venerdì 23 dicembre 2011
NATALE/ Scola: chi è l’uomo che non desidera capire se stesso fino in fondo?
Una lezione profonda e al tempo stesso confidenziale sulla «notizia» più grande di tutta la storia: l’evento del Natale, nel quale «Dio si fa bambino per accompagnare la vita singolare e personale di ciascuno di noi». Nel suo pomeriggio fitto di impegni, il cardinale Scola ha dedicato un’ora del suo tempo ai giornalisti. Per continuare una «tradizione» che ho iniziato a Venezia, dice, un momento di incontro e dialogo al quale tengo molto.
Un dialogo a tutto campo, ma dove tutti i temi affrontati dal cardinale trovano senso nell’unico evento che redime il tempo, la festa cristiana del Natale. Al temine, il cardinale ha risposto brevemente anche alle domande del Sussidiario. Come può l’evento del Natale, eminenza, toccare anche al vita dei non credenti? «Per il semplice fatto» risponde Scola «che l’evento di Gesù non è qualcosa che si aggiunge all’esperienza dell’uomo. Facendosi carne, assumendo la nostra carne mortale, Gesù spiega compiutamente la nostra vita. La domanda diventa: chi è l’uomo che non ha il desiderio di capirsi fino in fondo? Ecco, il paragone con Gesù è la grazia donata all’uomo di tutti i tempi per capire il senso della propria vita». Non finiremo mai di immedesimarci in questo mistero. È questo il Natale, dice Scola: «Un Dio che si fa piccolo per raccogliere la nostra piccolezza, in questo scambio misterioso assumere la nostra umanità, in tutto, tranne che nel peccato, per consentirci di vivere nella speranza certa dell’eternità. Ma donandoci fin d’ora un anticipo dell’eternità stessa: un modo più gustoso di amare, di lavorare, di riposare, di costruire la città dell’uomo, di affrontare la nostra fragilità».
Ne ha avuto per tutti, il cardinale. Anche per chi gli ha chiesto un piccolo «bilancio» di questi suoi primi mesi nella nuova diocesi. «Sono stanco, ma al tempo stesso sempre più a mio agio. Sono tornato a casa mia, in un certo senso, questo di solito fa sempre piacere e credo che piaccia a ciascuno di voi». E ancora: «Ho trovato negli incontri che ho fatto finora un popolo di Dio molto solido. Il mio desiderio è uno solo: far fronte come posso, al di là dei miei limiti e delle mie capacità, al compito che il Signore mi ha dato, accompagnare il popolo di Dio che è in Milano a vivere secondo la bellezza, la bontà e la verità del Dono che ha ricevuto».
«Dalla crisi si esce solo insieme, ristabilendo la fiducia vicendevole» aveva detto Scola durante il suo primo discorso in occasione della solennità di sant’Ambrogio. «Bisogna che chi è convinto di questo, si giochi» ha ripetuto ieri in privato il cardinale Scola. «Quell’insieme è un contagio. Ma può contagiare solo chi è già stato “contagiato”. È come una grande catena: la catena della solidarietà della grande famiglia umana».
«Non credo nei progetti e nei piani pastorali» spiega il cardinale, rispondendo a una domanda sul dono vivo del carisma nella Chiesa. «Io stesso mi propongo di assecondare la vita della Chiesa di Dio, che è fatta ultimamente dallo Spirito del Risorto il quale suscita doni, nelle persone e nelle realtà associate. Il compito di chi guida è dare un orientamento, in modo tale che ognuno trovi il suo posto e al tempo stesso possa concorrere al bene della Chiesa. Concorrere al bene della Chiesa domanda all’uomo di essere in un adeguato rapporto con se stesso, con gli altri e con Dio, di essere capace di virtù teologali – fede, speranza e carità – ma anche di virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Un uomo simile, come diceva Péguy, è anche un cittadino eccellente».
Il cardinale insiste su questo punto. «Come il nostro io comunica attraverso il corpo, anche la Chiesa – come ogni realtà umana – comunica se stessa attraverso lo strumento in senso nobile dell’istituzione. Ma se la struttura prevale sulla vita come espressione della totalità dell’io e mette da parte la potenza creativa di una razionalità commossa, radicata nel profondo del cuore nostro, e prende il sopravvento allora uccide la vita. non ho mai visto nascere la vita se non da una vita già in atto: lo vediamo, innanzitutto, nel rapporto tra l’uomo e la donna. Quindi non può mai essere l’organizzazione a far nascere la vita, mai. Ma più è debole, nelle nostre realtà associate, ivi compresa la Chiesa, la consistenza dell’io e delle sue azioni, più è debole ilper chi il nostro io si muove, più noi saremo tentati di consegnare alla struttura organizzativa la totalità della nostra vita, personale ed associata».
Il cardinale viene invitato a suggerire «segni di speranza» da guardare in un tempo che vede esplodere la crisi e il dramma della povertà. Anche Gesù in fondo è nato povero. Sì, ammette Scola. L’Altissimo entra nel tempo per abbracciare l’umile, il povero, ma povero è tutto l’uomo, per natura mendicante. «Il suo primo motivo di speranza è che Gesù nasce! Ma poiché Gesù è venuto fisicamente nel mondo duemila anni fa, quando lo pensiamo viene naturale per noi fare nostra la mentalità illuministica, quella per cui Lessing si chiedeva: chi colmerà questo terribile fossato che ci separa da Gesù? Siamo tentati di ricacciarlo nel passato, perché non assecondiamo fino in fondo il messaggio che la Chiesa – madre e maestra – ci ripropone. Non a caso» continua Scola «l’avvento ambrosiano dal suo inizio situa subito il Natale nella giusta prospettiva. La venuta nella carne di Gesù si collega alla Sua venuta finale. Non possiamo vivere il Natale in termini integrali se non aspettiamo il Gesù glorioso che viene a chiudere la storia e a compiere la giustizia. Se questo secondo polo dell’attesa lo dimentichiamo, il Natale sarà per noi un mito o una favola. Però non è questo il senso cristiano della nascita. Esso chiama subito in campo il fine, nel duplice valore di termine e di senso. Qui trova le sue radici la speranza cristiana».
Ma c’è anche un terzo avvento, indispensabile, spiega Scola. Che cita san Bernardo: «All’avvento della carne e all’avvento finale san Bernardo aggiungeva l’avvento di Gesù nel cuore di ogni cristiano che lo segue con umiltà. E questo produce conseguenze. Se non credete a me, credete almeno alle mie opere, diceva Gesù. Le tante opere della nostra Chiesa e della nostra società, le energie che tante donne e tanti uomini dedicano alla condivisione del bisogno dell’altro, danno vita a una infinità di segni di speranza, che dobbiamo guardare e seguire».
C’è il rischio per i cattolici di essere così «laici» tanto da incorrere nell’errore di separare la fede dalla vita? Scola lo aveva detto nel suo discorso in occasione di sant’Ambrogio, citando Paolo VI: «Siamo ormai così abituati noi moderni a considerare questa distinzione del profano dal sacro, che facilmente pensiamo i due campi non solo distinti, ma separati; e sovente non solo separati, ma ciascuno a sé sufficiente e dimentico della coessenzialità dell’uno e dell’altro nella formula integrale e reale della vita». «Oggi il rischio più grave di tutte le comunità a tutti i livelli» dice l’arcivescovo al Sussidiario «è proprio il dualismo, la separazione, come diceva già Paolo VI, tra la fede e la vita. Pensare che la fede sia qualcosa che riguardi la sfera individuale, il mondo delle mie intenzioni, delle mie belle anche giuste aspirazioni, ma che la vita poi sia un’altra cosa. Da cristiani, noi non ci possiamo stare». Viene in aiuto la grazia della Chiesa: «partecipando dell’eucarestia, partecipiamo all’evento storico, singolare, irripetibile della passione, morte, e risurrezione di Gesù. Ma l’eucarestia non è un culto separato. Gesù, nel mistero del Natale, ha rotto la distinzione tra fanum, il sacro epro-fanum, il profano, ciò che sta davanti-al-sacro. Bisogna che l’eucarestia passi nella vita. Ma come? Ripetendo il gesto. Solo ripetendo i gesti una creatura come noi può approfondire il mistero del Dio che si fa carne. Allora il modo in cui affrontiamo le circostanze della vita sarà radicalmente nuovo».
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