martedì 20 dicembre 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 14 dicembre 2011

Testo di riferimento: Il senso religioso, capitolo XIII, Rizzoli, Milano 2010, pp. 175-184.
• Amare ancora
• Favola
In questi due canti si riassume tutto quanto stiamo per dire nella Scuola di comunità: tutto è dato,basterebbe soltanto ritornare bambini per riconoscere che tutto è dato; ma tante volte, quando lastrada si rende più dura, allora incominciamo a temere, e lì, se non c’è qualcuno con te, se manca la
certezza che c’è Uno con te, che non ti lascerà mai, che vince questa paura, noi siamo impauriti. E questo è quello che vediamo a volte, a proposito dell’esperienza del rischio di cui parla don Giussani, come domanda una di voi: «Non mi è molto chiara l’esperienza del rischio; meglio, ho in mente episodi, come la morte della mamma o la vocazione, che erano totalmente stringenti e urgenti per il significato che portavano alla mia vita; sì, avevo paura di guardarli in faccia, ma nello stesso
tempo mi rendevo conto che non potevo tirarmi indietro, altrimenti non sarei più andata avanti, e quelle questioni in un modo o in un altro venivano fuori sempre; oggi la Scuola di comunità dice così: “Quanto più una cosa interessa il significato del vivere tanto più noi abbiamo questa paura di affermarla”». Perché abbiamo questa paura di affermarla? Perché, quanto più interessa il significato del vivere, tanto più la nostra libertà è sfidata. Tutti capiamo la portata di quel che è interessante perla vita. Se a uno cade un centesimo, quasi non si china a prenderlo; ma se si tratta di un milione di euro, si dà una mossa subito! Se uno deve decidere che tipo di pasta buttare nell’acqua, passi; ma se deve decidere di sposarsi, la vita è sfidata e ne sente tutto il rischio; non è che non voglia bene alla persona amata, è che si rende conto che lì c’è in ballo qualcosa di così decisivo per la vita che non
può evitare di tremare davanti a questo. Più importante è la cosa, più uno percepisce questo rischio che deve correre. Pertanto la questione è come aiutarci a vivere questi momenti in modo tale che la libertà possa aderire in qualsiasi circostanza. Come educhiamo la libertà a questo?

Volevo farti una domanda sull’accettazione di cui parla la Scuola di comunità, quando dice che è l’abbraccio consapevole di quel che mi viene incontro, perché a pelle a me questa questione dell’accettazione dà un po’ di problema, dà un po’ di fastidio. Istintivamente per me l’accettazione è la rassegnazione di fronte a una circostanza. E se penso ad alcune circostanze della mia vita, io dico: questa rassegnazione non la voglio. Quindi vorrei capire il contenuto di questa accettazione, e che valore ha per la vita.

Ma quando tu dici che è rassegnazione che giudizio stai dando sulla circostanza?

Che è una circostanza che io non voglio, che non voglio affrontare, che non mi va bene, che voglio che cambi, che diventi un’altra cosa.

E così è difficile che uno, davanti a questo, desideri abbracciarla...

Direi di sì.

Io in questi ultimi tempi ogni volta che ti ho sentito parlare ti ho sentito ripetere una frase di Gesù che mi ha accompagnato continuamente in questo ultimo mese, però solo all’ultima Scuola di comunità mi ha folgorato: «Non rallegratevi perché i demòni vi obbediscono, ma perché i vostri nomi sono scritti nel Cielo. Non rallegratevi del successo perché non vi basta, è poco per l’animo vostro, rallegratevi perché siete stati scelti da Me». All’ultima Scuola di comunità, come una grazia, io l’ho sentita non come l’ho sempre sentita, cioè come un rimprovero, ma come una tenerezza, e mi sono accorta che io, quando sento una frase così non come un rimprovero ma come
una tenerezza, questa per me è l’esperienza della libertà. Perché è come una scoperta di me, che quello che sono è una cosa positiva, mentre di solito io penso sempre a me come qualcosa che non va. E qui ho capito che questo è l’allargamento della ragione; mentre io mi rendo conto che rischio
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di sentire sempre queste frasi come un po’ devote, dunque poi affidate al mio moralismo. Invece a me ha fatto impressione perché il colpo di tenerezza che mi ha fatto sentirti ripetere questa frase mi ha fatto capire che quando io mi accorgo di me così, allora mi riscopro attenta e accogliente di quello che c’è, mi riscopro positiva come partenza di fronte alla realtà e sento che tutto è una compagnia che mi dice: «Salta!» (per stare all’esempio di don Giussani in montagna). Questo per
me è l’educazione, una autorità che con tenerezza mi dice: «Non rallegrarti perché i demòni ti obbediscono, rallegrati perché sei stata presa».
Basterebbe questo per andare a casa: che succeda, come grazia, di sentire quella frase con tutta la novità che ha dentro. Perché è così, come l’ha descritto lei: «Rallegratevi non per il successo missionario che avete avuto. Rallegratevi piuttosto del fatto che voi siete stati scelti da Me». Ma uno che dice così, che anticipa la delusione che accadrà il giorno dopo (se non l’istante dopo) il successo, già te ne libera. Che noi l’abbiamo percepita tante volte come un rimprovero vuol dire che
spesso riduciamo il Vangelo a indicazioni moralistiche che non sono mai in grado di cogliere la sostanza di quello che c’è. È bastato che uno l’abbia percepito un istante per quello che è, secondo tutta la tenerezza che Gesù, dicendo così, ha per i Suoi amici, per sentire tutta l’esperienza della libertà. Io perché la ripeto? Perché prima accade e poi la ripeti. Prima ti rendi conto del valore che ha, e poi vuoi comunicare agli amici la stessa esperienza di libertà, perché altrimenti non ci
rendiamo conto di cos’è la libertà. Allora uno scopre se stesso – dice –: sono una cosa positiva, essere fatto così non è una disgrazia (per cui neanche il successo potrà riempirmi, perché io sono desideroso di una cosa così grande che neanche il successo è in grado di bastarmi). Non è una disgrazia perché Gesù non mi lascia lì, mi dice che ho molto di più, molto di più del successo: cioè il fatto di essere stato scelto da Lui. Ma in tante occasioni a noi l’essere stati scelti non interessa
proprio! Sembra che per rispondere al nostro bisogno sia più decisivo il fatto di avere successo che il fatto di essere stati scelti nell’incontro che ci ha fatto scoprire un’esperienza del vivere infinitamente più grande, più potente. È soltanto un’esperienza così che fa percepire – non come una frase di una lezione di filosofia – che cosa vuol dire allargare la ragione, cioè che cosa vuol dire riscoprire l’esperienza della libertà. Perché la libertà è questa coincidenza con se stessi, e
l’esperienza di soddisfazione che accade nella vita quando uno si rende conto di questo. Allora la compagnia è come se ti dicesse di saltare: puoi vivere l’esperienza del rischio. E questo è il valore dell’autorità: qualcuno – anzitutto don Giussani – ci è dato per farci capire che cosa è il significato di questo, e diventa sempre più autorità proprio perché ti fa cogliere un’esperienza del reale a cui tu non eri arrivato neanche per sogno. E da allora non lo puoi non ripetere perché il fatto che succede ti dà uno sguardo diverso su tutto. Ci sarebbero tanti esempi, ma ne dico uno che mi è capitato la settimana scorsa a Rimini durante gli Esercizi degli universitari: un ragazzo – di cui avevo letto una lettera – che ha una malattia degenerativa (l’aveva avuta la mamma, ed è morta). È impressionante vedere come questo ragazzo sta davanti alla sua malattia. Che cosa potremmo dirgli perché non
diventi una consolazione? Che cosa è la libertà per uno che si vede degenerare? Mi domandava: «Ma tutti i miei progetti dell’università, di quello che sto studiando?». Gli ho detto: «Ma tu che cosa hai di più interessante da fare nella vita che dire “sì”? Potresti pensare: “Lo dice per consolarmi”. Ma perché dovrei? È una consolazione a buon mercato perché hai la malattia, oppure la Madonna, che non era malata, non aveva altro di meglio da fare che dire quel “sì”? C’è un altro progetto al mondo più decisivo che il proprio “sì”? C’è un’esperienza di libertà più grande di questa?». Ditemi se c’è qualcosa di più consono, di più corrispondente, di più vero – non più consolatorio: più consono, più corrispondente, più vero! – del disegno di Dio su ciascuno, e di dire “sì” a questo disegno! Ma per poter dire “sì” con questa libertà occorre che uno abbia capito che ha già vinto il premio, il tesoro, per il fatto di essere stato scelto; altrimenti nessuna spiegazione, nessun moralismo potrà aiutare la persona a partire in positivo. Ma questo che cosa vuol dire? Non dobbiamo dimenticarlo neanche alla fine del libro: noi stiamo facendo Il senso religioso come verifica della fede. Non stiamo facendo Il senso religioso per vedere se siamo liberi o no, ma come verifica della fede. A noi è successo qualcosa che ci consente questo tipo di libertà per entrare in qualsiasi circostanza, oppure no? Perché è questa l’esperienza da cui parte Gesù per entrare in
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qualsiasi circostanza, per entrare perfino nel successo dei discepoli; ma senza questo sguardo di Gesù, questa libertà noi non ce la sogniamo, anche se abbiamo tutte le possibilità davanti.

Partendo da quello che era stato detto nel secondo intervento della scorsa volta ho scritto a un mio amico; e gli raccontavo del fatto che il focus del rapporto con lui era un po’ cambiato, pensando a quell’intervento che mi aveva colpito, e vedevo che non era più l’affermazione di me stessa… Leggo soltanto una piccola cosa che gli scrivevo: «Non potrei retrocedere da questa posizione, tanto questo fatto, dentro questo io che sono, è consolidato, e me ne stupisco perché non è prodotto da me e non mi appartiene, anche se è il vero me, è un dono che mi si offre, totalmente intrinseco e connaturato al mio me». Anche nello scrivergli mi stupivo di questo fatto, e mi accorgevo che avevo proprio bisogno di comunicargliela. Rispetto al lavoro che stiamo facendo oggi, mi accorgevo che la natura del mio io, della mia ragione, è relazionale intrinsecamente. D’altro canto, nei rapporti, soprattutto nei rapporti di lavoro, rispetto anche a quello che dicevi del rischio, a volte la
comunità, invece della possibilità di essere accompagnati se si ha paura, è un punto di resistenza nel giudizio, come se il mio io non potesse esprimersi secondo l’esperienza del “sì” che ha fatto.
Altre volte i giudizi delle persone (anche magari di persone che mi conoscono da tanto) mi sembrano un po’ superficiali, quindi in questo faccio esperienza di quella tristezza di cui si diceva qualche tempo fa; e spero che sia una tristezza buona, perché io desidero Gesù.ù

Qual è la tua difficoltà? Che in certi momenti, come davanti all’esperienza del rischio, tu non ti senti accompagnata?

Sì.

È qui dove ciascuno di noi deve riconoscere qual è la compagnia che gli consente di entrare nel reale, di entrare in qualsiasi buio; perché se è una compagnia superficiale, alla fine non è in grado di accompagnarci fino in fondo. Per questo ciascuno deve giudicare e trovare quel luogo, quella presenza che veramente lo può accompagnare. Perché solo chi è già entrato in quel buio non ne ha paura.

Volevo semplicemente rendere testimonianza di quello che stiamo dicendo. La cosa più interessante che mi è successa negli ultimi anni è una cosa che ancora oggi non riesco fino in fondo ad accettare e può sembrare un frase pesante: più vado avanti, più mi rendo conto che non dipendo da me. Cioè, la rivoluzione più grande che mi è capitata nella vita è stato quando, partendo da un progetto dall’età di dieci anni, un sogno, c’è stata un’evoluzione che mi ha messo davanti che innanzitutto la realtà non la faccio, anzi, che la realtà mi educa. Questa coscienza si è evoluta in
una dinamica umana, in un rapporto di amicizia: qualcuno che ti chiama. Noi parlavamo, questa sera, di essere chiamati. Diciamo che siamo chiamati – tant’è che Cristo significa “unto” e quindi scelto –, ma in che modo nel mio quotidiano sono scelto? Innanzitutto ringrazio Iddio che sono qua e che sono in grado di comunicare con voi, perché c’è un sacco di gente su questa terra che non può farlo. E la seconda cosa: l’unicità nel quotidiano nasce quando ti rendi conto che c’è una realtà che ti chiama continuamente. Io stasera fino all’ultimo momento non sapevo se intervenire,
poi mi sono affidato e ho detto: «Vediamo cosa succede»; una delle due canzoni, Favola, mia mamma l’ha utilizzata come testamento dicendomi: «Quando un giorno non ci sarò, questo è il modo di starti vicino», e molto probabilmente mi sta anche ascoltando in questo momento. Qual è la bellezza che ho scoperto? Che Dio c’è e mi ama attraverso la realtà. Fra un po’ è Natale, fino a quando io non mi ero reso conto di questa rivoluzione, l’abitudine, lentamente, mangiava la bellezza delle cose; quando ero piccolo era bellissimo, poi man mano sempre meno (dico che è bello, ma in verità poi mi riempie la noia). Adesso è diventato di nuovo bello perché c’è questa
unicità che ritorna nel quotidiano, se tu ti rendi conto che la realtà è un dono che continuamente ti viene incontro. A me viene in mente un regalo: uno che prepara la carta, il fiocco, che va a cercarlo, che lo paga, e poi arriva e dice: «Tieni, questo è per te». Da quel che ho capito io, il buon Dio ci regala la realtà; stasera questo posto è il pacchetto che ha fatto per noi, il volto del tuo vicino, quando dopo andremo a prendere la macchina e torneremo a casa. Questa è la realtà che ci
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dona e se tu intravedi in questa realtà qualcuno che ti chiama continuamente, qualcuno di cui tu ti fidi proprio perché ti ha dimostrato che ti ama, capisci che l’abitudine non vince e in questo modo sconfiggi qualsiasi paura.

Grazie.

A me impressiona il fatto che l’esperienza di essere stata scelta cresce sempre di più. E dico questo in seguito a questa circostanza che mi sono trovata a vivere, nella quale penso di aver sperimentato l’esperienza del rischio: quando mi sono implicata personalmente con il volantino sulla crisi.
Perché io avevo le ragioni per cui pormi con le persone, per cui proporre un giudizio diverso, avevo anche il desiderio di farlo perché sapevo che sarebbe stato un guadagno, ma mi sono ritrovata in un’occasione in cui non ho avuto né la libertà, né la volontà di farlo. Avevo tutte le ragioni, ne ero convinta, ma la spaccatura in me è emersa. Lì ho capito che una spaccatura così la si avverte solo di fronte a qualcosa di concreto; finché ne parlo e riporto il giudizio quando siamo tra di noi, non vivo il rischio, non mi accorgo di essere divisa; ma se devo dirlo con chiunque,
pubblicamente, lì si svela, a me stessa prima di tutto, il punto in cui sono. Questa constatazione, però, non mi ha bloccato, ma mi ha rimesso in movimento quasi grata che una compagnia come la nostra ci sia, perché se io sono così divisa c’è un luogo che, invece, ha così a cuore la totalità della mia persona che mi educa, cioè mi pone davanti una strada che io posso seguire. Mi ha molto impressionato come l’esperienza di essere scelta, e quindi questa tenerezza, io l’ho avvertita semplicemente facendo un gesto così, accorgendomi del punto in cui ero e quindi rendendomi conto che c’è una cosa più grande che abbraccia questo punto così piccolo.

Grazie. A volte ci domandiamo: come si educa questa libertà? Lei faceva riferimento al gesto del volantino «La crisi sfida per un cambiamento». Questa è stata la genialità di don Giussani: che per educarci ci ha proposto sempre dei gesti! È il gesto che educa, perché – come lei ha ben spiegato – possiamo avere le ragioni, ma è soltanto quando rischiamo nel porci pubblicamente davanti a tutti che percepiamo questa spaccatura. Mi preme sottolineare questo: come costantemente noi ci
educhiamo alla libertà? Attraverso dei gesti, perché il gesto è una modalità naturale, che ci chiama, che ci provoca; e siccome tante volte noi da soli non rispondiamo, la nostra compagnia propone un gesto in cui tutti siamo provocati; e possiamo farlo insieme per poter scoprire e poi vincere questa spaccatura, e per esprimere tutta la nostra persona facendolo insieme. E allora mi stupisce quello
che dice lei, ché tante volte in noi vince quel disagio per quello che ancora non è; invece lei ci testimonia che vedere questa spaccatura la rende grata di sapere che c’è un luogo, che c’è una compagnia come la nostra dove questa spaccatura è costantemente superata e vinta. Allora che cosa dice della nostra compagnia questo fatto? Mi viene in mente la frase di don Giussani in All’origine della pretesa cristiana: «Solo il divino può “salvare” l’uomo», le dimensioni dell’umano. Quindi un
luogo che costantemente salva le dimensioni dell’umano di che natura è? Quale è la natura di questa compagnia dove costantemente la nostra vita è riscoperta, il nostro io è svelato, la nostra ragione è allargata? Questo dice della natura di quel luogo dove cominciamo a veder vincere la spaccatura tra la ragione e l’affezione. Su questo volevo leggere ancora una lettera: «La frase che in assoluto più mi ha colpito del capitolo è quella che dice: “L’educazione alla libertà deve essere educazione
all’opzione per la positività di partenza”. Suggerivi di cogliere in noi punti di difficoltà. Questo è il mio punto di difficoltà: vedo che quel che capita è segno, non ho difficoltà a cogliere quella soglia di mistero verso cui la realtà mi sospinge, ma nonostante questo spesso sono paralizzata, come il ragazzino don Gius in montagna. È come se ancora non fossi certa dell’ultima positività del reale. E mi ha molto colpito il fatto che di fronte alla stessa vicenda, allo stesso strappo, alla stessa misteriosa svolta, per te il sacrificio c’è, ma non è un tema. Per me, invece, è talmente ingombrante da paralizzarmi e da consumarmi. Io desidero per me quella libertà di uno sguardo sempre attratto dall’ipotesi positiva di fronte all’imprevisto, di fronte all’obiezione, di fronte alla morte. Che cosa
consente l’essere attratto da questa positività?». Perché senza questa positività uno non entra, uno resta paralizzato! Don Giussani ci dice che si tratta del fenomeno comunitario, così come il bambino con la compagnia della mamma può entrare in qualsiasi stanza buia. La questione per noi
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è: come cresce in noi la consapevolezza di un luogo dove costantemente la nostra vita è accompagnata – quello che diceva l’ultimo intervento –. Ma mi ha colpito, l’abbiamo ripetuto già quando abbiamo fatto questo capitolo agli Esercizi della Fraternità: abbiamo bisogno di una presenza in grado di vincere questa frattura, questa spaccatura tra la ragione e l’affezione, cioè una presenza – avevamo detto – che mi incolli così tanto da rendermi possibile vincere questa frattura.
Ma don Giussani dice che quando le cose diventano veramente complicate, quando la vita spinge al di là delle nostre previsioni, neanche questo basta. Cito don Giussani in Si può (veramente?!) vivere così?, a pagina 106: «La grazia. Ed è solo questa che a un certo punto compie ciò che la compagnia non è riuscita a compiere e ciò che il grande uomo non è riuscito a compiere». Sta parlando dei discepoli. Quando è arrivata la Passione, i discepoli si sono defilati tutti, e non è che non ci fosse la
compagnia di Gesù. Ma hanno dovuto aspettare la potenza dello Spirito per vincere questa ultima spaccatura. Infatti è la grazia dello Spirito che ha fatto sì che i discepoli potessero essere liberi, pubblicamente, davanti a tutti e senza paura. Per questo diceva san Paolo che nessuno può dire che Gesù è Signore, cioè confessare Gesù con tutta la sua energia e in tutta la sua verità, se non sotto l’azione dello Spirito Santo. E come agisce questo Spirito Santo tra di noi? Questo Spirito Santo per noi è la grazia del carisma, e soltanto vivendo in un luogo così noi possiamo compiere l’ultimo passo. Quando dobbiamo affrontare queste questioni penso sempre a Gesù. Che cosa Gli ha consentito una partenza positiva anche di fronte alla sfida più grande che può avere un uomo, vale a dire la passione e la morte? Che cosa? Solo il rapporto con il Padre. Solo un rapporto che è più potente di qualsiasi sfida, di qualsiasi dolore, perché alla fine Lo hanno abbandonato tutti. È questa la questione della nostra vita: se la fede per noi è un’esperienza presente, confermata da essa, che fa emergere sempre di più un rapporto con il Padre che ci consente di entrare in qualsiasi circostanza nella compagnia di Cristo. Perché la possibilità di questa partenza positiva è proprio lì, è nel mistero ultimo della realtà che per noi si è svelato in un volto che si chiama Cristo; in Lui noi conosciamo il volto vero, pieno di tenerezza verso di noi di un Padre, perché noi abbiamo conosciuto il Padre
attraverso Gesù. È soltanto se questo rapporto ultimo diventa sempre più familiare, più vero, più stringente, che potremo entrare in qualsiasi circostanza. Altrimenti, appena la sfida della vita supera le nostre capacità di stare davanti alla realtà, saremo finiti. Allora, finisco rileggendo due testi che iniziano a pagina 228 di Ciò che abbiamo di più caro (mi hanno fatto impressione preparando gli Esercizi del Clu), per rispondere alle due questioni fondamentali che sono emerse in questi ultimi
due capitoli e che mi sembrano indicativi della strada che ci propone don Giussani. Uno è sulla ragione: «Il problema de Il senso religioso è proprio quello di aiutarci a capire che l’orizzonte umano non si esaurisce in quello che si vede e si tocca. Allora è come un esercizio [è come se noi dovessimo allenarci]: è esercitando la ragione in funzione della fede [per non rimanere all’apparenza] – la fede come grazia che fa fiorire la ragione –, è esercitando la propria vita razionale [usando la ragione così] che, più o meno lentamente, il “come se Dio non ci fosse” [vivere
la realtà, in fondo, come se Dio non ci fosse] diventa il Dio che si vede, il Dio che si sente, il Dio che diventa amico». Don Giussani ci sta invitando a un esercizio, a un lavoro, cioè a usare la ragione secondo tutta la sua verità, non rimanendo a quello che si vede e si tocca (il positivismo), in modo tale che noi, proprio per questo esercizio della ragione, piano piano incominciamo a vederLo, a toccarLo con mano, Lo riconosciamo nel modo di usare la ragione, perché – come diceva il penultimo intervento di questa sera – non possiamo non vivere la realtà se non come qualcosa che rimanda oltre, che rimanda a questo Tu. Immaginate se ogni volta che noi ci incastriamo, che noi rimaniamo soffocati nelle circostanze, incominciassimo – per usare un verbo italiano bellissimo – a brandire la ragione! Ma noi pensiamo che la cosa più interessante sia fare altro, sia fare tutto tranne questo... Il secondo testo è sul tema della frattura tra riconoscimento e affezione: «Il nesso tra
riconoscimento e affezione è l’ultima trincea della battaglia [capite, amici?]. Che il riconoscimento che Dio c’è [che è quello che riconosce la ragione] diventi stabile, abbia una certa stabilità, è sufficientemente facile con il tempo che passa [è nel tempo che avviene questo, se uno comincia a farlo]. La cosa più difficile è che, da questo Dio che c’è [da questo riconoscimento], che quasi si vede [se uno usa la ragione, come diceva prima, si vede e si tocca], si passi all’affezione a esso
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[questa è la cosa più difficile: tutti possiamo affermare che Dio c’è, ma che da lì si passi all’affezione, questa è la cosa più difficile, l’ultima trincea]. Questa mancanza di affezione è superata dall’ulteriore maturità: è il tempo che fa, se si è impostati bene, vale a dire se si sa cos’è la ragione, se ci si stupisce bene, se ci si accorge bene di che cos’è la fede, se dunque ci si accorge dell’input, della spinta che c’è dentro ogni cosa: ogni cosa è segno. Se ci si accorge, se si comincia a intravedere la grande presenza, allora il tempo che passa fa diventare questa presenza continua e fa diventare questa continua presenza sempre più facilmente l’oggetto dell’affezione». E quando diventa oggetto di affezione io posso entrare in qualsiasi circostanza, come il bambino con la mamma. Ma perché ciò succeda occorre essere disponibili a fare questo lavoro, perché altrimenti questa affezione non sarà nostra nella vita, mai! Adesso lo possiamo capire meglio: perché don Giussani insisteva su questo? Perché sapeva bene quello che stiamo dicendo adesso del positivismo, cioè che noi tante volte usiamo la ragione in modo riduttivo (e quindi non arriviamo mai a superare questa frattura). Allora, se vogliamo veramente avere questa positività di partenza in tutto, qualsiasi sia la circostanza, la strada che don Giussani ci propone è veramente semplice, a portata di mano di chiunque; basta prenderla sul serio, basta che ciascuno accetti di essere educato a questo, e allora
comincerà a percepire anzitutto per sé che cosa è la vita, che novità introduce nella vita accettare la proposta del carisma.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 11 gennaio alle ore 21.30.
Riprenderemo il XIV capitolo de Il senso religioso: «L’energia della ragione tende a entrare nell’ignoto».
Domandiamoci questo, perché l’abbiamo detto il 26 gennaio: è soltanto se noi abbiamo questa esperienza, che abbiamo descritto adesso, che possiamo veramente vivere questo capitolo, che possiamo veramente essere religiosi, così come lo descrive questo capitolo. Vediamo che cosa sorprendiamo rileggendolo. Vi segnalo l’uscita del libro Spirto gentil, che contiene i testi dei libretti che sono allegati ai 52 Cd della collana Spirto Gentil, fondata e diretta da don Giussani.
Sappiamo come per don Giussani la musica fosse una via privilegiata per la percezione del bello come splendore del vero, capace di suscitare e tenere vivo il desiderio della “Bellezza infinita”, e di come riconoscesse nella musica una modalità eccezionale attraverso cui il Mistero parla al cuore dell’uomo; perciò utilizzava sistematicamente l’ascolto della musica come strumento privilegiato per l’educazione.
Avere a disposizione in un unico libro tutti i suoi commenti (insieme a quelli dei vari critici, musicologi e compositori) dei vari Cd che riguardano “i grandi maestri”, è un prezioso strumento, per questo l’abbiamo messo a disposizione di tutti in questo volume.

Gloria

Tanti Auguri di buon Natale a tutti voi e a coloro che sono collegati

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