Testo di riferimento: L. Giussani, Riconoscere Cristo, in J. Carrón, UNA PRESENZA NELLO
SGUARDO, suppl. a Tracce-Litterae communionis, maggio 2015, pp. 75-88.
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Gloria
Che cosa ci consente di riconoscerLo nelle cose che accadono davanti ai nostri occhi? Che cosa
permette di dire «che bella giornata ho passato con te […] Un Amico sincero è venuto per noi» («Di
più», parole e musica C. Chieffo)? Che cosa ci consente di riconoscere la Sua voce tra tante voci, le
Sue parole tra tante parole? Che cosa introduce quel silenzio? Che cosa consente che la vita non finisca
più?
Volevo chiederti se puoi esplicitare cosa vuol dire che «riconoscere Cristo è un lavoro», come ci hai
ripetuto agli Esercizi a Rimini. Infatti succede che io viva le mie giornate trasportata dall’emozione,
senza pormi particolari domande. Poi, nel momento in cui cambiano le circostanze, subito crollo.
Accadono fatti eccezionali e immediatamente il mio cuore scoppia nel petto e chiede di vivere, non
solo di esistere. In momenti così ricomincio, per esempio, a leggere il testo della Scuola di comunità,
ma poi il momento passa e così anche la Scuola di comunità viene lasciata in un cassetto e
lentamente dimenticata, anzi, pensare di leggerla diventa un’imposizione morale. Non capisco
perché non riesco a essere fedele a questo lavoro. Non può essere un dovere. Quando ci diciamo di
cominciare un lavoro, mi sento subito costretta in un’altra imposizione morale. Non capisco perché
non si instauri in me un cambiamento. Il problema è che ciò che accade è troppo poco incidente per
me? Oppure il problema è mio? Può una persona essere incapace di sorprendersi? Può la mia
libertà essere così pigra da non riuscire ad andare oltre la semplice emozione? E se così fosse, come
cambiare? Ho bisogno di poter fare queste domande a qualcuno che mi possa rispondere, perché
capisco che così non vado da nessuna parte e potrei stare nel movimento tutta la vita e non crescere
ed essere sempre in balìa delle onde.
Questo è un grave problema, come dici. Perché non è che non succedano delle cose, ma se quel che
accade è soltanto un’emozione, dopo un po’ crolla. E allora, come intuisci potentemente, resta solo
uno sforzo morale, che già sappiamo dove può arrivare. È problema dell’avvenimento o è problema
mio? O di tutti e due? Perché se uno non cresce, non Lo può riconoscere. È una cosa che dobbiamo
considerare perché, come dice Giussani, «riconoscere la presenza di Cristo è un lavoro, nel senso
letterale del termine [perché non ci siano equivoci]». Spesso l’avvenimento lo concepiamo come
un’evidenza così potente, così palese che non ci sarebbe bisogno di alcuna mossa della libertà per
riconoscerlo. Per noi – lo abbiamo detto tante volte in questi anni, ma la cosa si ripete – avvenimento e
lavoro sono quasi in contrapposizione, e appena occorre fare qualche mossa pensiamo che sia
moralismo. Ma, amica, quando ti innamori di qualcuno, il giorno dopo vorresti andare a trovarlo?
Questo è moralismo? È un’imposizione morale? Oppure è l’esito del riconoscimento di ciò che ti è
capitato, che non è stato semplicemente un contraccolpo sentimentale? È su questo che tante volte
facciamo fatica. Continua don Giussani: il riconoscimento «consiste nel prendere continuamente
iniziativa per riprendere il valore che questo avvenimento ha per la nostra esistenza». Non finisce tutto
con l’avvenimento. Occorre «prendere continuamente iniziativa per riprendere il valore che questo
avvenimento ha per la nostra esistenza». Pensate se Giovanni e Andrea non avessero fatto così, se non
avessero assecondato l’impeto con cui si erano alzati quella mattina, cioè il desiderio di rivederLo.
Capita con qualsiasi avvenimento. Se abbiamo fatto attenzione alla canzone con cui abbiamo iniziato,
che cosa provoca un avvenimento? Trasforma «il tempo in un’attesa», diceva Modugno cantato da
Mina. Attesa di cosa? Attesa «di rivedere te», cioè un’attesa che non ci lascia bloccati. È da lì che nasce
la mossa, non da uno sforzo moralistico. Da un atteggiamento – in questo senso sì, morale –, dal
desiderio di non perdersi ciò che di bello è successo. Per questo Giussani dice: «È un lavoro strano,
poiché esige l’impegno di una continua ripresa: “continua” perché la Sua presenza è gratuita, non la
creiamo noi [non la produciamo noi], è un avvenimento che accade e chiede di essere riconosciuto
senza tregua. Normalmente noi, invece di riconoscere la presenza di Cristo, ci facciamo delle immagini
di come dovrebbe essere, che finiscono inesorabilmente per essere superate e distrutte. Così, chi si
stanca, perché non capisce come vorrebbe, se ne va [ci conviene capire, perché se uno non capisce, se
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ne va!]; chi invece segue, cambia, e tutto per lui si trasfigura. Il lavoro che abbiamo indicato –
riconoscere la presenza di Cristo – è un’intelligenza della bellezza [altro che moralismo!], non
un’intelligenza del nostro progetto. La bellezza è il fascino del vero, ed il vero, che è Cristo, ci supera
continuamente. L’intelligenza della bellezza, perciò, è per sua natura aperta, tutta protesa ad affermare
“qualcosa di più grande” di noi, che ci strappa continuamente alle nostre immagini. Del resto, non c’è
niente di più terribilmente deludente e disfacente di un proprio progetto che si riesca accanitamente a
realizzare. La vocazione della vita è allora una sola: essere [disponibili] […], non sistemarsi [come
vogliamo] o possedere. La verità che possediamo è qualcosa d’Altro da noi, che ci strappa perciò
all’immagine fissa che cerchiamo […], chiedendo la nostra adesione nella disponibilità a un cammino
sempre nuovo» (L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, EDIT-Il Sabato, Roma 1993,
pp. 162-163). E la disponibilità a questo cammino è quel che conferma la natura di ciò che è capitato,
perché se tu trovi qualcuno che è uguale agli altri, che non ti desta il desiderio di fare un cammino, che
non ti desta un’attesa, già è detto tutto. Il problema non è che tu adesso debba fare qualcosa per
moralismo, ma che non hai la ragione adeguata per fare! Perché in fondo non è così prezioso da essere
interessante per te mettere tutto il tuo dinamismo umano per cercarLo ancora. Per questo non è
un’imposizione, è un’affezione che nasce da un giudizio, dal riconoscimento del valore che ha per te
ciò che ti è capitato. Per questo, quando dopo un po’ sparisce l’emozione, devi chiederti: ma a me che
cosa è capitato? È stata soltanto un’emozione o è stato qualcosa di realmente vero per cui io adesso
sono più affezionata che il giorno prima, e per questo Lo cerco ancora, prendo di nuovo iniziativa per
riconoscerLo? Le cose, che a volte succedono subito dopo che a uno è capitato l’incontro con qualcosa
di eccezionale, ci aiutano a renderci conto di quale tipo di lavoro si tratta.
Per me gli Esercizi degli universitari a Rimini dieci giorni fa sono stati la prima esperienza con il
movimento. Sono stata invitata da alcuni amici e sono partita senza avere la minima idea di ciò che
sarebbe potuto succedere e mai avrei immaginato ciò che è realmente accaduto. Fin dalla prima
sera il venerdì, dalla sua introduzione, sono stata sconvolta dalle sue parole, sono stata commossa,
anche perché ho ritenuto molto vere le parole che lei ha detto. Vere per il mio cuore, perché per me è
stato come risvegliarmi da uno stato di torpore, come se qualcuno stesse proprio rendendo evidente
per il mio cuore qualcosa che avevo sempre cercato di allontanare. Infatti, come diceva lei, spesso si
rischia di cadere nella noia, nella rassegnazione, in questa nostalgia che ci si aspetta vada via e di
fatto, poi, ricompare. Io ho sentito questo desidero di prendere in mano la mia vita in modo diverso,
di vivere più intensamente.
Vedete? Il fatto che accade fa prendere in mano la vita.
Sì, perché da quando ho iniziato l’università ho sempre avuto delle giornate molto ricche, ma è
sempre mancato qualcosa che desse senso e unisse tutto quel che io facevo, tutto rischiava di cadere
nell’insipido, nel “senza senso”. Di fronte a ciò che ho sentito in quei giorni è stato annientato in me
un muro. E di questa cosa mi sono resa conto nei giorni successivi, anche per una mia totale
apertura nei confronti di quelle persone che mi avevano invitato, degli amici coi quali sono riuscita
ad aprimi, a mettere in vista tutte le mie debolezze, le mie fragilità, una cosa che per me è sempre
stata molto difficile. Ho visto qualcosa di stupendo in tutto ciò che mi stava accadendo, e mi sono
sentita nel posto giusto, con le persone giuste. Avrei voluto prolungare quest’esperienza, ma allo
stesso tempo non vedevo l’ora di tornare a casa per raccontare ai miei cari, alla mia famiglia, al
mio moroso ciò che era successo. Ho trovato da parte dei miei un’apertura in questo senso, hanno
apprezzato questa mia grande felicità; cosa che inizialmente non ho trovato da parte del mio
ragazzo, che mi ha detto che mai mi aveva vista così felice da quando ci conosciamo e non ha
accettato questa mia felicità perché in qualche modo non ne faceva parte. Mi sono resa conto, con il
ritorno a questa quotidianità, come sia difficile poter fare capire a queste persone che mi son sempre
state vicino ciò che stavo vivendo. Sono riuscita, sto riuscendo, sto cercando di rendere evidente
come in me si sia verificato un cambiamento. Io mi sono resa conto di come sfrutti il mio tempo in
modo diverso, come veda le cose in modo un po’ diverso, e sono certa che questa esperienza non
finirà. Di fronte alla domanda se è solamente una sensazione o emotività, io posso rispondere con
fermezza e certezza che è reale e vero ciò che ho sperimentato. Sono emersi desideri e bisogni, un
sentimento di fede che sento proprio miei. Io in questi giorni ho iniziato a leggere Il senso religioso
di Giussani; mi hanno colpito particolarmente due frasi, che riporto. «Io cerco per sapere qualcosa,
non per pensarla». E poco più avanti: «L’uomo sano invece vuole sapere come un fatto sia: solo
sapendo come è, e solo allora, può anche pensarlo». Questa la vedo come una frase perfetta per
descrivere la mia situazione di ricerca, in qualche modo, per non conformarmi a un pensiero
precostruito. E inoltre a sostegno di questo ho trovato perfetto il paragone con «l’esperienza
elementare»: fino a quando la cosa corrisponde, è vera e mi posso fidare. Volevo solamente
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aggiungere come io mi senta diversa. Mi è piaciuta molto l’espressione «sono la stessa, ma anche
un’altra». L’ho potuto constatare anche in questi giorni frequentando i miei amici ai quali voglio
molto bene, i miei amici di un’altra realtà, diciamo, ma mi sono resa conto allo stesso tempo di
come certi sabati sera passati in un certo modo non mi soddisfino più, non mi diano quel qualcosa
che ho trovato con altre amicizie che mi rendono più vera, e voglio far perdurare questa cosa.
Grazie. Come vedete, che cos’è questo lavoro di cui dicevamo prima? Che dopo avere vissuto
un’esperienza così – per cui una persona ha avuto giornate piene, ha percepito una novità
sperimentabile –, subito, davanti alla reazione degli uni (che sono aperti) e degli altri (che non
capiscono), comincia a domandarsi: è stata emotività o è stata realtà? Non è che farlo sia un dovere, no,
è che la vita non mi risparmia il lavoro perché devo dare ragione a me stesso di quel che mi è capitato,
davanti alle obiezioni degli altri, che a volte possono trovare una certa connivenza in noi. E lì comincia
il percorso. Per questo uno si sente combattuto, perché comincia la lotta per questo riconoscimento.
Altro che automatico e meccanico! E non è così solo adesso, nel periodo del crollo delle evidenze. È
capitato, tale e quale, al cieco nato: appena guarito, deve cominciare a lottare contro tutto e contro tutti,
deve prendere iniziativa davanti agli altri e a se stesso per riconoscere ciò che gli è capitato. Questo è
per un moralismo o è – come dici benissimo, perché leggi già Il senso religioso con questa
intelligenza! – per il desiderio di sapere? L’uomo sano vuole sapere come un fatto sia; sapendo com’è,
è allora che può pensarlo. Sempre conoscere di più. E così tu con questa domanda intercetti, leggendo
Il senso religioso, quel che ti serve per rispondere. E peschi l’esperienza elementare («Questo mi
corrisponde») già la prima volta che lo leggi! È così che questo riconoscimento riaccade costantemente
nella vita. Ma noi vogliamo che questo riconoscimento possa essere costante, e a volte ci delude il fatto
che non sia così costante come desidereremmo.
Sono padre di cinque figli. Ingegnere, lavoro diverse ore nella giornata, in questo periodo parecchio.
Queste sono le circostanze, in effetti, e mi dico: se queste sono le circostanze, voglio andare in fondo
ad esse, se lì c’è la Presenza; sono contento di lavorare e di vivere in questo modo. Naturalmente,
per stare di fronte a questa Presenza c’è bisogno di un lavoro, come si diceva, quindi vado a Scuola
di comunità, ho alcuni amici che mi destano, che mi danno degli input e che mi rifanno vedere questa
Presenza. Tuttavia, ci sono delle giornate in cui entro in un tunnel e mi sembra di perdere tempo: le
cose da fare, le tempistiche delle consegne dei lavori, il telefono che squilla… Poi io sono
particolarmente stressato, sono ansioso, mi piace fare bene le cose, ma capisco anche che,
comunque, ci sono dei momenti in cui si perde tempo. Mia moglie e i miei figli mi richiamano
comunque a quella Presenza. Ciò nonostante, dimentico ed entro in un tunnel, quindi ci sono delle
giornate che non c’è libro e non c’è persona che mi possa svegliare da questa dimenticanza. Preso
da un momento di sconforto, un lunedì mattina, mentre ero al lavoro, ti scrivevo: come è possibile
non dimenticare e tenere costantemente lo sguardo sulla Presenza che dà significato a tutto? Te lo
richiedo.
Secondo te, che cosa possiamo fare? Tante volte noi ci facciamo un’immagine di come – lo diceva
prima Giussani – dovrebbe essere, e pensiamo che questo riconoscimento debba essere totalmente
costante. All’inizio della mattina uno Lo può riconoscere, quando apre gli occhi o recitando l’Angelus,
e poi può passare la giornata quasi dimenticandosi di questo. Già anni fa Giussani aveva affrontato tale
questione. È possibile vivere un rapporto costante con questa Presenza? È possibile, per usare le tue
parole, «tenere costantemente lo sguardo sulla Presenza che dà significato a tutto»? Tenere questo
sguardo costante è ciò che chiamiamo «memoria». In Si può (veramente?!) vivere così? Giussani dice:
«Memoria non significa che ad ogni azione si pensi a Lui; non è neanche necessario che sia così. È
necessario [per cominciare] che tu ami questo. Per questo si capisce [fa questa digressione] perché il
sì di san Pietro è l’origine della morale: il sì di san Pietro, non l’analisi del come e quando, o delle
leggi rispettate o no. La morale è il sì di san Pietro, che è una amorosità espressa [introdurre il sì di
Pietro nell’Anno Santo della misericordia forse non è così sbagliato, ed è una occasione per capire di
più]. […] Perciò, non è necessario che tu lo pensi ad ogni azione, ma che tu desideri questa memoria,
che tu desideri la coscienza di questa Presenza, che ami la coscienza di questa Presenza». A noi questo
sembra poco, e il sì di Pietro appare troppo fragile. Nessuno direbbe che questa è l’origine della
morale. Pensiamo: siccome dopo un po’ decade, che origine è? O quando uno dice: «Quando torni?»,
noi non crediamo che questo sia l’origine di qualcosa di nuovo. Noi non ci rendiamo proprio conto
del valore che don Giussani attribuisce a queste cose! «Ma la prima risposta […] è che questa
memoria [che non vuol dire ricordarsi a tutte le ore] deve essere vissuta come affermazione di simpatia
per Dio, di simpatia per Gesù: il sì di san Pietro. Anche se su 1000 azioni ne sbagli 999 [non so se hai
mai battuto un record così] – nel senso che almeno 999 su 1000 son distratte; ma non son solo
distratte, son contraddittorie: fanno un male –, il Signore, dopo il novecentonovantanovesimo errore, ti
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direbbe: “Basta che tu desideri la mia presenza, desideri aver coscienza della mia presenza. Se lo
desideri, se con dolore lo desideri, chiedimelo. Ma non nel senso che prima di ogni azione devi
fermarti per chiedermelo; quando ti arresti e – per mia grazia, in fondo! – mi pensi, quella volta o due a
giornata in cui ti è più facile che questo accada, chiedimi che quella memoria accada sempre di più, si
sviluppi”. Quanto più tu cerchi di esercitare quella memoria – ieri l’hai pensato due volte, alla
comunione e prima di andare a letto; oggi l’hai già pensato quattro volte… non c’entra il numero [che
è una misura opprimente], c’entra il valore tendenziale della questione –, quanto più tu cerchi di
pensarlo, quanto più domandi di pensarlo, tanto più è come se il tuo terreno si alzasse, si elevasse,
diventasse più ricco. […] Nel tempo [secondo un disegno che non sappiamo], cioè, […] la ripetizione
degli atti quanto più si ispessisce, tanto più diventa abituale» (Si può (veramente?!) vivere così?, BUR,
Milano 2011, pp. 430, 432-433). Ma noi crediamo ancora a questo metodo? O Gesù ha sbagliato
completamente affidandosi al sì di Pietro, poggiando tutto sul sì di Pietro? E Giussani ha sbagliato
ancora di più per averlo seguito? Vedete come la sfida è sempre più radicale? Ciascuno deve guardare
nella sua esperienza che cosa lo fa muovere. Perché è solo l’avvenimento che muove. Anche se capita
una volta al giorno in mezzo a tutte le distrazioni, tu devi cominciare con l’assecondare questo, stupito,
totalmente stupito, non delle novecentonovantanove volte in cui Lo hai dimenticato (che mistero è che
la tua fragilità sia fragile?), ma di quell’una volta in cui sei stato tirato fuori dalla distrazione.
Comincerai a stupirti di quella volta, comincerai a desiderarlo e ti dimenticherai della matematica. E
quando non ce la fai più perché sei preso o perché perdi tempo, comincerai a cercarLo di nuovo pieno
di gratitudine. Perché? Perché il rendersi conto di una mancanza è già una grazia che riaccade.
Sono tornato dagli Esercizi degli universitari un po’ stranito. Di solito, tornavo contento e lieto.
Quest’anno sono tornato, invece, un po’ arrabbiato, perché ci hai ripetuto ancora una volta che il
metodo per stare alla grazia di quei tre giorni è seguire. Seguire, ancora! Io dopo tutti questi anni
nel movimento, ancora una volta mi devo sentir dire: seguire, seguire. Adesso è un momento in cui
faccio fatica in molte cose, soprattutto nello studio, e dico: ma dove mi sta portando questo seguire?
Ero un po’ girato, però…
Tutti sappiamo che connotazione ha nelle tue parole questo seguire.
Esatto, però è bastato poco.
È bastato poco, veramente!
Già soltanto tornando sul pullman con i miei amici, cantando, poi rientrando in università,
incominciando timidamente a studiare, riprendendo a mettersi un po’ in gioco, vedevo che tutta
questa obiezione era spazzata via, perché ho capito davvero che ho bisogno…
Allora seguire non era così complicato!
È bastato poco, perché poi mi veniva sempre in mente questa frase: «Notam faciet gloriam nomini
Sui in laetitia cordis vestri» (renderà nota la gloria del Suo nome nella letizia dei vostri cuori). Io ho
bisogno davvero di questa cosa, perché stare insieme a questi amici, stare in questo modo mi
cambia. E ho bisogno davvero di inginocchiarmi ogni giorno davanti al Pane e al Vino, perché
questa realtà è davvero incarnata e se la si tratta col dovuto riguardo, questa ti risponde, basta
davvero poco. Dopo questa premessa arrivo alla domanda. Sono rimasto colpito dal video di
Giussani, soprattutto quando dice che il lavoro può e deve diventare obbedienza. Per cui, allora,
come posso rendere di più questo lavoro obbedienza? Una volta riconosciuta la carnalità di Cristo
nelle cose, come seguirLo nella quotidianità? Perché dopo gli Esercizi è facile. Non posso sempre
aver bisogno di un fatto eccezionale, però, perché ho davvero bisogno di crescere e seguire sempre.
Proviamo a seguire l’esperienza. Quando tu hai riconosciuto questa carnalità, che cosa è successo?
A starGli dietro ero più felice, questa rabbia era spazzata via.
Nella mail che mi hai inviato dici: «A un certo momento ho capito la natura bella della sequela».
Io riduco sempre la sequela a ciò che… Perfetto! È una riduzione moralistica del seguire. Ma perché la riduci così? Perché ti stacchi
dall’esperienza che stai facendo (nel pullman cantando, in università studiando, eccetera). Il
cristianesimo o è un avvenimento presente, che io riconosco e che costantemente mi trascina a una
esperienza bella del seguire, o non è. E se non è, ti stancherai. Allora rendere lavoro l’obbedienza è,
usando le tue parole, capire «la natura bella della sequela». Punto. Se voi staccate l’esperienza che fate
dalle parole che usate, allora le parole usate acquistano un significato diverso da quello autentico.
Rendere lavoro l’obbedienza vuol dire che tu obbedisci alla modalità con cui il Mistero ti trascina
adesso. E se tu obbedisci alla modalità con cui il Mistero ti trascina adesso, l’esperienza che fai è
bellissima e non desideri altro che questo. E ciò può capitare nel grande gesto degli Esercizi o in un
gesto così semplice come cantare in pullman; o di fronte a un gesto gratuito, o vedendo cose che
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accadono davanti a noi e che ci stupiscono. E allora basta seguire ciò che Egli continua a fare davanti ai
nostri occhi.
Ma per vedere tutto questo che cosa occorre? Tante volte, infatti, queste cose non le vediamo neanche
per sogno.
Prima degli Esercizi della scorsa settimana mi pervadeva un grande senso di insoddisfazione,
sentivo un vuoto nella mia vita che mi spingeva a chiedere, a domandare cosa fosse questa
mancanza che generava in me questo vuoto e come si potesse essere felici. Però mi rendevo conto
che, pur tormentato dalle domande, dal prendermi sul serio (anche nelle cose più banali), il
domandare era necessario per rispondere a quel senso di vuoto. Certo, interrogarsi su tutto costava
fatica, ma più andavo avanti e più capivo che non potevo mollare quella domanda, perché altrimenti
nulla sembrava avere più senso. Così, arrivato agli Esercizi, la tua introduzione già stava parlando
di me, della mia questione urgente, delle mie domande, come se tu già sapessi tutto. Poi la mattina
seguente, durante il video, molto commovente, era emerso in me un senso di rabbia enorme, perché
c’è stato un momento in cui Giussani, parlando di varie circostanze negative, come la malattia,
diceva che Cristo agisce anche attraverso queste circostanze perché esegue il disegno di un Altro. La
vita è vocazione: significa compiere un qualcosa che Dio determina per ognuno di noi attraverso le
circostanze. A me questo non bastava. Ero così insoddisfatto che dopo il pranzo ho ricevuto una
telefonata da mia madre in cui, comunicandomi i risultati della sua ultima risonanza, mi ha detto che
la sua malattia sembrerebbe stabile, perciò non ci sono nuove lesioni. Chiaramente mi stava
raccontando tutto con molta gioia, ma io non riuscivo ad avere un briciolo di felicità in me, non
riuscivo a essere contento, nemmeno per lei. Ero solamente arrabbiato, infelice, tanto che nemmeno
se la sua malattia fosse sparita per sempre, sarei stato contento in quel momento. Questa cosa mi ha
fatto impazzire, provavo quasi disgusto verso me stesso. Alla fine, però, sono tornato dagli Esercizi
consapevole che un fatto comunque si fosse fatto presente tra di noi, e di quanto questa compagnia
per me fosse strettamente necessaria…
Perché? Vai avanti. È per preparare i tuoi ascoltatori, affinché siano attentissimi.
Necessaria perché mi fa aprire gli occhi.
Perché ti fa aprire gli occhi!
Cristo e il movimento stesso cominciano ad avere sempre più incidenza nella mia vita. Ma quella
risposta che il Gius ha dato a me non è ancora chiara. Perciò ti chiedo: come si fa ad avere la
certezza con cui si può rispondere a qualsiasi dolore o disgrazia, come Giussani ha fatto? Come si
fa ad avere una certezza tale che anche quando il Suo disegno sembra totalmente negativo per te,
riesci a starci davanti in quella maniera?
Qualcuno vuole rispondere?
Ti volevo raccontare un fatto molto semplice che mi è successo con la mamma di un compagno di
asilo di mio figlio. Prima dell’estate per salutarci con le famiglie della classe della materna di mio
figlio ci siamo trovati per una pizzata. Con questa signora, donna tutta d’un pezzo, dirigente
d’industria, ci stavamo raccontando dove saremmo andati in vacanza. Senza neanche pensare
troppo a quel che dico, rispondo che quest’anno sarei andata al mare insieme ai fratelli e ai genitori
di mio marito così, nel caso in cui non fossi stata bene, non saremmo rimasti soli. Giustamente mi
domanda: «Ma perché dovresti stare male?». Lei non sapeva che mi hanno diagnosticato una
malattia per cui spesso non sto fisicamente bene. Dopo averglielo spiegato, mi ha guardato con due
occhi sgranati e mi ha chiesto: «Scusa, ma come fai ad avere quella bella faccia? Perché non sei
disperata? Come fai a occuparti dei tuoi figli piccoli così serenamente? Io non riuscirei più a
vivere». E poi si mette a piangere, raccontandomi che le era morto il nipotino e da quel giorno non si
è più ripresa e tutto è diventato peso e angoscia. Insisteva molto con le domande, era veramente
impressionata dalla mia faccia, e io non stavo facendo niente di eccezionale. Mi aveva visto solo
nella mia quotidianità, a mangiare una pizza e a badare ai figli. Le ho risposto che non sono
disperata, ma anzi certa che quel che mi accade non può essere una fregatura perché ho incontrato
Gesù, ed Egli mai mi ha ingannato, anzi, mi ha condotto, attraverso alcuni fatti e con la compagnia
di alcune persone, ad accorgermi di Lui, di Lui in tutto. È Gesù che mi ha donato la grazia della
fede, ma è un cammino. Le ho detto che appartengo a Comunione e Liberazione, che è il luogo dove
vengo educata ad approfondire il mio rapporto con Lui. È Gesù che plasma così tanto il cuore
dell’uomo da donarmi gioia anche nella fatica più impensata. Quindi non ho potuto fare altro che
dirle di venire con me dove io vengo educata a uno sguardo così, e l’ho invitata alla Giornata
d’inizio anno. Poi non è venuta, mi ha scritto che non poteva non pensare alla mia faccia ogni
giorno, ma che non se la sentiva ancora di intraprendere questo cammino, magari un giorno. Le ho
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risposto che dovevamo comunque vederci presto, e di non soffocare questa ferita del cuore. Pochi
giorni fa abbiamo festeggiato il compleanno di un altro mio figlio e l’ho invitata. Vedendo i nostri
amici, come stavamo insieme – e non si facevamo cose particolari: c’era chi giocava con i bimbi e
chi chiacchierava chiedendosi della vita, tutte cose che a noi spesso sembrano normalissime e che
diamo per scontate, ma scontate proprio non sono –, vedendo la letizia mia e di mio marito in una
situazione non sempre semplicissima, quasi commossa mi dice: «Tutto ciò non è possibile. Qui
accade qualcosa di straordinario».
Grazie. Vedete? Accettando di lasciarci educare, succedono queste cose: possiamo guardare la realtà
della malattia con questo sguardo, tanto da destare tutto lo stupore di quella signora. Che cosa
consente questa certezza? Il cammino fatto. Lasciarsi introdurre costantemente a uno sguardo nuovo:
«È Gesù che mi ha donato la grazia della fede, ma è un cammino». Appartenendo al movimento, «il
luogo dove vengo educata ad approfondire il mio rapporto con Lui», Gesù la plasma «tanto da
donarmi gioia anche nella fatica più impensata», fino al punto glielo si vede in faccia. È vero che non
sei tu a “fare”, perché è l’esito di qualcosa che Egli plasma, ma questo essere plasmata è il frutto di
un cammino a cui ti sei resa disponibile seguendo.
Lavorando in università quest’anno ho avuto ancora la fortuna di andare agli Esercizi degli
universitari. Rivedere per la seconda volta (dopo la Fraternità) il video Riconoscere Cristo è stato un
contraccolpo molto forte, e mi sono commossa. In quest’ultimo mese abbiamo lavorato molto sul
testo Riconoscere Cristo, ma vederlo è tutta un’altra cosa. Sabato pensavo che sentire parlare così di
ciò che avevano fatto Giovanni e Andrea dopo aver incontrato Gesù, uno potrebbe dire: «Che
fantasia il Gius! Che inventiva!». Invece don Giussani quell’esperienza l’aveva proprio fatta, la
faceva, raccontava di sé, della sua vita, magari pensando a come avrà trattato i suoi amici, i suoi
studenti; questa mi è sembrata una cosa dell’altro mondo. Che differenza leggere e fare esperienza!
Posso dire di aver fatto io esperienza di Cristo presente, e ho pensato anche a tanti testi scritti che
girano, quasi con l’affanno talvolta di averli tutti, ma è un’altra cosa, è un’altra cosa vederselo
davanti. Sabato questo è stato dato a me, a un altro è data un’altra cosa. Quando si parla di Cristo
come l’ideale della vita, il Gius parla di gratitudine. Di nuovo nel riascoltarlo sono grata perché mi
ha fatto ripensare alla mia storia. Domenica alla sintesi parlavi della preferenza del Signore, che
Dio ci ha scelti e hai detto: «Siamo qui perché la nostra presenza documenta la predilezione di Dio
che ha vinto tutte le nostre resistenze». Quanto è vero questo se ripenso alla mia storia e a quella di
mio marito! E questo mi ha commossa ancora, perché ha scelto me. Posso dire che questa verità è
entrata nella mia vita anni fa, è una certezza conquistata. Un nostro amico direbbe: «È come la linea
del Piave: è conquistata, non si mette più in discussione». E pur grata di ciò, il passaggio alla
gratuità pura di cui tu ci parli talvolta è difficile, anche con gli affetti più cari, in cui c’è l’ombra e il
ricatto di avere qualcosa in cambio, c’è il desiderio, buono, di una soddisfazione. Mi sento un po’
bloccata, quasi mi crogiolo nelle delusioni. Ma allora non è vero che sono grata? Eppure lo sono.
Sono tornata da Rimini piena, ma la prima delusione quotidiana mi ha tagliato le gambe. A questo
proposito, puoi spiegare meglio cosa vuol dire la frase del Gius: «Non fu ieri, è oggi, non è oggi per
me, ma è oggi per te, qualunque posizione tu abbia: cambiala, se è da cambiare!»? (L. Giussani,
Riconoscere Cristo, in J. Carrón, Una presenza nello sguardo, p. 77) Perché si può intendere in
senso un po’ moralistico, un po’ etico, cioè che io devo fare qualcosa, uno sforzo: devo essere più
disponibile, devo cambiare il modo in cui io faccio le cose. E invece penso che ci sia molto più di
questo, anche perché l’essere disponibile a cambiare non regge più di tanto, non ce la si fa. Allora
me la puoi spiegare? Devo forse cambiare anche il modo in cui guardo e tratto me stessa?
Per capire fino in fondo questo occorre cogliere il nesso tra la gratitudine e la gratuità, che è un modo
per dire che cos’è l’avvenimento cristiano, la natura dell’avvenimento cristiano, cioè la natura di
quell’avvenimento che talmente si impone, talmente ci cambia, talmente ci riempie di gratitudine che da
questa gratitudine nasce la gratuità. È ciò che cita Giussani: «Ti ho amato di un amore eterno e ho
avuto pietà del tuo niente» (cfr. Ger 31,3). Senza riconoscere costantemente questo è difficile
cambiare, perché sarebbe moralistico ogni nostro fare. Giussani dice che solo se noi ci rendiamo conto
della natura di ciò che fa Cristo con noi, solo se Lo guardiamo in continuazione, sotto la pressione di
questa commozione possiamo poi agire come Lui, essere capaci di questa gratuità. Che è frutto della
presenza di Cristo, che è il cambiamento che Cristo provoca in noi. Per questo il Papa ha indetto
questo Anno Santo della Misericordia, come dicendoci: guardate Cristo, perché senza guardare Cristo
voi non potete avere misericordia, non potete avere la gratuità, la capacità di abbracciare, di perdonare,
di rendere testimonianza di quale diversità Cristo ha introdotto nel mondo. Non è moralismo il
cambiamento, è l’espressione dell’essere sempre di più investiti da Cristo. Un universitario mi scrive
che, appena arrivato agli Esercizi, è rimasto dispiaciuto perché l’hanno messo in una stanza con uno
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che non gli piaceva assolutamente. E allora «ho cominciato ad aprirmi a questa possibilità: ma se
questo tizio non fosse solo il suo limite? E se attraverso questo il Signore non mi volesse boicottare,
ma mi chiedesse di cambiare e di imparare a guardare l’altro semplicemente per il fatto che c’è? La
posizione in quel momento è cambiata radicalmente [non è un moralismo, ma è la possibilità di una
novità]. Ero curioso e desideroso di verificare quella ipotesi [spunta una modalità diversa di entrare in
rapporto con tutto]. La mattina dopo vediamo il video Riconoscere Cristo, dove Giussani con
grandissima intensità afferma: “Dico soltanto che questo avvenimento o questa presenza è di oggi – di
oggi! Quel flusso umano di cui abbiamo parlato, io lo porto oggi nella tua vita. Non c’è che Dio, Dio
solo, ieri oggi e sempre. Un avvenimento grande, diceva Kierkegaard, non può essere che presente,
perché non è un passato, un morto, che ci può cambiare. Ma se qualcosa ci cambia, è presente: ‘È, se
cambia’ ” (pp. 77-78) [se noi stacchiamo la gratitudine dalla gratuità, diventa un passato la gratitudine;
invece è un presente, e lo si vede perché cambia]. Sentire queste parole mi ha illuminato e commosso,
perché mi ha fatto dire: se io ho potuto cambiare questa posizione di fronte a tizio, è perché Cristo è
accaduto. Egli mi ha cambiato, mi cambia, e quindi è presente [tanto è vero che ogni cristiano dei primi
secoli diceva: siccome quel che è cambiato in me è così potente, può essere opera solo dello Spirito
Santo]. Tornando a casa, mi sono accorto della potenza di questo: se Cristo è presente, c’entra con
tutto, tutto è occasione di rapporto con Lui. Entrato in casa, anziché essere duro con mia sorella, come
mio solito, mi sono scoperto più disponibile e tenero [gratuito!] e di fronte al suo limite mi son detto:
se Cristo ti ama così come sei, sorella, allora anch’io ti prendo così. Mi accorgo, però, che questo
nuovo sguardo di cui partecipano i miei occhi non è assolutamente scontato. Io non sono capace di
guardare le cose con gli occhi di Cristo [per questo spesso decade tutto a moralismo: perché non
guardiamo bene!]. Mi è capitata sottomano la lettera pastorale di Scola Educarsi al pensiero di Cristo,
in cui a pagina 47 [citando il famoso testo della Lettera ai Romani, capitolo dodici, dove si dice di
offrire il corpo come culto spirituale] c’è scritto: “Constatiamo ogni giorno come questo ‘culto
spirituale’, cioè l’offerta della nostra vita in Cristo, con Cristo e per Cristo, non sia automatico. Per
questo Paolo, con profondo realismo, ammonisce i cristiani che sono nel mondo […] a non lasciare
che sia il ‘mondo’ a conformarci al suo ‘schema’. Non ci si può conformare al mondo quando
propone schemi distruttivi nei confronti delle singole persone, della famiglia umana e della stessa
creazione. Essi provengono, come l’evangelo paolino ha mostrato, dall’enigma originario del peccato
dell’uomo, dal suo cuore ferito e smarrito che rimane esposto alla seduzione dell’affermazione di sé a
scapito di tutto e di tutti. Assecondare l’incontro con Cristo, mettersi alla sua sequela, comporta una
permanente conversione (metanoia), vale a dire un cambiamento di mentalità per assumere sempre di
più la persona e l’esistenza di Cristo come criterio del proprio pensare ed agire. […] Tutta
l’esperienza del vissuto umano, nelle sue varie dimensioni, entra nella stessa sfera liturgica acquistando
una dignità straordinaria”. È vero. Questo sguardo non è assolutamente automatico. E non perché
Cristo non sia presente, ma perché io sono peccatore e non riesco a vedere bene, vedo solo per il buco
della ferita. Occorre che umilmente mi metta come Giovanni e Andrea alla Sua sequela, alla ricerca di
quella permanente conversione. Più passano i giorni e più mi accorgo di come l’esperienza del
movimento sia incidente nella radice più profonda del mio essere. Anche quando sono distratto o
accecato da mille cose, ho la possibilità di ripartire da questo chiaro giudizio: Cristo è presente e tutto è
Suo». Questo è il nuovo modo di guardare a cui Cristo ci introduce, che ci fa guardare tutto in modo
diverso e che rende tutto di nuovo amabile, perché lo scopriamo nella sua verità. Non è che Cristo veda
solo i nostri guai, il nostro male, e malgrado tutto si turi il naso e ci dica: «Ti voglio bene». Cristo vede
quello che noi non vediamo! E per questo, senza essere introdotti allo sguardo di Cristo, al pensiero di
Cristo, è difficile che noi viviamo questa novità nel rapporto con tutti. Il Natale è un’occasione
strepitosa per poter partecipare, nella domanda, a questo evento in cui possiamo riconoscere la Sua
presenza; introdotti a questo nuovo modo di guardare, cominceremo a vedere cose che adesso non
vediamo, che non riconosciamo, che ci passano davanti inosservate. E proprio lì, in tante cose che
diamo per scontate, c’è la presenza di Cristo. Ma noi non Lo vediamo a causa del nostro sguardo
ridotto, perché non siamo educati a guardare con gli occhi di Cristo. Perché per spiegare tante delle
cose che ci diciamo occorre che il Verbo si sia fatto carne e abiti in mezzo a noi.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 20 gennaio alle ore 21,00.
Riprenderemo ancora la lezione di don Giussani: Riconoscere Cristo. Questo testo ci accompagni in
questo tempo di Natale, per poterlo vivere in compagnia di don Giussani.
Volantone di Natale. Come avete visto, è stata una sorpresa l’immagine di quest’anno, cioè il quadro di
Kandinsky. Certamente è molto più facile guardare una immagine classica con la Madonna, il
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Bambino eccetera, e fermarsi alla prima reazione sentimentale o all’impressione visiva per cui diciamo:
«Mi piace di più» o «mi piace di meno», sapendo già o pensando di sapere cosa c’è nell’immagine.
Questa volta, invece, siamo chiamati a interrogarci, a fare un po’ più di fatica magari, a domandarci:
«Che cosa vedi?». E poi: «Perché vedi ciò che vedi?». Se uno fa questa domanda, poi trova la risposta,
che non è mai univoca, perché l’arte non è matematica, ma chiede l’incontro di due libertà. Il fatto che
uno si blocchi davanti a una immagine come questa, dice che non siamo abituati a questa dinamica, e
non solo davanti all’arte, ma davanti alla vita, alle circostanze. A volte sono i bambini che spiegano il
volantone ai genitori! Allora, la scelta di questa immagine è tutta dentro al cammino che stiamo
facendo, con il cuore teso a vedere cosa il Signore ci sta dicendo attraverso le circostanze della vita.
Anche nella scelta di una immagine può esserci una indicazione di metodo che vale per tutto. E che
può cambiare anche il modo con cui proponiamo il volantone di Natale, come occasione per
condividere una domanda. Su Tracce di dicembre potete leggere questo suggerimento: «Questo
disegno […] [rende] in modo chiaro e puro una dinamica pienamente reale ed umana. Questa
dinamica è l’attrazione esercitata sulla linea (la nostra vita) da un punto (l’altro, l’ospite inatteso). Un
qualcosa che, per quanto smaterializzato nella rappresentazione di Kandinsky, produce, come lui stesso
aveva scritto, “una vibrazione del cuore”. E forse le curve che accompagnano la traiettoria potrebbero
essere proprio lette come la rappresentazione di questa vibrazione». È un tentativo ironico. Forse una
immagine classica sarebbe più comoda. Non so se più incidente, ma almeno più comoda.
È un aiuto a guardare lì, a quel “punto” decisivo, attrattivo per ciascuno di noi, come anche il Papa e
don Giussani ci dicono nelle due frasi che abbiamo scelto. Il Volantone non è soltanto un’immagine
che non è accompagnata da nulla.
Vi ricordo un gesto importante di carità che proponiamo in questo periodo: le Tende AVSI, che
quest’anno sono a favore dei profughi.
In questi mesi abbiamo indicato come Libro del mese il testo La Bellezza disarmata (edito da Rizzoli);
lo sarà ancora per qualche mese, per darvi la possibilità di finire la lettura.
Con l’apertura della Porta Santa è iniziato il Giubileo della Misericordia. Non preoccupiamoci soltanto
di quale gesto faremo. Sarebbe sbagliato ridurre l’Anno della Misericordia solo a qualche gesto che
potremo fare insieme. È una conversione del cuore quella a cui ci invita papa Francesco. È un peccato
perdere questa occasione, perché abbiamo bisogno di misericordia; e quest’anno può essere una
opportunità unica per imparare che cos’è la misericordia di cui tutti abbiamo bisogno. Chi più di don
Giussani ce l’ha insegnato? Come già abbiamo cominciato a dire oggi, pensiamo a come ha parlato del
«sì di Pietro» in Riconoscere Cristo.
Proprio per questo, per il contenuto prezioso di questa lezione, abbiamo pensato di renderla
disponibile Riconoscere Cristo con un dvd che sarà allegato a Tracce di febbraio, in occasione dell’XI
anniversario della morte di don Giussani.
Faremo anche una vendita straordinaria in un weekend di febbraio. Le copie della rivista andranno
prenotate entro il 15 gennaio 2016.
Tanti auguri di Natale a tutti!
Veni Sancte Spiritus
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