, se messe a riparo dai nostri limiti, dicono libertà - perché essi vegliano su di voi e devono renderne conto, affinché lo facciano con gioia e non lamentandosi» (Seconda Lettura, Eb 13,17-18). Ho bisogno di voi, di tutti voi, per poter svolgere nella gioia e non nel lamento questo gravoso compito, di cui - ne sono ben consapevole - dovrò render conto. Per questo cercherò di far mie le parole che il Santo Padre ha rivolto a me e ai Vescovi Ausiliari mercoledì scorso consegnandomi il pallio: «l’Arcivescovo viene da Milano e tutto il suo cuore sarà per Milano». Ma anche voi, come osserva acutamente il testo sacro, non dovrete mai dimenticare che la gioia del vostro pastore è un «vantaggio per voi» (cf. Seconda Lettura, Eb 13,17).
Una comunità grata e lieta è la nostra, sorelle e fratelli carissimi. La roccia su cui il saggio costruisce la sua casa è potentemente evocata dal Duomo che ora ci raccoglie, secolare espressione di unità della comunità cristiana e della società civile di questa nostra Milano e di tutte le terre lombarde. La Madunina, l’Assunta nella gloria, che sempre abbiamo voluto svettante sopra ogni edificio milanese, intercede per noi. Come fanno le mamme con i loro bambini, questa sera ci sussurra, con le parole del Prefazio, la dolce vicinanza di Gesù misericordioso, che ci spalanca a tutti i nostri fratelli uomini: i cristiani «riuniti per la tua misericordia dall’annunzio del vangelo, rinsaldano nella cena di Cristo i vincoli della fraterna carità e divengono un segno di unità e di amore perché il mondo creda e ti riconosca». Amen.

venerdì 23 settembre 2011

La forza di un nome di uomo

In questa lunga crisi politica italiana (iniziata nel 92-93 con mani pulite cioè con l'ingresso della magistratura in politica e la conseguente riforma del sistema elettorale e la risposta berlusconiana) oggi accade di sentire spesso la domanda: e ora chi? Come se archiviato forse troppo frettolosamente il quindicennio del Berlusca - l'unico che almeno ha indicato un erede degno e una linea politica al suo partito- ora ci fosse una specie di orfanità.
Chi, quello? no, quello non c'ha i voti. Chi, allora, tizio? non ci ha le palle. Caio no, no troppi scheletri in armadio. E Sempronio? no, troppo cattolico, le logge che contano non glielo permettono... Insomma l'era del personalismo in politica ci sembra lasciare con un vuoto di personalità all'altezza del compito grave che spetta chi governerà l'Italia, cioè quel paese che le banche d'affari danno per fallito, ma che gli italiani invece non mollano e vedremo chi ha ragione. Ma forse la domanda è sbagliata. E speriamo che la riforma del sistema elettorale, correggendo un sistema di selezione politica che ha favorito in ogni schieramento e partito l'emersione di cortigiani e parvenu senza né cultura né voti. riporti in auge non più la domanda "e chi?" ma quella "e noi?"
dr
http://www.clandestinozoom.it

SOLO UN PAPA CI PUO' SALVARE. UN GRANDE DISCORSO NON MINIMALISTA SU RAGIONE E POLITICA IN OCCIDENTE



Da "IL FOGLIO" di venerdì 23 settembre 2011
Solo un Papa ci può salvare. Un grande discorso non minimalista su ragione e politica in occidente S olo un Papa ci può salvare. Da tempo Benedetto XVI, regnante con ardente intelligenza e millenaria malizia sulla chiesa cattolica, parlava di Dio, e invitava a pregare e a espiare le colpe personali e della chiesa. Il Ratzinger teologico-politico, quello delle grandi battaglie di cultura e del discorso di Ratisbona, sembrava essersi immerso nelle profonde acque della sola fede.
Faceva, il nostro amato Papa, quello che fecero i gesuiti all`inizio del Seicento, sotto il preposito Acquaviva, un geniale abruzzese, figlio del Duca d`Atri, che cercò di ricostruire in in, teriore Nomine e in nuove regole educative e di preghiera, la spiritualità dell`ordine che era messa in discussione dal multiforme contatto con il mondo, dopo la tempesta Luterana e il dramma del chiostro vissuto dal monaco agostiniano che aveva rotto l`unità del cristianesimo d`occidente con il suo tremendo genio religioso e la sua grandiosa eresia carica di modernismo.
Ieri, nello splendido discorso tenuto al Bundestag, il Parlamene to della sua patria, è riemerso in chiara, mite e fulgidissima luce - la luce dell`intelligenza e della ragione - quel formidabile professor Ratzinger che fu eletto alla guida della chiesa di Roma su una piattaforma di lotta intellettuale ed etica alla deriva relativista e nichilista dell`occidente moderno. Che solo un Papa può salvare (altro che il Dio oscuro di Martin Heidegger).
Benedetto ha sorpreso tutti. Niente affiato pastorale minimalista, niente catechesi ordinaria, e invece un energico, nitido e straordinario richiamo alla sostanza di ciò che è politico, pubblico, e alla questione filosofico-giuridica di come si possa fare la cosa giusta, condurre una vita giusta, reggere governi e stati giusti, fare leggi giuste in un mondo che non dipende più dalla tradizione, dall`autorevolezza intrinseca della fede, ma dalla democrazia maggioritaria.
Nell`esordio scritturale c`era già tutto. Re Salomone chiede a Dio un cuore docile e la capacità di distinguere il bene dal male.
E non ci sarebbe nulla da aggiungere. Ma quella soave e fatale domanda è svolta poi da Benedetto nei termini di una grande lezione filosofica, storica e teologica sui fondamenti, anzi sulla fondazione politica, della nostra cultura e della nostra idea di libertà, di umanità, di natura e di ragione. I giganti usino parole semplici e concetti alla portata di tutti, non sono esoterici, parlano al centro forte e realista dell`intelligenza umana. E così ha fatto il Papa, rivolto alle Damen und Herren del Bundestag. Evitando le polemiche, e accarezzando la verità come un bambino farebbe con un balocco di Norimber`ga. (La Germania si addice a Benedetto XVI come la Polonia si addiceva a Giovanni Paolo II).
Il discorso è lì, lo si legge nella doverosa pubblicazione integra- le, e il suo significato è univoco. Non è un discorso intercettabile dalle polemiche e dai sofismi. Se siamo liberi, se siamo in un mondo laico, se siamo padroni del nostro destino è perché siamo cristiani.
Il cristianesimo non ha imposto come legge la Rivelazione, non è la sharia, non è uno spazio mitico per litigiosi dei. Alla base dei diritti umani, delle conquiste dell`Illuminismo, dell`idea stessa moderna di coscienza, sta la scelta cristiana e cattolica in favore del diritto di natura e della legge di ragione, sta il percorso storico radicato nelle verità scritte da san Paolo nella Lettera ai Romani, in Agostino d`Ippona e nella cultura dei padri della chiesa. La dimostrazione è per tabulas, granitica in senso logico ma mai superciliosa, e culmina nella contestazione argomentata di una concezione positivistica del diritto, quella del grande giurista Hans Kelsen, che non riesce a trovare la strada di una vera giustizia quando teorizza che ogni norma corrisponde a una volontà, e dalla volontà esclude la misteriosa volontà di Dio, di un Creator Spiritus, Anche chi non ha la fede capisce che l`origine del tutto che noi siamo è misteriosa, che qualcosa di inconoscibile sta alla base di ciò che è, e che senza il riconoscimento dell`essere delle cose il pensiero e il mondo si frantumano in un delirio del soggetto che si fa lui creatore del mondo, e lo porta a sicura rovina.
Il Papa ha fatto un delicato e succoso riferimento all`ecologia, nella terra generatrice del fenomeno dei Verdi, e ha aggiunto con malizioso acume che l`ecologia è prima di tutto l`ecologia dell`uomo.
Non è stato necessario parlare di aborto, di sessualità, di amore profano, di usi e costumi dell`occidente postmoderno, per essere chiaro e privo di infingimenti. La chiesa è tante cose, com`è ovvio, e la sua funzione apostolica o la sua vita comunitaria come corpo mistico di Gesù Cristo supera di slancio, che sia maggioranza o minoranza tra gli uomini e le donne non importa, ogni altra sua funzione. Ma Benedetto XVI ha ricordato a un grande paese colto e possente della vecchia Europa, che ha avuto nel suo passato il dramma e la colpa del più tragico totalitarismo della storia, che i cristiani sono, nella loro totalità operante, una grande agenzia di cultura e di pensiero umano capace di mettere in discussione ogni totalità, anche quella relativistica e nichilista, impegnando nello spazio pubblico la loro coscienza teologica, filosofica e politica. L`Osservatore preannunciava che avrebbe "incontrato la gente per parlare di Dio". E in un certo senso questo sta facendo il Papa in Germania. Ma al Bundestag ha parlato dell`uomo.
Tutto sommato Dio si sa che cosa sia. E` l`uomo che è diventato un clamoroso e qualche volta fosco mistero. So- prattutto per se stesso.
[.]

lunedì 12 settembre 2011

Il dono che ci strappa dall'individualismo



CELEBRAZIONE EUCARISTICA A CONCLUSIONE DEL XXV CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE ITALIANO
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Carissimi fratelli e sorelle!

Sei anni fa, il primo viaggio apostolico in Italia del mio pontificato mi condusse a Bari, per il 24° Congresso Eucaristico Nazionale. Oggi sono venuto a concludere solennemente il 25°, qui ad Ancona. Ringrazio il Signore per questi intensi momenti ecclesiali che rafforzano il nostro amore all’Eucaristia e ci vedono uniti attorno all’Eucaristia! Bari e Ancona, due città affacciate sul mare Adriatico; due città ricche di storia e di vita cristiana; due città aperte all’Oriente, alla sua cultura e alla sua spiritualità; due città che i temi dei Congressi Eucaristici hanno contribuito ad avvicinare: a Bari abbiamo fatto memoria di come “senza la Domenica non possiamo vivere”; oggi il nostro ritrovarci è all’insegna dell’“Eucaristia per la vita quotidiana”.

Prima di offrivi qualche pensiero, vorrei ringraziarvi per questa vostra corale partecipazione: in voi abbraccio spiritualmente tutta la Chiesa che è in Italia. Rivolgo un saluto riconoscente al Presidente della Conferenza Episcopale, Cardinale Angelo Bagnasco, per le cordiali parole che mi ha rivolto anche a nome di tutti voi; al mio Legato a questo Congresso, Cardinale Giovanni Battista Re; all’Arcivescovo di Ancona-Osimo, Mons. Edoardo Menichelli, ai Vescovi della Metropolìa, delle Marche e a quelli convenuti numerosi da ogni parte del Paese. Insieme con loro, saluto i sacerdoti, i diaconi, i consacrati e le consacrate, e i fedeli laici, fra i quali vedo molte famiglie e molti giovani. La mia gratitudine va anche alle Autorità civili e militari e a quanti, a vario titolo, hanno contribuito al buon esito di questo evento.

“Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60). Davanti al discorso di Gesù sul pane della vita, nella Sinagoga di Cafarnao, la reazione dei discepoli, molti dei quali abbandonarono Gesù, non è molto lontana dalle nostre resistenze davanti al dono totale che Egli fa di se stesso. Perché accogliere veramente questo dono vuol dire perdere se stessi, lasciarsi coinvolgere e trasformare, fino a vivere di Lui, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda Lettura: “Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,8).

“Questa parola è dura!”; è dura perché spesso confondiamo la libertà con l’assenza di vincoli, con la convinzione di poter fare da soli, senza Dio, visto come un limite alla libertà. E’ questa un’illusione che non tarda a volgersi in delusione, generando inquietudine e paura e portando, paradossalmente, a rimpiangere le catene del passato: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto…” – dicevano gli ebrei nel deserto (Es 16,3), come abbiamo ascoltato. In realtà, solo nell’apertura a Dio, nell’accoglienza del suo dono, diventiamo veramente liberi, liberi dalla schiavitù del peccato che sfigura il volto dell’uomo e capaci di servire al vero bene dei fratelli.

“Questa parola è dura!”; è dura perché l’uomo cade spesso nell’illusione di poter “trasformare le pietre in pane”. Dopo aver messo da parte Dio, o averlo tollerato come una scelta privata che non deve interferire con la vita pubblica, certe ideologie hanno puntato a organizzare la società con la forza del potere e dell’economia. La storia ci dimostra, drammaticamente, come l’obiettivo di assicurare a tutti sviluppo, benessere materiale e pace prescindendo da Dio e dalla sua rivelazione si sia risolto in un dare agli uomini pietre al posto del pane. Il pane, cari fratelli e sorelle, è “frutto del lavoro dell’uomo”, e in questa verità è racchiusa tutta la responsabilità affidata alle nostre mani e alla nostra ingegnosità; ma il pane è anche, e prima ancora, “frutto della terra”, che riceve dall’alto sole e pioggia: è dono da chiedere, che ci toglie ogni superbia e ci fa invocare con la fiducia degli umili: “Padre (…), dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11).

L’uomo è incapace di darsi la vita da se stesso, egli si comprende solo a partire da Dio: è la relazione con Lui a dare consistenza alla nostra umanità e a rendere buona e giusta la nostra vita. Nel Padre nostro chiediamo che sia santificato il Suo nome, che venga il Suo regno, che si compia la Sua volontà. E’ anzitutto il primato di Dio che dobbiamo recuperare nel nostro mondo e nella nostra vita, perché è questo primato a permetterci di ritrovare la verità di ciò che siamo, ed è nel conoscere e seguire la volontà di Dio che troviamo il nostro vero bene. Dare tempo e spazio a Dio, perché sia il centro vitale della nostra esistenza.

Da dove partire, come dalla sorgente, per recuperare e riaffermare il primato di Dio? Dall’Eucaristia: qui Dio si fa così vicino da farsi nostro cibo, qui Egli si fa forza nel cammino spesso difficile, qui si fa presenza amica che trasforma. Già la Legge data per mezzo di Mosè veniva considerata come “pane del cielo”, grazie al quale Israele divenne il popolo di Dio, ma in Gesù la parola ultima e definitiva di Dio si fa carne, ci viene incontro come Persona. Egli, Parola eterna, è la vera manna, è il pane della vita (cfr Gv 6,32-35) e compiere le opere di Dio è credere in Lui (cfr Gv 6,28-29). Nell’Ultima Cena Gesù riassume tutta la sua esistenza in un gesto che si inscrive nella grande benedizione pasquale a Dio, gesto che Egli vive da Figlio come rendimento di grazie al Padre per il suo immenso amore. Gesù spezza il pane e lo condivide, ma con una profondità nuova, perché Egli dona se stesso. Prende il calice e lo condivide perché tutti ne possano bere, ma con questo gesto Egli dona la “nuova alleanza nel suo sangue”, dona se stesso. Gesù anticipa l’atto di amore supremo, in obbedienza alla volontà del Padre: il sacrificio della Croce. La vita gli sarà tolta sulla Croce, ma già ora Egli la offre da se stesso. Così la morte di Cristo non è ridotta ad un’esecuzione violenta, ma è trasformata da Lui in un libero atto d’amore, in un atto di auto-donazione, che attraversa vittoriosamente la stessa morte e ribadisce la bontà della creazione uscita dalle mani di Dio, umiliata dal peccato e finalmente redenta. Questo immenso dono è a noi accessibile nel Sacramento dell’Eucaristia: Dio si dona a noi, per aprire la nostra esistenza a Lui, per coinvolgerla nel mistero di amore della Croce, per renderla partecipe del mistero eterno da cui proveniamo e per anticipare la nuova condizione della vita piena in Dio, in attesa della quale viviamo.

Ma che cosa comporta per la nostra vita quotidiana questo partire dall’Eucaristia per riaffermare il primato di Dio? La comunione eucaristica, cari amici, ci strappa dal nostro individualismo, ci comunica lo spirito del Cristo morto e risorto, ci conforma a Lui; ci unisce intimamente ai fratelli in quel mistero di comunione che è la Chiesa, dove l’unico Pane fa dei molti un solo corpo (cfr 1 Cor 10,17), realizzando la preghiera della comunità cristiana delle origini riportata nel libro della Didaché: “Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto divenne una cosa sola, così la tua Chiesa dai confini della terra venga radunata nel tuo Regno” (IX, 4). L’Eucaristia sostiene e trasforma l’intera vita quotidiana. Come ricordavo nella mia prima Enciclica, “nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri”, per cui “un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata” (Deus caritas est, 14).

La bimillenaria storia della Chiesa è costellata di santi e sante, la cui esistenza è segno eloquente di come proprio dalla comunione con il Signore, dall’Eucaristia nasca una nuova e intensa assunzione di responsabilità a tutti i livelli della vita comunitaria, nasca quindi uno sviluppo sociale positivo, che ha al centro la persona, specie quella povera, malata o disagiata. Nutrirsi di Cristo è la via per non restare estranei o indifferenti alle sorti dei fratelli, ma entrare nella stessa logica di amore e di dono del sacrificio della Croce; chi sa inginocchiarsi davanti all’Eucaristia, chi riceve il corpo del Signore non può non essere attento, nella trama ordinaria dei giorni, alle situazioni indegne dell’uomo, e sa piegarsi in prima persona sul bisognoso, sa spezzare il proprio pane con l’affamato, condividere l’acqua con l’assetato, rivestire chi è nudo, visitare l’ammalato e il carcerato (cfr Mt 25,34-36). In ogni persona saprà vedere quello stesso Signore che non ha esitato a dare tutto se stesso per noi e per la nostra salvezza. Una spiritualità eucaristica, allora, è vero antidoto all’individualismo e all’egoismo che spesso caratterizzano la vita quotidiana, porta alla riscoperta della gratuità, della centralità delle relazioni, a partire dalla famiglia, con particolare attenzione a lenire le ferite di quelle disgregate. Una spiritualità eucaristica è anima di una comunità ecclesiale che supera divisioni e contrapposizioni e valorizza le diversità di carismi e ministeri ponendoli a servizio dell’unità della Chiesa, della sua vitalità e della sua missione. Una spiritualità eucaristica è via per restituire dignità ai giorni dell’uomo e quindi al suo lavoro, nella ricerca della sua conciliazione con i tempi della festa e della famiglia e nell’impegno a superare l’incertezza del precariato e il problema della disoccupazione. Una spiritualità eucaristica ci aiuterà anche ad accostare le diverse forme di fragilità umana consapevoli che esse non offuscano il valore della persona, ma richiedono prossimità, accoglienza e aiuto. Dal Pane della vita trarrà vigore una rinnovata capacità educativa, attenta a testimoniare i valori fondamentali dell’esistenza, del sapere, del patrimonio spirituale e culturale; la sua vitalità ci farà abitare la città degli uomini con la disponibilità a spenderci nell’orizzonte del bene comune per la costruzione di una società più equa e fraterna.

Cari amici, ripartiamo da questa terra marchigiana con la forza dell’Eucaristia in una costante osmosi tra il mistero che celebriamo e gli ambiti del nostro quotidiano. Non c’è nulla di autenticamente umano che non trovi nell’Eucaristia la forma adeguata per essere vissuto in pienezza: la vita quotidiana diventi dunque luogo del culto spirituale, per vivere in tutte le circostanze il primato di Dio, all’interno del rapporto con Cristo e come offerta al Padre (cfr Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis, 71). Sì, “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4): noi viviamo dell’obbedienza a questa parola, che è pane vivo, fino a consegnarci, come Pietro, con l’intelligenza dell’amore: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69).

Come la Vergine Maria, diventiamo anche noi “grembo” disponibile ad offrire Gesù all’uomo del nostro tempo, risvegliando il desiderio profondo di quella salvezza che viene soltanto da Lui. Buon cammino, con Cristo Pane di vita, a tutta la Chiesa che è in Italia!
Amen.



© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

venerdì 9 settembre 2011

«Ho ancora il cuore commosso»


In vista del suo arrivo alla Diocesi di Milano, il cardinale Angelo Scola è stato ricevuto dal Papa. E in un’intervista a Radio Vaticana, passando per le urgenze del Paese e la situazione dei giovani, racconta cosa sta scoprendo in questi giorni

Il cardinale Angelo Scola.
Di cosa ha bisogno oggi l’Italia per superare la crisi?
L’Italia ha bisogno di ciò che già grandi pensatori, come Platone, dicevano: «Uomini che come dei bravi tessitori usino un ordito solido e una trama morbida per fare rete». In questo Paese bisogna ritornare all’uomo e alle relazioni originarie e costitutive che ogni uomo vive, a partire da quelle fondamentali legate alla famiglia. Bisogna ritornare con energia a credere che l’altro, accolto fino in fondo e partendo da un senso adeguato della vita, può dare sempre ricchezza. Bisogna far riferimento a una società civile, come la nostra - anche se molti criticano questa idea - che è la più ricca d’Europa, piena di risorse, piena di gente che si mette in gioco tutti i giorni col lavoro, con la famiglia, e far leva sui fermenti associativi che vivono in questa società per ridare un volto al Paese. E la politica e le istituzioni debbono servire a governare questa ricchezza senza pretendere di gestirla direttamente: tutta la politica deve assumersi fino in fondo le proprie responsabilità e, soprattutto in questo momento di grave crisi, deve dare l’indirizzo circa i rapporti economici e finanziari all’interno del Paese, circa la modalità dello scambio, circa la pratica di una giustizia sociale adeguata; ma poi deve favorire la vita di queste realtà che sono alla base e che in Italia sono ancora solide. Io sono convinto che se si sceglierà questa strada - la strada di relazioni buone e di pratiche virtuose - l’Italia, insieme a tutti gli altri Paesi europei del mondo, uscirà dal male oscuro di questa crisi. Milano sicuramente - è sotto gli occhi di tutti - per quanto riguarda il nostro Paese, ha un compito capitale insostituibile in questa direzione.

Un suo pensiero per i giovani che stanno subendo le conseguenze maggiori di questa crisi…
Io sono rimasto colpito a Madrid da una cosa: la maggioranza dei ragazzi di Madrid era giovanissima, dai 15 ai 18 anni, e ha cambiato il volto della Gmg. Io ho visto lì l’apertura fresca e semplice di questi ragazzi a Gesù e la loro domanda di senso della vita: poi magari saranno fragili, ma tutte le generazioni a loro modo sono state fragili… Io credo che tutti questi ragazzi abbiano già in sé la risorsa per affrontare questo periodo che per loro è delicatissimo. Ho scritto mesi fa che oggi «la questione giovanile è la vera questione sociale». Io credo, però, che se gli adulti sapranno rinunciare a qualcosa e fare un passo indietro, questi giovani sono già protagonisti del futuro. Come dico sempre loro: «Non lasciatevi ingannare quando vi dicono che voi siete il futuro, perché se non siete già il presente, non sarete neanche il futuro».

Ieri il suo congedo da Venezia …
Sono stato realmente sorpreso dall’intensità e dall’affetto che ho toccato con mano, dopo il primo momento di smarrimento un po’ da parte di tutti per questa mia nomina, anche perché era stata preceduta dalla nomina dell’ausiliare vicario generale a Vicenza. Un affetto oggettivo, legato al cammino di comunione che - con tutti i nostri difetti - abbiamo fatto: l’ho visto anzitutto nel gesto del Pontificale, ieri sera, in San Marco con una presenza foltissima di sacerdoti, religiosi, religiose e laici; l’ho visto nella modalità con cui è stata accolta la mia proposta di segnare la visita del Papa, al termine della visita pastorale, lasciando un’opera di carità al posto di regali; l’ho visto nel desiderio con cui stanno già pregando intensamente per il nuovo Patriarca, così come nella voglia di continuare l’esperienza di ogni autentica Chiesa, della sequela di Cristo, dentro le comunità; e l’ho visto - già da mesi - da come nelle parrocchie, nelle aggregazioni tutti i discorsi del Santo Padre nel Triveneto e a Venezia siano oggetto di lavoro e di meditazione soprattutto in vista dell’incontro di “Aquileia 2”, che vedrà riunite anzitutto le Chiese del Triveneto, ma anche le altre Chiese nate dall’antica Aquileia, per affrontare la nuova evangelizzazione in questa delicata fase storica. Poi c’è stato un altro segno, per me una sorpresa: le autorità civili, il presidente della Regione, il presidente della Provincia e il sindaco hanno voluto offrirmi un concerto – lunedì scorso – alla Fenice, come segno di addio. Cosa che io non mi aspettavo proprio e cosa ancor più bella che tutti - il direttore d’orchestra, gli orchestrali e tutte le maestranze - hanno fatto questo gratuitamente e senza nulla a pretendere. Ieri, poi, i gondolieri mi hanno fatto fare un giro bellissimo su una gondola a 18 remi: le remiere e i gondolieri mi hanno voluto vicino… Ci sono stati tanti segni di gratitudine che non so se io meritassi… Sono molto, molto commosso e porto Venezia nel cuore. Sono convinto che Venezia giocherà un ruolo decisivo per il futuro della Chiesa e per il futuro non solo del nostro Paese, perché è veramente una città dell’umanità. Forse ho detto le cose un po’ alla rinfusa, ma ho ancora il cuore un po’ troppo commosso… Questo è ciò che mi resta dentro!
di Sergio Centofanti (da Radio Vaticana, 8 settembre 2011)

L'addio del patriarca Scola a Venezia


«Questo distacco ci rende più uniti»
Prima il saluto ai sacerdoti e ai vescovi del Nordest nella Basilica della Salute, poi l’ultimo giro nella gondola con 18 rematori lungo il Canal Grande per raccogliere tutto l’affetto dei veneziani, infine la commossa concelebrazione nella Basilica di San Marco. E qui la rassicurazione del cardinale Angelo Scola, arcivescovo eletto di Milano, per 10 anni patriarca della città della laguna. «L’esperienza del distacco, già orientato a un presente di risurrezione, rende ogni partenza provvidenziale – ha detto il porporato –. E la prospettiva della risurrezione ci fa capire che ogni prova è per il nostro bene e ciò che il nostro cuore trattiene ancora di terreno lo si deve orientare verso il cielo». Ieri sera il congedo da Venezia, dalla sua Chiesa; l’altra sera, alla Fenice, quello dalle istituzioni (presenti, fra gli altri, gli operai della Vinyls che l’hanno ringraziato).

Sobria e al tempo stesso solenne, la celebrazione di ieri sera, a cui non ha voluto mancare il patriarca emerito, Marco Cé. Scola guarda in volto la sua gente e insiste con le rassicurazioni: «Questa non è una partenza – rincuora – questo non è propriamente un distacco, non solo perché 10 anni di vita non sono uguale a zero; non solo per la bellezza struggente della nostra Venezia che oggi le Remiere mi hanno fatto vedere con la luce intensissima attraverso un lungo percorso acqueo, non solo per quanto abbiamo potuto realizzare con le nostre forze, non solo perché ci perdoniamo a vicenda ciò che eventualmente di male ci avessimo arrecato. No, nessuna partenza è una partenza, per chi è incamminato verso l’unica meta – Cristo nostra vita – ogni distacco, ci fa mettere a fuoco questa meta».

Con questa premessa, Scola passa ai ringraziamenti: dal cardinale Cé, «che mi è stato più che fratello in tutti questi anni», al vescovo Beniamino Pizziol – che da questa mattina assume il compito di amministratore apostolico fino all’arrivo del nuovo patriarca – dai sacerdoti ai religiosi ai fratelli delle altre confessioni, presenti pure loro in basilica, dai laici alla società civile e alla autorità, dai bambini agli anziani, agli ammalati, ai poveri e agli emarginati. Scola, poi, ha chiesto che eventuali offerte raccolte nell’occasione del suo saluto siano destinate ad un’opera che sappia educare al gratuito.
«Quanto è bella, la nostra Chiesa – ha esclamato Scola –: realmente un luogo di pluriformità nell’unità. Una Chiesa che ha un presbiterio solido, ricco, pluriforme, ma unito». Poi il cardinale ha chiesto scusa per eventuali peccati di omissione: «Domando scusa a coloro che volontariamente o involontariamente avessi potuto offendere in questo cammino. Credo che se ho peccato contro questa Chiesa, ho soprattutto peccato di omissione».

E dopo aver raccontato l’ultimo viaggio in gondola («dalle acque vedevo il prorompere della bellezza della nostra Venezia, assolutamente indicibile, indescrivibile e vedevo la gioia di tutti i visitatori sui vaporetti, stupiti, che salutavano entusiasti, oltre che dei veneziani che mi chiamavano per nome»), Scola ha riservato un messaggio rassicurante anche alla città. «Questo è un presente solido – ha detto –: questa Venezia larga, che non deve più aver bisogno di subordinate per descriversi, dobbiamo amarla tutta, dobbiamo amarci come una cosa sola nell’arcipelago della nostra varietà, perché è messaggio all’umanità».

Al termine della celebrazione un bambino, accompagnato dalla sua famiglia, ha donato a Scola, a nome di tutta la Chiesa diocesana, un anello episcopale che riproduce i simboli principali del patriarcato.
Francesco Dal Mas

A te, Chiesa di Milano, il Signore doni “gioia e pace”


L'8 settembre Natività della Beata Vergine Maria il cardinale Dionigi Tettamanzi ha salutato la Diocesi di Milano, che attende l'arrivo del nuovo Arcivescovo, il cardinale Angelo Scola, «per compiere insieme un altro tratto di strada». Ecco le sue parole:

Carissimi,
in questo giorno, per me così particolare, mi rivolgo a voi per
trasmettervi con il cuore pieno di fiducia e di speranza quell’invito alla gioia
che la liturgia di oggi rivolge a tutti con il suo canto iniziale «Celebriamo con
gioia la Natività della beata vergine Maria; da lei è sorto il Sole di giustizia,
Cristo nostro Dio» (Ingresso). La nostra è soltanto un’eco di quella gioia che
colma il cuore stesso di Dio: «È tuo onore e vanto, o Dio, che una creatura così
splendida e pura sia nata nel mondo» (Conclusione della Liturgia della parola). Il
motivo di questa gioia è dunque la nascita di Maria: «Noi celebriamo oggi il
giorno felice in cui apparve nel mondo come splendida stella l’immacolata e
gloriosa Madre di Dio» (Prefazio).
Proprio in questa Cattedrale, in cui tante volte ho pregato con voi,
simbolo e compendio di tutte le Chiese della Diocesi e luogo della mia
ordinazione presbiterale ed episcopale, e nel contesto della Solennità di Maria
Nascente cui è dedicato il Duomo, la provvidenza divina mi offre oggi la grazia
di rivolgere il saluto ufficiale al termine del mio mandato episcopale al servizio
della Chiesa di Dio che è in Milano.
E non può essere che un saluto tutto ispirato alla maternità di Maria e
alla straordinaria fecondità della Chiesa: un saluto veramente sereno e gioioso,
pur accompagnato da quei sentimenti umani che sono legati ad alcune
inevitabili forme di distacco. Questo distacco avvicina a Gesù e fa riscoprire
un’idea più profonda del mistero della Chiesa. E’ una visione della Chiesa più alta e più lungimirante: con la Chiesa professo la mia fede, per essa rinnovo
tutto il mio affetto e ripongo ogni mia speranza. Sento oggi quanto mai viva in
me la verità affascinante e impegnativa del motto episcopale che da ventidue
anni mi accompagna come Vescovo: “gaudium et pax”. I sentimenti e lo stile
con cui volevo servire la Chiesa, come fratello e come Vescovo, erano nel segno
della gioia e della pace.

Oggi vorrei che l’esperienza della gioia e della pace non fossero tanto la
sintesi del mio servizio in mezzo a voi, quanto l’augurio più semplice e
appassionato per il nostro cammino e per il cammino di tutta la Chiesa aperta
al domani: «A te, Chiesa di Milano, il Signore doni gioia e pace». Mi pare di poter
ritrovare questa «gioia che dona pace» secondo un triplice sguardo di gratitudine
che ha segnato e dovrà segnare il nostro cammino di Chiesa, nella fedeltà al
Signore e ai suoi disegni.
Riconosci la tua bellezza
Il primo sguardo contempla la bellezza spirituale di Maria santissima e
della Chiesa, di cui la Madonna è immagine vivente: una contemplazione tutta
vibrante di gratitudine e di fiducia per quanto mi è stato donato di grazia, di
bene, di santità in questi anni del mio ministero episcopale. La bellezza
spirituale di Maria deve essere considerata non solo in se stessa – come aurora
del Sole di giustizia e come Madre di Cristo – ma anche in rapporto alla
Chiesa, di cui ella è specchio vivo e splendido (cfr. Lumen gentium, n.63). Per
questo la liturgia, mentre parla di Maria che «sorge come l’aurora, bella come la
luna, fulgida come il sole» (Cantico 6,10), dice moltissimo anche della realtà
della Chiesa: «Io sono la madre dell’amore e del timore, della conoscenza e della
santa speranza; in me ogni dono di vita e verità, in me ogni speranza di vita e
virtù. Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti»
(Siracide, 24,18-19).
In particolare, nella festa della nascita di Maria, in questo maestoso
Duomo, desidero fare memoria e rendere grazie a Dio della bellezza e della
luminosità di questa nostra Chiesa ambrosiana, in se stessa e nelle sue
2concrete comunità, nelle famiglie e nelle singole persone. Ci sono vivi, nascosti
e manifesti, molti doni e numerosi carismi di fede e di esperienza spirituale; ci
sono infinite generosità a servizio dei più umili e dei più poveri, in diversi
contesti sociali e in mezzo a molte difficoltà. Quanta carità e buon esempio ho
visto di persona in questi anni! E quanto amore!
Voglio ricordare i ragazzi e i giovani che ho incontrato, con la loro
freschezza e il loro entusiasmo. Vedo davanti a me tanti genitori che amano i
loro figli e desiderano per essi un futuro di verità e di giustizia, in cui possano
crescere accanto a qualcuno che parli loro di Dio e del suo amore per noi.
Penso a tanti uomini e donne di buona volontà che lavorano per il bene
comune, affrontando molti ostacoli e con straordinaria perseveranza.
Sono molto vicino ai miei confratelli sacerdoti, verso i quali mi spingono
una grande stima e un affetto sincero. Carissimi, stiamo attraversando molti
cambiamenti nella Chiesa e nella società: cambiamenti che ci hanno portato
anche a qualche sofferenza e ad alcune scelte non facili; ma tutto questo ci
apre al futuro, ci purifica, ci riconduce all’essenziale, ci fa riflettere
innanzitutto sulla nostra stessa fede e sul senso profondo del nostro
ministero. Vorrei dire a tutti i sacerdoti di questa nostra Chiesa: da oggi,
nell’intercessione della preghiera, vi sentirò ancora più vicini. In particolare,
oggi, vorrei ricordare, ringraziandoli, S. E. il Vicario Generale, i Vescovi
ausiliari, i Vicari episcopali delle Zone e dei settori pastorali, i Decani, i diversi
collaboratori. Un saluto cordialissimo desidero rivolgere al cardinale Carlo
Maria Martini, che mi ha sempre accompagnato con ammirevole discrezione e
molto affetto. In questi anni ho sentito davvero il conforto e l’intercessione
della sua preghiera.
Non posso dimenticare i carissimi seminaristi – in particolare i
Candidati 2012 –, i diaconi, i consacrati e le consacrate – di cui è ancora così
ricca la nostra Chiesa – e tutti i fedeli laici, soprattutto coloro che a diverso
titolo si impegnano nella Chiesa e nella società con una chiara testimonianza
evangelica.
Ai figli di questa santa Chiesa di Milano non mancano certo le rughe e
qualche macchia di infedeltà nell’accogliere il Vangelo e nel rispondere al
mandato universale della carità. E tuttavia, mentre lo riconosciamo umilmente
3e con sincerità di cuore, voglio rendere anzitutto testimonianza del bene e dei
segni di Dio che in questi anni ho potuto contemplare nella nostra Chiesa
milanese. Vi sono autentici tesori di santità, di generosità, di purezza di cuore,
di carità vera che costituiscono la bellezza spirituale e umana di questa
Chiesa. E se ho cercato di servire e guidare questa Chiesa, devo riconoscere
con gratitudine di esserne stato anzitutto io stesso edificato, incoraggiato e
ricolmato di gioia grazie ad un’infinità di persone – che ho cercato di salutare
ad una ad una – e a molte comunità. Per questo guardo alla Chiesa di Milano
e al suo futuro con umile realismo, sempre colmo di fiducia e di serenità.

Corri sulle vie del Vangelo
Il secondo sguardo di gratitudine che anima oggi la mia preghiera e il
mio augurio è il costante anelito verso quello slancio missionario con cui ho
cercato di contrassegnare la vita della nostra Chiesa e delle nostre comunità.
Fin dall’inizio del mio servizio episcopale ho voluto incoraggiare ad assumere
con grande serietà la sfida di annunciare ancora e sempre il Vangelo. Sentivo
nel cuore l’urgente necessità di un nuovo annuncio, a tutti e a ciascuno, ai
vicini e ai lontani; non tanto con le parole, ma innanzitutto con una
testimonianza personale della verità di Gesù Cristo e della bellezza della fede
in una società che è in cerca di speranza.
Auguro davvero che questa bellissima Chiesa di Milano sappia
rinunciare a molte cose pur di non perdere ciò che è essenziale. Forse
occorrerà ridurre qualcosa dei suoi programmi e delle sue istituzioni, ma
semplicemente per renderla ancora più agile e più splendente, positiva, capace
di entrare nel cuore delle persone e nei bisogni più veri di questa nostra
generazione. Il nostro Paese ha bisogno di una Chiesa trasparente, che sia
madre e maestra, comprensiva ed esigente, pronta solo a servire e non a
conquistare, unicamente preoccupata di far incontrare Gesù Cristo mediante
la fede e la carità, capace per questo di amare ogni uomo perché figlio di Dio.

Nel difficile conflitto delle interpretazioni e nell’analisi complessa del
tempo presente, al di là di ogni ideologia e oltre ogni opportunismo del
4momento, ho cercato e ho sempre chiesto a tutti voi di mantenere «fisso lo
sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Ebrei
12,2) e di tenere come bussola il Vangelo, parola, celebrazione e vita. Non
finiremo mai di ritornare all’evidenza del Vangelo, alla sua forza irresistibile e
alla sua divina capacità di aprire al futuro.
Si annuncia il Vangelo con una vita sobria, con una solidarietà sincera,
con la giustizia che onora la dignità personale di tutti, con il coraggio di scelte
profetiche. Si annuncia il Vangelo con una vita ecclesiale basata sulla
comunione che fonda la collaborazione e suscita la corresponsabilità. Si
annuncia il Vangelo rendendo ragione della speranza che è in noi e facendolo
davanti al mondo «con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza» (cfr. 1 Pietro
3,15s), non cedendo mai a nessun risentimento, ma divenendo seminatori di
gioia e di pace.
Voglio rinnovare il mio appello allo slancio missionario, anche
simbolicamente lasciando in dono a tutte le comunità parrocchiali il nuovo
Evangeliario Ambrosiano: un segno potente di fede e di arte, per dire il nostro
amore a Cristo e alla sua Parola, la nostra apertura al mondo contemporaneo
e la fiducia audace nello Spirito santo che lo abita, la nostra nativa e liberante
vocazione a realizzare la bellezza divina dell’umano e del cosmo. Chiesa di
Milano, ascolta il Signore e guidata dalla sua Parola corri sulle vie dove il
Vangelo stesso ti manda in missione! Con umiltà, fede e coraggio!
Abbi la gioia della santità
Il terzo sguardo, il più acuto e lungimirante, con cui oggi contemplo
Maria, vergine e madre, e con lei la Chiesa di Milano, si rivolge verso il dono
della santità: santi per vocazione! Nel quadro dell’anniversario della
canonizzazione di Carlo Borromeo, nel ricordo delle numerose beatificazioni
(Talamoni, Monti, Biraghi, Monza, Gnocchi, Morazzone, Alfieri, Vismara) e
della canonizzazione della beata Gianna Beretta Molla avvenute negli anni del
mio episcopato, il mio saluto diventa preghiera perché possiamo tutti avere
veramente nel cuore il desiderio della santità: ciascuno nella sua vocazione,
5secondo il suo stato di vita, con le sue doti e con i suoi limiti, con i suoi
compiti e con le sue responsabilità, con le sue sofferenze e le sue consolazioni.
Davvero Dio è mirabile nei suoi santi! E noi sappiamo che la santità è la
pienezza, è la “misura alta” di ogni vita cristiana e la pienezza di ogni esistenza
umana (cfr. Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 31). «Lo Spirito di Dio
abita in noi» (Romani 8, 9 – Epistola della Messa ) e ci conduce a esprimere in
noi la vita stessa di Dio, a essere perfetti come il Padre che sta nei cieli, santi
perché Lui è Santo (cfr. Levitico 11,44).
A tutti è rivolta la meravigliosa chiamata a essere santi. Questa vita
spirituale profonda, che è la santità, attraversa la nostra biografia ed è ciò che
rimane mentre tutto il resto passa; è la modalità unica e irrepetibile con cui il
Signore ci attira nelle varie stagioni della vita. Mentre cresciamo nella santità
comprendiamo la parte più vera di noi, si chiariscono i nostri compiti e si
consolidano le nostre responsabilità. La santità si coltiva a partire dalla
preghiera e con il passare del tempo, se la santità cresce in noi, diventiamo
sempre più buoni, più esigenti con noi stessi, più misericordiosi con tutti. La
santità ci dischiude il cuore stesso di Dio. La santità è la condizione
necessaria per rendere credibile ed efficace la missione che ci è affidata, per il
bene della Chiesa e di tutta intera la società.
Con questo animo libero e con questa autentica passione per la nostra
Chiesa, guardiamo in avanti.
Sì, guardiamo in avanti, fratelli e sorelle, verso il sole che sorge dall’alto
(Luca 1,78). Nella gioia e nella verità della fede, con sincero affetto auguro
insieme a voi al nuovo Arcivescovo, il cardinale Angelo Scola, di entrare amato
e benedetto – e nel nome del Signore – come Vescovo di questa Chiesa.
Vorrei dire a lui che la Chiesa di Milano, nella quale è nato ed è stato
battezzato, lo aspetta per compiere insieme un altro tratto di strada. La Chiesa
milanese ama i suoi Arcivescovi e li aiuta moltissimo nel loro ministero.
Ringrazio personalmente il Signore per tutto quello che ho ricevuto e prego
Maria Nascente per il nuovo Arcivescovo: per sua intercessione il Signore gli
conceda di gustare senza misura i prodigi della sua grazia (Sufficit gratia tua).
6Maria, donaci sempre il tuo sguardo materno
Dicono che nelle giornate limpide e un po’ ventose da Villa Sacro Cuore
di Triuggio si può vedere la Madonnina del Duomo. Una visione che, fin dal
primo giorno del mio ingresso in Diocesi come Vescovo, mi è sempre stata di
aiuto e di consolazione: oggi questa visione mi richiama quel vincolo di fede e
di affetto che non potrà mai essere cancellato, perché stampato da Dio nei
nostri cuori.
E anche se non sempre potrò vedere la Madonnina del Duomo, sono
sicuro che anche nelle giornate meno limpide, sarà sempre lei, Maria, a
rivolgere su tutti e su ciascuno di noi il suo sguardo materno e misericordioso.
Ogni giorno pregherò la Madonna per la Chiesa di Milano, che mi ha generato
nella fede e che ho cercato di servire con amore.
A voi tutti, che mi siete diventati cari (1Tessalonicesi 2,8), siano gioia e
pace.
+ Dionigi card. Tettamanzi

lunedì 5 settembre 2011

Realtà, non simbolo


Siamo nella settimana del Congresso eucaristico nazionale, il venticinquesimo nella storia dei cattolici italiani. L’Eucarestia non è un gesto puramente devozionale e privato; tende, piuttosto, ad avere un profondo impatto «per la vita quotidiana», come recita il titolo di questo Congresso. Tale impatto rischia a volte di essere valutato e richiesto in termini puramente moralistici; come se si trattasse di un procedimento deduttivo: siccome hai partecipato all’Eucarestia ne consegue che devi comportarti in questa e quest’altra maniera. Il primo impatto «per la vita quotidiana» mi sembra, invece, una rivoluzione di carattere conoscitivo: l’Eucarestia è un potente e permanente invito a riconoscere che la realtà delle cose che vedo non coincide con quello che vedo.
Cerco di spiegarmi raccontando una piccola scoperta che ho fatto in vacanza: il miracolo eucaristico di Alatri. Siamo nel 1228, nella cittadina laziale vive una vecchia fattucchiera. Per le sue pratiche magiche le occorre un’ostia consacrata e convince una ragazza a fare la comunione, ma a non deglutire e quindi a portarle l’ostia. La ragazza esegue e porta a casa la particola consacrata in un fazzoletto. Ma la maga tarda a passare a prenderla e la ragazza, incuriosita, apre il fazzoletto e vi trova un pezzo di carne. Spaventata e pentita corre dal vescovo col fazzoletto e l’ostia trasformata. Il vescovo si rivolge a papa Gregorio IX per chiedere sul da farsi; il pontefice gli dice di conservare onorevolmente la reliquia e di essere clemente con la giovane e severo con la maga. La reliquia c’è ancora oggi. Il miracolo di Alatri è simile a quello più famoso di Bolsena, di poco successivo. In questo caso si tratta di un sacerdote che nutre dubbi sul fatto che quel pezzo di pane che lui stesso ha consacrato sia il corpo di Cristo e il vino il suo sangue. All’atto di spezzare l’ostia, ne escono delle gocce di sangue che finiscono sulla tovaglietta che sta sotto il calice e che si chiama corporale.
Il prete corre subito nella vicina Orvieto, dove risiede il papa Urbano IV, portandogli il corporale. Sarà questo pontefice a istituire la festa del Corpus Domini, il culmine della devozione della Chiesa all’Eucarestia.
Insomma, i miracoli eucaristici stanno a dirci che la realtà dell’ostia consacrata è diversa da ciò che si vede. Quello è effettivamente, realmente il Corpo di Cristo; non è il simbolo della sua vicinanza e sostegno nel cammino della nostra vita, non è neppure il simbolo del nostro desiderio di essere in rapporto con lui o in comunione tra di noi. L’Eucarestia rappresenta una sfida radicale al nostro razionalismo, che tende a delimitare la realtà di quello che ci appare a ciò che ne percepiamo o, al massimo, sentiamo e pensiamo. Una sfida che apre sorprendenti prospettive anche «per la vita quotidiana». Perché se ciò che appare ha una profondità che va oltre l’apparenza, allora si trasforma anche lo sguardo a me stesso, ai miei amici, agli estranei, al tempo che scorre, alla prima foglia che è cominciata a cadere: la finitudine soffocante è sfondata in una prospettiva senza termine.

Pigi Colognesi lunedì 5 settembre 2011
http://www.ilsussidiario.net

domenica 4 settembre 2011

Uomini e donne d'Italia, con Cristo


Gli uomini fanno spesso congressi. Si congregano, si riuniscono. La parola congresso è legata – nel lessico più comune – ai raduni di natura politica, o ai raduni di membri di comunità economiche o scientifiche. I congressi del tal partito o dell’altro, il congresso degli industriali o degli ortopedici, dei fisiatri e così via. Sono eventi speciali. Anche ad Ancona accade un congresso speciale. Però anche normale.

Sì perché lì si radunano uomini e donne, giovani e anziani, chierici e laici, intorno all’Eucaristia. Si radunano, fanno congresso uomini che non sono accomunati da strategie politiche o da interessi scientifici o economici. Non si congregano per discutere idee. Per fissare linee, per eleggere delegati. Si radunano intorno a un Corpo. Si radunano come si radunarono coloro che pronunciarono la frase che dà il titolo: «Da chi andremo?». Erano pochi, spauriti, erano quasi niente in mezzo alla vastità del mondo e di fronte alla storia passata e futura. Ma sapevano che dovevano andare dov’è Lui, stare lì. Congregarsi. Da chi andremo, se non da chi ha mostrato la potenza buona del Padre, se non da chi ha dato corpo all’infinito? Ad Ancona, come duemila anni fa, uomini e donne di ogni genere si congregano, si radunano intorno alla presenza fisica e misteriosa di Gesù. Al Suo corpo. Di fronte al mare Adriatico, sotto la fiammata bianca della pietra di san Ciriaco, svettante cattedrale di Ancona, si raduneranno uomini e donne in modo e misura eccezionale. Per esprimere in modo speciale il normale,il quotidiano segreto di duemila anni fa e di ogni giorno presente della Sua comunità. Si congregano davanti al mare di settembre, in un evento speciale che segna da tempo la vita della Chiesa. Esprimeranno, amplificheranno per così dire, in modo eccezionale quel sussurro di duemila anni fa, uscito dalle labbra dei suoi primi discepoli. Dove andremo, se non dove sei Tu? Dov’è la vita, se non dove è il Tuo corpo presente? Dove andremo, se non dove il Tuo sguardo si posa sulle cose della vita, sul gioire e sul soffrire, sui bambini e sui malati, sulla solitudine e sulla morte, sugli inizi del giorno e sulla notte?

Non va in scena un congresso animato da rivendicazioni economiche o sociali. La comunità trova nel Suo corpo la lena per opporrsi alla malora in ogni campo personale e sociale. Ogni giorno è così, nella penombra di parrocchie e chiese disperse sul volto d’Italia e del mondo, ogni domenica è così. E in chiese improvvisate dove l’uomo vive e soffre, lager o bidonville, fabbriche o ospedali. Ad Ancona si dirà in modo speciale quel che per i cristiani è normale. La normale eccezione di dirGli: dove andremo se non dove sei Tu, portando il nostro anelito di bene, fosse pure remoto e sepolto sotto detriti di fatica e buio… Un congresso per dire che la cosa speciale del cristianesimo è Lui, il suo corpo presente. Che nient’altro vale come stare con Lui.

Lo si dirà ad Ancona, in faccia al mare e al mondo che vorrebbe negargli ancora il corpo, che vorrebbe negare oggi come duemila anni fa a Dio il fatto d’aver preso fisionomia e vita. Che lo vorrebbe lassù nei cieli, semmai, ma non qui in terra con un corpo e uno sguardo che contraddice ogni pretesa e ogni potere. E che lo crocifigge. Si dirà di Lui davanti a un mondo che desidera in ogni fibra toccare la vita, e spesso non sa che abita in quel Corpo.

Un congresso che non ha nessun congresso uguale. Uomini e donne che seguono un movimento strano: non loro hanno scelto Lui, ma Lui li ha scelti. E attirati al suo corpo, al mistero di una vita che non dispera nella vita e vince la morte di ogni giorno e di sempre.

Davide Rondoni
© riproduzione riservata

Stanno estromettendo Gesù dalle chiese

Un giorno, conversando con amici, Ratzinger (ancora cardinale) se ne uscì con una battuta: “Per me una conferma della divinità della fede viene dal fatto che sopravvive a qualche milione di omelie ogni domenica”.

Se ne sentono infatti di tutti i colori. Non c’è solo il prete che – è notizia di ieri – in una basilica della Brianza diffonde una preghiera islamica in cui si inneggia ad Allah.

Ci sono quelli che consigliano la lettura di Mancuso o Augias… E si trovano “installazioni” di arte contemporanea nelle cattedrali che fanno accapponare la pelle.

D’altra parte pure i cardinali di Milano hanno dato sfogo alla “creatività”.

Leggo dal sito di Sandro Magister: “Nel 2005, l’11 maggio, per introdurre un ciclo dedicato al libro di Giobbe è stato chiamato a parlare in Duomo il professor Massimo Cacciari: oltre che sindaco di Venezia, filosofo ‘non credente’ come altri che in anni precedenti avevano preso parte a incontri promossi dal cardinale Martini col titolo, appunto, di ‘Cattedra dei non credenti’. Cacciari ha tessuto l’elogio del vivere senza fede e senza certezze”.

Insomma nelle chiese si può trovare di tutto. Tranne la centralità di Gesù Cristo.

Infatti – nella disattenzione generale – i vescovi italiani hanno estromesso dalle chiese (o almeno vistosamente allontanato dall’altare centrale e accantonato in qualche angolo) proprio Colui che ne sarebbe il legittimo “proprietario”, cioè il Figlio di Dio, presente nel Santissimo Sacramento.

Non sembri una banale battuta. Al Congresso eucaristico nazionale che si sta aprendo ad Ancona dovrebbero considerare gli effetti devastanti prodotti dall’incredibile documento della Commissione Episcopale per la liturgia del 1996 che è il vademecum in base al quale sono state progettate le nuove chiese italiane e i relativi tabernacoli, o sono state “ripensate” le chiese più antiche.

Non si capisce quale sia lo statuto teologico di cui gode una Commissione della Cei (a mio avviso nessuno). Ma la cosa singolare è questa: che nell’ambiente ecclesiastico – a partire da seminari e facoltà teologiche – trovi legioni di teologi pronti (senza alcuna ragione seria) a mettere in discussione i Vangeli (nella loro attendibilità storica) e le parole del Papa, ma se si tratta di testi partoriti dalle loro sapienti meningi, e firmati da qualche commissione episcopale, ti dicono che quelli devono essere considerati sacri e intoccabili.

Dunque in quel testo del 1996, fra le altre cose discutibili, si “consiglia vivamente” di collocare il tabernacolo non solo lontano dall’altare su cui si celebra, ma pure dalla cosiddetta area presbiterale. Relegandolo “in un luogo a parte”.

Le motivazioni – come sempre – sono apparentemente “devote”. Si dice infatti che il tabernacolo potrebbe distrarre dalla celebrazione eucaristica.

Motivazione ridicola e – nella sua enfasi sull’evento celebrativo a discapito della presenza nel tabernacolo – anche pericolosamente somigliante alle tesi di Lutero.

L’effetto inaudito di queste norme è il seguente: nelle chiese si assiste da qualche anno a un accantonamento progressivo del tabernacolo, cioè del luogo più importante della chiesa, quello in cui è presente il Signore.

Prima lo si è collocato in un posto defilato (una colonna o un altare laterale), quindi in una cappella, parzialmente visibile. Alla fine probabilmente sarà del tutto estromesso dalle chiese.

Come risulta essere nell’incredibile edificio di San Giovanni Rotondo in cui è stato portato il corpo di san Pio.

L’edificio, progettato da Renzo Piano, non ha inginocchiatoi e la figura centrale e incombente è l’enorme e spaventoso drago rosso dell’apocalisse rappresentato trionfante nell’immensa vetrata: ebbene il tabernacolo lì non c’è.

Non so a chi sia venuto in mente questo progressivo occultamento dei tabernacoli nelle chiese (che avrebbe fatto inorridire padre Pio). Esso non corrisponde affatto all’insegnamento del Concilio Vaticano II, visto che l’istruzione post-conciliare “Inter Oecumenici” del 1964 affermava che il luogo ordinario del tabernacolo deve essere l’altare maggiore.

E non piace nemmeno al Papa come si vede nell’Esortazione post sinodale “Sacramentum Caritatis” dove egli sottolinea il legame strettissimo che deve esserci fra celebrazione eucaristica e adorazione.

Sottolineatura emersa dall’XI Sinodo dei Vescovi dell’ottobre 2005 che ha richiesto la centralità ed eminenza del tabernacolo.

Basterà per tornare sulla retta via? Nient’affatto. Come dimostra il comportamento – a volte di aperta contestazione al Papa – tenuto da certi vescovi quando il suo famoso “Motu proprio” ha restaurato la libertà di celebrare anche con l’antico messale.

Purtroppo le idee sbagliate dei liturgisti “creativi” continueranno a prevalere sul papa, sul Concilio e sul Sinodo (forse faranno strada anche altre balordaggini come la “prima comunione” a 13 anni). Fa da corollario a questa estromissione di Gesù eucaristico dalle chiese, la stupefacente pratica del biglietto di ingresso istituito perfino per alcune Cattedrali. Degradate così a musei.

La protestantizzazione o la museizzazione delle chiese è un fenomeno dagli effetti spaventosi per la Chiesa Cattolica. Si dovrebbero prendere subito provvedimenti.

Per capire cosa era – e cosa dovrebbe essere – una chiesa cattolica voglio ricordare la storia di due persone significative.

La prima è Edith Stein, una donna straordinaria, filosofa agnostica, di famiglia ebrea, che divenne cattolica, si fece suora carmelitana ed è morta nel lager nazista di Auschwitz.

E’ stata proclamata santa da Giovanni Paolo II nel 1998 e nell’anno successivo compatrona d’Europa.

La Stein ha raccontato che un primo episodio che la portò verso la conversione accadde nel 1917 quando lei, giovinetta, vide una popolana, con la cesta della spesa, entrare nel Duomo di Francoforte e fermarsi per una preghiera:

“Ciò fu per me qualcosa di completamente nuovo. Nelle sinagoghe e nelle chiese protestanti, che ho frequentato, i credenti si recano alle funzioni. Qui però entrò una persona nella chiesa deserta, come se si recasse ad un intimo colloquio. Non ho mai potuto dimenticare l’accaduto”.

Lì infatti c’era Gesù eucaristico.

Un altro caso riguarda il famoso intellettuale francese André Frossard. Era il figlio del segretario del Partito comunista francese.

Era ateo, aveva vent’anni e quel giorno aveva un appuntamento con una ragazza. L’amico con cui stava camminando, essendo cattolico, gli chiese di aspettarlo qualche istante mentre entrava in una chiesa.

Dopo alcuni minuti Frossard decise di andare a chiamarlo perché aveva fretta di incontrare “la nuova fiamma”. Lo scrittore sottolinea che lui non aveva proprio nessuno dei tormenti religiosi che hanno tanti altri.

Per loro, giovani comunisti, la religione era un vecchio rottame della storia e Dio un problema “risolto in senso negativo da due o tre secoli”.

Eppure quando entrò in quella chiesa era in corso un’adorazione eucaristica e, racconta, “è allora che è accaduto l’imprevedibile”.

Dice:

“il ragazzo che ero allora non ha dimenticato lo stupore che si impadronì di lui quando, dal fondo di quella cappella, priva di particolare bellezza, vide sorgere all’improvviso davanti a sé un mondo, un altro mondo di splendore insopportabile, di densità pazzesca, la cui luce rivelava e nascondeva a un tempo la presenza di Dio, di quel Dio, di cui, un istante prima, avrebbe giurato che mai era esistito se non nell’immaginazione degli uomini; nello stesso tempo era sommerso da un’onda, da cui dilagavano insieme gioia e dolcezza, un flutto la cui potenza spezzava il cuore e di cui mai ha perso il ricordo”.

La sua vita ne fu capovolta. “Insisto. Fu un’esperienza oggettiva, fu quasi un esperimento di fisica”, ha scritto. Frossard è diventato il più celebre giornalista cattolico. In una chiesa di oggi non avrebbe incontrato il Verbo fatto carne, ma le chiacchiere di carta.

Antonio Socci
Da Libero, 3 settembre 2011

giovedì 1 settembre 2011

La bellezza, porta aperta verso l'infinito



BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE Piazza della Libertà, Castel Gandolfo Mercoledì, 31 agosto 2011

Arte e preghiera

Cari fratelli e sorelle,
più volte ho richiamato, in questo periodo, la necessità per ogni cristiano di trovare tempo per Dio, per la preghiera, in mezzo alle tante occupazioni delle nostre giornate. Il Signore stesso ci offre molte occasioni perché ci ricordiamo di Lui. Oggi vorrei soffermarmi brevemente su uno di questi canali che possono condurci a Dio ed essere anche di aiuto nell’incontro con Lui: è la via delle espressioni artistiche, parte di quella “via pulchritudinis” – “via della bellezza” - di cui ho parlato più volte e che l’uomo d’oggi dovrebbe recuperare nel suo significato più profondo.

Forse vi è capitato qualche volta davanti ad una scultura, ad un quadro, ad alcuni versi di una poesia, o ad un brano musicale, di provare un’intima emozione, un senso di gioia, di percepire, cioè, chiaramente che di fronte a voi non c’era soltanto materia, un pezzo di marmo o di bronzo, una tela dipinta, un insieme di lettere o un cumulo di suoni, ma qualcosa di più grande, qualcosa che “parla”, capace di toccare il cuore, di comunicare un messaggio, di elevare l’animo. Un’opera d’arte è frutto della capacità creativa dell’essere umano, che si interroga davanti alla realtà visibile, cerca di scoprirne il senso profondo e di comunicarlo attraverso il linguaggio delle forme, dei colori, dei suoni. L’arte è capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che si vede, manifesta la sete e la ricerca dell’infinito. Anzi, è come una porta aperta verso l’infinito, verso una bellezza e una verità che vanno al di là del quotidiano. E un’opera d’arte può aprire gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto.

Ma ci sono espressioni artistiche che sono vere strade verso Dio, la Bellezza suprema, anzi sono un aiuto a crescere nel rapporto con Lui, nella preghiera. Si tratta delle opere che nascono dalla fede e che esprimono la fede. Un esempio lo possiamo avere quando visitiamo una cattedrale gotica: siamo rapiti dalle linee verticali che si stagliano verso il cielo ed attirano in alto il nostro sguardo e il nostro spirito, mentre, in pari tempo, ci sentiamo piccoli, eppure desiderosi di pienezza… O quando entriamo in una chiesa romanica: siamo invitati in modo spontaneo al raccoglimento e alla preghiera. Percepiamo che in questi splendidi edifici è come racchiusa la fede di generazioni. Oppure, quando ascoltiamo un brano di musica sacra che fa vibrare le corde del nostro cuore, il nostro animo viene come dilatato ed è aiutato a rivolgersi a Dio. Mi torna in mente un concerto di musiche di Johann Sebastian Bach, a Monaco di Baviera, diretto da Leonard Bernstein. Al termine dell’ultimo brano, una delle Cantate, sentii, non per ragionamento, ma nel profondo del cuore, che ciò che avevo ascoltato mi aveva trasmesso verità, verità del sommo compositore, e mi spingeva a ringraziare Dio. Accanto a me c'era il vescovo luterano di Monaco e spontaneamente gli dissi: “Sentendo questo si capisce: è vero; è vera la fede così forte, e la bellezza che esprime irresistibilmente la presenza della verità di Dio. Ma quante volte quadri o affreschi, frutto della fede dell’artista, nelle loro forme, nei loro colori, nella loro luce, ci spingono a rivolgere il pensiero a Dio e fanno crescere in noi il desiderio di attingere alla sorgente di ogni bellezza. Rimane profondamente vero quanto ha scritto un grande artista, Marc Chagall, che i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che è la Bibbia. Quante volte allora le espressioni artistiche possono essere occasioni per ricordarci di Dio, per aiutare la nostra preghiera o anche la conversione del cuore! Paul Claudel, famoso poeta, drammaturgo e diplomatico francese, nella Basilica di Notre Dame a Parigi, nel 1886, proprio ascoltando il canto del Magnificat durante la Messa di Natale, avvertì la presenza di Dio. Non era entrato in chiesa per motivi di fede, era entrato proprio per cercare argomenti contro i cristiani, e invece la grazia di Dio operò nel suo cuore.

Cari amici, vi invito a riscoprire l’importanza di questa via anche per la preghiera, per la nostra relazione viva con Dio. Le città e i paesi in tutto il mondo racchiudono tesori d’arte che esprimono la fede e ci richiamano al rapporto con Dio. La visita ai luoghi d’arte, allora, non sia solo occasione di arricchimento culturale - anche questo - ma soprattutto possa diventare un momento di grazia, di stimolo per rafforzare il nostro legame e il nostro dialogo con il Signore, per fermarsi a contemplare - nel passaggio dalla semplice realtà esteriore alla realtà più profonda che esprime - il raggio di bellezza che ci colpisce, che quasi ci “ferisce” nell’intimo e ci invita a salire verso Dio. Finisco con una preghiera di un Salmo, il Salmo 27: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo santuario” (v. 4). Speriamo che il Signore ci aiuti a contemplare la sua bellezza, sia nella natura che nelle opere d'arte, così da essere toccati dalla luce del suo volto, perché anche noi possiamo essere luci per il nostro prossimo. Grazie.