sabato 31 dicembre 2011

Buon Anno 2012



Aspettando il 2012 , con il cuore pieno di gratitudine per gli infiniti doni ricevuti , Auguro a tutti un Buon fine d’anno con la pace del Signore e che il Nuovo Anno vi porti salute, gioia, serenità , giustizia, pace e Amore

De espera para el año 2012, con un corazón lleno de gratitud por los dones recibidos innumerables, os deseo a todos un Feliz fin de año con la paz del Señor y el Año Nuevo traerá salud, alegría, paz, justicia, paz y amor

Quel sole che scioglie il ghiaccio nel cuore

Il tempo di Natale vero antidoto alla sofferenza




In questi giorni in cui ci si ritrova insieme, in famiglia, fra vecchie facce care e giovani facce di figli e di nipoti. In questi giorni di strade illuminate, e poi di brindisi, nell’attesa di un anno nuovo in cui comunque ognuno umanamente spera, spesso mi viene da chiedermi come fa, come regge il clima di letizia quasi obbligatoria, chi ha addosso un lutto cocente. Come fronteggia la festosità più esteriore del Natale chi ha perduto un figlio, o un vecchio che per la prima volta in questo giorno si ritrova solo, scomparsa la compagna di una vita? Spio le facce dei passanti per strada, dei viaggiatori in metrò; ce ne sono alcune che sembrano così lontane dalla festa, così irrimediabilmente sole. Come se proprio il Natale, la festa del mondo che ricomincia in un bambino, urtasse più di ogni altro giorno con la durezza della morte, con lo strappo lasciato in chi vive da chi se ne è andato. Certo, proprio quella nascita prelude alla Resurrezione; ma quanto integra è oggi questa memoria e certezza nelle nostre case? E anche per chi ha fede, proprio il ritrovarsi tutti assieme può fare più straziante il posto vuoto, a tavola, di un figlio, di un padre che manca.

Per questo, credo, per quelle facce che ogni tanto mi sfiorano per strada e mi sembrano così lontane dalla festa, mi è rimasto in mente un passo di san Basilio Magno citato da Benedetto XVI, nell’ultima udienza prima di Natale. Ecco dunque cos’è davvero Natale secondo la «Omelia sulla nascita di Cristo» di san Basilio: «Dio assume la carne proprio per distruggere la morte in essa nascosta.

Come gli antidoti di un veleno una volta ingeriti ne annullano gli effetti, e come le tenebre di una casa si dissolvono alla luce del sole, così la morte che dominava sull’umana natura fu distrutta dalla presenza di Dio. E come il ghiaccio rimane solido nell’acqua finché dura la notte e regnano le tenebre, ma subito si scioglie al calore del sole, così la morte che aveva regnato fino alla venuta di Cristo, appena apparve la grazia di Dio Salvatore e sorse il sole di giustizia, "fu ingoiata dalla vittoria" (1 Corinzi 15,54), non potendo coesistere con la Vita».

Certo, dirà qualcuno, sono cose che noi cristiani ben sappiamo. Davvero tutti?

Non ce ne siamo un po’, e non in pochi, dimenticate nella assuefazione a un Natale che torna ogni anno, cara abitudine, lieta ricorrenza, ma come nella sua radice originaria appannato?

E quanti poi, fra chi cattolico lo è solo di nome, sanno ancora la ragione per cui Cristo scelse di nascere fra gli uomini?

«Dio assume la carne per distruggere la morte in essa nascosta. Come gli antidoti di un veleno una volta ingeriti ne annullano gli effetti..». Se è nella Resurrezione che la morte è stata vinta, quel nascere ne è il primo annuncio: è venuto al mondo, e cresce, un bambino che sconfiggerà la morte. Come le tenebre si sciolgono, annientate dalla luce del sole, dice Basilio, così la morte da quella notte a Betlemme non è più la stessa, non la stessa di prima. Come il ghiaccio fuori dalle nostre case in queste notti si consolida e stringe la sua morsa, ma cede al mattino, sotto ai primi raggi tiepidi del sole: la stessa cosa accadde quel giorno, a Betlemme.

Se in una dimenticanza, o nella abitudine e nel rumore esteriori, questi giorni possono apparire intollerabili a chi dalla morte è stato così mutilato da sentirsi egli stesso come morto, in realtà, ritrovando la memoria cristiana, il Natale viene prima di tutto per queste persone. E’ il germe della promessa, e speranza già capace di operare: proprio in quel bambino, chi è morto non è morto per sempre. Come il seme sotto alla terra dura di gelo, nelle lunghe notti del solstizio d’inverno: non sembra forse, così sepolto, morto? Eppure, quanto è vivo. E queste righe di un vescovo e dottore della Chiesa di diciassette secoli fa, bisognerebbe farle leggere a chi è orfano di un figlio, di un marito. Sì, certo, le sappiamo queste cose; ma ricordarcele è uno scoprirle di nuovo, e ritrovare, con la memoria, speranza – la sola che non tradisce.

Marina Corradi
© Avvenire

mercoledì 28 dicembre 2011

Te Deum, per i doni trascurati

Le facce care, il ronzio della lavatrice, il frigo pieno, questa cucina affollata di oggetti. E una via di Milano come tante. Marina Corradi ringrazia per «ciò che ho sempre visto, senza vederlo davvero».

Stamattina era domenica, e i ragazzi hanno dormito fino a quasi le dieci. Sono andata a svegliare la piccola. Era abbracciata a un gatto, sotto le coperte. Aveva ancora l’odore di quando era bambina: di Nutella, di biscotti. Ho annusato e profondamente inspirato. Le ho sfiorato una guancia, era morbida e calda. Una gratitudine si è allargata nei miei pensieri opachi del mattino: che meraviglia averla qui, da quattordici anni, così viva; ridente o pensierosa, o furibonda in una rissa coi fratelli; bella, e vanitosa davanti allo specchio, mentre verifica compiaciuta l’effetto del primo rimmel sulle sue lunghe ciglia nere.

Noi non ci accorgiamo, di solito, di ciò che abbiamo, di tutto ciò che ci si ripresenta fedele, che ci si schiera davanti agli occhi ogni mattina. Ma da un po’ di tempo mi succede di riconoscere la realtà quotidiana come qualcosa che mi genera una frazione di istante di gratitudine: “vedo”, attorno a me, questa casa, e una famiglia, e degli amici, e un lavoro. Generalmente accade dopo un lutto, o dopo una malattia, di accorgersi con stupefatto rammarico di tutto ciò che si aveva “prima”, e di cui non ci si era accorti. Invece senza che sia accaduto niente di questo, mi succede – non sempre, qualche volta – di riconoscere la realtà data, al mattino, e di esserne stranamente lieta. È, forse, perché invecchio?

Io mi ricordo, in certi vecchi che ho frequentato da bambina, questa attitudine a sapere essere contenti di una mattina di sole, o di un piatto fumante, a tavola, e del suo profumo. Come se ogni mattina gli occhi si aprissero per la prima volta; e ci si meravigliasse delle facce care, delle cose di casa che funzionano, docili, del fido ronzio della lavabiancheria e perfino di un banale frigorifero pieno – che sembra una ovvietà, e invece è anche lui un trascurato dono.

E dunque in quest’anno che corre verso la sua fine il mio Te Deum è per ciò che ho sempre visto, senza vederlo davvero; e per un nuovo sguardo, attento a ciò che fino ad ora mi sembrava dovuto (e casomai, se improvvisamente mancava, ragione di indignazione e protesta, come quando ci viene rubato ciò che ci spetta).

Grazie, dunque, per questa stanza in cui dormo, con gli scuri ancora chiusi nel primo mattino, e per il letto caldo; grazie per quella lama di luce chiara e di freddo tagliente che entrerà aprendo la finestra, insieme al fugace rosa del ciclamino sul balcone, così rosa e vivo, anche dopo la notte d’inverno.

Grazie per i passi dei figli che si vanno pigramente alzando in questa mattina festiva; e perché uno di loro canta svagato una canzone degli alpini, con una bella voce da baritono che piace a suo nonno, alpino sul Don, se dal cielo la sente. (Ma tu la senti, ne sono certa. E quante volte mi pare di sentirmi addosso i tuoi occhi, con quella espressione leggermente apprensiva che avevi quando mi salutavi, e io avevo vent’anni, e tu sembravi chiederti che cosa mi portavo nei pensieri. Ma non me lo domandavi, come non lo chiedo ora ai miei figli, in quel segreto tabù che sbarra il confine fra figli e genitori).

Grazie del figlio grande, del test all’università superato, e di come studia, nel fare ciò che gli piace davvero. Grazie di mio marito, a dire il vero un efferato metodico molestatore dei miei già fragili nervi; però chi altro si poteva accompagnare a una come me? Grazie perché c’è, perché resta, fedele.

Grazie di questa casa grande, ombrosa, caotica come in fondo a me piace – non sopportando la nudità cruda dell’ordine perfetto, o di certe cucine che vedo fotografate sui giornali, lindi acciai freddi come sale operatorie. Quanto amo invece questa nostra cucina larga, affollata di oggetti che non sappiamo più dove infilare, col grande crocefisso di legno che ci allarga sopra le sue braccia, generoso e direi, a volte, benignamente rassegnato. Grazie dei vicini e dei negozianti che saluto ogni mattina, nell’enclave cara e consueta che è una via di Milano come tante; e grazie di quel signore strano, vecchio, dimesso, che gira sempre con due grandi sporte pesanti per mano, e una volta gettando l’occhio ho scoperto che sono colme di vecchi giornali che lui, senza un motivo, trasporta avanti e indietro. Lo sconosciuto con le sporte colme di parole ingiallite sorride, quando lo saluto; e la sua disarmata follia mi intenerisce, e mi riecheggia qualcosa, quel suo girare sotto al peso di tante parole consumate. (Forse, questo mio lavoro?)

Grazie di avere un lavoro. Grazie del “bip” che fa il cartellino di riconoscimento, all’ingresso, ogni mattina, e dell’odore di carta stampata che il mio naso puntualmente registra entrando in redazione (mentre fra me cupamente borbotto: tutta la vita a scrivere parole). Grazie delle facce dei colleghi con cui ci intendiamo con pochi cenni, come operai che non abbiano bisogno di parlare, tanto usi sono ad avvitare, stringere, far marciare la macchina complessa che è un giornale. Grazie degli amici – soprattutto di quelli a cui puoi raccontare qualsiasi cosa.

Grazie anche del mio cane, mezzo sciacallo e mezzo volpe, bastardo da incalcolabili generazioni, a cui mi sono infantilmente, patologicamente legata; come avessi trovato in lui, cucciolo randagio in una piazza del Sud, una parte bambina di me, che non sapevo più di avere. Grazie dei nostri gatti, belli, fieri come enigmatiche sfingi e pasticcioni come bambini. (Malacoda, che perfidamente con la zampa in questo istante dondola l’arcangelo sospeso con un filo sul presepe; mentre sulla farina davanti alla grotta al mattino trovo sempre impronte feline, come di notturni silenziosi pellegrini). E grazie della attesa muta che aleggia su questo presepe casalingo, imperfetto, goffo, e ogni anno uguale. Senza questa attesa e dunque questa speranza, tutto – i figli, la famiglia, il lavoro – si rivelerebbe alla fine nient’altro che un po’ di cenere.

Ho ricevuto oggi da un amico un biglietto d’auguri: «L’incarnazione di Cristo – c’era scritto – è l’unica nostra speranza». So bene che molti alzerebbero le spalle: che integralismo, che esagerazione. Direbbero che il mondo è pieno di speranze, di solidarietà e di buona volontà. Già. Ma cosa te ne fai di tutto questo, se la morte può toglierci un figlio per sempre, se quelli che abbiamo amato ora sono nel nulla, e ce ne resta solo un ricordo che sbiadisce? A cosa serve tutto il nostro fare di fronte alla massa di sofferenza e miseria che si allarga sulla terra – che non reggeremmo, se la conoscessimo intera – se nessuno davvero è venuto a caricarsi e ad abbracciare e a riscattare tutto questo dolore?

Sì, forse è perché invecchio. È per questo che vado sfrondando le speranze, e me ne resta, davvero, solo una. Invecchiare, fra noi gente d’Occidente, è perdita, decadenza, nebbia che offusca i pensieri. E se fosse invece questo solo il destino del corpo, e l’uomo interiore con gli anni vedesse meglio, più lontano, oltre l’apparenza opaca delle cose? Se il tempo che passa fosse Dio che viene? Grazie, in questo anno che finisce, di un’altra in me che appena intravvedo, più attenta, e grata piuttosto che indignata; grazie anche del tempo che scorre, di quello scandire inflessibile delle ore, che da giovane mi sembrava una condanna. Ma, forse, non capivo. Forse, ora vedo meglio. Grazie, perché nello scoccare di questo nuovo anno non ho più, del tempo, come da ragazza, tanta inerme paura.
(Marina Corradi)http://www.tempi.it

Papa: se non si insegna a pregare in famiglia, sarà difficile riempire poi questo vuoto

La preghiera nella Santa Famiglia di Nazaret al centro dell’ultima udienza generale dell’anno. “I bambini fin dalla più tenera età, possono imparare a percepire il senso di Dio, grazie all’insegnamento e all’esempio dei genitori, vivere in un'atmosfera della presenza di Dio”.

Imparare a pregare in famiglia sull’esempio della Santa Famiglia di Nazaret, perché “i bambini fin dalla più tenera età, possono imparare a percepire il senso di Dio, grazie all’insegnamento e all’esempio dei genitori, vivere in un'atmosfera della presenza di Dio. Un’educazione autenticamente cristiana non può prescindere dall’esperienza della preghiera. Se non si impara a pregare in famiglia, sarà poi difficile riuscire a colmare questo vuoto”. E’ la preghera nella famiglia di Nazaret, “dove si impara ad ascoltare e meditare” la parola di Dio, l’argomento proposto oggi da Benedetto XVI alle ottomila persone presenti in Vaticano per l’ultima udienza generale dell’anno.

“Alcuni spunti sulla preghiera nella Santa Famiglia” si trovano nei racconti evangelici: Luca racconta della presentazione al Tempio: “quando furono compiuti i giorni della purificazione rituale portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore”. “Come ogni famiglia ebrea osservante della legge i genitori di Gesù si recano al tempio per consacrare a Dio il primogenito e per offrire il sacrificio”. Il loro fu “un pellegrinaggio della fede e della preghiera” e fu “l’offerta delle famiglie semplici: due colombi”.

Della vita della Santa Famiglia il Papa ha evidenziato in particolare la “contemplazione di Cristo” che “ha in Maria il suo modello insuperabile”. “Lo sguardo del suo cuore si concentra su di Lui già al momento dell’Annunciazione, quando lo concepisce per opera dello Spirito Santo; nei mesi successivi ne avverte a poco a poco la presenza, fino al giorno della nascita, quando i suoi occhi possono fissare con tenerezza materna il volto del Figlio, mentre lo avvolge in fasce e lo depone nella mangiatoia. I ricordi di Gesù, fissati nella sua mente e nel suo cuore, hanno segnato ogni istante dell’esistenza di Maria. Ella vive con gli occhi su Cristo e fa tesoro di ogni sua parola”. Luca scrive che “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” con un “atteggiamento che si prolungherà in tutta la sua esistenza”. Questa immagine “presenta Maria come il modello di ogni credente che conserva e confronta le parole e le azioni di Gesù, un confronto che è sempre un progredire nella conoscenza di Lui”.

La spiritualità di Maria è “contagiosa: il primo ad esserne attirato è Giuseppe. In lui che già era un uomo giusto si ha una singolare relazione con Dio”. Dopo l’incontro con l’angelo, “accoglie nella propria vita il progetto di salvezza, compiendo con fiducia la volontà di Dio”. Il Vangelo non ha conservato alcuna parola di Giuseppe. “La sua è una presenza silenziosa ma fedele, costante, operosa. Possiamo immaginare che anche lui, come la sua sposa e in intima consonanza con lei, abbia vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Gesù gustando, per così dire, la sua presenza nella loro famiglia. Giuseppe ha compiuto pienamente il suo ruolo paterno, sotto ogni aspetto. Sicuramente ha educato Gesù alla preghiera, insieme con Maria. Lui, in particolare, lo avrà portato con sé alla sinagoga, nei riti del sabato, come pure a Gerusalemme, per le grandi feste del popolo d’Israele”. Giuseppe, secondo la tradizione avrà guidato la preghiera domestica sia nella quotidianità, sia nelle principali ricorrenze religiose”. Da lui “Gesù ha imparato ad alternare preghiera e lavoro, e ad offrire a Dio anche la fatica per guadagnare il pane necessario alla famiglia”.

E quando Gesù ha 12 anni, la famiglia si reca con al Tempio di Gerusalemme. “Questo episodio si colloca nel contesto del pellegfrinaggio” che i suoi compivano ogni anno e l’evangelista fa osservare che “la famiglia di Gesù lo vive ogni anno, per partecipare ai riti nella Città santa. La famiglia ebrea, come quella cristiana, prega nell’intimità domestica, ma prega anche insieme alla comunità, riconoscendosi parte del Popolo di Dio in cammino”.

Nell’episodio “sono registrate anche le prime parole di Gesù: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere in ciò che è del Padre mio?”. La parola “Padre” è “la chiave di accesso al mistero della preghiera cristiana: qui, quando Gesù è ancora pienamente inserito nella vita della famiglia di Nazaret, è importante notare la risonanza che può aver avuto nei cuori di Maria e Giuseppe sentire dalla bocca di Gesù quella parola 'Padre'” e quando Gesù insegnerà a pregare ci dirà di rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”.

Da allora, “la vita nella Santa Famiglia fu ancora più ricolma di preghiera"."La famiglia di Nazaret - ha proseguito il Papa - è il primo modello della Chiesa in cui, intorno alla presenza di Gesù e grazie alla sua mediazione, si vive tutti la relazione filiale con Dio, che trasforma anche le relazioni interpersonali”. “La famiglia - ha concluso - è Chiesa domestica e deve essere la prima scuola di preghiera”. Per questo bisogna “riscoprire la bellezza di pregare assieme come famiglia alla scuola della Santa Famiglia di Nazaret e così divenire realmente un cuor solo e un'anima sola, una vera famiglia".
Città del Vaticano (AsiaNews) –

martedì 27 dicembre 2011

Te Deum, Corti: Per i santi che ho conosciuto



In vita mia ho conosciuto due santi: don Luigi Giussani e don Carlo Gnocchi. Due persone abissalmente diverse, ma entrambe anime elevatissime e, per la mia esperienza, ugualmente sante. Il primo era un maestro che seppe appassionare alla fede tanti giovani, il secondo un animo semplice tutto dedito agli altri.


Don Giussani era di Desio, non molto lontano da Besana, paese dove abito. Lo conobbi ai tempi della battaglia sul divorzio. Con alcuni amici avevo organizzato una serie di convegni in cui avevamo invitato varie personalità e ricordo un suo mirabile intervento durante una conferenza al teatro della Biblioteca Ambrosiana di Milano. L’ho incontrato spesso, ma ricordo con particolare lucidità il giorno del funerale di sua madre. Egli celebrava e io m’ero messo in fondo, nelle ultime file, in mezzo a una moltitudine di persone che, come me, avevano voluto far sentire la loro vicinanza al prete di Desio. Ma non riuscivo a stare in chiesa. Non per la calca, ma per le parole con cui – con un’emozione vibrante ma non retorica – il figlio prete ricordava la madre defunta. Così entravo e uscivo di continuo, lottando in me stesso tra sentimenti di ammirazione e d’insopportabile commozione.

Don Carlo parlava sempre di due cose: degli alpini e di Dio, e di entrambi parlava col medesimo trasporto. Era venuto ad abitare qui, a Montesiro, a due passi dalla mia abitazione, quando aveva tre anni. Era stato cappellano all’Istituto Gonzaga di Milano e poi era partito per il fronte greco. L’esperienza di guerra l’aveva marcato per tutta la vita, facendogli provare delle sofferenze che l’avevano fortificato e reso un vero soldato cristiano. Aveva poi vissuto la ritirata dal fronte russo, comportandosi valorosamente e assistendo i moribondi che ghiacciavano in mezzo alla neve a temperature di quaranta gradi sotto zero. Entrava nei combattimenti con grande ardore, sfidando i colpi, e sui soldati si piegava per assisterli e confessarli.

Ricordo che aveva un taccuino su cui annotava i nomi delle mogli e dei figli che i soldati nell’ultima confessione gli affidavano. Al termine del conflitto andò a trovare ognuna di quelle famiglie. Fu così che si rese conto delle condizioni pietose di tanta gente; fu così che iniziò a raccogliere ogni genere di poverello, radunando tutti costoro in una prima grande famiglia. Ma non c’erano solo i congiunti degli alpini, tutta Italia era percorsa da questo grande terremoto delle vittime di guerra. E dei loro figli, mutilati spesso da giochi in campi non ancora sminati. Don Carlo si diede alla cura dei mutilati con tutto il cuore e nei suoi istituti volle sempre che vigesse uno spirito d’amore.

Capitò un giorno che ci incontrammo per strada. Ogni volta che ci incrociavamo mi ripeteva sempre la medesima raccomandazione: «Sposati presto, perché non è bene aspettare». Ma quella volta avevo la risposta pronta. Avevo infatti deciso di sposarmi con Vanda. «E perché non me lo hai detto?». «Ma don Carlo, sa, lei è così impegnato, io, non osavo», biascicai in qualche modo. Tirò fuori dal taschino quel suo famoso taccuino dei morti e mi fissò una data.

24 maggio 1951. Sessant’anni fa. Pare ieri. Era la sera precedente il matrimonio e per le strade di Assisi – lì mi sono sposato perché mia moglie è di quelle parti – passeggiavamo io, mia moglie, don Carlo, il mio testimone di nozze, Mario Bellini, che era stato con me sul fronte russo, e il testimone di mia moglie, Arnaldo Fortini, sindaco di Perugia e chiarissimo studioso francescano. Il cielo era terso, il clima incantato e la conversazione scorreva così piacevole che proseguimmo fino a notte tarda, sebbene l’impegno dell’indomani avesse dovuto consigliarci altro comportamento. Eppure eravamo tutti quanti eccitati, chi per una ragione, chi per un’altra. Fortini narrava con enfasi le ultime scoperte in ordine ai suoi studi, Bellini di certi suoi incontri straordinari di cui voleva far partecipe don Carlo, io, oltre che per quel che si può facilmente immaginare, perché s’era all’indomani dei successi elettorali della Democrazia cristiana e – incoscienza giovanile – già vedevo aprirsi una nuova era di cristianizzazione del paese. Ma più d’ogni altro, era don Carlo ad essere gasato. Era appena tornato da Parigi, dove s’era recato perché aveva sentito parlare dei primi progressi della chirurgia plastica. V’erano, infatti, nella capitale parigina dottori che, esperti in questo genere di arte, s’arricchivano con i soldi delle dive. Potete immaginarvi la sorpresa di costoro, non certo dei baciapile e alieni da qualsiasi simpatia cristiana, quando si videro di fronte il mio amico in tonaca. Eppure – è questa una prerogativa dei santi – seppe convincerli che dovevano aiutarlo: «Almeno le bambine dovete curarmele». Così, ci raccontava in quella sera primaverile don Carlo, era riuscito a strappargli un “sì” e da quel giorno in poi, di fine settimana in fine settimana, portava a Parigi una dozzina delle sue mutilatine, ragazzine la cui sfortuna era evidente nelle ossa sporgenti e orribili del volto. Le fece sistemare tutte. «Le mie bambine – diceva sempre come solo un sant’uomo sa dire – le voglio tutte belle come le dive del cinema».

Ecco, dunque, di che cosa ho da ringraziare Dio. D’aver conosciuto dei santi. Gente che, anche a un profano come me, ha fatto sentire con maggior vigore la presenza della provvidenza nel quotidiano vivere.

Giancarlo Cesana: Sappiamo da che parte stare | Tempi

L’esecutivo d’emergenza non sospende la democrazia. Il problema se mai è che «ciò che ora è proclamato indilazionabile, non era ritenuto fondamentale prima». E per non essere inghiottiti dal potere «bisogna saper vedere queste differenze». l'intervista a Giancarlo Cesana, apparsa sul numero 51/2011 Tempi.
Messa di fatto in mora dal “governo tecnico”. Squassata dalla retorica dell’anticasta. Svillaneggiata dall’ultimo stagista che passa in redazione. Oggi alla politica conviene volare bassa e stare guardinga. E attrezzarsi sperando nei corsi e ricorsi storici. Intanto, stelle s’acquattano dietro i convegni cattolici che puntano su Roma. E stelline si affacciano nelle agorà del “nuovo parlarsi” all’insegna del «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?». Insomma, è un fiorire di “radici cristiane” e “valori non negoziabili”. Piatto ricco. Ma non per Giancarlo Cesana. Ciellino doc, professore di Igiene generale e applicata all’Università degli studi di Milano Bicocca e presidente della Fondazione Policlinico-Mangiagalli di Milano.

Professore, come giudica l’esultanza per il “ritorno dei cattolici in politica”?

I cattolici sono in politica da tempo, non più uniti purtroppo e pertanto poco incidenti, meglio, “incidono” per quello su cui incidono tutti. Per esempio, nell’attuale parlamento e anche nel governo ci sono molti cattolici. Fa tuttavia fatica ad emergere una proposta originale, non reattiva, di politica e società. Questa carenza purtroppo non è sostituibile dalla semplice volontà entrista. Credo debba essere ritrovato il significato personale e pubblico della fede e il coraggio dell’unità. Lo so che a molti l’unità dei cattolici in politica suona come una forzatura o addirittura come un indigeribile reliquato del passato. Ma, secondo me, sbagliano. Come dice san Paolo: «Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1 Cor 10,31). Mi pare uno scopo abbastanza unificante, soprattutto quando si tratta di decidere su questioni fondamentali che riguardano i destini del proprio popolo. Non è detto che l’unità sia un partito, né che sia in funzione di esso, ma di una ipotesi di società sì, a cominciare dai cosiddetti “valori non negoziabili” fino alle loro conseguenze che sono molto di più che dei no all’aborto e simili. Sono immagini positive di esistenza, educazione, economia e legge. Queste vanno difese e incrementate. Bisogna però conoscerle e riconoscerle come il patrimonio comune della nostra storia. La strada è lunga e negli ultimi anni si è camminato all’indietro.

Il Papa davanti al Bundestag ha detto: «La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto». Quali sono queste finestre da aprire?

Ne dico tre, in ordine, per così dire, logico. La prima è sulla realtà che, per quanto enigmatica e dolorosa, è positiva perché c’è e ci corrisponde nel senso che senza di essa non possiamo vivere (ci vuole l’aria, la luce, il cibo… la bellezza). La seconda è sul mistero, di cui la realtà è segno. La ragione positivista che rifiuta l’anima, o la libertà, solo perché squartando i cadaveri non le ha mai trovate, è superficiale. Ci son più cose in cielo e in terra che nella nostra fantasia, diceva Shakespeare. La terza finestra è su Cristo che, come dice Giussani, “pretende” di essere il volto del mistero, che ha vinto la morte e, con la Chiesa, continua misteriosamente la sua presenza tra noi. Cristo conferma che la domanda di eternità e felicità non è follia, che le contraddizioni si possono affrontare, che si può sperare. È il Natale e la nostra storia, senz’altro la mia, in cui molte altre finestre si sono aperte di conseguenza.

Piero Ostellino nell’intervista pubblicata tre settimane fa su Tempi, dice che dobbiamo uscire dal Novecento, cioè da un tipo di mentalità diffuso in Italia, secondo cui “tutto è dovuto”. Ce la possiamo fare? Ma secondo quale nuovo ideale?

Ce la possiamo fare senz’altro, ma non sarà facile perché i sacrifici – non tutto è dovuto e, anzi, spesso bisogna dare – in genere non piacciono. Per farli bisogna essere molto liberi o costretti, che è, purtroppo, la condizione più frequente. Per fare sacrifici non costretti bisogna avere chiaro lo scopo, cioè che valgano la pena. Un sacrificio, infatti, non è innanzitutto una rinuncia, ma amore alla verità più che a se stessi, in quanto dipendenti dalla verità. Perché la libertà cresca è necessaria l’educazione, che come diceva lo Jungmann è “introduzione alla realtà totale”. Quando si dice che c’è un’emergenza educativa si afferma implicitamente che c’è un alterato rapporto con la realtà, una incapacità di apprezzare la verità delle cose. Appunto, spetta all’educatore soprattutto di spalancare le finestre; e all’educando, giovane o adulto che sia – bisogna imparare anche da grandi –, di decidere di guardare fuori e respirare a pieni polmoni. Le finestre mostrano gli ideali, cioè non le idee astratte, ma le immagini che più compiutamente realizzano i desideri. Come è stato sottolineato in un recente documento di Comunione e Liberazione sulla crisi, di ideali ce ne sono, non solo perseguibili, ma perseguiti.


Da ex leader del Movimento popolare e da cattolico che non nasconde le sue simpatie, come vede l’ondata senza fine dell’antipolitica? Non è paradossale che i grandi sponsor mediatici di questa moda che sembra stare “dalla parte della gente” siano ora i primi promotori di un governo passato al cento per cento “sopra la testa della gente”?

Di cose che passano sopra la testa della gente ce ne sono molte e molto più gravi di questo governo. Quanto al fatto che questo governo costituisca una interruzione del ciclo democratico, non riesco a essere d’accordo, perché è stato votato dal Parlamento, cioè dai rappresentanti del popolo, cui spetta anche di ratificarne le leggi. Certamente questo governo è l’esito delle incapacità precedenti sia della maggioranza che dell’opposizione. Bisogna però saper vedere le differenze, perché il futuro non diventi la notte in cui tutte le vacche sono nere. Mentre Berlusconi e il Pdl erano d’accordo e, dicono, in gran parte abbiano “preparato” i provvedimenti “salva-Italia” di Monti, la Lega lo era un po’ di meno – vedi le pensioni – e i partiti di opposizione non lo erano per niente – erano contro tutto. Il problema è che quello che è proclamato indilazionabile adesso, non era ritenuto fondamentale prima, dalla opposizione politica e “culturale” al governo di prima, divenuta sostenitrice del governo di adesso. Siccome dicono tutti che la criticità presente si estenderà negli anni a venire, limitarsi a incrociare le dita è demenziale. È necessario che, pur con i dubbi morali sulle persone, sui fatti si sappia da che parte stare. Vivere sopra le parti è un’illusione, che lascia schierati secondo l’opinione corrente, che crede di essere indipendente solo perché fa parte della maggioranza indisturbata, perché connivente con chi comanda.

Lucio Magri: una morte onorevole o una morte scandalosa?

De mortuis nihil nisi bonum, è la proverbiale frase latina che ricorda che chi è morto non si può difendere e, quindi, non si può che dirne bene. Ho letto che c’era di mezzo la depressione. Non sono scandalizzato, però non sono d’accordo, se non con Magri, con gli amici che aspettavano insieme la notizia della fine. Non posso però impedire loro di vivere così, senza reale speranza nella vita. Ma allora perché coltivare un ideale rivoluzionario o comunque di cambiamento? Qui, però, più che sentenziare bisogna parlare, confrontarsi, per quello che serve.

domenica 25 dicembre 2011

MESSAGGIO NATALIZIO DEL SANTO PADRE E BENEDIZIONE URBI ET ORBI, 25.12.2011



Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!

Cristo è nato per noi! Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama. A tutti giunga l’eco dell’annuncio di Betlemme, che la Chiesa Cattolica fa risuonare in tutti i continenti, al di là di ogni confine di nazionalità, di lingua e di cultura. Il Figlio di Maria Vergine è nato per tutti, è il Salvatore di tutti.

Così lo invoca un’antica antifona liturgica: "O Emmanuele, nostro re e legislatore, speranza e salvezza dei popoli: vieni a salvarci, o Signore nostro Dio". Veni ad salvandum nos! Vieni a salvarci! Questo è il grido dell’uomo di ogni tempo, che sente di non farcela da solo a superare difficoltà e pericoli. Ha bisogno di mettere la sua mano in una mano più grande e più forte, una mano che dall’alto si tenda verso di lui. Cari fratelli e sorelle, questa mano è Cristo, nato a Betlemme dalla Vergine Maria. Lui è la mano che Dio ha teso all’umanità, per farla uscire dalle sabbie mobili del peccato e metterla in piedi sulla roccia, la salda roccia della sua Verità e del suo Amore (cfr Sal 40,3).

Sì, questo significa il nome di quel Bambino, il nome che, per volere di Dio, gli hanno dato Maria e Giuseppe: si chiama Gesù, che significa "Salvatore" (cfr Mt 1,21; Lc 1,31). Egli è stato inviato da Dio Padre per salvarci soprattutto dal male profondo, radicato nell’uomo e nella storia: quel male che è la separazione da Dio, l’orgoglio presuntuoso di fare da sé, di mettersi in concorrenza con Dio e sostituirsi a Lui, di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di essere il padrone della vita e della morte (cfr Gen 3,1-7). Questo è il grande male, il grande peccato, da cui noi uomini non possiamo salvarci se non affidandoci all’aiuto di Dio, se non gridando a Lui: "Veni ad salvandum nos! - Vieni a salvarci!".

Il fatto stesso di elevare al Cielo questa invocazione, ci pone già nella giusta condizione, ci mette nella verità di noi stessi: noi infatti siamo coloro che hanno gridato a Dio e sono stati salvati (cfr Est [greco] 10,3f). Dio è il Salvatore, noi quelli che si trovano nel pericolo. Lui è il medico, noi i malati. Riconoscerlo, è il primo passo verso la salvezza, verso l’uscita dal labirinto in cui noi stessi ci chiudiamo con il nostro orgoglio. Alzare gli occhi al Cielo, protendere le mani e invocare aiuto è la via di uscita, a patto che ci sia Qualcuno che ascolta, e che può venire in nostro soccorso.

Gesù Cristo è la prova che Dio ha ascoltato il nostro grido. Non solo! Dio nutre per noi un amore così forte, da non poter rimanere in Se stesso, da uscire da Se stesso e venire in noi, condividendo fino in fondo la nostra condizione (cfr Es 3,7-12). La risposta che Dio ha dato in Gesù al grido dell’uomo supera infinitamente la nostra attesa, giungendo ad una solidarietà tale che non può essere soltanto umana, ma divina. Solo il Dio che è amore e l’amore che è Dio poteva scegliere di salvarci attraverso questa via, che è certamente la più lunga, ma è quella che rispetta la verità sua e nostra: la via della riconciliazione, del dialogo, della collaborazione.

Perciò, cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero, in questo Natale 2011, rivolgiamoci al Bambino di Betlemme, al Figlio della Vergine Maria, e diciamo: "Vieni a salvarci!". Lo ripetiamo in unione spirituale con tante persone che vivono situazioni particolarmente difficili, e facendoci voce di chi non ha voce.

Insieme invochiamo il divino soccorso per le popolazioni del Corno d’Africa, che soffrono a causa della fame e delle carestie, talvolta aggravate da un persistente stato di insicurezza. La Comunità internazionale non faccia mancare il suo aiuto ai numerosi profughi provenienti da tale Regione, duramente provati nella loro dignità.

Il Signore doni conforto alle popolazioni del Sud-Est asiatico, particolarmente della Thailandia e delle Filippine, che sono ancora in gravi situazioni di disagio a causa delle recenti inondazioni.

Il Signore soccorra l’umanità ferita dai tanti conflitti, che ancora oggi insanguinano il Pianeta. Egli, che è il Principe della Pace, doni pace e stabilità alla Terra che ha scelto per venire nel mondo, incoraggiando la ripresa del dialogo tra Israeliani e Palestinesi. Faccia cessare le violenze in Siria, dove tanto sangue è già stato versato. Favorisca la piena riconciliazione e la stabilità in Iraq ed in Afghanistan. Doni un rinnovato vigore nell’edificazione del bene comune a tutte le componenti della società nei Paesi nord africani e mediorientali.

La nascita del Salvatore sostenga le prospettive di dialogo e di collaborazione in Myanmar, nella ricerca di soluzioni condivise. Il Natale del Redentore garantisca stabilità politica ai Paesi della Regione africana dei Grandi Laghi ed assista l’impegno degli abitanti del Sud Sudan per la tutela dei diritti di tutti i cittadini.

Cari fratelli e sorelle, rivolgiamo lo sguardo alla Grotta di Betlemme: il Bambino che contempliamo è la nostra salvezza! Lui ha portato al mondo un messaggio universale di riconciliazione e di pace. Apriamogli il nostro cuore, accogliamolo nella nostra vita. Ripetiamogli con fiducia e speranza: "Veni ad salvandum nos!".

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

SANTA MESSA NELLA NOTTE DI NATALE:OMELIA DEL SANTO PADRE


Cari fratelli e sorelle,

La lettura tratta dalla Lettera di san Paolo Apostolo a Tito, che abbiamo appena ascoltato,inizia solennemente con la parola “apparuit”, che ritorna poi di nuovo anche nella lettura della Messa dell’aurora: apparuit – “è apparso”.
È questa una parola programmatica con cui la Chiesa, in modo riassuntivo, vuole esprimere l’essenza del Natale. Prima, gli uomini avevano parlato e creato immagini umane di Dio in molteplici modi. Dio stesso aveva parlato in diversi modi agli uomini (cfr Eb 1,1: lettura nella Messa del giorno).
Ma ora è avvenuto qualcosa di più: Egli è apparso. Si è mostrato. È uscito dalla luce inaccessibile in cui dimora. Egli stesso è venuto in mezzo a noi. Questa era per la Chiesa antica la grande gioia del Natale: Dio è apparso.
Non è più soltanto un’idea, non soltanto qualcosa da intuire a partire dalle parole. Egli è “apparso”.
Ma ora ci domandiamo: Come è apparso? Chi è Lui veramente? La lettura della Messa dell’aurora dice al riguardo: “apparvero la bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini” (Tt 3,4).
Per gli uomini del tempo precristiano, che di fronte agli orrori e alle contraddizioni del mondo temevano che anche Dio non fosse del tutto buono, ma potesse senz’altro essere anche crudele ed arbitrario, questa era una vera “epifania”, la grande luce che ci è apparsa: Dio è pura bontà.

Anche oggi, persone che non riescono più a riconoscere Dio nella fede si domandano se l’ultima potenza che fonda e sorregge il mondo sia veramente buona, o se il male non sia altrettanto potente ed originario quanto il bene e il bello, che in attimi luminosi incontriamo nel nostro cosmo.

“Apparvero la bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini”: questa è una nuova e consolante certezza che ci viene donata a Natale.
In tutte e tre le Messe del Natale la liturgia cita un brano tratto dal Libro del Profeta Isaia, che descrive ancora più concretamente l’epifania avvenuta a Natale: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine” (Is 9,5s).

Non sappiamo se il profeta con questa parola abbia pensato a un qualche bambino nato nel suo periodo storico. Sembra però impossibile. Questo è l’unico testo nell’Antico Testamento in cui di un bambino, di un essere umano si dice: il suo nome sarà Dio potente, Padre per sempre.

Siamo di fronte ad una visione che va di gran lunga al di là del momento storico verso ciò che è misterioso, collocato nel futuro. Un bambino, in tutta la sua debolezza, è Dio potente.
Un bambino, in tutta la sua indigenza e dipendenza, è Padre per sempre.
“E la pace non avrà fine”.
Il profeta ne aveva prima parlato come di “una grande luce” e a proposito della pace proveniente da Lui aveva affermato che il bastone dell’aguzzino, ogni calzatura di soldato che marcia rimbombando, ogni mantello intriso di sangue sarebbero stati bruciati (cfr Is 9,1.3-4).


Dio è apparso – come bambino. Proprio così Egli si contrappone ad ogni violenza e porta un messaggio che è pace. In questo momento, in cui il mondo è continuamente minacciato dalla violenza in molti luoghi e in molteplici modi; in cui ci sono sempre di nuovo bastoni dell’aguzzino e mantelli intrisi di sangue, gridiamo al Signore: Tu, il Dio potente, sei apparso come bambino e ti sei mostrato a noi come Colui che ci ama e mediante il quale l’amore vincerà. E ci hai fatto capire che, insieme con Te, dobbiamo essere operatori di pace. Amiamo il Tuo essere bambino, la Tua non violenza, ma soffriamo per il fatto che la violenza perdura nel mondo, e così
Ti preghiamo anche: dimostra la Tua potenza, o Dio. In questo nostro tempo, in questo nostro mondo, fa’ che i bastoni dell’aguzzino, i mantelli intrisi di sangue e gli stivali rimbombanti dei soldati vengano bruciati, così che la Tua pace vinca in questo nostro mondo.

Natale è epifania – il manifestarsi di Dio e della sua grande luce in un bambino che è nato per noi. Nato nella stalla di Betlemme, non nei palazzi dei re.

Quando, nel 1223, Francesco di Assisi celebrò a Greccio il Natale con un bue e un asino e una mangiatoia piena di fieno, si rese visibile una nuova dimensione del mistero del Natale. Francesco di Assisi ha chiamato il Natale “la festa delle feste” – più di tutte le altre solennità – e l’ha celebrato con “ineffabile premura” (2 Celano, 199: Fonti Francescane, 787).

Baciava con grande devozione le immagini del bambinello e balbettava parole di dolcezza alla maniera dei bambini, ci racconta Tommaso da Celano (ivi).

Per la Chiesa antica, la festa delle feste era la Pasqua: nella risurrezione, Cristo aveva sfondato le porte della morte e così aveva radicalmente cambiato il mondo: aveva creato per l’uomo un posto in Dio stesso.

Ebbene, Francesco non ha cambiato, non ha voluto cambiare questa gerarchia oggettiva delle feste, l’interna struttura della fede con il suo centro nel mistero pasquale. Tuttavia, attraverso di lui e mediante il suo modo di credere è accaduto qualcosa di nuovo: Francesco ha scoperto in una profondità tutta nuova l’umanità di Gesù.

Questo essere uomo da parte di Dio gli si rese evidente al massimo nel momento in cui il Figlio di Dio, nato dalla Vergine Maria, fu avvolto in fasce e venne posto in una mangiatoia. La risurrezione presuppone l’incarnazione. Il Figlio di Dio come bambino, come vero figlio di uomo – questo toccò profondamente il cuore del Santo di Assisi, trasformando la fede in amore.

“Apparvero la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini”: questa frase di san Paolo acquistava così una profondità tutta nuova. Nel bambino nella stalla di Betlemme, si può, per così dire, toccare Dio e accarezzarlo. Così l’anno liturgico ha ricevuto un secondo centro in una festa che è, anzitutto, una festa del cuore.

Tutto ciò non ha niente di sentimentalismo. Proprio nella nuova esperienza della realtà dell’umanità di Gesù si rivela il grande mistero della fede. Francesco amava Gesù, il bambino, perché in questo essere bambino gli si rese chiara l’umiltà di Dio. Dio è diventato povero. Il suo Figlio è nato nella povertà della stalla. Nel bambino Gesù, Dio si è fatto dipendente, bisognoso dell’amore di persone umane, in condizione di chiedere il loro – il nostro – amore.

Oggi il Natale è diventato una festa dei negozi, il cui luccichio abbagliante nasconde il mistero dell’umiltà di Dio, la quale ci invita all’umiltà e alla semplicità. Preghiamo il Signore di aiutarci ad attraversare con lo sguardo le facciate luccicanti di questo tempo fino a trovare dietro di esse il bambino nella stalla di Betlemme, per scoprire così la vera gioia e la vera luce.

Sulla mangiatoia, che stava tra il bue e l’asino, Francesco faceva celebrare la santissima Eucaristia (cfr 1 Celano, 85: Fonti, 469). Successivamente, sopra questa mangiatoia venne costruito un altare, affinché là dove un tempo gli animali avevano mangiato il fieno, ora gli uomini potessero ricevere, per la salvezza dell’anima e del corpo, la carne dell’Agnello
immacolato Gesù Cristo, come racconta il Celano (cfr 1 Celano, 87: Fonti, 471).

Nella Notte santa di Greccio, Francesco quale diacono aveva personalmente cantato con voce sonora il Vangelo del Natale. Grazie agli splendidi canti natalizi dei frati, la celebrazione sembrava tutta un sussulto di gioia (cfr 1 Celano, 85 e 86: Fonti, 469 e 470).

Proprio l’incontro con l’umiltà di Dio si trasformava in gioia: la sua bontà crea la vera festa.

Chi oggi vuole entrare nella chiesa della Natività di Gesù a Betlemme, scopre che il portale, che un tempo era alto cinque metri e mezzo e attraverso il quale gli imperatori e i califfi entravano nell’edificio, è stato in gran parte murato.

È rimasta soltanto una bassa apertura di un metro e mezzo. L’intenzione era probabilmente di proteggere meglio la chiesa contro eventuali assalti, ma soprattutto di evitare che si entrasse a cavallo nella casa di Dio.

Chi desidera entrare nel luogo della nascita di Gesù, deve chinarsi. Mi sembra che in ciò si manifesti una verità più profonda, dalla quale vogliamo lasciarci toccare in questa Notte santa: se vogliamo trovare il Dio apparso quale bambino, allora dobbiamo scendere dal cavallo della nostra ragione “illuminata”.
Dobbiamo deporre le nostre false certezze, la nostra superbia intellettuale, che ci impedisce di percepire la vicinanza di Dio. Dobbiamo seguire il cammino interiore di san Francesco – il cammino verso quell’estrema semplicità esteriore ed interiore che rende il cuore capace di vedere.

Dobbiamo chinarci, andare spiritualmente, per così dire, a piedi, per poter entrare attraverso il portale della fede ed incontrare il Dio che è diverso dai nostri pregiudizi e dalle nostre opinioni: il Dio che si nasconde nell’umiltà di un bimbo appena nato. Celebriamo così la liturgia di questa Notte santa e rinunciamo a fissarci su ciò che è materiale, misurabile e toccabile. Lasciamoci rendere semplici da quel Dio che si manifesta al cuore diventato semplice.

E preghiamo in quest’ora anzitutto anche per tutti coloro che devono vivere il Natale in povertà, nel dolore, nella condizione di migranti, affinché appaia loro un raggio della bontà di Dio; affinché tocchi loro e noi quella bontà che Dio, con la nascita del suo Figlio nella stalla, ha voluto portare nel mondo. Amen.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

sabato 24 dicembre 2011

OMELIA DI S.E.R. CARD. ANGELO SCOLA, ARCIVESCOVO DI MILANO



MESSA NELLA NOTTE DEL NATALE DEL SIGNORE
DUOMO DI MILANO, 24 DICEMBRE 201

1. «Noi abbiamo conosciuto in terra il fulgore del suo mistero» (Preghiera all’inizio
dell’Assemblea liturgica).
Figli carissimi, il potente ossimoro contenuto nella Preghiera con cui abbiamo iniziato questa celebrazione liturgica esprime bene l’indicibile dono di cui siamo investiti. «Oggi la luce risplende su di noi» ci ha fatto pregare il ritornello del Salmo responsoriale. È venuta nel mondo «la luce vera quella che illumina ogni uomo» (Vangelo, Gv 1,9) proclama Giovanni, all’inizio del suo Vangelo. Perciò, ci ha invitato il profeta Isaia, «Venite, camminiamo nella luce del Signore» (Prima
Lettura, Is 2,5) Anche noi in questa notte santa ci siamo messi in moto convocati (chiamati insieme) dal Dio-Bambino nel nostro Duomo, casa dei milanesi. Stiamo, qui ed ora, facendo l’esperienza di cui ci parla lo stesso brano evangelico: «… Noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Vangelo, Gv 1,14b). Noi contempliamo, vale a dire guardiamo con intensità, stupiti e commossi, la presenza di Dio che agisce nella storia. Questo è il senso biblico della parola “gloria”. La solenne processione
d’ingresso con cui, qui in Duomo e in tutte le parrocchie e comunità della Diocesi, abbiamo introdotto nell’azione liturgica della nostra Chiesa ambrosiana il nuovo, artistico Evangeliario donato dal carissimo cardinale Tettamanzi, è un riflesso luminoso di questa gloria del Dio-Bambino che trasfigura le nostre esistenze.

2. «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Vangelo, Gv 1,14a). In questo versetto del prologo del Vangelo di Giovanni sintetizza l’assoluta novità del cristianesimo. La luce è una persona reale: il «figlio unigenito che viene dal Padre» (Vangelo, Gv 1,14). Con la parola “carne” Giovanni ha deliberatamente scelto un termine che ben esprime la contingenza dell’uomo.
Già nell’Antico Testamento la carne, senza essere in sé cattiva, senza essere in antitesi a Dio, rappresenta tutto ciò che è transitorio, mortale e imperfetto. Noi sappiamo inoltre che la carne è stata ferita dal peccato e, per questo, domanda «riscatto» (Epistola, Gal 4,5), come ci ha ricordato san Paolo. Ebbene il «Natale del Salvatore è il natale della nostra salvezza» (Prefazio), il natale del
riscatto della carne che noi uomini siamo. Il Verbo ha assunto la nostra carne e la carne è diventata «cardine di salvezza» (Tertulliano, De resurrectione mortuorum VIII, 6-7). Il Santo Natale è l’ineffabile dono del Dio che si è “abbassato per noi”. I Padri della Chiesa arrivavano a dire: «Dio si è abbreviato fino a rendersi visibile agli occhi, palpabile alle mani, portabile sulle spalle».

3. Per noi «l’Autore del tempo si è fatto temporale», scrive Agostino (Agostino, Sermo 192, 1), e insiste: «Egli nacque affinché noi rinascessimo». La nascita del Dio Bambino è per noi qui ed ora - lo ripeto - una rinascita. Non è casuale né sentimentale la tenerezza che continua a fluire in questa notte santa dalla grotta di Betlemme. È la forte dolcezza che ci fa toccare con mano in cosa consiste la salvezza del Natale. Il Prefazio la descrive con tre sintetiche affermazioni che dobbiamo
far nostre. La prima: «Al mortale è promessa la vita». Al mortale, in concreto a te, a me, a noi tutti è donata la vita senza fine. «Al peccatore è rimesso il peccato»: se non resistiamo alla forza dell’amore appassionato di Gesù il perdono, vale a dire il pieno riscatto della nostra libertà, diventa una reale opportunità. Infine «anche il mondo rinasce». La Sua gloria opera la salvezza per la famiglia umana, anche la nostra in questo inizio del Terzo millennio, attanagliata dalle difficoltà
della crisi. La riprova di questo triplice frutto dell’incarnazione viene dal dono di essere resi, in Gesù, figli: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna… perché ricevessimo l'adozione a figli» (Epistola, Gal 4,4-5). Di essere figli, non di essere stati figli, ognuno di noi, soprattutto in tarda età, sente la struggente necessità. Gesù Bambino continua ad elargirci il prezioso dono di rivolgerci personalmente a Dio chiamandolo «Abbà, Padre!» (Epistola, Gal 4,6).

4. In che modo il Bambino Gesù procura la nostra salvezza? Il Figlio di Dio, con la sua venuta nella carne, introduce nella storia una forza di unità: «il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s'innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti» (Prima Lettura, Is 2,2) La visione di Isaia prospetta un movimento opposto a quello di Babele. La storia con il
Salvatore non è più un agglomerato di frammenti (dispersione: di-sgregatio), ma possiede un orientamento di pace per tutti gli uomini e per tutti i popoli (con-gregatio). Ma come si può affermare questo se guardiamo al panorama che l’oggi ci presenta: crisi, guerra, fame, emarginazione, miseria, dolore? Dov’è questa salvezza, questo orientamento di unità e di pace, se poco o niente di nuovo si riesce a vedere dopo la Sua Redenzione? Risponde il Vangelo: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome» (Vangelo, Gv 1,11-12). L’opera del Salvatore è in atto ma attende la libertà dell’uomo. Chiede di divenire manifesta in ogni uomo.
La gratuità dell’Avvenimento del Natale del Figlio di Dio provoca inevitabilmente la nostra libertà. Ora siamo chiamati a posizionarci rispetto al Figlio che si offre alla nostra mercé come un Bambino. La fede è la risposta piena a questa inquietante domanda. Come ci ha ricordato recentemente il Santo Padre la crisi del cristianesimo in Europa è anzitutto crisi di fede. La riprova sta nel fatto che nella fede eucaristica dei santi, anche dei molti santi anonimi di oggi, ogni uomo è
già condotto a riconoscere i vividi segni della Sua salvezza.

5. Per questo, umili e lieti in questa notte santa, davanti a Gesù Bambino preghiamo con il nostro Padre Ambrogio: «Già il tuo presepe rifulge / e la notte spira una luce nuova; / nessuna tenebra più la contamini / e la rischiari perenne la fede» (Inno di Natale). Amen

La Luce sulle tenebre



di Luigi Negri*

L’annunzio della incarnazione di Dio in Gesù Cristo ci coglie in un momento complesso e contraddittorio.

Da un lato l’esperienza dell’uomo di oggi sembra destinata a un inesorabile e definitivo fallimento. «E’ possibile che l’uomo muoia», diceva sant’Ireneo tanti secoli fa. «E’ possibile che l’uomo, nella sua umanità, muoia», ricordava spesso il papa Giovanni Paolo II. Una vita senza più nessun punto di riferimento sostanziale, dal punto di vista teorico e pratico. Un individualismo proteso all’affermazione di sé come perseguimento del proprio benessere ad ogni costo. Una violenza che dilaga in tutti gli strati della vita sociale, affermata e vissuta come soluzione di problemi che sembrano impossibili a risolversi se non con la violenza. Violenza di omicidi, e spesso anche di suicidi conseguenti.

Una vita brutta, come il Papa ci ricorda continuamente. Brutta perché priva di tensione alla libertà, a seguire il bene, il bello, il giusto. Ed è un’immagine universalmente diffusa che rischia di dare alla parola vita un’accezione totalmente ridotta alla pura sopravvivenza fisica.

Ma dice il profeta nella prima messa del Natale: «Il popolo che camminava nelle tenebre – e certamente le tenebre sono la cifra di questa nostra società - vide all’improvviso una grande luce». Cristo è la luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. E’ la luce che rivela all’uomo tutto ciò che egli porta nel cuore, ma soprattutto rivela all’uomo quella presenza assolutamente incredibile e pure realissima del mistero di Dio che si fa compagnia all’uomo. Si fa compagnia all’uomo e non solo gli rivela teoricamente la sua identità, ma lo mette in grado di perseguire questa identità attraverso l’appartenenza alla Chiesa - che è luogo dove Cristo si incontra qui ed ora - e diventa cammino educativo per lo sviluppo integrale della propria personalità umana e cristiana.

Chi è stato veramente nella profondità delle tenebre, trasale di gioia all’idea che la luce viene. E ne scopre i preannunzi, l’alba. L’alba - ci ricordava spesso monsignor Giussani - è il momento più bello della giornata perché pur carico di tutte le incertezze, le equivocità e le paure della notte, già si intravvede che la luce sta nascendo e vincerà le tenebre, restituendo la vita delle persone e delle cose alla loro consistenza, alla loro bellezza.

Credo che questo sia un momento terribile ma di una terribilità che può diventare una grande positività. Bisogna che i cristiani scommettano un’altra volta sulla fede, sulla fede in Cristo come unica possibilità di salvezza. E occorre che tanti uomini di buona volontà amino il mistero e la verità più di se stessi. Uno dei maestri di questo popolo laico, Vaclav Havel, si è spento qualche giorno fa. Egli aveva giocato tutta la sua vita su ciò che don Giussani chiamava il cuore dell’uomo. E su questo cuore, per questo cuore, ha coagulato un popolo di veramente laici, che hanno potuto poi abbracciarsi con i grandi cristiani come il cardinale Tomášek, «la grande quercia», come lo definiva Giovanni Paolo II. In questo grande abbraccio, pur nella distinzione, è accaduto un evento storico per la Cecoslovacchia: la grande rivoluzione che ha messo fine al comunismo senza rompere neppure il vetro di una finestra, come amava affermare Vaclav Havel.

Il Natale lo sento, lo desidero e lo prego come il rinnovarsi di un dialogo profondo tra laici veramente laici, cioè non laicisti, e cristiani non clericali. Gente che vive la propria laicità come attesa, gente che vive la fede come testimonianza dell’incontro accaduto con Cristo.
Da questo dialogo forse può nascere un contributo decisivo al cambiamento in meglio dell’uomo e del mondo.

* Vescovo di San Marino - Montefeltro

venerdì 23 dicembre 2011

In questa notte splendida - Martino Chieffo





IN QUESTA NOTTE SPLENDIDA

Claudio Chieffo
In questa notte splendida
di luce e di chiaror
il nostro cuore trepida:
nato il Salvator.
Un bimbo piccolissimo
le porte ci aprirà
del cielo dell’Altissimo
nella sua verità.
Svegliatevi dal sonno,
correte coi pastor,
notte di miracoli,
di grazia e di stupor.
Asciuga le tue lacrime,
non piangere perché
Gesù nostro carissimo
è nato anche per te.
In questa notte limpida
di gloria e di splendor
il nostro cuore trepida:
nato il Salvator.
Gesù nostro carissimo
le porte ci aprirà
il Figlio dell’Altissimo
con noi sempre sarà.

La tentazione del Natale


di JULIÁN CARRÓN
Per descrivere la nostra umanità e per guardare in modo adeguato noi stessi in questo momento della storia del mondo, difficilmente potremmo trovare una parola più opportuna di quella contenuta in questo brano del profeta Sofonia: "Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele". Perché? Che ragione c'è di rallegrarsi, con tutto quello che sta accadendo nel mondo? Perché "il Signore ha revocato la tua condanna".
Il primo contraccolpo provocato in me da queste parole è per la sorpresa di come il Signore ci guarda: con occhi che riescono a vedere cose che noi non saremmo in grado di riconoscere se non partecipassimo di quello stesso sguardo sulla realtà: "Il Signore revoca la tua condanna", cioè il tuo male non è più l'ultima parola sulla tua vita; lo sguardo solito che hai su di te non è quello giusto; lo sguardo con cui ti rimproveri in continuazione non è vero. L'unico sguardo vero è quello del Signore. E proprio da questo potrai riconoscere che Egli è con te: se ha revocato la tua condanna, di che cosa puoi avere paura? "Tu non temerai più alcuna sventura". Una positività inesorabile domina la vita. Per questo, continua il brano biblico, "non temere Sion, non lasciarti cadere le braccia". Perché? Perché "il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente". Non c'è un'altra sorgente di gioia che questa: "Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia" (3, 14-17).
Che queste non sono rimaste solo parole, ma si sono compiute, è ciò che ci testimonia il Vangelo; nel bambino che Maria porta in grembo, quelle parole sono diventate carne e sangue, come ci ricorda in modo commovente Benedetto XVI: "La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti - un realismo inaudito" (Deus caritas est, 12). Ed è un fatto talmente reale nella vita del mondo che non appena Elisabetta riceve il saluto da Maria, il bimbo che porta nel grembo, Giovanni, sussulta di gioia (cfr. Luca, 1, 39-45). Quelle del profeta non sono più soltanto parole, ma si sono fatte carne e sangue, fino al punto che questa gioia è diventata esperienza presente, reale.
Domandiamoci: il cristianesimo è un devoto ricordo o è un avvenimento che accade oggi esattamente come è accaduto duemila anni fa? Guardiamo i tanti fatti che i nostri occhi vedono in continuazione, che ci sorprendono e ci stupiscono, a cominciare da quel fatto imponente che si chiama Benedetto XVI e che ogni volta fa sussultare le viscere del nostro io. C'è uno in mezzo a noi che fa sussultare il "bambino" che ciascuno di noi porta in grembo, nel nostro intimo, nella profondità del nostro essere. Questa esperienza presente ci testimonia che l'episodio della Visitazione non è soltanto un fatto del passato, ma è stato l'inizio di una storia che ci ha raggiunto e che continua a raggiungerci nello stesso modo, attraverso incontri, nella carne e nel sangue di tanti che incontriamo per la strada, che ci muovono nell'intimo.
È con questi fatti negli occhi che possiamo entrare nel mistero di questo Natale, evitando il rischio del "devoto ricordo", di ridurre la festa a un puro atto di pietà, a devozione sentimentale. In fondo, tante volte la tentazione è di non aspettarsi granché dal Natale. Ma a chi è data la grazia più grande che si possa immaginare - vederlo all'opera in segni e fatti che lo documentano presente - è impossibile cadere nel rischio di celebrare la nascita di Gesù come un "devoto ricordo". Non ci è consentito! E non perché siamo più bravi degli altri fratelli uomini, non perché non siamo fragili come tutti, ma perché siamo riscattati di continuo da questo nostro venir meno per la forza di Uno che accade ora e che revoca la nostra condanna. È solo con questi fatti negli occhi che potremo guardare il Natale che viene: non con una nostalgia devota, non col sentimento naturale che sempre provoca in noi un bambino che nasce e neppure con un vago sentimento religioso, ma in forza di una esperienza (perché tutto il resto non produce altro che una riduzione di "quella" nascita). Dove si rivela veramente chi è quel Bambino è in questa esperienza reale: il figlio di Elisabetta ha sussultato di gioia nel suo grembo. È il rinnovarsi continuo di questo avvenimento che ci impedisce di ridurre il Natale e che ce lo può fare gustare come la prima volta.

NATALE/ Scola: chi è l’uomo che non desidera capire se stesso fino in fondo?


Una lezione profonda e al tempo stesso confidenziale sulla «notizia» più grande di tutta la storia: l’evento del Natale, nel quale «Dio si fa bambino per accompagnare la vita singolare e personale di ciascuno di noi». Nel suo pomeriggio fitto di impegni, il cardinale Scola ha dedicato un’ora del suo tempo ai giornalisti. Per continuare una «tradizione» che ho iniziato a Venezia, dice, un momento di incontro e dialogo al quale tengo molto.
Un dialogo a tutto campo, ma dove tutti i temi affrontati dal cardinale trovano senso nell’unico evento che redime il tempo, la festa cristiana del Natale. Al temine, il cardinale ha risposto brevemente anche alle domande del Sussidiario. Come può l’evento del Natale, eminenza, toccare anche al vita dei non credenti? «Per il semplice fatto» risponde Scola «che l’evento di Gesù non è qualcosa che si aggiunge all’esperienza dell’uomo. Facendosi carne, assumendo la nostra carne mortale, Gesù spiega compiutamente la nostra vita. La domanda diventa: chi è l’uomo che non ha il desiderio di capirsi fino in fondo? Ecco, il paragone con Gesù è la grazia donata all’uomo di tutti i tempi per capire il senso della propria vita». Non finiremo mai di immedesimarci in questo mistero. È questo il Natale, dice Scola: «Un Dio che si fa piccolo per raccogliere la nostra piccolezza, in questo scambio misterioso assumere la nostra umanità, in tutto, tranne che nel peccato, per consentirci di vivere nella speranza certa dell’eternità. Ma donandoci fin d’ora un anticipo dell’eternità stessa: un modo più gustoso di amare, di lavorare, di riposare, di costruire la città dell’uomo, di affrontare la nostra fragilità».
Ne ha avuto per tutti, il cardinale. Anche per chi gli ha chiesto un piccolo «bilancio» di questi suoi primi mesi nella nuova diocesi. «Sono stanco, ma al tempo stesso sempre più a mio agio. Sono tornato a casa mia, in un certo senso, questo di solito fa sempre piacere e credo che piaccia a ciascuno di voi». E ancora: «Ho trovato negli incontri che ho fatto finora un popolo di Dio molto solido. Il mio desiderio è uno solo: far fronte come posso, al di là dei miei limiti e delle mie capacità, al compito che il Signore mi ha dato, accompagnare il popolo di Dio che è in Milano a vivere secondo la bellezza, la bontà e la verità del Dono che ha ricevuto».

«Dalla crisi si esce solo insieme, ristabilendo la fiducia vicendevole» aveva detto Scola durante il suo primo discorso in occasione della solennità di sant’Ambrogio. «Bisogna che chi è convinto di questo, si giochi» ha ripetuto ieri in privato il cardinale Scola. «Quell’insieme è un contagio. Ma può contagiare solo chi è già stato “contagiato”. È come una grande catena: la catena della solidarietà della grande famiglia umana».
«Non credo nei progetti e nei piani pastorali» spiega il cardinale, rispondendo a una domanda sul dono vivo del carisma nella Chiesa. «Io stesso mi propongo di assecondare la vita della Chiesa di Dio, che è fatta ultimamente dallo Spirito del Risorto il quale suscita doni, nelle persone e nelle realtà associate. Il compito di chi guida è dare un orientamento, in modo tale che ognuno trovi il suo posto e al tempo stesso possa concorrere al bene della Chiesa. Concorrere al bene della Chiesa domanda all’uomo di essere in un adeguato rapporto con se stesso, con gli altri e con Dio, di essere capace di virtù teologali – fede, speranza e carità – ma anche di virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Un uomo simile, come diceva Péguy, è anche un cittadino eccellente».
Il cardinale insiste su questo punto. «Come il nostro io comunica attraverso il corpo, anche la Chiesa – come ogni realtà umana – comunica se stessa attraverso lo strumento in senso nobile dell’istituzione. Ma se la struttura prevale sulla vita come espressione della totalità dell’io e mette da parte la potenza creativa di una razionalità commossa, radicata nel profondo del cuore nostro, e prende il sopravvento allora uccide la vita. non ho mai visto nascere la vita se non da una vita già in atto: lo vediamo, innanzitutto, nel rapporto tra l’uomo e la donna. Quindi non può mai essere l’organizzazione a far nascere la vita, mai. Ma più è debole, nelle nostre realtà associate, ivi compresa la Chiesa, la consistenza dell’io e delle sue azioni, più è debole ilper chi il nostro io si muove, più noi saremo tentati di consegnare alla struttura organizzativa la totalità della nostra vita, personale ed associata».

Il cardinale viene invitato a suggerire «segni di speranza» da guardare in un tempo che vede esplodere la crisi e il dramma della povertà. Anche Gesù in fondo è nato povero. Sì, ammette Scola. L’Altissimo entra nel tempo per abbracciare l’umile, il povero, ma povero è tutto l’uomo, per natura mendicante. «Il suo primo motivo di speranza è che Gesù nasce! Ma poiché Gesù è venuto fisicamente nel mondo duemila anni fa, quando lo pensiamo viene naturale per noi fare nostra la mentalità illuministica, quella per cui Lessing si chiedeva: chi colmerà questo terribile fossato che ci separa da Gesù? Siamo tentati di ricacciarlo nel passato, perché non assecondiamo fino in fondo il messaggio che la Chiesa – madre e maestra – ci ripropone. Non a caso» continua Scola «l’avvento ambrosiano dal suo inizio situa subito il Natale nella giusta prospettiva. La venuta nella carne di Gesù si collega alla Sua venuta finale. Non possiamo vivere il Natale in termini integrali se non aspettiamo il Gesù glorioso che viene a chiudere la storia e a compiere la giustizia. Se questo secondo polo dell’attesa lo dimentichiamo, il Natale sarà per noi un mito o una favola. Però non è questo il senso cristiano della nascita. Esso chiama subito in campo il fine, nel duplice valore di termine e di senso. Qui trova le sue radici la speranza cristiana».
Ma c’è anche un terzo avvento, indispensabile, spiega Scola. Che cita san Bernardo: «All’avvento della carne e all’avvento finale san Bernardo aggiungeva l’avvento di Gesù nel cuore di ogni cristiano che lo segue con umiltà. E questo produce conseguenze. Se non credete a me, credete almeno alle mie opere, diceva Gesù. Le tante opere della nostra Chiesa e della nostra società, le energie che tante donne e tanti uomini dedicano alla condivisione del bisogno dell’altro, danno vita a una infinità di segni di speranza, che dobbiamo guardare e seguire».
C’è il rischio per i cattolici di essere così «laici» tanto da incorrere nell’errore di separare la fede dalla vita? Scola lo aveva detto nel suo discorso in occasione di sant’Ambrogio, citando Paolo VI: «Siamo ormai così abituati noi moderni a considerare questa distinzione del profano dal sacro, che facilmente pensiamo i due campi non solo distinti, ma separati; e sovente non solo separati, ma ciascuno a sé sufficiente e dimentico della coessenzialità dell’uno e dell’altro nella formula integrale e reale della vita». «Oggi il rischio più grave di tutte le comunità a tutti i livelli» dice l’arcivescovo al Sussidiario «è proprio il dualismo, la separazione, come diceva già Paolo VI, tra la fede e la vita. Pensare che la fede sia qualcosa che riguardi la sfera individuale, il mondo delle mie intenzioni, delle mie belle anche giuste aspirazioni, ma che la vita poi sia un’altra cosa. Da cristiani, noi non ci possiamo stare». Viene in aiuto la grazia della Chiesa: «partecipando dell’eucarestia, partecipiamo all’evento storico, singolare, irripetibile della passione, morte, e risurrezione di Gesù. Ma l’eucarestia non è un culto separato. Gesù, nel mistero del Natale, ha rotto la distinzione tra fanum, il sacro epro-fanum, il profano, ciò che sta davanti-al-sacro. Bisogna che l’eucarestia passi nella vita. Ma come? Ripetendo il gesto. Solo ripetendo i gesti una creatura come noi può approfondire il mistero del Dio che si fa carne. Allora il modo in cui affrontiamo le circostanze della vita sarà radicalmente nuovo».
http://www.ilsussidiario.net -
venerdì 23 dicembre 2011

Tramite quel Bambino niente ci è estraneo


La bellezza è sempre stato affare da Greci. Un canone perfetto in cui la proporzione e l’armonia delle parti, il peso e il contrappe­so sono perfettamente bilanciati, l’occhio ri­posa perché trova l’ordine per cui è stato fat­to. Ecco, questa bellezza non c’entra con un bambino. Lui è come tutti gli altri bambini: ar­monia e proporzione chissà, forse verranno. Per ora è solo piccolo, ha pochi capelli, fa la cacca, rigurgita e piange.

La bellezza non è af­fare da gente nata nei paesini della Palestina. La bellezza è affare di scultori capaci di tra­sformare persino il vento in pietra, di pittori che sanno i colori di ciò che non si vede. La bel­lezza è artificio e perfezione. Non ha odore. Non è certo affare da falegnami e casalinghe, la bellezza. Non ha niente a che vedere con la vita quotidiana, la bellezza. Con i pannolini, le pappe, i pianti, le veglie e qualche sorriso non si sa ancora bene lanciato a chi.
La bellezza è affare degli dei: loro sì che man­giano nettare e ambrosia, non si feriscono mai, fanno quello che vogliono. Sono bellissimi e fortissimi. Hanno braccia bianche, le dee, e riccioli belli. Scuotono i cieli, gli dei, e li attra­versano in un soffio. Altro che carne pesante. Non è certo affare di bambini la bellezza. Gli dei non sono mai stati bambini deboli e tan­to normali da sembrare bambini qualsiasi di una coppia di poveracci, con lei incinta non si sa bene di chi. La bellezza è affare da eroi, da kaloikaiagathoi , tanto belli quanto perfet­ti: gente invincibile, non fosse per il tallone, ca­pace di ogni fatica, dal piè veloce e dalle men­te poliedrica. Sono nati maturi questi, non so­no mai stati bambini, quasi se ne vergogna­no. E se sono stati bambini erano dei prodigi che appena nati già stritolavano serpenti.

La bellezza non riguarda i bambini ignoti di una periferia riottosa e cavillosa dell’Impero. Non riguarda bambini che devono imparare a gattonare, camminare, leggere e usare le buone maniere. Forse li sfiora la bellezza, per­ché ogni bambino è a suo modo bello, so­prattutto quando sorride o stringe la mano at­torno a un dito, ma quella non è una bellezza imperitura. Quella è la vita quotidiana e non c’entra molto con la bellezza. La bellezza è affare straordinario, non c’entra niente con la noia quotidiana di una famiglia qualsiasi, dopo una settimana dalla nascita del pupo. Finiti i festeggiamenti cominciano le occhiaie. No, non c’è bellezza nella vita quo­tidiana, lì tutto è uguale, monotono. Ogni tan­to, sì, balugina uno squarcio di bellezza ma, come sempre è stato e sarà, è strappata al ca­so, passeggera e per questo impregnata della malinconia di ciò che non è stabile, che non è mai tutto qui, adesso, per me. Nella vita quotidiana tutto invece finisce col rovinarsi, col rompersi, col non durare in­somma. Per questo ci vuole quella bellezza da Greci, sinonimo di un per sempre perfetto e luminoso.

Solo l’amore è un po’ così. Se non ci fosse quel­lo non mi alzerei la mattina. L’amore per un libro, un paesaggio, un amico, una donna, u­na madre. È l’unica cosa quotidiana che non finisca con l’annoiarmi. Ma anche quello spes­so si rompe e 'che fatica rimetterlo a posto!'. Quando la trovo, quella bellezza, mi ci ag­grappo come la cozza allo scoglio e la piovra alla sua preda, perché non scappi troppo pre­sto, per lasciare solo un ricordo dolce-amaro. Ma quel Bambino? È l’amore in persona? L’a­more fatto persona? L’amore fatto limite e quo­tidianità? Non può essere. Se fosse vero, un’al­tra bellezza sarebbe entrata nel mondo, nel silenzio, quasi senz’arte. Tutto diverrebbe im­provvisamente bello: i pannolini, le pappe, le veglie, i sorrisi e le lacrime. Tutto diverrebbe improvvisamente divino, perché non c’è nien­te di umano che quel bambino non debba fa­re: è un uomo e non c’è niente di umano che gli sia estraneo.

Questa è la notizia. Se è così, c’è per me una bellezza che non si rovina, che non si rompe, che non c’entra con il nettare e l’ambrosia, con la proporzione e l’armonia, ma c’entra con la vita quotidiana, con il sudore, i capelli, la pelle, le mani screpolate, la fatica, lo sco­raggiamento, la tristezza, la paura, il falli­mento, il sangue, il freddo e il sonno. Una bel­lezza senza perfezione. Una bellezza che c’en­tra con tutto, perché tutto ha attraversato. U­na bellezza fecondata da limiti e sproporzio­ni, per partorire ciò che non passa. Io questa bellezza cerco. Questa bellezza nasce per me. In una stalla.


Alessandro D'Avenia

giovedì 22 dicembre 2011

SANTO NATALE


Quando mai accade che tra regali, pacchetti, luci e addobbi, pranzi e cene preparati per una festa, si trascuri di chiamare per nome il festeggiato? Eppure è così. Il nome del festeggiato nella ricorrenza del Natale non viene mai pronunciato. Giornali, televisioni, mezzi di comunicazione in genere, festeggiano solo la festa dei consumi per eccellenza: chi, almeno per Natale, non compra qualche regalo? Nessuno, però, si preoccupa di entrare in merito al senso e al motivo di una festa che coinvolge tutti. Chi ha il coraggio di pronunciare il nome di Colui che viene, che è il senso della festa e senza il quale è veramente impossibile comprendere perché si debba festeggiare? Forse anche noi rischiamo di cedere alla trappola dell’apparenza, dimentichi che il Natale è un annuncio, una promessa fatta agli uomini di buona volontà. Promessa di bene, di pace, di felicità. Allora, pronunciamolo questo nome, ripetiamolo a noi stessi e ricordiamolo a chi pur gode di questa festa facendo finta che sia dovuta. Noi festeggiamo un Bambino figlio di Dio, Gesù, nato a Betlemme di Giudea, che ci ha promesso che sarebbe rimasto con noi fino alla fine dei tempi. Festeggiamo un Dio vivo, che si è fatto a noi compagno per mezzo di Suo Figlio, il quale, venendo sulla terra, ha realizzato qualcosa di inaudito, qualcosa che nessun uomo era mai stato in grado di concepire: ha voluto farsi incontro all’uomo, lo stesso che lo aveva tradito nel giardino dell’Eden, che si era opposto a Lui per un peccato di superbia. Si è incarnato, ha preso la nostra carne mortale per riscattarla dal dominio della morte. Dio ci ha cercato e continua a cercarci, nonostante gli abbiamo voltato le spalle e continuiamo a farlo. Rinasce anche quest’anno per ridarci la speranza di poter ricominciare, sulla strada della vita, ancora una volta. Venendo tra noi, facendosi conoscere, ci permette di poterlo a nostra volta cercare. Chiediamoci, quindi, che cosa cerchiamo, “io, che cosa attendo? A che cosa, in questo momento della mia vita, è proteso il mio cuore? E questa stessa domanda si può porre a livello di famiglia, di comunità, di nazione. Che cosa attendiamo, insieme? Che cosa unisce le nostre aspirazioni, che cosa le accomuna?” E’ un problema di conoscenza che interpella la nostra ragione e che restituisce senso al vivere. “La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di “ciò che vale e permane sempre”. Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro. In Lui trova compimento ogni travaglio ed anelito del cuore umano. La gioia dell’amore, la risposta al dramma della sofferenza e del dolore, la forza del perdono davanti all’offesa ricevuta e la vittoria della vita dinanzi al vuoto della morte, tutto trova compimento nel mistero della sua Incarnazione”.
Buon Natale.

Fonte: CulturaCattolica.it

Papa: vivere il Natale nel suo vero senso, quello sacro e cristiano

Udienza generale dedicata all’approssimarsi dell’Incarnazione. Gli aspetti esteriori, pure belli e importanti, non assorbano il significato di una festa che celebra “il mistero che ha segnato e continua a segnare la storia dell’uomo: Dio si è fatto uomo ed è venuto in mezzo a noi”. E c’è ancora oggi. In questi giorni non ci si dimentichi dei più bisognosi.

L’augurio di Buon Natale, che ci si scambia in questi giorni, “nella società attuale non perda il suo profondo significato religioso e la festa non venga assorbita dagli aspetti esteriori che toccano le corde del cuore. Certamente, i segni esterni sono belli e importanti, purché non ci distolgano, ma piuttosto ci aiutino a vivere il Natale nel suo senso più vero, quello sacro e cristiano, in modo che anche la nostra gioia non sia superficiale, ma profonda". E "in questi giorni santi la carità cristiana si mostri particolarnmente attiva verso i più bisognosi" perché "per i poveri non ci può essere ritardo".

Udienza generale dedicata al Natale, oggi in Vaticano, con il suono delle zampogne e con Benedetto VI che alle ottomila persone presenti nell’aula Paolo VI ha parlato di un giorno che “non è un semplce anniversario, è anche questo”, ma è in primo luogo “celebrare il mistero che ha segnato e continua a segnare la storia dell’uomo: Dio si è fatto uomo ed è venuto in mezzo a noi”.

L’Incarnazione è “un mistero che viviamo nelle celebrazioni liturgiche” che risponde alla domanda: “come posso prendere oggi parte alla nascita avvenuta più di 2000 anni fa”. In tutte le celebrazioni natalizie si canta “Oggi è nato per noi il Salvatore”. Questo “oggi” nella liturgia “passa il limite dello spazio e del tempo, il suo effetto perdura pur nello scorrere degli anni e dei secoli”, “la nascita investe e permea tutta la storia, rimane una realtà alla quale possiamo arrivare attraverso la liturgia”.

Il Natale “per noi credenti rinnova la certezza che Dio è presente anche oggi, pur essendo col Padre è vicino a noi e possiamo incontrare in un oggi che non ha tramonto quel bambino nato a Betlemme”.

“L’uomo di oggi fa sempre piu fatica ad aprire gli occhi ed entrare nel mondo di Dio”, ma quell’evento dice che “Dio si è fatto uomo, è entrato nei limiti del tempo e dello spazo per rendere possibile incontrarlo”. E’ un evento che “interessa l’uomo e tutti gli uomini, quando diciamo che oggi è nato per noi il Salvatore intendamo dire che Dio ci offre oggi, adesso, a me e ognuno la possibilità di riconoscerlo e accoglierlo come fecero i pastori a Betlemme, perché trasformi la nostra vita e la illumini con la sua presenza”.

Benedetto XVI ha poi sottolineato “un seconndo aspetto”: “l’Incarnazione e la nascita di Gesù ci invitano già ad indirizzare lo sguardo verso la sua morte e la sua risurrezione: Natale e Pasqua sono entrambe feste della redenzione. La Pasqua la celebra come vittoria sul peccato e sulla morte: segna il momento finale, quando la gloria dell’uomo-Dio splende come la luce del giorno; il Natale la celebra come l’entrare di Dio nella storia facendosi uomo per riportare l’uomo a Dio: segna, per così dire, il momento iniziale, quando si intravede il chiarore dell’alba. Ma proprio come l’alba precede e fa già presagire la luce del giorno, così il Natale annuncia già la croce e la gloria della Risurrezione. Anche i due periodi dell’anno, in cui sono collocate le due grandi feste, almeno in alcune aree del mondo, possono aiutare a comprendere questo aspetto. Infatti, mentre la Pasqua cade all’inizio della primavera, quando il sole vince le dense e fredde nebbie e rinnova la faccia della terra, il Natale cade proprio all’inizio dell’inverno, quando la luce e il calore del sole non riescono a risvegliare la natura, avvolta dal freddo, sotto la cui coltre, però, pulsa la vita”.

“Viviamo con gioia il Natale che si avvicina”, ”un evento meraviglioso, il Figlio di Dio nasce ancora oggi. Dio è veramente vicino a ciascuno i noi e vuole portarci alla vera luce”, viviamo l’attesa “contemplando il cammino dell’amore immenso di Dio che ci ha innalzati a sé attraverso l’Incarnazione, la morte e Risurrezione del Figlio”.

“Auguro - ha concluso il Papa - di celebrare un Natale veramente cristiano, in modo che gli scambi di auguri esprimano la gioia di sapere che Dio è vicino”.

Città del Vaticano (AsiaNews)

mercoledì 21 dicembre 2011

Adeste Fideles (Andrea Bocelli)




La nostra risposta al messaggio del Natale la troviamo nel canto Adeste fideles dice: "Come non riamare uno che ci ha amato tanto?". Si possono fare tante cose per solennizzare il Natale, ma la cosa più vera e più profonda ci è suggerita da queste parole. Un pensiero sincero di gratitudine, di commozione e di amore per colui che è venuto ad abitare in mezzo a noi, è il dono più squisito che possiamo dare al Bambino Gesù, l'ornamento più bello intorno al suo presepio.
Per essere sincero, però l'amore ha bisogno di tradursi in gesti concreti. Il più semplice e universale – quando è pulito e innocente – è il bacio. Diamo dunque un bacio a Gesù, come si desidera fare con tutti i bambini appena nati. Ma non accontentiamoci di darlo solo alla sua statuina di gesso o di porcellana, diamolo a un Gesù bambino in carne ed ossa. Diamolo a un povero, a un sofferente e lo abbiamo dato a lui! Dare un bacio, in questo senso, significa dare un aiuto concreto, ma anche una parola buona, un incoraggiamento, una visita, un sorriso, a volte, perché no?, un bacio reale. Sono le luci più belle che possiamo accendere nel nostro presepio.

La Bellezza che salva il mondo




21/12/2011 - L'ha conosciuto dai suoi scritti. Scoprendo di nutrire la stessa passione per la musica. Così, padre Armando ha deciso di scrivere una "messa" dedicata a don Giussani. Da cantare la Notte Santa, a Betlemme


«Non ho mai un visto un altro uomo che si esprimesse sul canto con la stessa profondità del Papa». Padre Armando Pierucci ha pensato così dopo aver "conosciuto" don Giussani. Classe 1935, francescano, vive a Gerusalemme da circa trent'anni, è maestro d'organo del Santo Sepolcro e direttore dell'Istituto Magnificat di Gerusalemme. Insegna musica ai ragazzi arabi del quartiere cristiano e recentemente ha composto una messa dedicata proprio a don Luigi Giussani. «Verrà cantata per la prima volta durante la celebrazione di mezzanotte, il 24 dicembre, a Betlemme». Con un po' di ansia, ammette scherzando sul coro che dirige: “Non la sanno neanche tanto bene!”. Ma che cosa ha spinto un frate francescano delle Marche a dedicare una messa al fondatore di Cl? «Qualche tempo fa mi hanno regalato un cd della collana Spirito Gentil, una raccolta di canti russi. Ho conosciuto così per la prima volta la percezione che Giussani aveva su un certo tipo di musica». Ne è rimasto colpito: «Don Giussani ha riaffermato chiaramente quel che diceva sant'Agostino ("Chi canta prega due volte"): il canto è davvero una forma di appartenenza alla Chiesa. Ho provato una grande riconoscenza per quelle parole». Da lì, l'idea di comporre la messa: «Ho riflettutto a lungo sulla composizione e su ogni singola voce», dice mostrando gli spartiti che saranno cantati in Santa Caterina. «Ho cercato di curare ogni aspetto, per non banalizzare nessuna nota». E tira fuori dal suo cassetto un quadernetto che custodisce gelosamente: «Questi sono tutti gli appunti che ho preso dalle meditazioni di Giussani sulla musica». Ci sono le introduzioni ai pezzi di Chopin, le riflessioni che condivideva con i ragazzi del Clu alle Equipe, le indicazioni che dava ai primi di Gioventù Studentesca. «In tutto questo emerge secondo me la concezione che la Chiesa ha sempre avuto sul canto e che Giussani ha recuperato: non è solo il cantare, è il pregare mentre si canta». Una cosa che pochi fanno ultimamente, secondo padre Pierucci: «Non c'è più l'identità di essere cristiani, non ci concepiamo più assieme. Mentre per don Giussani era diverso: è il popolo che canta la liberazione». Parole pronunciate con quella vena di nostalgia di chi sa di guardare a tempi ormai lontani: «Oggi vanno di moda le canzonette e allora si fanno le canzonette anche a messa. Ma così vuol dire che non aderiamo completamente alla Chiesa. La Chiesa ha sempre avuto una regola ben precisa sul canto. E si è sempre espressa in un certo modo». Per padre Armando la questione è molto semplice: «Se uno pensa a Napoli canta O sole mio, se pensa a Milano intona O mia bela Madunina: il canto è la sigla di un luogo, di un avvenimento. Pensa ai fidanzati: in quanti hanno un motivo che li unisce per tutta la vita! Nella Chiesa questo rischia di non accadere più».
Per questo ringrazia ancora don Giussani, padre Armando, prima di correre alle prove del coro. È di fretta perché deve preparare bene i canti per la messa per il Natale. E dopo avermi salutato si lascia sfuggire un'ultima battuta: «Mi raccomando, dì a quelli di Cl di continuare a cantare, perché la Bellezza salverà il mondo. Davvero».
di Andrea Avveduto - http://www.tracce.it

NEL NATALE DI GESU'. I GIOVANI

1) Nel Natale di Gesù si ricorda un Bambino, lo si venera, ha la massima riverenza, "si diventa più buoni"! L'augurio per i "navigatori" vuole significare l'attenzione sui bambini-giovani, sui quali grava l'ipoteca del futuro. Andando a ritroso, mi sovviene lo scrittore latino Decimo Giunio Giovenale (55-130 d.C.). Così descrive (14^ satira "pedagogica") la famiglia, con fanciulli: un tempio . "Nulla che sia turpe a dirsi e a farsi e a vedersi tocchi queste soglie, dentro le quali c'è un padre: lontano da qui, ah lontano le giovani disoneste, e il canto del parassita che fa della notte il giorno!" "Maxima debetur puero reverentia". Sono versi celebri, che da soli valgono un trattato di pedagogia.

2) Il Bambino / i giovani: è il centro del dibattito della società odierna, in piena crisi di identità, carente di futuro. Molte sono le ricette in soccorso del "Malato-giovane", una viene reiterata con regolarità quasi asfissiante: il futuro dipende da voi.

3) A un insegnante fu chiesto: "Come hai fatto a capire che quella è la strada per te?" Perché ti sei giocato l'intera vita". Si può morire restando vivi! Si muore in molti modi; il più diffuso è la solitudine, causata dall'assenza di possibilità. Manca l'interlocutore a cui poter raccontare. Forse alcuni giovani muoiono da vivi, per assenza di interlocutore. Il mondo adulto, che dovrebbe ascoltare, giudica la loro vita assurda, prima ancora di potere esprimersi. Si muore giovani non perché "cari agli dei", ma perché da loro disprezzati, per mancanza di sguardo.
La gioia di vivere non dipende dal successo, ma dal fatto di occupare il proprio posto nel mondo con fedeltà, sulla base dei "talenti" ricevuti, dei propri limiti. A ciascuno il proprio compito. A Delfi, sul tempio di Apollo, è scritto: "Conosci te stesso". L'attuale crisi, più che economica, è "crisi di identità". Ciascuno dentro di sé sa che qualcosa prefigura il ruolo personale; non in modo esplicito, ma con piccoli segni che tutti possono decodificare: un film, un libro, un incontro, un fatto . A ciascuno è affidato il proprio futuro. Essere coscienti di questo genera gioia di vivere,

4) Quando un adolescente cerca di spiegare la sua vita, sente il bisogno di essere ascoltato. Se trova riscontro è felice, perché percepisce di esser amato, capito, accolto. Questo ai giovani non può essere tolto, diversamente si sentono privi di spazio.
I giovani chiedono riconoscimento, sguardo, che non giudichi la loro vita prima di essere vissuta. Chiedono: "Aiutateci ad essere noi stessi". Essi sono bramosi di questo ascolto. Non desiderano che gli adulti interpretino le loro problematiche. Questa fame di futuro è stordita dalla sazietà di benessere, da cui si sentono accerchiati. "Se non ho fame di futuro, il mio presente sparisce". Ha un sogno solo chi si ferma a considerare i mezzi per attuarlo. Se sonnecchio, sarà brusco il risveglio e digerire l'eccesso di "portate", di cui vengo ingozzato. Riferisce Alessandro D'Avenia: "A 16 anni ho trovato chi mi aiutasse a unire i pezzi ancora sconnessi del puzzle della mia vita e a percepirmi come compito da realizzare. A 16 anni ho deciso di diventare insegnante, perché avevo un insegnante che amava non solo ciò che insegnava, ma amava la mia vita con la sua irreprensibilità. A 16 anni ho deciso che volevo dedicare la mia vita ai ragazzi, perché il mio professore di religion
e, Padre Puglisi, si lasciò ammazzare per provare a cambiare le cose. A 16 anni i miei genitori mi hanno messo alla prova, e io, che li mandavo a quel paese, come ogni adolescente, in realtà toccavo la reale consistenza dei miei sogni. Questi mentori mi hanno insegnato che non è il successo il criterio per essere se stessi, ma che essere se stessi è il successo". Una lunga citazione per dimostrare il veleno della società, che lavora per produrre, comprare, consumare, anziché lavorare per costruire un tempo buono per appartenersi e appartenere attraverso relazioni e amicizie vere. Se fosse il successo il criterio nell'agire, si rimarrebbe prigionieri di un destino crudele. Ciò che rende felici è realizzare se stessi indipendentemente dal riconoscimento altrui. Si può avere successo come madre, come insegnante, come panettiere. Basta essere pienamente ciò a cui si è chiamati.

5) La crisi non ha rubato il futuro. Essa deve rendere più famelici, occorre non accontentarsi del benessere. Il futuro è rubato ai giovani dagli adulti, che non si degnano di uno sguardo, che occupano posti di potere e si disinteressano del bene comune, che frappongono una diga per l'ingresso di nuove leve nel lavoro, che non sono disposti a mettersi al servizio della generazione successiva, passando il testimone. Come tanti Crono se ne stanno seduti a digerire i figli che loro stessi hanno messo al mondo. La cena con i figli è più importante di una pratica di lavoro sbrigata alla sera tardi, una moglie stanca, dopo una giornata infernale, è più importante di una partita di calcio, un alunno è più del suo 4 o del suo 8.

6) Dalla famiglia e dalla scuola si può ripartire. Afferma lo scrittore sopracitato: "In famiglia e a scuola ho imparato a occuparmi degli altri e a non pensare di essere al centro del mondo. In famiglia e a scuola ho scoperto la mia vocazione".
Lo aveva scritto in pochi versi Dante, quando il suo maestro, Brunetto Latini, gli disse. "Se tu segui tua stella / non puoi fallire e a glorioso porto / se ben m'accorsi ne la vita bella / e s'io non fossi sì per tempo morto / veggendo il cielo a te così benigno / dato l'avrei a l'opera conforto" (Inferno, Canto 15; vv. 55-60).

Post scriptum: le suggestioni riportate sono dovute all'autore su menzionato. La sintesi sia beneaugurate per le prossime festività.
Don Carlo Venturin nel Santo Natale di Gesù 2011
da :http://www.eremos.it