lunedì 28 dicembre 2015

Buon anno - don Giussani 1997 - come il miglior augurio che ci possiamo fare.




C'è un annuncio che corre per l'aria della storia e giungerà fino alla fine. È l'eco di un avvenimento, di un fatto talmente originale che in coloro che più ne sono stati investiti esso significa "Dio fatto uomo". Il Natale è l'annuncio dell'avvenimento più impensabile, più apparentemente irrazionale, più contraddittorio che abbia attraversato la storia. Se Dio, cioè il Mistero premuroso, con le sue mani crea le fattezze del piccolo uomo, perché questo stesso Dio non può - proprio come suo metodo sistematico - avere con l'uomo un rapporto familiare? Così che la sua conoscenza sia, innanzitutto, attenzione a questa presenza familiare piuttosto che un grintoso affronto di una realtà enigmatica e lontana. Perché non potrebbe essere così?
Per noi cristiani il metodo attraverso il quale il Mistero persegue il suo notificarsi alla creatura che Egli ha dotato di coscienza, di autocoscienza, di ragione, di cuore, è un metodo innanzitutto familiare: un bambino, Gesù di Nazareth, nato nel seno di una giovane donna, Maria. Come permane questo avvenimento nella storia? Questo è il problema, il problema della vita essendo il rapporto, il nesso tra l'istante effimero e il compimento eterno di esso. L'istante umano, infatti, ha una densità che null'altro ha di così corrispondente. Il problema dei problemi è come quell'avvenimento "stia" nel tempo. Se un avvenimento non permane nel tempo, non è un avvenimento, è un ricordo. E tutta la lezione che abbiamo imparato da Charles Péguy sul significato della parola "avvenimento" è l'indicazione del fenomeno in cui un nuovo emerge. Senza avvenimento, nessuna novità. Che nesso hanno tutte queste cose con l'oggi del mondo? Il principale influsso della coscienza cristiana, della temperie cristiana, di una mentalità cristiana, sulla realtà che ci circonda - famiglia, amici, luogo di lavoro, paese, ambito sociale -, è la versione festosa di una cosa altrimenti ripugnante o lagrimosa. Che cosa rende festoso o traduce in termini festosi anche la situazione più amara - e ognuno di noi può vedere in questo momento padre Kolbe scendere dentro la fogna in cui morirà con gli altri: scendere, liberamente offertosi al posto di quel padre di famiglia nel lager, con una serenità non frenata e non obiettata da niente -? Quell'Avvenimento che è compagnia permanente! La durata di quell'Avvenimento è l'esistenza della Chiesa, fino alla fine del mondo. Per questo è festoso il tempo: perché la speranza penetra e attraversa qualsiasi momento e situazione. È soltanto nella speranza, è soltanto laddove l'amore è possibile come esperienza reale, pura, verso quella gratuità, o carità, che è un ideale infinito, è soltanto nell'amore - che quell'Avvenimento protegge e sviluppa nel cuore di ognuno - che la speranza risulta una virtù irrefrenabile, invincibile. Come scrive Péguy: delle tre virtù, la più piccola e indifesa è la speranza, ma la più grande e la più importante è proprio la speranza. Senza speranza, l'unica disperata prospettiva sarebbe quella descritta da Giosuè Carducci quando, in Su Monte Mario, immagina l'ultimo uomo e l'ultima donna &laqno;che ritti in mezzo a' ruderi» vedono &laqno;con gli occhi vitrei» il sole calare per l'ultima volta &laqno;su l'immane ghiaccia ».
Col Natale entra in scena una cosa assolutamente occulta a tutti, vale a dire il reale, la realtà. La grande Presenza. Il presente esaurisce la verità dell'uomo, e un fattore che non sia nel presente, non esiste: non "non esiste più", ma "non è mai esistito". Questo è un problema di ragione. Perciò, paradossalmente, il primo problema che noi avvertiamo verso la cultura moderna è che ci sentiamo come mendicanti dell'idea di ragione, poiché è come se nessuno più avesse il concetto di ragione, e comprendiamo - di rovescio - che la fede ha bisogno che l'uomo sia ragionevole per poter riconoscere l'Avvenimento grazioso del Dio con noi.

sabato 26 dicembre 2015

L'unico Avvenimento che dà dignità all'uomo di Luigi Negri*

Gesù Bambino di Praga
L’annuncio del Natale, cioè dell’evento dell’incarnazione del figlio di Dio nella nostra carne mortale, nella fede e per la fede di Maria Santissima, è l’unico grande avvenimento che dà significato alla vita dell’uomo e alla storia del cosmo, come ci ha ricordato san Giovanni Paolo II in quello splendido documento oggi più attuale di quando fu emanato: la Redemptor Hominis.
Cristo è venuto perché ciascuno di noi potesse recuperare integralmente la propria dignità. La vita è degna quando se ne conosce il valore, quando si percepisce il senso profondo di essa, il suo movimento interiore, la sua destinazione finale. La dignità dell’uomo non è e non sta nella serie delle circostanze anche importanti – storicamente, antropologicamente, affettivamente, economicamente – della vita. La dignità sta nell'essere figlio di Dio, e solo Gesù Cristo ci rivela la nostra divinità e ci mette in grado di attuarla inesorabilmente giorno dopo giorno, fino alla pienezza finale.
Questa è l’attualità del messaggio natalizio, in questi tempi e in queste ore. La mentalità dominante, il pensiero unico dominante – come ci insegna papa Francesco – identifica la dignità dell’uomo nel convergere di alcuni fattori: la sicurezza economica, la giustizia nelle retribuzioni, la giustizia nei rapporti sociali, il riconoscimento e l’attuazione di certi diritti fondamentali dell’uomo. Tutti questi certamente sono degli aspetti ma non sono la sostanza della dignità.
La dignità dell’uomo viene prima di queste circostanze, investe queste circostanze, e le riconosce, le giudica in profondità e si dispone ad attuare un movimento operativo concreto, storico perché questi aspetti della dignità umana possano essere riconosciuti e perseguiti.
Annunciando il Natale è venuto il momento di dire che la dignità dell’uomo è nella presenza di Cristo, è nella possibilità di seguirlo giorno dopo giorno, nel cammino di mortificazione e di resurrezione che lui per primo ha vissuto e che ci mette di fronte come una possibilità inedita eppure realissima.
Questo spostamento rovinoso della dignità dell’uomo dal riconoscimento di essere realmente figli di Dio al benessere del concorrere di tante e tante circostanze, dimensioni, interessi, esigenze, è una pericolosa inversione. Noi siamo figli di Dio, per questo come diceva Paul Claudel, possiamo vivere con i piedi fortemente saldati su questa miserevole terra.
Oggi la grande alternativa è collegare la dignità umana alla serie di circostanze anche importanti, ed esaurirsi nel tentativo di perseguirle con i propri sforzi, con la propria intelligenza, con la propria capacità, con la propria strategia scientifica e tecnologica, e quindi assistere al disfarsi della dignità umana. Percvhé una dignità che si fonda esclusivamente sulle capacità dell’uomo si esaurisce e con essa si disgrega la personalità umana.
Oppure vivere questa radicale semplicità: tutto è in Dio e vive in Dio. E da questo viene un movimento dell’intelligenza e del cuore che fa essere appassionatamente fedeli al proprio compito nella storia senza diventarne schiavi.
«Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi verrà dato in sovrappiù». Il Regno di Dio e la sua giustizia è lo stare di fronte al Signore, riconoscerlo, amarlo, seguirlo. Tutto il resto, a partire da questo, ci verrà dato e potrà essere anche il frutto del nostro generoso impegno di conoscenze, e di azione. Ma non è l'uomo a costruire il Regno, l'uomo riceve il Regno di Dio nel profondo del suo cuore. Ed è chiamato a vivere la certezza del Regno nelle circostanze di ogni giorno, che così e solo così si illuminano della luce di Cristo e vengono redente dalla forza dell’amore di Cristo.
* Arcivescovo di Ferrara-Comacchio

Il Natale dei credenti, gesti di umanità che muovono il cuore di Julián Carrón

Caro Direttore, è sempre più frequente che la gente si stupisca di gesti semplici di umanità a cui non diamo quasi più valore, tanto ci sembrano normali, abituali. In un centro di accoglienza un volontario chiama per nome un profugo pachistano, alla domanda se preferisce pasta in bianco o al sugo, carne o pesce, quello scoppia a piangere per la commozione.

Una giovane manda un sms a un bulgaro appena incontrato: «Come stai?»; l’uomo è stupito che una persona quasi sconosciuta si interessi di lui. Potrei raccontare all’infinito episodi di questo genere. Possono essere gesti semplici, come quelli accennati, oppure eclatanti: pensiamo a quei tedeschi e austriaci che sono corsi ad accogliere i profughi alla frontiera e ai tanti che ogni giorno soccorrono coloro che sbarcano sulle coste italiane. Sembra niente di fronte alla enormità dei problemi, eppure il loro effetto è tanto dirompente in coloro a cui capitano, quanto può apparire banale, insignificante e scontato a noi che vediamo accadere questi episodi.

Un semplice atto di buona educazione è sufficiente per spiegare la loro sorpresa? Per poter guardare così un profugo e per potersi rivolgere così a un estraneo, occorre qualcosa di cui abbiamo quasi perso coscienza. Continuando a piangere, il profugo racconta degli anni trascorsi in un’altra parte del mondo, dove il suo datore di lavoro non l’aveva mai chiamato per nome e dove si sfamava con una ciotola di riso. Ma ora qualcuno lo chiama per nome e gli domanda perfino che cosa desideri mangiare.

Da troppo tempo abbiamo smarrito la consapevolezza dell’origine di questo sguardo sull’uomo e così facendo possiamo anche perdere la familiarità con i gesti nati da esso. Per questo abbiamo bisogno che l’altro ci ridoni, attraverso lo stupore del suo volto, la coscienza della nostra storia e di quello che portiamo.

Che cosa ha generato questo sguardo all’altro, questa stima nei suoi confronti che desta in lui tanta meraviglia? Non dipende certo dal fatto che noi siamo “più bravi”. Semplicemente noi apparteniamo a una storia che è iniziata con l’antico popolo di Israele. Una storia che ci ha generati facendoci percepire tutta la commozione di Dio per noi, aldilà delle nostre capacità, come dice il profeta Isaia: «Esulta, o sterile che non hai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori». Un Dio che, malgrado tutti i nostri sbagli, ci ripete senza stancarsi: «Dimenticherai la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza». Chi non desidera essere guardato così? «Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto, ma con affetto perenne ho avuto pietà di te» (Is54,1ss.). E questo amore, questa passione è per la tua vita, non per quella dell’umanità in generale, ma per la tua vita. È per la mia vita che vengono dette queste parole, come ci ricorda papa Francesco: «Per te, per te, per te, per me. Un amore attivo, reale. Un amore che guarisce, perdona, rialza, cura» (10 luglio 2015).

Tutta la possibilità di non temere, di non essere determinati da ciò che ci fa arrossire e dalla nostra infecondità ha un punto di appoggio sufficiente solo quando diventiamo consapevoli che, «anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia» (Is 54,10).

Ci rendiamo conto che dietro gesti apparentemente semplici c’è questa storia di preferenza di Dio per noi? È stata questa preferenza, sperimentata nella liberazione dall’Egitto, che ha consentito a Israele di guardare il forestiero in un modo non abituale per il mondo antico: «Amate il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto» (Dt 10,19). E tale preferenza è culminata quando il Verbo si è fatto carne, è venuto ad abitare in mezzo a noi e nella vita della Chiesa genera un soggetto che guarda l’altro con un interesse totale per il suo destino. Senza la consapevolezza di quello sguardo pieno di predilezione per me e per te non c’è Natale! Ci sarebbe solo un rito formale, come tante cose che facciamo senza che niente in noi esulti.

Il Natale non sarebbe il riaccadere dell’origine della grande storia di vera umanità di cui siamo parte, ma lo stanco ripetersi di una tradizione incapace di muovere il nostro cuore e di generare i gesti di umanità che tanto colpiscono gli altri. Per questo siamo pieni di gratitudine verso il Papa che ha compreso quanto siamo bisognosi. L’Anno della Misericordia è il riaccadere di quello sguardo oggi. Di quell’amore che ci raggiunge lì dove siamo e così come siamo attraverso facce sconosciute che con il loro esultare, come Giovanni Battista nel grembo di Elisabetta, ci restituiscono la nostra vita e ci invitano a riconoscere il disegno di Dio - questo “quasi nulla” che sembra essere il disegno di Dio -, che da duemila anni ci raggiunge attraverso un volto: «Dio, il mistero, il destino fatto uomo, si rende presente ora a me e a te, e a tutti gli uomini che sono chiamati a vederlo, ad accorgersene, in un volto: un volto umano nuovo in cui ci si imbatte» (don Giussani). Un volto che ci domanda con semplicità disarmante: «Come ti chiami? Come stai?» e che fa esultare fino al pianto.

Riconoscere la modalità con cui Dio ci chiama - attraverso la faccia più sconosciuta - è l’unica possibilità per non rendere vano il Suo disegno di misericordia su di noi e per continuare ad essere testimoni di quello sguardo che rende veramente liberi, in qualunque situazione. 

LA SEDIA VUOTA A CUI NON VOGLIAMO GUARDARE

image Mentre si dirada la coltre della festa e della felicità esibita di questi giorni, si ricomincia a vedere quello che la “retorica del Natale” cerca di negare, di addolcire, di anestetizzare.
In molte famiglie, infatti, il vero protagonista delle Feste non è né il cibo, né la tavola e neppure il senso di famiglia ostentato, talvolta senza pudore, da molte delle nostre fotografie. Il vero protagonista, invece, è il posto vuoto, la sedia che manca, quella a cui tanti pensano, ma che nessuno vorrebbe mai dover guardare.
È la sedia del nonno o della nonna, volati via durante quest’ultimo anno, è la sedia di un papà o di una mamma che non ci sono più, è la sedia dello zio, del cugino, del nipote. In molte case è la sedia di un figlio o di mio fratello. Quelle sedie vuote, così scomode nelle ore in cui tutti si “truccano di felicità”, fanno emergere la solitudine, il dolore, il dramma di una parola che si spezza in bocca, di una lacrima che non si trattiene, di un pensiero che riesce a smuovere perfino i più risoluti buontemponi. La morte ha fatto visita a molte case in questi anni e il Natale, quasi per una violenta magia, ne riporta alla luce tutta la forza, tutta la tragicità.
Ma la morte ha molte forme e non è detto che sia sempre quella fisica a dominare la scena. Quanti rapporti, infatti, sono morti, sono venuti a mancare, sono finiti. La sedia vuota può così appartenere ad una moglie che se ne è andata, ad un marito che ha tradito, ad un figlio o un amico che ha preso la sua strada e che quest’anno è scomparso dalla lista dei regali e degli “auguri”.
Nel silenzio delle luci di Natale che si spengono rimane così un gusto di assenza, una preoccupazione per il futuro, una recondita paura che l’anno prossimo una di quelle sedie possa essere realmente vuota per un nuovo dolore, per un altro dramma. E quest’inconfessabile timore, che le battute sovente cercano di attutire e la distrazione prova invece ad eludere, si riappropria in alcuni istanti della nostra anima, del nostro cuore, e ci restituisce il sapore di una vita vera, reale, lontana dagli artifici dei nostri gesti e dalla retorica dei nostri pensieri.
Sono vuote anche le sedie delle case dei profughi fuggiti dalla fame, dalla guerra e dalla persecuzione, sono vuote le sedie di chi è morto a Parigi lo scorso 13 novembre, di chi si è tolto la vita schiacciato dal peso di un’esistenza ritenuta ormai “fallita”, sono vuote pure le sedie dei poveri che non hanno casa e di chi oggi non ha ricevuto neanche una telefonata. Sono vuote tante sedie in questo nostro mondo.
Ma c’è una sedia che è vuota soprattutto nel nostro cuore: è la sedia di quelle parti di noi che non abbiamo davvero accolto, amato, ospitato. Quella sedia ci guarda, si insinua, ci segue e ci lascia senza parole. Eppure il Natale è iniziato proprio perché nel mondo c’era questo vuoto, queste sedie vuote. Il Cielo non ha voluto riempire con la sua presenza un negozio o un trono, ma ha scelto di iniziare a riempire una mangiatoia, un posto vuoto. Perché chiunque sentisse il dolore di quelle “sedie senza nessuno” potesse essere consolato non da una magia o da un’arguta discussione, ma dal pianto vivo e vero di un bambino che nasce.
Un bambino che ha attraversato il Cielo per venirci incontro e dirci – con le sue lacrimucce – quello che il nostro cuore in questi giorni non riesce davvero a gridare. Egli è infatti venuto non per spiegarci la vita, o per risolverci i problemi, ma per urlarci con tutto se stesso, semplicemente e umilmente, “Tu mi manchi!”. E davanti a questa frase così disarmata non resta altro che avere il coraggio – seppur sottovoce – di iniziare a pronunciarla, di permettere a questo Natale di non essere solo la Festa delle luci e dei colori, ma soprattutto di diventare, giorno dopo giorno, la festa di un uomo che ha bisogno del Cielo per guardare tutto. Anche quella sedia vuota. 
Federico Pichetto

giovedì 24 dicembre 2015

LETTERA A GESU’ BAMBINO



Caro Gesù Bambino,
in questi giorni, in cui nella nostra società molti festeggiano il Natale, senza sapere chi è il festeggiato, da povero italiano non ho timore di rivolgermi a te, ben sapendo che solo tu sei in grado di concederci le grazie di cui abbiamo bisogno. A chi infatti dovremmo chiederle se non a te? Sei l’unico che è rimasto credibile in questo mondo, dove tutti promettono e nessuno mantiene. Non mi lascio ingannare dal modo umile e discreto con cui sei entrato in questo mondo. Apparentemente sei venuto a mani vuote, al freddo e al gelo di una grotta, a stento riscaldata da un bue e un asinello. Deposto in una mangiatoia, non stavi meglio di tanti bambini che fuggono dalla fame e dalla guerra verso le nostre contrade. Eri privo di tutto, ma avevi vicino a te due persone meravigliose, come mai ce ne sono state: tua madre Maria e il tuo custode, Giuseppe, che ti guardavano incantati, ben sapendo quale dono in quel momento il Cielo aveva fatto alla terra. Sei nato povero fra i poveri, bisognoso di tutto, ma hai arricchito il mondo con la tua presenza. Venendo in mezzo a noi ci hai fatto il regalo più grande che potessimo desiderare. Tu, Bambino Gesù, sei la nostra luce, la nostra salvezza, la nostra pace. A Natale hai dato al mondo in regalo te stesso. Lo ha annunciato l’angelo ai pastori assopiti, improvvisamente svegliati da una musica celestiale:”Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore, che è il Cristo Signore”.
Caro Gesù Bambino, sei tu il regalo di Natale che vorrei chiedere in primo luogo per il mio paese, per questa Italia che ha regalato il presepe al mondo, ma che adesso lo proibisce negli asili e nelle scuole e che si mostra sempre più insofferente per tutto ciò che ti riguarda. Qualcosa di strano e di pericoloso sta succedendo da qualche tempo. Proprio nelle nazioni dove il tuo Vangelo ha prodotto i frutti più belli di fede, di carità e di civiltà, è scesa una nebbia spessa che ti copre e ti oscura, come se la gente si fosse stancata di te. Sono sempre meno le persone che ti ricordano. Sono pochissimi quelli che sanno che il giorno di Natale è quello del tuo compleanno. Quando vado al supermercato faccio fatica a trovare una scritta di “Buon Natale” da appendere sulla porta di casa. Pare che la nostra società ti abbia privato del permesso di soggiorno. Non puoi immaginare quanto ci rimanga male. Tu forse ci sei abituato perché, da quando hai posto la tua tenda in questo mondo, sei divenuto un perenne fuggiasco.
Non mi rassegno però al fatto che tu te ne debba andare anche dalla nostra bella Italia. Mi chiedo che cosa saremmo senza di te. Che cosa ne faremmo di decine di migliaia di chiese vuote, che verrebbero messe in vendita a prezzi stracciati, trasformate in moschee o in discoteche, o addirittura rase al suolo per non pagare la tassa sul fabbricato? Che ne sarebbe delle nostre meravigliose opere d’arte, che tutto il mondo ci invidia, dove Tu e tua Madre siete stati la scintilla che ha acceso il genio di innumerevoli pittori e scultori? Che ne sarebbe della nostra lingua e della nostra letteratura prive dell’anima cristiana che l’ha alimentate, facendo di esse un patrimonio inestimabile dell’umanità? Senza di te, caro Gesù Bambino, la nostra Italia diventerebbe un cumulo di macerie, un deserto senza vita, infestato da serpenti e da scorpioni. Non te ne andare Bambino Gesù. Ti diamo la cittadinanza italiana, ti esentiamo dalle tasse, ti procuriamo una casa e un lavoro, ma non te ne andare.
Vedo che non ti lasci convincere. Vuoi qualcosa d’altro. Ho capito, non ti interessano le nostre cose, ma i nostri cuori. In questo Natale vorresti trovare un posticino nel cuore di ogni italiano. In fondo che cosa ci costa? Dovremmo solo fare un po’ di pulizia , tirare via il marcio, raccogliere la spazzatura e portare tutto in quel luogo benedetto dove il tuo amore tutto brucia e consuma. Questo è ciò che desideri, ciò che chiedi, ciò che ti aspetti da questa Italia che da due millenni ricolmi di doni. Vorresti che mettessimo da parte i pregiudizi, le cattiverie, le guerre che non ci stanchiamo di farti da ormai da troppo tempo. Che cosa ci abbiamo guadagnato a mettere al tuo posto Babbo Natale, a sostituire le pecore con le renne, a chiamare festa d’inverno la tua venuta in mezzo a noi? Il bilancio è fallimentare. Siamo poveri e disperati. Ritorna Gesù Bambino. Senza di te siamo perduti. Vieni con il tuo sorriso a ridarci la speranza. Porta la tua famiglia in mezzo a noi, perché ci siamo dimenticati che cosa sia una famiglia. Porta la tua pace nei nostri cuori senza pace.
Ti prego, lasciati convincere. Lo so bene che non siamo moltissimi che desiderano la tua venuta. Anche oggi, come al tempo di Erode, quelli che abitano nei palazzi ti hanno in antipatia. Lo sanno che tu sei un rubacuori e sono invidiosi. Ma anche fuori dai palazzi già si preparano a trasformare il tuo Natale in una festa di carnevale. Cerca di accontentarti, come già facesti a Betlemme con pochi pastori che ti adoravano estasiati. Ci saranno anche quest’anno, te lo promettiamo. Al suono delle campane correremo alla Messa di mezzanotte, perché tu nasca nel nostro cuore. Prima di chiudere questa letterina, forse un po’ impertinente, ti vorrei ricordare che in Italia c’è il tuo Vicario, il Vescovo di Roma. E’ un tipo forte e paterno, pieno di bontà e di misericordia. La gente lo ama e lo ascolta volentieri. Mi ricorda il tuo padre putativo, San Giuseppe. E’ un motivo in più perché tu resti fra noi, in questa Italia che con te è una Regina, senza di te una bandiera sgualcita. (Padre Livio)

venerdì 18 dicembre 2015

Il no all'utero in affitto, una scelta di civiltà .



Una scelta di civiltà. La scelta di un’Europa che sembra ritrovare se stessa, le migliori conquiste della sua secolare storia. Ieri, infatti, il Parlamento europeo ha espresso per la prima volta una limpida e ferma condanna all’utero in affitto, pratica che «compromette la dignità umana della donna» e «deve essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani». Quando le sfide sono così dure, esigono risposte forti, civili sussulti, in grado di far comprendere a tutti la china su cui si stava scivolando e quindi di fermarsi in tempo: ogni volta che ciò non è accaduto, la storia dell’intera umanità e delle singole nazioni, come insegna soprattutto il Novecento, si è imbattuta in orrori da cui uscire è sempre lungo e doloroso. E non si pensi che l’utero in affitto – in aumento a macchia d’olio nel mondo – sia da meno rispetto a derive apparentemente superate come razzismo, schiavitù, tratta umana, sfruttamento della donna o eugenetica, perché in qualche modo li comprende tutti.


Il Parlamento Europeo ne è dunque finalmente consapevole e il voto, a larghissima maggioranza, è trasversale, unisce laici e credenti, destra e sinistra anche estrema, donne e uomini, esponenti del femminismo storico e dei movimenti omosessuali. Non è, insomma, una battaglia fittizia, ma uno sforzo urgente e sano perché il Vecchio Continente non torni indietro di secoli rispetto al valore intangibile che ha saputo dare all’essere umano. Il 6 agosto 2013, quando abbiamo dato inizio alla lunga e documentata campagna d’informazione di “Avvenire” su questa tremendo mercato, contavamo di trovare presto alleati provenienti da altre strade. È accaduto, e ne siamo contenti. E ci piace ricordare come, prima che da Strasburgo, il “no” all’utero in affitto sia arrivato da tante diverse e importanti voci di donna, comprese alcune delle principali voci guida del femminismo europeo, preoccupate di fronte al dilagare di un fenomeno grave e sottovalutato di “cosificazione” della donna. Ha iniziato la francese Sylviane Agacinski, prima firmataria del manifesto “Stop surrogacy” lo scorso maggio, cui hanno aderito centinaia di intellettuali. «Non abbiamo a che fare con gesti motivati dall’altruismo – ha sgombrato il campo da ipocrisie assolutorie, parlando con “Avvenire” – ma con un mercato globalizzato dei ventri... Ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto».

Schiavizzata la donna, e schiavizzato il bambino, dunque. Il quale – ricordiamolo – immediatamente dopo il parto viene strappato alla madre e ceduto all’acquirente (singolo o coppia, eterosessuale od omosessuale) che lo ha “ordinato” nove mesi prima. Quell’essere umano non avrà mai il diritto a una storia genetica e a genitori biologici, come ci ha detto un’altra voce del femminismo, questa volta negli Stati Uniti, Kathy Sloan. Gira il suo Paese per raccontare l’inferno cui le nuove schiave sono sottoposte da contratti capestro, frutto della trattativa tra i loro “padroni” e una coppia (eterosessuale od omosessuale), ricca di dollari e povera di scrupoli. Pazienza che le madri “surrogate” provengano prevalentemente dal Terzo Mondo, che i loro corpi siano spremuti finché rendono e scartati subito dopo, che vadano incontro a sindromi gravissime ma vengano curate solo finché sono incinte... Pazienza che il “prodotto” sia pagato alla consegna solo se perfetto, e se l’acquirente non è soddisfatto (pago e pretendo) venga rifiutato... Tutto questo non è noto perché «i media si concentrano sulle favole delle famiglie create attraverso questo cosiddetto dono della vita, ignorando invece lo sfruttamento», denuncia ancora Sloan.

Purtroppo è vero. Anche in Italia il conformismo militante o intimidito che dilaga in giornali, radio e tivù tra coloro che avrebbero il potere e il dovere di far sapere tutto questo li rende spesso complici. Si racconta la gioia di coppie gay ed etero, diventate “genitori” di bambini comprati, e si tace delle loro madri; si patinano – come fiction – storie che di bello non hanno niente e si nascondono immani tragedie.

Sempre di più hanno approfondito lo sguardo e cominciato a parlare chiaro: dalle donne di “Se non ora quando – Libere”, che raccolgono firme affinché in Europa la maternità surrogata sia dichiarata illegale, alla filosofa Luisa Muraro. E con loro firme e volti noti come quelli di Livia Turco, Ritanna Armeni, Simona Izzo, Ricky Tognazzi, Dolce&Gabbana, Marina Terragni, Claudio Amendola, Francesca Neri, Giulio Scarpati, Stefania Sandrelli, Claudia Gerini, Aurelio Mancuso (già presidente di Arcigay e ora di Equality Italia)... Qualcuno magari tentenna («chiedo scusa per aver firmato troppo in fretta l’appello di “Se non ora quando – Libere”, devo ascoltare tutte le voci...», ha scritto sul “Corriere” Dacia Maraini, ritirando l’adesione), ma ci sono realtà e princìpi di fronte ai quali si ha il dovere della certezza: si è fatto contro la schiavitù dei neri e contro l’antisemitismo, contro il razzismo e contro la tortura, e così si è vinto. Basta un “ma” per transigere, basta un “se” perché sia troppo tardi.
Lucia Bellaspiga

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 16 dicembre 2015

 Testo di riferimento: L. Giussani, Riconoscere Cristo, in J. Carrón, UNA PRESENZA NELLO SGUARDO, suppl. a Tracce-Litterae communionis, maggio 2015, pp. 75-88.
• Come hai fatto
• Di più
            Gloria
Che cosa ci consente di riconoscerLo nelle cose che accadono davanti ai nostri occhi? Che cosa permette di dire «che bella giornata ho passato con te […] Un Amico sincero è venuto per noi» («Di più», parole e musica C. Chieffo)? Che cosa ci consente di riconoscere la Sua voce tra tante voci, le Sue parole tra tante parole? Che cosa introduce quel silenzio? Che cosa consente che la vita non finisca più? Volevo chiederti se puoi esplicitare cosa vuol dire che «riconoscere Cristo è un lavoro», come ci hai ripetuto agli Esercizi a Rimini. Infatti succede che io viva le mie giornate trasportata dall’emozione, senza pormi particolari domande. Poi, nel momento in cui cambiano le circostanze, subito crollo. Accadono fatti eccezionali e immediatamente il mio cuore scoppia nel petto e chiede di vivere, non solo di esistere. In momenti così ricomincio, per esempio, a leggere il testo della Scuola di comunità, ma poi il momento passa e così anche la Scuola di comunità viene lasciata in un cassetto e lentamente dimenticata, anzi, pensare di leggerla diventa un’imposizione morale. Non capisco perché non riesco a essere fedele a questo lavoro. Non può essere un dovere. Quando ci diciamo di cominciare un lavoro, mi sento subito costretta in un’altra imposizione morale. Non capisco perché non si instauri in me un cambiamento. Il problema è che ciò che accade è troppo poco incidente per me? Oppure il problema è mio? Può una persona essere incapace di sorprendersi? Può la mia libertà essere così pigra da non riuscire ad andare oltre la semplice emozione? E se così fosse, come cambiare? Ho bisogno di poter fare queste domande a qualcuno che mi possa rispondere, perché capisco che così non vado da nessuna parte e potrei stare nel movimento tutta la vita e non crescere ed essere sempre in balìa delle onde. Questo è un grave problema, come dici. Perché non è che non succedano delle cose, ma se quel che accade è soltanto un’emozione, dopo un po’ crolla. E allora, come intuisci potentemente, resta solo uno sforzo morale, che già sappiamo dove può arrivare. È problema dell’avvenimento o è problema mio? O di tutti e due? Perché se uno non cresce, non Lo può riconoscere. È una cosa che dobbiamo considerare perché, come dice Giussani, «riconoscere la presenza di Cristo è un lavoro, nel senso letterale del termine [perché non ci siano equivoci]». Spesso l’avvenimento lo concepiamo come un’evidenza così potente, così palese che non ci sarebbe bisogno di alcuna mossa della libertà per riconoscerlo. Per noi – lo abbiamo detto tante volte in questi anni, ma la cosa si ripete – avvenimento e lavoro sono quasi in contrapposizione, e appena occorre fare qualche mossa pensiamo che sia moralismo. Ma, amica, quando ti innamori di qualcuno, il giorno dopo vorresti andare a trovarlo? Questo è moralismo? È un’imposizione morale? Oppure è l’esito del riconoscimento di ciò che ti è capitato, che non è stato semplicemente un contraccolpo sentimentale? È su questo che tante volte facciamo fatica. Continua don Giussani: il riconoscimento «consiste nel prendere continuamente iniziativa per riprendere il valore che questo avvenimento ha per la nostra esistenza». Non finisce tutto con l’avvenimento. Occorre «prendere continuamente iniziativa per riprendere il valore che questo avvenimento ha per la nostra esistenza». Pensate se Giovanni e Andrea non avessero fatto così, se non avessero assecondato l’impeto con cui si erano alzati quella mattina, cioè il desiderio di rivederLo. Capita con qualsiasi avvenimento. Se abbiamo fatto attenzione alla canzone con cui abbiamo iniziato, che cosa provoca un avvenimento? Trasforma «il tempo in un’attesa», diceva Modugno cantato da Mina. Attesa di cosa? Attesa «di rivedere te», cioè un’attesa che non ci lascia bloccati. È da lì che nasce la mossa, non da uno sforzo moralistico. Da un atteggiamento – in questo senso sì, morale –, dal desiderio di non perdersi ciò che di bello è successo. Per questo Giussani dice: «È un lavoro strano, poiché esige l’impegno di una continua ripresa: “continua” perché la Sua presenza è gratuita, non la creiamo noi [non la produciamo noi], è un avvenimento che accade e chiede di essere riconosciuto senza tregua. Normalmente noi, invece di riconoscere la presenza di Cristo, ci facciamo delle immagini di come dovrebbe essere, che finiscono inesorabilmente per essere superate e distrutte. Così, chi si stanca, perché non capisce come vorrebbe, se ne va [ci conviene capire, perché se uno non capisce, se 2 ne va!]; chi invece segue, cambia, e tutto per lui si trasfigura. Il lavoro che abbiamo indicato – riconoscere la presenza di Cristo – è un’intelligenza della bellezza [altro che moralismo!], non un’intelligenza del nostro progetto. La bellezza è il fascino del vero, ed il vero, che è Cristo, ci supera continuamente. L’intelligenza della bellezza, perciò, è per sua natura aperta, tutta protesa ad affermare “qualcosa di più grande” di noi, che ci strappa continuamente alle nostre immagini. Del resto, non c’è niente di più terribilmente deludente e disfacente di un proprio progetto che si riesca accanitamente a realizzare. La vocazione della vita è allora una sola: essere [disponibili] […], non sistemarsi [come vogliamo] o possedere. La verità che possediamo è qualcosa d’Altro da noi, che ci strappa perciò all’immagine fissa che cerchiamo […], chiedendo la nostra adesione nella disponibilità a un cammino sempre nuovo» (L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, EDIT-Il Sabato, Roma 1993, pp. 162-163). E la disponibilità a questo cammino è quel che conferma la natura di ciò che è capitato, perché se tu trovi qualcuno che è uguale agli altri, che non ti desta il desiderio di fare un cammino, che non ti desta un’attesa, già è detto tutto. Il problema non è che tu adesso debba fare qualcosa per moralismo, ma che non hai la ragione adeguata per fare! Perché in fondo non è così prezioso da essere interessante per te mettere tutto il tuo dinamismo umano per cercarLo ancora. Per questo non è un’imposizione, è un’affezione che nasce da un giudizio, dal riconoscimento del valore che ha per te ciò che ti è capitato. Per questo, quando dopo un po’ sparisce l’emozione, devi chiederti: ma a me che cosa è capitato? È stata soltanto un’emozione o è stato qualcosa di realmente vero per cui io adesso sono più affezionata che il giorno prima, e per questo Lo cerco ancora, prendo di nuovo iniziativa per riconoscerLo? Le cose, che a volte succedono subito dopo che a uno è capitato l’incontro con qualcosa di eccezionale, ci aiutano a renderci conto di quale tipo di lavoro si tratta. Per me gli Esercizi degli universitari a Rimini dieci giorni fa sono stati la prima esperienza con il movimento. Sono stata invitata da alcuni amici e sono partita senza avere la minima idea di ciò che sarebbe potuto succedere e mai avrei immaginato ciò che è realmente accaduto. Fin dalla prima sera il venerdì, dalla sua introduzione, sono stata sconvolta dalle sue parole, sono stata commossa, anche perché ho ritenuto molto vere le parole che lei ha detto. Vere per il mio cuore, perché per me è stato come risvegliarmi da uno stato di torpore, come se qualcuno stesse proprio rendendo evidente per il mio cuore qualcosa che avevo sempre cercato di allontanare. Infatti, come diceva lei, spesso si rischia di cadere nella noia, nella rassegnazione, in questa nostalgia che ci si aspetta vada via e di fatto, poi, ricompare. Io ho sentito questo desidero di prendere in mano la mia vita in modo diverso, di vivere più intensamente. Vedete? Il fatto che accade fa prendere in mano la vita. Sì, perché da quando ho iniziato l’università ho sempre avuto delle giornate molto ricche, ma è sempre mancato qualcosa che desse senso e unisse tutto quel che io facevo, tutto rischiava di cadere nell’insipido, nel “senza senso”. Di fronte a ciò che ho sentito in quei giorni è stato annientato in me un muro. E di questa cosa mi sono resa conto nei giorni successivi, anche per una mia totale apertura nei confronti di quelle persone che mi avevano invitato, degli amici coi quali sono riuscita ad aprimi, a mettere in vista tutte le mie debolezze, le mie fragilità, una cosa che per me è sempre stata molto difficile. Ho visto qualcosa di stupendo in tutto ciò che mi stava accadendo, e mi sono sentita nel posto giusto, con le persone giuste. Avrei voluto prolungare quest’esperienza, ma allo stesso tempo non vedevo l’ora di tornare a casa per raccontare ai miei cari, alla mia famiglia, al mio moroso ciò che era successo. Ho trovato da parte dei miei un’apertura in questo senso, hanno apprezzato questa mia grande felicità; cosa che inizialmente non ho trovato da parte del mio ragazzo, che mi ha detto che mai mi aveva vista così felice da quando ci conosciamo e non ha accettato questa mia felicità perché in qualche modo non ne faceva parte. Mi sono resa conto, con il ritorno a questa quotidianità, come sia difficile poter fare capire a queste persone che mi son sempre state vicino ciò che stavo vivendo. Sono riuscita, sto riuscendo, sto cercando di rendere evidente come in me si sia verificato un cambiamento. Io mi sono resa conto di come sfrutti il mio tempo in modo diverso, come veda le cose in modo un po’ diverso, e sono certa che questa esperienza non finirà. Di fronte alla domanda se è solamente una sensazione o emotività, io posso rispondere con fermezza e certezza che è reale e vero ciò che ho sperimentato. Sono emersi desideri e bisogni, un sentimento di fede che sento proprio miei. Io in questi giorni ho iniziato a leggere Il senso religioso di Giussani; mi hanno colpito particolarmente due frasi, che riporto. «Io cerco per sapere qualcosa, non per pensarla». E poco più avanti: «L’uomo sano invece vuole sapere come un fatto sia: solo sapendo come è, e solo allora, può anche pensarlo». Questa la vedo come una frase perfetta per descrivere la mia situazione di ricerca, in qualche modo, per non conformarmi a un pensiero precostruito. E inoltre a sostegno di questo ho trovato perfetto il paragone con «l’esperienza elementare»: fino a quando la cosa corrisponde, è vera e mi posso fidare. Volevo solamente 3 aggiungere come io mi senta diversa. Mi è piaciuta molto l’espressione «sono la stessa, ma anche un’altra». L’ho potuto constatare anche in questi giorni frequentando i miei amici ai quali voglio molto bene, i miei amici di un’altra realtà, diciamo, ma mi sono resa conto allo stesso tempo di come certi sabati sera passati in un certo modo non mi soddisfino più, non mi diano quel qualcosa che ho trovato con altre amicizie che mi rendono più vera, e voglio far perdurare questa cosa. Grazie. Come vedete, che cos’è questo lavoro di cui dicevamo prima? Che dopo avere vissuto un’esperienza così – per cui una persona ha avuto giornate piene, ha percepito una novità sperimentabile –, subito, davanti alla reazione degli uni (che sono aperti) e degli altri (che non capiscono), comincia a domandarsi: è stata emotività o è stata realtà? Non è che farlo sia un dovere, no, è che la vita non mi risparmia il lavoro perché devo dare ragione a me stesso di quel che mi è capitato, davanti alle obiezioni degli altri, che a volte possono trovare una certa connivenza in noi. E lì comincia il percorso. Per questo uno si sente combattuto, perché comincia la lotta per questo riconoscimento. Altro che automatico e meccanico! E non è così solo adesso, nel periodo del crollo delle evidenze. È capitato, tale e quale, al cieco nato: appena guarito, deve cominciare a lottare contro tutto e contro tutti, deve prendere iniziativa davanti agli altri e a se stesso per riconoscere ciò che gli è capitato. Questo è per un moralismo o è – come dici benissimo, perché leggi già Il senso religioso con questa intelligenza! – per il desiderio di sapere? L’uomo sano vuole sapere come un fatto sia; sapendo com’è, è allora che può pensarlo. Sempre conoscere di più. E così tu con questa domanda intercetti, leggendo Il senso religioso, quel che ti serve per rispondere. E peschi l’esperienza elementare («Questo mi corrisponde») già la prima volta che lo leggi! È così che questo riconoscimento riaccade costantemente nella vita. Ma noi vogliamo che questo riconoscimento possa essere costante, e a volte ci delude il fatto che non sia così costante come desidereremmo. Sono padre di cinque figli. Ingegnere, lavoro diverse ore nella giornata, in questo periodo parecchio. Queste sono le circostanze, in effetti, e mi dico: se queste sono le circostanze, voglio andare in fondo ad esse, se lì c’è la Presenza; sono contento di lavorare e di vivere in questo modo. Naturalmente, per stare di fronte a questa Presenza c’è bisogno di un lavoro, come si diceva, quindi vado a Scuola di comunità, ho alcuni amici che mi destano, che mi danno degli input e che mi rifanno vedere questa Presenza. Tuttavia, ci sono delle giornate in cui entro in un tunnel e mi sembra di perdere tempo: le cose da fare, le tempistiche delle consegne dei lavori, il telefono che squilla… Poi io sono particolarmente stressato, sono ansioso, mi piace fare bene le cose, ma capisco anche che, comunque, ci sono dei momenti in cui si perde tempo. Mia moglie e i miei figli mi richiamano comunque a quella Presenza. Ciò nonostante, dimentico ed entro in un tunnel, quindi ci sono delle giornate che non c’è libro e non c’è persona che mi possa svegliare da questa dimenticanza. Preso da un momento di sconforto, un lunedì mattina, mentre ero al lavoro, ti scrivevo: come è possibile non dimenticare e tenere costantemente lo sguardo sulla Presenza che dà significato a tutto? Te lo richiedo. Secondo te, che cosa possiamo fare? Tante volte noi ci facciamo un’immagine di come – lo diceva prima Giussani – dovrebbe essere, e pensiamo che questo riconoscimento debba essere totalmente costante. All’inizio della mattina uno Lo può riconoscere, quando apre gli occhi o recitando l’Angelus, e poi può passare la giornata quasi dimenticandosi di questo. Già anni fa Giussani aveva affrontato tale questione. È possibile vivere un rapporto costante con questa Presenza? È possibile, per usare le tue parole, «tenere costantemente lo sguardo sulla Presenza che dà significato a tutto»? Tenere questo sguardo costante è ciò che chiamiamo «memoria». In Si può (veramente?!) vivere così? Giussani dice: «Memoria non significa che ad ogni azione si pensi a Lui; non è neanche necessario che sia così. È necessario [per cominciare] che tu ami questo. Per questo si capisce [fa questa digressione] perché il sì di san Pietro è l’origine della morale: il sì di san Pietro, non l’analisi del come e quando, o delle leggi rispettate o no. La morale è il sì di san Pietro, che è una amorosità espressa [introdurre il sì di Pietro nell’Anno Santo della misericordia forse non è così sbagliato, ed è una occasione per capire di più]. […] Perciò, non è necessario che tu lo pensi ad ogni azione, ma che tu desideri questa memoria, che tu desideri la coscienza di questa Presenza, che ami la coscienza di questa Presenza». A noi questo sembra poco, e il sì di Pietro appare troppo fragile. Nessuno direbbe che questa è l’origine della morale. Pensiamo: siccome dopo un po’ decade, che origine è? O quando uno dice: «Quando torni?», noi non crediamo che questo sia l’origine di qualcosa di nuovo. Noi non ci rendiamo proprio conto del valore che don Giussani attribuisce a queste cose! «Ma la prima risposta […] è che questa memoria [che non vuol dire ricordarsi a tutte le ore] deve essere vissuta come affermazione di simpatia per Dio, di simpatia per Gesù: il sì di san Pietro. Anche se su 1000 azioni ne sbagli 999 [non so se hai mai battuto un record così] – nel senso che almeno 999 su 1000 son distratte; ma non son solo distratte, son contraddittorie: fanno un male –, il Signore, dopo il novecentonovantanovesimo errore, ti 4 direbbe: “Basta che tu desideri la mia presenza, desideri aver coscienza della mia presenza. Se lo desideri, se con dolore lo desideri, chiedimelo. Ma non nel senso che prima di ogni azione devi fermarti per chiedermelo; quando ti arresti e – per mia grazia, in fondo! – mi pensi, quella volta o due a giornata in cui ti è più facile che questo accada, chiedimi che quella memoria accada sempre di più, si sviluppi”. Quanto più tu cerchi di esercitare quella memoria – ieri l’hai pensato due volte, alla comunione e prima di andare a letto; oggi l’hai già pensato quattro volte… non c’entra il numero [che è una misura opprimente], c’entra il valore tendenziale della questione –, quanto più tu cerchi di pensarlo, quanto più domandi di pensarlo, tanto più è come se il tuo terreno si alzasse, si elevasse, diventasse più ricco. […] Nel tempo [secondo un disegno che non sappiamo], cioè, […] la ripetizione degli atti quanto più si ispessisce, tanto più diventa abituale» (Si può (veramente?!) vivere così?, BUR, Milano 2011, pp. 430, 432-433). Ma noi crediamo ancora a questo metodo? O Gesù ha sbagliato completamente affidandosi al sì di Pietro, poggiando tutto sul sì di Pietro? E Giussani ha sbagliato ancora di più per averlo seguito? Vedete come la sfida è sempre più radicale? Ciascuno deve guardare nella sua esperienza che cosa lo fa muovere. Perché è solo l’avvenimento che muove. Anche se capita una volta al giorno in mezzo a tutte le distrazioni, tu devi cominciare con l’assecondare questo, stupito, totalmente stupito, non delle novecentonovantanove volte in cui Lo hai dimenticato (che mistero è che la tua fragilità sia fragile?), ma di quell’una volta in cui sei stato tirato fuori dalla distrazione. Comincerai a stupirti di quella volta, comincerai a desiderarlo e ti dimenticherai della matematica. E quando non ce la fai più perché sei preso o perché perdi tempo, comincerai a cercarLo di nuovo pieno di gratitudine. Perché? Perché il rendersi conto di una mancanza è già una grazia che riaccade. Sono tornato dagli Esercizi degli universitari un po’ stranito. Di solito, tornavo contento e lieto. Quest’anno sono tornato, invece, un po’ arrabbiato, perché ci hai ripetuto ancora una volta che il metodo per stare alla grazia di quei tre giorni è seguire. Seguire, ancora! Io dopo tutti questi anni nel movimento, ancora una volta mi devo sentir dire: seguire, seguire. Adesso è un momento in cui faccio fatica in molte cose, soprattutto nello studio, e dico: ma dove mi sta portando questo seguire? Ero un po’ girato, però… Tutti sappiamo che connotazione ha nelle tue parole questo seguire. Esatto, però è bastato poco. È bastato poco, veramente! Già soltanto tornando sul pullman con i miei amici, cantando, poi rientrando in università, incominciando timidamente a studiare, riprendendo a mettersi un po’ in gioco, vedevo che tutta questa obiezione era spazzata via, perché ho capito davvero che ho bisogno… Allora seguire non era così complicato! È bastato poco, perché poi mi veniva sempre in mente questa frase: «Notam faciet gloriam nomini Sui in laetitia cordis vestri» (renderà nota la gloria del Suo nome nella letizia dei vostri cuori). Io ho bisogno davvero di questa cosa, perché stare insieme a questi amici, stare in questo modo mi cambia. E ho bisogno davvero di inginocchiarmi ogni giorno davanti al Pane e al Vino, perché questa realtà è davvero incarnata e se la si tratta col dovuto riguardo, questa ti risponde, basta davvero poco. Dopo questa premessa arrivo alla domanda. Sono rimasto colpito dal video di Giussani, soprattutto quando dice che il lavoro può e deve diventare obbedienza. Per cui, allora, come posso rendere di più questo lavoro obbedienza? Una volta riconosciuta la carnalità di Cristo nelle cose, come seguirLo nella quotidianità? Perché dopo gli Esercizi è facile. Non posso sempre aver bisogno di un fatto eccezionale, però, perché ho davvero bisogno di crescere e seguire sempre. Proviamo a seguire l’esperienza. Quando tu hai riconosciuto questa carnalità, che cosa è successo? A starGli dietro ero più felice, questa rabbia era spazzata via. Nella mail che mi hai inviato dici: «A un certo momento ho capito la natura bella della sequela». Io riduco sempre la sequela a ciò che… Perfetto! È una riduzione moralistica del seguire. Ma perché la riduci così? Perché ti stacchi dall’esperienza che stai facendo (nel pullman cantando, in università studiando, eccetera). Il cristianesimo o è un avvenimento presente, che io riconosco e che costantemente mi trascina a una esperienza bella del seguire, o non è. E se non è, ti stancherai. Allora rendere lavoro l’obbedienza è, usando le tue parole, capire «la natura bella della sequela». Punto. Se voi staccate l’esperienza che fate dalle parole che usate, allora le parole usate acquistano un significato diverso da quello autentico. Rendere lavoro l’obbedienza vuol dire che tu obbedisci alla modalità con cui il Mistero ti trascina adesso. E se tu obbedisci alla modalità con cui il Mistero ti trascina adesso, l’esperienza che fai è bellissima e non desideri altro che questo. E ciò può capitare nel grande gesto degli Esercizi o in un gesto così semplice come cantare in pullman; o di fronte a un gesto gratuito, o vedendo cose che 5 accadono davanti a noi e che ci stupiscono. E allora basta seguire ciò che Egli continua a fare davanti ai nostri occhi. Ma per vedere tutto questo che cosa occorre? Tante volte, infatti, queste cose non le vediamo neanche per sogno. Prima degli Esercizi della scorsa settimana mi pervadeva un grande senso di insoddisfazione, sentivo un vuoto nella mia vita che mi spingeva a chiedere, a domandare cosa fosse questa mancanza che generava in me questo vuoto e come si potesse essere felici. Però mi rendevo conto che, pur tormentato dalle domande, dal prendermi sul serio (anche nelle cose più banali), il domandare era necessario per rispondere a quel senso di vuoto. Certo, interrogarsi su tutto costava fatica, ma più andavo avanti e più capivo che non potevo mollare quella domanda, perché altrimenti nulla sembrava avere più senso. Così, arrivato agli Esercizi, la tua introduzione già stava parlando di me, della mia questione urgente, delle mie domande, come se tu già sapessi tutto. Poi la mattina seguente, durante il video, molto commovente, era emerso in me un senso di rabbia enorme, perché c’è stato un momento in cui Giussani, parlando di varie circostanze negative, come la malattia, diceva che Cristo agisce anche attraverso queste circostanze perché esegue il disegno di un Altro. La vita è vocazione: significa compiere un qualcosa che Dio determina per ognuno di noi attraverso le circostanze. A me questo non bastava. Ero così insoddisfatto che dopo il pranzo ho ricevuto una telefonata da mia madre in cui, comunicandomi i risultati della sua ultima risonanza, mi ha detto che la sua malattia sembrerebbe stabile, perciò non ci sono nuove lesioni. Chiaramente mi stava raccontando tutto con molta gioia, ma io non riuscivo ad avere un briciolo di felicità in me, non riuscivo a essere contento, nemmeno per lei. Ero solamente arrabbiato, infelice, tanto che nemmeno se la sua malattia fosse sparita per sempre, sarei stato contento in quel momento. Questa cosa mi ha fatto impazzire, provavo quasi disgusto verso me stesso. Alla fine, però, sono tornato dagli Esercizi consapevole che un fatto comunque si fosse fatto presente tra di noi, e di quanto questa compagnia per me fosse strettamente necessaria… Perché? Vai avanti. È per preparare i tuoi ascoltatori, affinché siano attentissimi. Necessaria perché mi fa aprire gli occhi. Perché ti fa aprire gli occhi! Cristo e il movimento stesso cominciano ad avere sempre più incidenza nella mia vita. Ma quella risposta che il Gius ha dato a me non è ancora chiara. Perciò ti chiedo: come si fa ad avere la certezza con cui si può rispondere a qualsiasi dolore o disgrazia, come Giussani ha fatto? Come si fa ad avere una certezza tale che anche quando il Suo disegno sembra totalmente negativo per te, riesci a starci davanti in quella maniera? Qualcuno vuole rispondere? Ti volevo raccontare un fatto molto semplice che mi è successo con la mamma di un compagno di asilo di mio figlio. Prima dell’estate per salutarci con le famiglie della classe della materna di mio figlio ci siamo trovati per una pizzata. Con questa signora, donna tutta d’un pezzo, dirigente d’industria, ci stavamo raccontando dove saremmo andati in vacanza. Senza neanche pensare troppo a quel che dico, rispondo che quest’anno sarei andata al mare insieme ai fratelli e ai genitori di mio marito così, nel caso in cui non fossi stata bene, non saremmo rimasti soli. Giustamente mi domanda: «Ma perché dovresti stare male?». Lei non sapeva che mi hanno diagnosticato una malattia per cui spesso non sto fisicamente bene. Dopo averglielo spiegato, mi ha guardato con due occhi sgranati e mi ha chiesto: «Scusa, ma come fai ad avere quella bella faccia? Perché non sei disperata? Come fai a occuparti dei tuoi figli piccoli così serenamente? Io non riuscirei più a vivere». E poi si mette a piangere, raccontandomi che le era morto il nipotino e da quel giorno non si è più ripresa e tutto è diventato peso e angoscia. Insisteva molto con le domande, era veramente impressionata dalla mia faccia, e io non stavo facendo niente di eccezionale. Mi aveva visto solo nella mia quotidianità, a mangiare una pizza e a badare ai figli. Le ho risposto che non sono disperata, ma anzi certa che quel che mi accade non può essere una fregatura perché ho incontrato Gesù, ed Egli mai mi ha ingannato, anzi, mi ha condotto, attraverso alcuni fatti e con la compagnia di alcune persone, ad accorgermi di Lui, di Lui in tutto. È Gesù che mi ha donato la grazia della fede, ma è un cammino. Le ho detto che appartengo a Comunione e Liberazione, che è il luogo dove vengo educata ad approfondire il mio rapporto con Lui. È Gesù che plasma così tanto il cuore dell’uomo da donarmi gioia anche nella fatica più impensata. Quindi non ho potuto fare altro che dirle di venire con me dove io vengo educata a uno sguardo così, e l’ho invitata alla Giornata d’inizio anno. Poi non è venuta, mi ha scritto che non poteva non pensare alla mia faccia ogni giorno, ma che non se la sentiva ancora di intraprendere questo cammino, magari un giorno. Le ho 6 risposto che dovevamo comunque vederci presto, e di non soffocare questa ferita del cuore. Pochi giorni fa abbiamo festeggiato il compleanno di un altro mio figlio e l’ho invitata. Vedendo i nostri amici, come stavamo insieme – e non si facevamo cose particolari: c’era chi giocava con i bimbi e chi chiacchierava chiedendosi della vita, tutte cose che a noi spesso sembrano normalissime e che diamo per scontate, ma scontate proprio non sono –, vedendo la letizia mia e di mio marito in una situazione non sempre semplicissima, quasi commossa mi dice: «Tutto ciò non è possibile. Qui accade qualcosa di straordinario». Grazie. Vedete? Accettando di lasciarci educare, succedono queste cose: possiamo guardare la realtà della malattia con questo sguardo, tanto da destare tutto lo stupore di quella signora. Che cosa consente questa certezza? Il cammino fatto. Lasciarsi introdurre costantemente a uno sguardo nuovo: «È Gesù che mi ha donato la grazia della fede, ma è un cammino». Appartenendo al movimento, «il luogo dove vengo educata ad approfondire il mio rapporto con Lui», Gesù la plasma «tanto da donarmi gioia anche nella fatica più impensata», fino al punto glielo si vede in faccia. È vero che non sei tu a “fare”, perché è l’esito di qualcosa che Egli plasma, ma questo essere plasmata è il frutto di un cammino a cui ti sei resa disponibile seguendo. Lavorando in università quest’anno ho avuto ancora la fortuna di andare agli Esercizi degli universitari. Rivedere per la seconda volta (dopo la Fraternità) il video Riconoscere Cristo è stato un contraccolpo molto forte, e mi sono commossa. In quest’ultimo mese abbiamo lavorato molto sul testo Riconoscere Cristo, ma vederlo è tutta un’altra cosa. Sabato pensavo che sentire parlare così di ciò che avevano fatto Giovanni e Andrea dopo aver incontrato Gesù, uno potrebbe dire: «Che fantasia il Gius! Che inventiva!». Invece don Giussani quell’esperienza l’aveva proprio fatta, la faceva, raccontava di sé, della sua vita, magari pensando a come avrà trattato i suoi amici, i suoi studenti; questa mi è sembrata una cosa dell’altro mondo. Che differenza leggere e fare esperienza! Posso dire di aver fatto io esperienza di Cristo presente, e ho pensato anche a tanti testi scritti che girano, quasi con l’affanno talvolta di averli tutti, ma è un’altra cosa, è un’altra cosa vederselo davanti. Sabato questo è stato dato a me, a un altro è data un’altra cosa. Quando si parla di Cristo come l’ideale della vita, il Gius parla di gratitudine. Di nuovo nel riascoltarlo sono grata perché mi ha fatto ripensare alla mia storia. Domenica alla sintesi parlavi della preferenza del Signore, che Dio ci ha scelti e hai detto: «Siamo qui perché la nostra presenza documenta la predilezione di Dio che ha vinto tutte le nostre resistenze». Quanto è vero questo se ripenso alla mia storia e a quella di mio marito! E questo mi ha commossa ancora, perché ha scelto me. Posso dire che questa verità è entrata nella mia vita anni fa, è una certezza conquistata. Un nostro amico direbbe: «È come la linea del Piave: è conquistata, non si mette più in discussione». E pur grata di ciò, il passaggio alla gratuità pura di cui tu ci parli talvolta è difficile, anche con gli affetti più cari, in cui c’è l’ombra e il ricatto di avere qualcosa in cambio, c’è il desiderio, buono, di una soddisfazione. Mi sento un po’ bloccata, quasi mi crogiolo nelle delusioni. Ma allora non è vero che sono grata? Eppure lo sono. Sono tornata da Rimini piena, ma la prima delusione quotidiana mi ha tagliato le gambe. A questo proposito, puoi spiegare meglio cosa vuol dire la frase del Gius: «Non fu ieri, è oggi, non è oggi per me, ma è oggi per te, qualunque posizione tu abbia: cambiala, se è da cambiare!»? (L. Giussani, Riconoscere Cristo, in J. Carrón, Una presenza nello sguardo, p. 77) Perché si può intendere in senso un po’ moralistico, un po’ etico, cioè che io devo fare qualcosa, uno sforzo: devo essere più disponibile, devo cambiare il modo in cui io faccio le cose. E invece penso che ci sia molto più di questo, anche perché l’essere disponibile a cambiare non regge più di tanto, non ce la si fa. Allora me la puoi spiegare? Devo forse cambiare anche il modo in cui guardo e tratto me stessa? Per capire fino in fondo questo occorre cogliere il nesso tra la gratitudine e la gratuità, che è un modo per dire che cos’è l’avvenimento cristiano, la natura dell’avvenimento cristiano, cioè la natura di quell’avvenimento che talmente si impone, talmente ci cambia, talmente ci riempie di gratitudine che da questa gratitudine nasce la gratuità. È ciò che cita Giussani: «Ti ho amato di un amore eterno e ho avuto pietà del tuo niente» (cfr. Ger 31,3). Senza riconoscere costantemente questo è difficile cambiare, perché sarebbe moralistico ogni nostro fare. Giussani dice che solo se noi ci rendiamo conto della natura di ciò che fa Cristo con noi, solo se Lo guardiamo in continuazione, sotto la pressione di questa commozione possiamo poi agire come Lui, essere capaci di questa gratuità. Che è frutto della presenza di Cristo, che è il cambiamento che Cristo provoca in noi. Per questo il Papa ha indetto questo Anno Santo della Misericordia, come dicendoci: guardate Cristo, perché senza guardare Cristo voi non potete avere misericordia, non potete avere la gratuità, la capacità di abbracciare, di perdonare, di rendere testimonianza di quale diversità Cristo ha introdotto nel mondo. Non è moralismo il cambiamento, è l’espressione dell’essere sempre di più investiti da Cristo. Un universitario mi scrive che, appena arrivato agli Esercizi, è rimasto dispiaciuto perché l’hanno messo in una stanza con uno 7 che non gli piaceva assolutamente. E allora «ho cominciato ad aprirmi a questa possibilità: ma se questo tizio non fosse solo il suo limite? E se attraverso questo il Signore non mi volesse boicottare, ma mi chiedesse di cambiare e di imparare a guardare l’altro semplicemente per il fatto che c’è? La posizione in quel momento è cambiata radicalmente [non è un moralismo, ma è la possibilità di una novità]. Ero curioso e desideroso di verificare quella ipotesi [spunta una modalità diversa di entrare in rapporto con tutto]. La mattina dopo vediamo il video Riconoscere Cristo, dove Giussani con grandissima intensità afferma: “Dico soltanto che questo avvenimento o questa presenza è di oggi – di oggi! Quel flusso umano di cui abbiamo parlato, io lo porto oggi nella tua vita. Non c’è che Dio, Dio solo, ieri oggi e sempre. Un avvenimento grande, diceva Kierkegaard, non può essere che presente, perché non è un passato, un morto, che ci può cambiare. Ma se qualcosa ci cambia, è presente: ‘È, se cambia’ ” (pp. 77-78) [se noi stacchiamo la gratitudine dalla gratuità, diventa un passato la gratitudine; invece è un presente, e lo si vede perché cambia]. Sentire queste parole mi ha illuminato e commosso, perché mi ha fatto dire: se io ho potuto cambiare questa posizione di fronte a tizio, è perché Cristo è accaduto. Egli mi ha cambiato, mi cambia, e quindi è presente [tanto è vero che ogni cristiano dei primi secoli diceva: siccome quel che è cambiato in me è così potente, può essere opera solo dello Spirito Santo]. Tornando a casa, mi sono accorto della potenza di questo: se Cristo è presente, c’entra con tutto, tutto è occasione di rapporto con Lui. Entrato in casa, anziché essere duro con mia sorella, come mio solito, mi sono scoperto più disponibile e tenero [gratuito!] e di fronte al suo limite mi son detto: se Cristo ti ama così come sei, sorella, allora anch’io ti prendo così. Mi accorgo, però, che questo nuovo sguardo di cui partecipano i miei occhi non è assolutamente scontato. Io non sono capace di guardare le cose con gli occhi di Cristo [per questo spesso decade tutto a moralismo: perché non guardiamo bene!]. Mi è capitata sottomano la lettera pastorale di Scola Educarsi al pensiero di Cristo, in cui a pagina 47 [citando il famoso testo della Lettera ai Romani, capitolo dodici, dove si dice di offrire il corpo come culto spirituale] c’è scritto: “Constatiamo ogni giorno come questo ‘culto spirituale’, cioè l’offerta della nostra vita in Cristo, con Cristo e per Cristo, non sia automatico. Per questo Paolo, con profondo realismo, ammonisce i cristiani che sono nel mondo […] a non lasciare che sia il ‘mondo’ a conformarci al suo ‘schema’. Non ci si può conformare al mondo quando propone schemi distruttivi nei confronti delle singole persone, della famiglia umana e della stessa creazione. Essi provengono, come l’evangelo paolino ha mostrato, dall’enigma originario del peccato dell’uomo, dal suo cuore ferito e smarrito che rimane esposto alla seduzione dell’affermazione di sé a scapito di tutto e di tutti. Assecondare l’incontro con Cristo, mettersi alla sua sequela, comporta una permanente conversione (metanoia), vale a dire un cambiamento di mentalità per assumere sempre di più la persona e l’esistenza di Cristo come criterio del proprio pensare ed agire. […] Tutta l’esperienza del vissuto umano, nelle sue varie dimensioni, entra nella stessa sfera liturgica acquistando una dignità straordinaria”. È vero. Questo sguardo non è assolutamente automatico. E non perché Cristo non sia presente, ma perché io sono peccatore e non riesco a vedere bene, vedo solo per il buco della ferita. Occorre che umilmente mi metta come Giovanni e Andrea alla Sua sequela, alla ricerca di quella permanente conversione. Più passano i giorni e più mi accorgo di come l’esperienza del movimento sia incidente nella radice più profonda del mio essere. Anche quando sono distratto o accecato da mille cose, ho la possibilità di ripartire da questo chiaro giudizio: Cristo è presente e tutto è Suo». Questo è il nuovo modo di guardare a cui Cristo ci introduce, che ci fa guardare tutto in modo diverso e che rende tutto di nuovo amabile, perché lo scopriamo nella sua verità. Non è che Cristo veda solo i nostri guai, il nostro male, e malgrado tutto si turi il naso e ci dica: «Ti voglio bene». Cristo vede quello che noi non vediamo! E per questo, senza essere introdotti allo sguardo di Cristo, al pensiero di Cristo, è difficile che noi viviamo questa novità nel rapporto con tutti. Il Natale è un’occasione strepitosa per poter partecipare, nella domanda, a questo evento in cui possiamo riconoscere la Sua presenza; introdotti a questo nuovo modo di guardare, cominceremo a vedere cose che adesso non vediamo, che non riconosciamo, che ci passano davanti inosservate. E proprio lì, in tante cose che diamo per scontate, c’è la presenza di Cristo. Ma noi non Lo vediamo a causa del nostro sguardo ridotto, perché non siamo educati a guardare con gli occhi di Cristo. Perché per spiegare tante delle cose che ci diciamo occorre che il Verbo si sia fatto carne e abiti in mezzo a noi. La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 20 gennaio alle ore 21,00. Riprenderemo ancora la lezione di don Giussani: Riconoscere Cristo. Questo testo ci accompagni in questo tempo di Natale, per poterlo vivere in compagnia di don Giussani. Volantone di Natale. Come avete visto, è stata una sorpresa l’immagine di quest’anno, cioè il quadro di Kandinsky. Certamente è molto più facile guardare una immagine classica con la Madonna, il 8 Bambino eccetera, e fermarsi alla prima reazione sentimentale o all’impressione visiva per cui diciamo: «Mi piace di più» o «mi piace di meno», sapendo già o pensando di sapere cosa c’è nell’immagine. Questa volta, invece, siamo chiamati a interrogarci, a fare un po’ più di fatica magari, a domandarci: «Che cosa vedi?». E poi: «Perché vedi ciò che vedi?». Se uno fa questa domanda, poi trova la risposta, che non è mai univoca, perché l’arte non è matematica, ma chiede l’incontro di due libertà. Il fatto che uno si blocchi davanti a una immagine come questa, dice che non siamo abituati a questa dinamica, e non solo davanti all’arte, ma davanti alla vita, alle circostanze. A volte sono i bambini che spiegano il volantone ai genitori! Allora, la scelta di questa immagine è tutta dentro al cammino che stiamo facendo, con il cuore teso a vedere cosa il Signore ci sta dicendo attraverso le circostanze della vita. Anche nella scelta di una immagine può esserci una indicazione di metodo che vale per tutto. E che può cambiare anche il modo con cui proponiamo il volantone di Natale, come occasione per condividere una domanda. Su Tracce di dicembre potete leggere questo suggerimento: «Questo disegno […] [rende] in modo chiaro e puro una dinamica pienamente reale ed umana. Questa dinamica è l’attrazione esercitata sulla linea (la nostra vita) da un punto (l’altro, l’ospite inatteso). Un qualcosa che, per quanto smaterializzato nella rappresentazione di Kandinsky, produce, come lui stesso aveva scritto, “una vibrazione del cuore”. E forse le curve che accompagnano la traiettoria potrebbero essere proprio lette come la rappresentazione di questa vibrazione». È un tentativo ironico. Forse una immagine classica sarebbe più comoda. Non so se più incidente, ma almeno più comoda. È un aiuto a guardare lì, a quel “punto” decisivo, attrattivo per ciascuno di noi, come anche il Papa e don Giussani ci dicono nelle due frasi che abbiamo scelto. Il Volantone non è soltanto un’immagine che non è accompagnata da nulla. Vi ricordo un gesto importante di carità che proponiamo in questo periodo: le Tende AVSI, che quest’anno sono a favore dei profughi. In questi mesi abbiamo indicato come Libro del mese il testo La Bellezza disarmata (edito da Rizzoli); lo sarà ancora per qualche mese, per darvi la possibilità di finire la lettura. Con l’apertura della Porta Santa è iniziato il Giubileo della Misericordia. Non preoccupiamoci soltanto di quale gesto faremo. Sarebbe sbagliato ridurre l’Anno della Misericordia solo a qualche gesto che potremo fare insieme. È una conversione del cuore quella a cui ci invita papa Francesco. È un peccato perdere questa occasione, perché abbiamo bisogno di misericordia; e quest’anno può essere una opportunità unica per imparare che cos’è la misericordia di cui tutti abbiamo bisogno. Chi più di don Giussani ce l’ha insegnato? Come già abbiamo cominciato a dire oggi, pensiamo a come ha parlato del «sì di Pietro» in Riconoscere Cristo. Proprio per questo, per il contenuto prezioso di questa lezione, abbiamo pensato di renderla disponibile Riconoscere Cristo con un dvd che sarà allegato a Tracce di febbraio, in occasione dell’XI anniversario della morte di don Giussani. Faremo anche una vendita straordinaria in un weekend di febbraio. Le copie della rivista andranno prenotate entro il 15 gennaio 2016. Tanti auguri di Natale a tutti! Veni Sancte Spiritus

LA NON NOTIZIA IN QUESTI TEMPI

L'inizio dell'anno della misericordia indetto dal Papa sembra una non notizia in mezzo alle notizie roboanti di guerre, attentati etc. Il Giubileo, anzi, sembra solo far notizia - sui nostri media malati- in quanto possibile teatro di attentati. Ma questa "notizia non notizia" questa parola che è divenuta un brusio, un canto, una parola rilanciata da mille sentinelle, un suggerimento che arriva nei luoghi più disparati. Una parola altra da potere, da guerra, da strategia. Una parola diversa da tutte le parole. Che hanno mostrato la corda, che hanno mostrato in questi anni di cadere, di valere poco, di provocare effetti contrari a quel che indicavano. Una parola diversa da integrazione, diversa da missione militare di pace, diversa da ONU, diversa da tutte quelle che pensiamo possano mettere a posto il mondo. La parola misericordia, "cuore rivolto ai miseri", indica il mistero di Dio. Buono come e quanto gli pare con i suoi figli, i miseri, noi. La misericordia ci parifica in fratelli veramente, in miseri, bisognosi di un cuore vicino. Indica l'altra unica ipotesi possibile. O le strategie dell'homo homini lupus, o la pazienza e la meraviglia d'essere fratelli. Ci sono molti segni di misericordia in giro. Sono quelli i nostri baluardi contro la guerra. Quella di ogni tipo.
Dr

mercoledì 16 dicembre 2015

Natale 2015. Il Volantone di Comunione e Liberazione

Come ogni anno, il Movimento di Comunione e Liberazione propone un'immagine artistica e un testo come aiuto a vivere il mistero del Natale.

Quest'anno l'immagine è di V. KandinskyLinea curva libera verso il punto: suono simultaneo di linee curve geometriche, 1925. Metropolitan Museum of Art, New York (© The Metropolitan Museum of Art / Art Resource / Scala, Firenze).

«È come un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma». Così scriveva Vasily Kandinsky nel 1925, lo stesso anno in cui realizzava questo disegno a inchiostro su carta, oggi conservato al Metropolitan Museum di New York. Sono trascorsi oltre quindici anni dal suo primo celebre acquerello astratto del 1909. L’arte di Kandinsky si è fatta in apparenza più fredda e calcolata: sono gli anni in cui insegna al Bauhaus, la celebre scuola tedesca di architettura e design legata al razionalismo e al funzionalismo. Scrive anche un saggio di teoria artistica intitolato Punta, linea e superficie. Questo disegno è la perfetta esemplificazione del suo intento: rendere in modo chiaro e puro una dinamica pienamente reale ed umana. Questa dinamica è l’attrazione esercitata sulla linea (la nostra vita) da un punto (l’altro, l’ospite inatteso). Un qualcosa che, per quanto smaterializzato nella rappresentazione di Kandinsky, produce, come lui stesso aveva scritto, «una vibrazione del cuore». E forse le curve accompagnano la traiettoria potrebbero essere proprio lette come la rappresentazione di questa vibrazione...
(Giuseppe Frangi, controcopertina di Tracce, dicembre 2015)


Il testo è costituito da due brani. Il primo, di papa Francesco, è tratto dal Discorso al Centro di Rieducazione Santa Cruz - Palmasola. Santa Cruz de la Sierra (Bolivia), 10 luglio 2015.
Il secondo brano, di Luigi Giussani, è tratto dal libro L’avvenimento cristiano, BUR, Milano 2003, pp. 14-15.
Ecco i due brani:

«Per te, per te, per te, per me. Un amore attivo, reale. Un amore che guarisce, perdona, rialza, cura. Quando Gesù entra nella vita, uno non resta imprigionato nel suo passato, ma inizia a guardare il presente in un altro modo, con un’altra speranza. Uno inizia a guardare se stesso, la propria realtà con occhi diversi. Non resta ancorato in quello che è successo. E se in qualche momento ci sentiamo tristi, stiamo male, abbattuti, nel suo sguardo tutti possiamo trovare posto».
(Papa Francesco)

«Dio, il destino, il mistero, l’origine di tutte le cose, è diventato un volto umano: così è apparso Dio nel mondo. Chi lo incontrava diceva: “Nessuno ha mai parlato come quest’uomo” oppure: “Quest’uomo sì che parla con autorità”. Dio, il mistero, il destino fatto uomo, si rende presente ora a me e a te, e a tutti gli uomini che sono chiamati a vederlo, ad accorgersene, in un volto: un volto umano nuovo in cui ci si imbatte».
(Luigi Giussani) 

Vinci l’indifferenza e conquista la pace. Messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della pace




Index
                 
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA 
XLIX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 
1° GENNAIO 2016
Vinci l’indifferenza e conquista la pace

1. Dio non è indifferente! A Dio importa dell’umanità, Dio non l’abbandona! All’inizio del nuovo anno, vorrei accompagnare con questo mio profondo convincimento gli auguri di abbondanti benedizioni e di pace, nel segno della speranza, per il futuro di ogni uomo e ogni donna, di ogni famiglia, popolo e nazione del mondo, come pure dei Capi di Stato e di Governo e dei Responsabili delle religioni. Non perdiamo, infatti, la speranza che il 2016 ci veda tutti fermamente e fiduciosamente impegnati, a diversi livelli, a realizzare la giustizia e operare per la pace. Sì, quest’ultima è dono di Dio e opera degli uomini. La pace è dono di Dio, ma affidato a tutti gli uomini e a tutte le donne, che sono chiamati a realizzarlo.
Custodire le ragioni della speranza
2. Le guerre e le azioni terroristiche, con le loro tragiche conseguenze, i sequestri di persona, le persecuzioni per motivi etnici o religiosi, le prevaricazioni, hanno segnato dall’inizio alla fine lo scorso anno moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”. Ma alcuni avvenimenti degli anni passati e dell’anno appena trascorso mi invitano, nella prospettiva del nuovo anno, a rinnovare l’esortazione a non perdere la speranza nella capacità dell’uomo, con la grazia di Dio, di superare il male e a non abbandonarsi alla rassegnazione e all’indifferenza. Gli avvenimenti a cui mi riferisco rappresentano la capacità dell’umanità di operare nella solidarietà, al di là degli interessi individualistici, dell’apatia e dell’indifferenza rispetto alle situazioni critiche.
Tra questi vorrei ricordare lo sforzo fatto per favorire l’incontro dei leader mondiali, nell’ambito della COP 21, al fine di cercare nuove vie per affrontare i cambiamenti climatici e salvaguardare il benessere della Terra, la nostra casa comune. E questo rinvia a due precedenti eventi di livello globale: il Summit di Addis Abeba per raccogliere fondi per lo sviluppo sostenibile del mondo; e l’adozione, da parte delle Nazioni Unite,dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, finalizzata ad assicurare un’esistenza più dignitosa a tutti, soprattutto alle popolazioni povere del pianeta, entro quell’anno.
Il 2015 è stato un anno speciale per la Chiesa, anche perché ha segnato il 50° anniversario della pubblicazione di due documenti del Concilio Vaticano II che esprimono in maniera molto eloquente il senso di solidarietà della Chiesa con il mondo. Papa Giovanni XXIII, all’inizio del Concilio, volle spalancare le finestre della Chiesa affinché tra essa e il mondo fosse più aperta la comunicazione. I due documenti, Nostra aetate e Gaudium et spes, sono espressioni emblematiche della nuova relazione di dialogo, solidarietà e accompagnamento che la Chiesa intendeva introdurre all’interno dell’umanità. Nella Dichiarazione Nostra aetate la Chiesa è stata chiamata ad aprirsi al dialogo con le espressioni religiose non cristiane. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, dal momento che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» [1], la Chiesa desiderava instaurare un dialogo con la famiglia umana circa i problemi del mondo, come segno di solidarietà e di rispettoso affetto [2].
In questa medesima prospettiva, con il Giubileo della Misericordia voglio invitare la Chiesa a pregare e lavorare perché ogni cristiano possa maturare un cuore umile e compassionevole, capace di annunciare e testimoniare la misericordia, di «perdonare e di donare», di aprirsi «a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica», senza cadere «nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge» [3].
Ci sono molteplici ragioni per credere nella capacità dell’umanità di agire insieme in solidarietà, nel riconoscimento della propria interconnessione e interdipendenza, avendo a cuore i membri più fragili e la salvaguardia del bene comune. Questo atteggiamento di corresponsabilità solidale è alla radice della vocazione fondamentale alla fratellanza e alla vita comune. La dignità e le relazioni interpersonali ci costituiscono in quanto esseri umani, voluti da Dio a sua immagine e somiglianza. Come creature dotate di inalienabile dignità noi esistiamo in relazione con i nostri fratelli e sorelle, nei confronti dei quali abbiamo una responsabilità e con i quali agiamo in solidarietà. Al di fuori di questa relazione, ci si troverebbe ad essere meno umani. E’ proprio per questo che l’indifferenza costituisce una minaccia per la famiglia umana. Mentre ci incamminiamo verso un nuovo anno, vorrei invitare tutti a riconoscere questo fatto, per vincere l’indifferenza e conquistare la pace.
Alcune forme di indifferenza
3. Certo è che l’atteggiamento dell’indifferente, di chi chiude il cuore per non prendere in considerazione gli altri, di chi chiude gli occhi per non vedere ciò che lo circonda o si scansa per non essere toccato dai problemi altrui, caratterizza una tipologia umana piuttosto diffusa e presente in ogni epoca della storia. Tuttavia, ai nostri giorni esso ha superato decisamente l’ambito individuale per assumere una dimensione globale e produrre il fenomeno della “globalizzazione dell’indifferenza”.
La prima forma di indifferenza nella società umana è quella verso Dio, dalla quale scaturisce anche l’indifferenza verso il prossimo e verso il creato. È questo uno dei gravi effetti di un umanesimo falso e del materialismo pratico, combinati con un pensiero relativistico e nichilistico. L’uomo pensa di essere l’autore di sé stesso, della propria vita e della società; egli si sente autosufficiente e mira non solo a sostituirsi a Dio, ma a farne completamente a meno; di conseguenza, pensa di non dovere niente a nessuno, eccetto che a sé stesso, e pretende di avere solo diritti [4]. Contro questa autocomprensione erronea della persona, Benedetto XVI ricordava che né l’uomo né il suo sviluppo sono capaci di darsi da sé il proprio significato ultimo [5]; e prima di lui Paolo VIaveva affermato che «non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento di una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana» [6].
L’indifferenza nei confronti del prossimo assume diversi volti. C’è chi è ben informato, ascolta la radio, legge i giornali o assiste a programmi televisivi, ma lo fa in maniera tiepida, quasi in una condizione di assuefazione: queste persone conoscono vagamente i drammi che affliggono l’umanità ma non si sentono coinvolte, non vivono la compassione. Questo è l’atteggiamento di chi sa, ma tiene lo sguardo, il pensiero e l’azione rivolti a sé stesso. Purtroppo dobbiamo constatare che l’aumento delle informazioni, proprio del nostro tempo, non significa di per sé aumento di attenzione ai problemi, se non è accompagnato da un’apertura delle coscienze in senso solidale [7]. Anzi, esso può comportare una certa saturazione che anestetizza e, in qualche misura, relativizza la gravità dei problemi. «Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia politica dei governanti» [8].
In altri casi, l’indifferenza si manifesta come mancanza di attenzione verso la realtà circostante, specialmente quella più lontana. Alcune persone preferiscono non cercare, non informarsi e vivono il loro benessere e la loro comodità sorde al grido di dolore dell’umanità sofferente. Quasi senza accorgercene, siamo diventati incapaci di provare compassione per gli altri, per i loro drammi, non ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade ad essi fosse una responsabilità estranea a noi, che non ci compete [9]. «Quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… Allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene» [10].
Vivendo in una casa comune, non possiamo non interrogarci sul suo stato di salute, come ho cercato di fare nella Laudato si’. L’inquinamento delle acque e dell’aria, lo sfruttamento indiscriminato delle foreste, la distruzione dell’ambiente, sono sovente frutto dell’indifferenza dell’uomo verso gli altri, perché tutto è in relazione. Come anche il comportamento dell’uomo con gli animali influisce sulle sue relazioni con gli altri [11], per non parlare di chi si permette di fare altrove quello che non osa fare in casa propria[12].
In questi ed in altri casi, l’indifferenza provoca soprattutto chiusura e disimpegno, e così finisce per contribuire all’assenza di pace con Dio, con il prossimo e con il creato.
La pace minacciata dall’indifferenza globalizzata
4. L’indifferenza verso Dio supera la sfera intima e spirituale della singola persona ed investe la sfera pubblica e sociale. Come affermava Benedetto XVI, «esiste un’intima connessione tra la glorificazione di Dio e la pace degli uomini sulla terra» [13]. Infatti, «senza un’apertura trascendente, l’uomo cade facile preda del relativismo e gli riesce poi difficile agire secondo giustizia e impegnarsi per la pace» [14]. L’oblio e la negazione di Dio, che inducono l’uomo a non riconoscere più alcuna norma al di sopra di sé e a prendere come norma soltanto sé stesso, hanno prodotto crudeltà e violenza senza misura [15].
A livello individuale e comunitario l’indifferenza verso il prossimo, figlia di quella verso Dio, assume l’aspetto dell’inerzia e del disimpegno, che alimentano il perdurare di situazioni di ingiustizia e grave squilibrio sociale, le quali, a loro volta, possono condurre a conflitti o, in ogni caso, generare un clima di insoddisfazione che rischia di sfociare, presto o tardi, in violenze e insicurezza.
In questo senso l’indifferenza, e il disimpegno che ne consegue, costituiscono una grave mancanza al dovere che ogni persona ha di contribuire, nella misura delle sue capacità e del ruolo che riveste nella società, al bene comune, in particolare alla pace, che è uno dei beni più preziosi dell’umanità [16].
Quando poi investe il livello istituzionale, l’indifferenza nei confronti dell’altro, della sua dignità, dei suoi diritti fondamentali e della sua libertà, unita a una cultura improntata al profitto e all’edonismo, favorisce e talvolta giustifica azioni e politiche che finiscono per costituire minacce alla pace. Tale atteggiamento di indifferenza può anche giungere a giustificare alcune politiche economiche deplorevoli, foriere di ingiustizie, divisioni e violenze, in vista del conseguimento del proprio benessere o di quello della nazione. Non di rado, infatti, i progetti economici e politici degli uomini hanno come fine la conquista o il mantenimento del potere e delle ricchezze, anche a costo di calpestare i diritti e le esigenze fondamentali degli altri. Quando le popolazioni vedono negati i propri diritti elementari, quali il cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria o il lavoro, esse sono tentate di procurarseli con la forza [17].
Inoltre, l’indifferenza nei confronti dell’ambiente naturale, favorendo la deforestazione, l’inquinamento e le catastrofi naturali che sradicano intere comunità dal loro ambiente di vita, costringendole alla precarietà e all’insicurezza, crea nuove povertà, nuove situazioni di ingiustizia dalle conseguenze spesso nefaste in termini di sicurezza e di pace sociale. Quante guerre sono state condotte e quante ancora saranno combattute a causa della mancanza di risorse o per rispondere all’insaziabile richiesta di risorse naturali [18]?
Dall’indifferenza alla misericordia: la conversione del cuore
5. Quando, un anno fa, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace “Non più schiavi, ma fratelli”, evocavo la prima icona biblica della fraternità umana, quella di Caino e Abele (cfr Gen 4,1-16), era per attirare l’attenzione su come è stata tradita questa prima fraternità. Caino e Abele sono fratelli. Provengono entrambi dallo stesso grembo, sono uguali in dignità e creati ad immagine e somiglianza di Dio; ma la loro fraternità creaturale si rompe. «Non soltanto Caino non sopporta suo fratello Abele, ma lo uccide per invidia» [19]. Il fratricidio allora diventa la forma del tradimento, e il rifiuto da parte di Caino della fraternità di Abele è la prima rottura nelle relazioni familiari di fraternità, solidarietà e rispetto reciproco.
Dio interviene, allora, per chiamare l’uomo alla responsabilità nei confronti del suo simile, proprio come fece quando Adamo ed Eva, i primi genitori, ruppero la comunione con il Creatore. «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”. Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”» (Gen 4,9-10).
Caino dice di non sapere che cosa sia accaduto a suo fratello, dice di non essere il suo guardiano. Non si sente responsabile della sua vita, della sua sorte. Non si sente coinvolto. È indifferente verso suo fratello, nonostante essi siano legati dall’origine comune. Che tristezza! Che dramma fraterno, familiare, umano! Questa è la prima manifestazione dell’indifferenza tra fratelli. Dio, invece, non è indifferente: il sangue di Abele ha grande valore ai suoi occhi e chiede a Caino di renderne conto. Dio, dunque, si rivela, fin dagli inizi dell’umanità come Colui che si interessa alla sorte dell’uomo. Quando più tardi i figli di Israele si trovano nella schiavitù in Egitto, Dio interviene nuovamente. Dice a Mosè: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco, infatti, le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,7-8). È importante notare i verbi che descrivono l’intervento di Dio: Egli osserva, ode, conosce, scende, libera. Dio non è indifferente. È attento e opera.
Allo stesso modo, nel suo Figlio Gesù, Dio è sceso fra gli uomini, si è incarnato e si è mostrato solidale con l’umanità, in ogni cosa, eccetto il peccato. Gesù si identificava con l’umanità: «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Egli non si accontentava di insegnare alle folle, ma si preoccupava di loro, specialmente quando le vedeva affamate (cfr Mc 6,34-44) o disoccupate (cfr Mt20,3). Il suo sguardo non era rivolto soltanto agli uomini, ma anche ai pesci del mare, agli uccelli del cielo, alle piante e agli alberi, piccoli e grandi; abbracciava l’intero creato. Egli vede, certamente, ma non si limita a questo, perché tocca le persone, parla con loro, agisce in loro favore e fa del bene a chi è nel bisogno. Non solo, ma si lascia commuovere e piange (cfr Gv 11,33-44). E agisce per porre fine alla sofferenza, alla tristezza, alla miseria e alla morte.
Gesù ci insegna ad essere misericordiosi come il Padre (cfr Lc 6,36). Nella parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,29-37) denuncia l’omissione di aiuto dinanzi all’urgente necessità dei propri simili: «lo vide e passò oltre» (cfr Lc 10,31.32). Nello stesso tempo, mediante questo esempio, Egli invita i suoi uditori, e in particolare i suoi discepoli, ad imparare a fermarsi davanti alle sofferenze di questo mondo per alleviarle, alle ferite degli altri per curarle, con i mezzi di cui si dispone, a partire dal proprio tempo, malgrado le tante occupazioni. L’indifferenza, infatti, cerca spesso pretesti: nell’osservanza dei precetti rituali, nella quantità di cose che bisogna fare, negli antagonismi che ci tengono lontani gli uni dagli altri, nei pregiudizi di ogni genere che ci impediscono di farci prossimo.
La misericordia è il cuore di Dio. Perciò dev’essere anche il cuore di tutti coloro che si riconoscono membri dell’unica grande famiglia dei suoi figli; un cuore che batte forte dovunque la dignità umana – riflesso del volto di Dio nelle sue creature – sia in gioco. Gesù ci avverte: l’amore per gli altri – gli stranieri, i malati, i prigionieri, i senza fissa dimora, perfino i nemici – è l’unità di misura di Dio per giudicare le nostre azioni. Da ciò dipende il nostro destino eterno. Non c’è da stupirsi che l’apostolo Paolo inviti i cristiani di Roma a gioire con coloro che gioiscono e a piangere con coloro che piangono (cfr Rm 12,15), o che raccomandi a quelli di Corinto di organizzare collette in segno di solidarietà con i membri sofferenti della Chiesa (cfr 1 Cor 16,2-3). E san Giovanni scrive: «Se qualcuno possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui?» (1 Gv 3,17; cfr Gc 2,15-16).
Ecco perché «è determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre. La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre. Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti, insomma, dovunque vi sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia» [20].
Così, anche noi siamo chiamati a fare dell’amore, della compassione, della misericordia e della solidarietà un vero programma di vita, uno stile di comportamento nelle nostre relazioni gli uni con gli altri [21]. Ciò richiede la conversione del cuore: che cioè la grazia di Dio trasformi il nostro cuore di pietra in un cuore di carne (cfr Ez 36,26), capace di aprirsi agli altri con autentica solidarietà. Questa, infatti, è molto più che un «sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane» [22]. La solidarietà «è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» [23], perché la compassione scaturisce dalla fraternità.
Così compresa, la solidarietà costituisce l’atteggiamento morale e sociale che meglio risponde alla presa di coscienza delle piaghe del nostro tempo e dell’innegabile inter-dipendenza che sempre più esiste, specialmente in un mondo globalizzato, tra la vita del singolo e della sua comunità in un determinato luogo e quella di altri uomini e donne nel resto del mondo [24].
Promuovere una cultura di solidarietà e misericordia per vincere l’indifferenza
6. La solidarietà come virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della conversione personale, esige un impegno da parte di una molteplicità di soggetti, che hanno responsabilità di carattere educativo e formativo.
Il mio primo pensiero va alle famiglie, chiamate ad una missione educativa primaria ed imprescindibile. Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici gesti di devozione che le madri insegnano ai figli [25].
Per quanto riguarda gli educatori e i formatori che, nella scuola o nei diversi centri di aggregazione infantile e giovanile, hanno l’impegnativo compito di educare i bambini e i giovani, sono chiamati ad essere consapevoli che la loro responsabilità riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della persona. I valori della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà possono essere trasmessi fin dalla più tenera età. Rivolgendosi ai responsabili delle istituzioni che hanno compiti educativi, Benedetto XVI affermava: «Ogni ambiente educativo possa essere luogo di apertura al trascendente e agli altri; luogo di dialogo, di coesione e di ascolto, in cui il giovane si senta valorizzato nelle proprie potenzialità e ricchezze interiori, e impari ad apprezzare i fratelli. Possa insegnare a gustare la gioia che scaturisce dal vivere giorno per giorno la carità e la compassione verso il prossimo e dal partecipare attivamente alla costruzione di una società più umana e fraterna» [26].
Anche gli operatori culturali e dei mezzi di comunicazione sociale hanno responsabilità nel campo dell’educazione e della formazione, specialmente nelle società contemporanee, in cui l’accesso a strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso. E’ loro compito innanzitutto porsi al servizio della verità e non di interessi particolari. I mezzi di comunicazione, infatti, «non solo informano, ma anche formano lo spirito dei loro destinatari e quindi possono dare un apporto notevole all’educazione dei giovani. È importante tenere presente che il legame tra educazione e comunicazione è strettissimo: l’educazione avviene, infatti, per mezzo della comunicazione, che influisce, positivamente o negativamente, sulla formazione della persona» [27]. Gli operatori culturali e dei media dovrebbero anche vigilare affinché il modo in cui si ottengono e si diffondono le informazioni sia sempre giuridicamente e moralmente lecito.
La pace: frutto di una cultura di solidarietà, misericordia e compassione
7. Consapevoli della minaccia di una globalizzazione dell’indifferenza, non possiamo non riconoscere che, nello scenario sopra descritto, si inseriscono anche numerose iniziative ed azioni positive che testimoniano la compassione, la misericordia e la solidarietà di cui l’uomo è capace. Vorrei ricordare alcuni esempi di impegno lodevole, che dimostrano come ciascuno possa vincere l’indifferenza quando sceglie di non distogliere lo sguardo dal suo prossimo, e che costituiscono buone pratiche nel cammino verso una società più umana.
Ci sono tante organizzazioni non governative e gruppi caritativi, all’interno della Chiesa e fuori di essa, i cui membri, in occasione di epidemie, calamità o conflitti armati, affrontano fatiche e pericoli per curare i feriti e gli ammalati e per seppellire i defunti. Accanto ad essi, vorrei menzionare le persone e le associazioni che portano soccorso ai migranti che attraversano deserti e solcano mari alla ricerca di migliori condizioni di vita. Queste azioni sono opere di misericordia corporale e spirituale, sulle quali saremo giudicati al termine della nostra vita.
Il mio pensiero va anche ai giornalisti e fotografi che informano l’opinione pubblica sulle situazioni difficili che interpellano le coscienze, e a coloro che si impegnano per la difesa dei diritti umani, in particolare quelli delle minoranze etniche e religiose, dei popoli indigeni, delle donne e dei bambini, e di tutti coloro che vivono in condizioni di maggiore vulnerabilità. Tra loro ci sono anche tanti sacerdoti e missionari che, come buoni pastori, restano accanto ai loro fedeli e li sostengono nonostante i pericoli e i disagi, in particolare durante i conflitti armati.
Quante famiglie, poi, in mezzo a tante difficoltà lavorative e sociali, si impegnano concretamente per educare i loro figli “controcorrente”, a prezzo di tanti sacrifici, ai valori della solidarietà, della compassione e della fraternità! Quante famiglie aprono i loro cuori e le loro case a chi è nel bisogno, come ai rifugiati e ai migranti! Voglio ringraziare in modo particolare tutte le persone, le famiglie, le parrocchie, le comunità religiose, i monasteri e i santuari, che hanno risposto prontamente al mio appello ad accogliere una famiglia di rifugiati [28].
Infine, vorrei menzionare i giovani che si uniscono per realizzare progetti di solidarietà, e tutti coloro che aprono le loro mani per aiutare il prossimo bisognoso nelle proprie città, nel proprio Paese o in altre regioni del mondo. Voglio ringraziare e incoraggiare tutti coloro che si impegnano in azioni di questo genere, anche se non vengono pubblicizzate: la loro fame e sete di giustizia sarà saziata, la loro misericordia farà loro trovare misericordia e, in quanto operatori di pace, saranno chiamati figli di Dio (cfr Mt 5,6-9).
La pace nel segno del Giubileo della Misericordia
8. Nello spirito del Giubileo della Misericordia, ciascuno è chiamato a riconoscere come l’indifferenza si manifesta nella propria vita e ad adottare un impegno concreto per contribuire a migliorare la realtà in cui vive, a partire dalla propria famiglia, dal vicinato o dall’ambiente di lavoro.
Anche gli Stati sono chiamati a gesti concreti, ad atti di coraggio nei confronti delle persone più fragili delle loro società, come i prigionieri, i migranti, i disoccupati e i malati.
Per quanto concerne i detenuti, in molti casi appare urgente adottare misure concrete per migliorare le loro condizioni di vita nelle carceri, accordando un’attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio [29], avendo a mente la finalità rieducativa della sanzione penale e valutando la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria. In questo contesto, desidero rinnovare l’appello alle autorità statali per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia.
Per quanto riguarda i migranti, vorrei rivolgere un invito a ripensare le legislazioni sulle migrazioni, affinché siano animate dalla volontà di accoglienza, nel rispetto dei reciproci doveri e responsabilità, e possano facilitare l’integrazione dei migranti. In questa prospettiva, un’attenzione speciale dovrebbe essere prestata alle condizioni di soggiorno dei migranti, ricordando che la clandestinità rischia di trascinarli verso la criminalità.
Desidero, inoltre, in quest’Anno giubilare, formulare un pressante appello ai responsabili degli Stati a compiere gesti concreti in favore dei nostri fratelli e sorelle che soffrono per la mancanza di lavoro, terra e tetto. Penso alla creazione di posti di lavoro dignitoso per contrastare la piaga sociale della disoccupazione, che investe un gran numero di famiglie e di giovani ed ha conseguenze gravissime sulla tenuta dell’intera società. La mancanza di lavoro intacca pesantemente il senso di dignità e di speranza, e può essere compensata solo parzialmente dai sussidi, pur necessari, destinati ai disoccupati e alle loro famiglie. Un’attenzione speciale dovrebbe essere dedicata alle donne – purtroppo ancora discriminate in campo lavorativo – e ad alcune categorie di lavoratori, le cui condizioni sono precarie o pericolose e le cui retribuzioni non sono adeguate all’importanza della loro missione sociale.
Infine, vorrei invitare a compiere azioni efficaci per migliorare le condizioni di vita dei malati, garantendo a tutti l’accesso alle cure mediche e ai farmaci indispensabili per la vita, compresa la possibilità di cure domiciliari.
Volgendo lo sguardo al di là dei propri confini, i responsabili degli Stati sono anche chiamati a rinnovare le loro relazioni con gli altri popoli, permettendo a tutti una effettiva partecipazione e inclusione alla vita della comunità internazionale, affinché si realizzi la fraternità anche all’interno della famiglia delle nazioni.
In questa prospettiva, desidero rivolgere un triplice appello ad astenersi dal trascinare gli altri popoli in conflitti o guerre che ne distruggono non solo le ricchezze materiali, culturali e sociali, ma anche – e per lungo tempo – l’integrità morale e spirituale; alla cancellazione o alla gestione sostenibile del debito internazionale degli Stati più poveri; all’adozione di politiche di cooperazione che, anziché piegarsi alla dittatura di alcune ideologie, siano rispettose dei valori delle popolazioni locali e che, in ogni caso, non siano lesive del diritto fondamentale ed inalienabile dei nascituri alla vita.
Affido queste riflessioni, insieme con i migliori auspici per il nuovo anno, all’intercessione di Maria Santissima, Madre premurosa per i bisogni dell’umanità, affinché ci ottenga dal suo Figlio Gesù, Principe della Pace, l’esaudimento delle nostre suppliche e la benedizione del nostro impegno quotidiano per un mondo fraterno e solidale.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2015
Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
Apertura del Giubileo Straordinario della Misericordia
FRANCISCUS