sabato 31 gennaio 2009

La convivenza un tempo possibile fra religione e politica

Danilo Zardin
venerdì 30 gennaio 2009


Per tutta la lunga fase di avvio della modernità, quanto meno fino alla crisi della coscienza europea maturata con la svolta settecentesca e dopo il crollo di molti dei fondamenti dell’Antico Regime, l’intreccio fecondo tra l’eredità della tradizione cristiana e il sistema dell’esistenza collettiva ha continuato a condizionare, molto spesso da posizioni risolutamente egemoniche, l’intero continente europeo. Si trattava, ovviamente, di una tradizione riformulata secondo i nuovi schemi confessionali emersi dalle fratture dolorose del Cinquecento. Gran parte della produzione artistica e letteraria dell’età successiva, la storia della musica, i fermenti della ricerca scientifica che hanno rivoluzionato l’immagine del cosmo e spalancato orizzonti assolutamente inediti al sapere rimarrebbero inspiegabili al di fuori del dialogo incessante con il patrimonio di una fede magari deformata e tradita, ma sempre tenuta al centro della scena. La metafisica ha continuato a lungo a nutrirsi di Aristotele e della sua reinterpretazione per opera degli Scolastici medievali, che anche in terra protestante (lo ha chiarito Lewalter) influenzarono profondamente la riflessione sistematica e l’insegnamento dei filosofi, culmine del tirocinio umanistico preliminare all’esercizio delle professioni e dei ruoli sociali più elevati. La rinascita di una Seconda Scolastica cristiana, erede di Tommaso e dell’universitas studiorum medievale, è stata un altro frutto sostanzioso di questa modernità ancora largamente praticante e conformista nella sua pressoché totale generalità. I divorzi e i tradimenti sono l’esito tragico di una storia di conflitti che non hanno avuto subito il predominio quando il cristianesimo di massa europeo ha cominciato a modularsi in una veste moderna, ma più avanti nel tempo. L’abbozzo di una autonomia distinta della ragione filosofica, in dialettica con il sapere teologico fondato sulla rivelazione divina (ne parla, positivamente, Benedetto XVI, nel suo discorso al Collège des Bernardins di Parigi, dello scorso settembre). La Ratio studiorum dei Gesuiti. L’«illuminismo cristiano» fiorito come germe dalle radici delle due Riforme religiose, saldato allo sviluppo di una forma più avanzata di organizzazione della vita politica e sociale (per riprendere un’altra potente suggestione dell’attuale pontefice): questi sono tutti segnali impressionanti di una tendenza che vedeva gli uomini e le istituzioni della Chiesa alla testa dei processi di trasformazione, non nelle retrovie o sempre, e soltanto, su barricate di contestazione.



Per meglio chiarirlo, torniamo a sfruttare il linguaggio illuminante delle immagini. Pensiamo a un altro celebre ritratto, questo volta non di un individuo isolato ma di gruppo, che ci mette a più diretto contatto con le stanze del potere in cui si forgiavano i destini degli uomini della prima età moderna. Il protagonista centrale questa volta è Carlo V d’Asburgo, re di Spagna e imperatore del Sacro Romano Impero, l’energico dominatore della scena politica europea della prima metà del Cinquecento. In un grande dipinto di Tiziano, oggi conservato al Prado, il sovrano della Monarquía universal di fede cattolica è rappresentato con a fianco i suoi più stretti famigliari: la defunta moglie Isabella di Portogallo; il figlio Filippo II, destinato a succedergli sul trono iberico; la sorella Maria, regina d’Ungheria; l’infanta Giovanna. Ma nessuno di loro indossa le insegne del potere regale. Portano la lunga veste bianca di penitenza. Sono scalzi, le mani giunte nel segno della preghiera. La corona è deposta ai piedi dell’eccelso sovrano. Tutti sono rappresentati in adorazione della Trinità, che li sovrasta nella cornice di un cielo paradisiaco. Un nugolo di angeli attornia la famiglia imperiale e la sollecita al gesto della prosternazione devota, punta avanzata di una folla di beati e di patriarchi dell’Antico Testamento che si lanciano, le mani levate verso l’alto, nel desiderio di toccare il manifestarsi del mistero divino, da cui si irradia lo splendore luminoso della sua Gloria, eterna e invincibile. In un angolo, si riconosce una immagine che è stata identificata con il volto dello stesso Tiziano, a fianco di quello attribuibile a uno dei letterati di punta dell’Italia del Cinquecento: Pietro Aretino.



Pura simulazione ipocrita, di chi era abituato a servirsi dei simboli della fede cristiana come instrumentum regni? Il senso dell’Adorazione della Trinità di Tiziano sembra, piuttosto, di altra natura. Con tutta l’enfasi dell’arte celebrativa, annuncia che anche il potere più alto nel mondo non poteva non concepirsi come un servizio subordinato a una realtà superiore, che dettava il fine ultimo ideale della vita complessiva della comunità umana. Emerge qui una costante molto sottovalutata della politica degli Stati europei agli inizi del mondo moderno, quale si riflette innanzitutto nello specchio delle teorie giuridiche e degli schemi etici nei quali erano educati gli uomini che il potere lo dovevano gestire e da cui traeva legittimazione la loro azione concreta. Il pensiero politico dell’Antico Regime non risulta affatto schiacciato sotto l’egida di Machiavelli e di Hobbes. Al contrario, dovunque si esprimeva, soprattutto sul versante cattolico, con il linguaggio risoluto dell’anti-machiavellismo. Il modello da incarnare era il modello del principe sì «politico», ma anche, inscindibilmente, «cristiano» (Ribadeneyra, Saavedra Fajardo, Contzen, ecc.). La politica non era autonoma e ab-soluta (questo lo hanno fatto credere i paladini dell’assolutismo monopolista dello Stato secolarizzato, sorto come mito secoli dopo: ma non corrisponde alla storia autentica dei fatti culturali). La politica, che era poi ben lontana, allora, dal ridursi al potere amministrato dallo Stato, era anch’essa sottoposta al vincolo delle virtù morali, di stampo ultimamente aristotelico: dal tomismo medievale in giù, era questo l’unico modo sensato con cui si poteva pensare di cimentarsi nella ricerca del «bene comune». Del resto, non a caso, i primi costruttori della teoria politica della «ragione di Stato», solo più tardi scivolata verso l’esaltazione unilaterale e squilibrata del suo primato direttivo, non sono stati i nemici implacabili del potere mondano della Chiesa, come Paolo Sarpi; ma già prima, e più efficacemente di lui, devoti religiosi come Botero e i campioni della filosofia morale dei Gesuiti, in una linea che, in seguito, Bossuet farà sua nella Francia del «re cattolico» Luigi XIV e che Muratori svilupperà, con accenti ancora più moderni, all’aprirsi del secolo dei Lumi.

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giovedì 29 gennaio 2009

Se Michelangelo e Raffaello non si scandalizzano del cristianesimo...



Danilo Zardin
giovedì 29 gennaio 2009

Le immagini, anche più della parola pronunciata e dei testi, sono lo specchio rivelatore della coscienza che le crea. In loro si proietta almeno un’ombra della cultura e della visione del mondo che le nutre. Sono un segno spesso carico di potente attrattiva, che con più viva immediatezza evoca tutto un mondo nascosto di ideali e di valori, che sta alle loro spalle.

Proviamo per esempio a metterci di fronte a uno dei più splendidi autoritratti dell’arte rinascimentale. Mi riferisco a quello che ci ha lasciato Albrecht Dürer esattamente all’avvio del secolo delle grandi riforme religiose del mondo moderno, firmandolo in latino con la data dell’anno 1500, quando il famoso pittore aveva raggiunto l’età di ventott’anni. Il dipinto lo si trova riprodotto nella recente edizione italiana dell’impegnativo libro di Hans Belting, La vera immagine di Cristo (Boringhieri, 2007, p. 127). Cosa c’entra il ritratto di Dürer con la rappresentazione del volto di Cristo nella tradizione dell’arte occidentale? Basta guardarlo con attenzione: si coglie subito la ricerca esasperata del realismo, si ammira la finezza dei tratti che esaltano l’atletica bellezza del soggetto rappresentato. Ma nello stesso tempo i lunghi capelli sciolti che incorniciano il viso elegante, la barba corta e ben curata, la posa quasi ieratica, il braccio destro compostamente ripiegato sul cuore: tutto denuncia la volontà, che non può non essere stata deliberata, di sottolineare gli elementi di somiglianza con la classica icona del Cristo redentore, consacrata da un’arte religiosa plurisecolare. Sulle mani in primo piano viene l’istinto di andare a cercare con lo sguardo i segni delle ferite della Passione. Se non che il sigillo d’autore e le vesti moderne che coprono il corpo spingono a orientarsi inesorabilmente in senso diverso. Belting rimarca la ragione teologica di fondo di questa scelta di rappresentarsi non semplicemente così come si è, ma in forma Christi. La coscienza cristiana sapeva bene che l’uomo esisteva e aveva valore solo in quanto creato «a immagine e somiglianza di Dio». E dunque il vertice dell’ideale umano a cui si doveva tendere non poteva non adottare come supremo paradigma quel grado massimo di «somiglianza» con Dio inscritto nell’«immagine» da lui assunta, attraverso il Figlio, nella discesa dell’incarnazione. Il corpo fisico di Cristo era la figura risplendente della bellezza e dell’armonia del Dio creatore, che chiamava l’uomo a ricalcare le sue stesse orme e a immedesimarsi con la realtà vittoriosa del nuovo Adamo, per lasciarsi incorporare nel mondo rinnovato dal sacrificio della croce e dal miracolo della Resurrezione. Gesù-uomo era il segno della verità ultima che portava a compimento il destino della persona umana, di ogni uomo: il fondamento e l’emblema di una nuova creazione. Ne fosse totalmente consapevole, o meno – questo non avremo mai modo di saperlo –, resta il fatto che Dürer si è calato nel profilo materiale del Dio fatto carne per dare il massimo di valore e di razionalità alla riproduzione della sua fisionomia di individuo in carne e ossa.

Nel cuore della prodigiosa fioritura artistica e culturale che ha visto poi trionfare il genio di Michelangelo e di Raffaello, nello stesso momento in cui si andavano accumulando le energie sfociate nella tumultuosa ondata ricristianizzatrice dell’Europa dei primi tempi moderni, non suscitava nessuno scandalo che, ai vertici delle élite sociali in cui si muovevano sommi artisti e intellettuali di punta, la coscienza dell’identità personale si costruisse ancorata al robusto pilastro della fede cristiana. Se si guarda alla trattatistica quattro-cinquecentesca sul tema del valore della creatura umana, si viene sommersi da un mare di conferme che si conciliano perfettamente con quanto insegna l’arte di Dürer. Basta riprendere in mano il manifesto per eccellenza di quella che viene etichettata come l’antropologia ottimistica del Rinascimento, cioè il De hominis dignitate di Pico della Mirandola, per ammirare l’entusiasmo giovanile di un pensiero che guardava alla grandezza dell’uomo nell’unica prospettiva allora possibile: quella della sapienza religiosa, che celebrava la libertà e la responsabilità di chi era stato collocato, per un preciso disegno divino, in vetta alla scala degli esseri creati, attribuendogli la funzione di mettere in collegamento la terra con il cielo, stando a un gradino «solo di poco inferiore a quello degli angeli». Ma già i Salmi dell’Antico Testamento avevano giocato sul registro di un’altezza vertiginosa di prestigio combinata con l’umile realismo di una condizione di esistenza segnata dal limite del male e dalla dipendenza nei confronti di Dio. I Padri della Chiesa avevano ugualmente lasciato spazio all’idea dell’uomo vivente, segno visibile della gloria divina. E già da tempo, sulla scia anche di De Lubac, gli studi di padre O’Malley sulla grande cultura di Erasmo e dell’umanesimo cristiano hanno messo in evidenza che tesi in tutto analoghe a quelle di Pico erano riprese nella predicazione di tono più elevato delle cerchie ecclesiastiche del Rinascimento, a cominciare da quella sui testi della Genesi o nel momento forte della Quaresima e della Pasqua offerta al sovrano pontefice nella sontuosa Roma, capitale e centro di governo della cristianità. In qualche caso, quando giungevano a discettare della «dignità dell’uomo», i predicatori pontifici potevano persino parafrasare alla lettera il testo di Pico: senza nemmeno bisogno di dichiarare la fonte del prelievo, perché la cultura del tempo si basava, fisiologicamente, sul continuo riciclaggio di un patrimonio sedimentato di formule e citazioni preconfezionate.

(1 - Continua
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mercoledì 28 gennaio 2009

L a L i b e r t à


DA UN INTERVENTO DI DON CARRON

Lo stesso don Giussani, negli anni caldi del Movimento Popolare, a scanso di sbandamenti aveva richiamato più volte i suoi all' «esperienza della fede» come radice del movimento. E così è il discorso di don Carrón a dare la famosa «linea», la radicalità della fede, la stessa rotta tenuta ferma dal «Gius», anche e soprattutto negli ultimi anni. Il tema è la libertà, «oggi un bene tanto prezioso quanto scarso», perché al di là della «soddisfazione dei desideri» la libertà autentica è quella «filiale» della parabola evangelica del Figliol prodigo. «È questa apertura alla totalità che mi fa essere libero, capace di scegliere tra diverse cose, di non essere ridotto a parte dell' ingranaggio delle circostanze, del potere». Come Giussani, l' argomentazione è sostenuta dalle inquietudini del pensiero laico, da Hannah Arendt («Solo perché non mi sono fatto da me posso essere libero; se mi fossi fatto da solo, avrei potuto prevedermi e, così, avrei perso la libertà») al Cesare Pavese de Il mestiere di vivere («ciò che uno cerca nei piaceri è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità»), fino al poeta più amato dal fondatore, Leopardi: «Il desiderio nostro sarebbe più grande che sì fatto universo». Così «l' unica possibilità» di essere davvero liberi è che «il cristianesimo continui ad accadere come avvenimento», e questo avviene «nella Chiesa», ma «solo se essa mi educa al riconoscimento del Mistero». Come fece don Giussani, ricorda commosso: «Possiamo fare esperienza della libertà perché abbiamo conosciuto un uomo libero». Il che significa non chiudersi, «non rimanere incastrati nell' ingranaggio delle circostanze». E stare attenti alle imitazioni: «Il cristianesimo non può proporsi all' uomo in nessuna delle versioni riduttive, come moralismo o spiritualismo, ma attraverso la testimonianza di una esperienza: il cristianesimo deve mettere sul palcoscenico del mondo "uomini liberi"»......

Il san Tommaso di Chesterton, quando la ragione è “degna di fede”



Pigi Colognesi mercoledì 28 gennaio 2009


Oggi è la festa di san Tommaso d’Aquino. Non è facilmente immaginabile che, per celebrarlo, qualcuno vada a leggersi un paio di articoli della gigantesca Summa. Semmai, qualche zelante potrebbe aver voglia di riguardarsi le pagine a lui dedicate sul suo manuale di filosofia. Del resto, quelli più recenti gli dedicano sempre meno spazio. Ma c’è una strada più agile e perfino divertente. Leggersi il ritratto che al grande filosofo e teologo del XIII secolo ha dedicato la penna arguta e ficcante di Chesterton (edizioni Lindau).

Il creatore di padre Brown ammette subito di non essere un filosofo competente. E questo per il lettore è un vantaggio, in quanto anche i contenuti più ardui gli sono resi accessibili da una scrittura brillante e molto evocativa. Pur non essendo filosofo, Chesterton ha un obiettivo squisitamente filosofico nel suo ritratto: far capire la grandiosa «svolta» che il monaco domenicano ha prodotto nel pensieri cristiano e occidentale in genere. Una svolta paragonabile a quella realizzata qualche decennio prima su un altro versante da san Francesco, cui lo stesso Chesterton aveva dedicato un precedente volume.

In cosa è consistita questa svolta? «Tommaso d’Aquino è stato uno dei maggiori artefici dell’emancipazione dell’intelletto umano… L’essenza della dottrina tomistica è che la ragione è degna di fede». Tommaso, infatti, si oppone radicalmente ad ogni scetticismo e ad ogni dualismo tra pensiero e realtà. Realtà sempre in primo piano nella sua riflessione e mai piegata alla tirannia delle idee o alla corrosione di una spiritualità evanescente. Qui sta il valore della sua riscoperta di Aristotele, che gli ha permesso di «salvare l’elemento umano nella teologia cristiana… Il suo aristotelismo significava semplicemente che lo studio dei fatti più insignificanti portava allo studio delle verità più importanti». Ne consegue l’inossidabile «ottimismo» che, secondo Chesterton, attraversa tutte pagine dell’Aquinate: «Nessuno può capire la filosofia tomista, e neanche la filosofia cattolica, a meno che non si renda conto che la sua parte fondamentale è la lode della Vita, la lode dell’Essere, la lode di Dio in quanto creatore del mondo».

Chesterton non si nasconde, anzi enfatizza, il fatto che l’impostazione tomista è oggi, dopo il trionfo di una visione pessimista e scettica, del tutto impopolare e persino difficile da comprendere. Proprio per questo egli cerca di rendere accessibili alcuni principio basilari del modo di ragionare di san Tommaso. Memorabili al riguardo le pagine in cui Chesterton spiega il significato della parola Ens, partendo dalla costatazione del prato verde fuori dalla finestra fino a giungere alla constatazione della diversità delle cose, alla loro non eternità (che non ne cancella l’essere), a Dio. «Il bambino è consapevole dell’Ens. Molto prima di sapere che l’erba è erba, e che lui è lui, sa che qualcosa è qualcosa. È su questa inezia che Tommaso costruisce tutto il lungo processo logico, che nessuno è mai riuscito a contestare, su cui fonda tutta la logica della cristianità».

Il ritratto chestertoniano non è però un trattato di filosofia in pillole. I tratti umani e spirituali di san Tommaso sono tracciati con estrema vivezza e con profonda arguzia sono contrapposti a tanti nostri modi di penare irragionevoli. Molti sono gli episodi narrati e uno merita di essere ricordato. Narrano i biografi del santo che una volta la voce di Dio chiese a san Tommaso una ricompensa per il suo grande lavoro. «Lui – annota Chesterton - non era una persona che non voleva nulla; era una persona enormemente interessata a tutto… Tra le migliaia di cose che avrebbero veramente soddisfatto il suo vasto e gagliardo appetito per l’immensità e la vastità dell’universo… Tommaso, con un’audacia quasi blasfema che è tutt’uno con l’umiltà della sua fede, disse: “Voglio avere Te”».

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sabato 24 gennaio 2009

Nuove tecnologie, nuove relazioni.Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER LA 43a GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI, 23.01.2009


Cari fratelli e sorelle,

in prossimità ormai della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, mi è caro rivolgermi a voi per esporvi alcune mie riflessioni sul tema scelto per quest’anno: Nuove tecnologie, nuove relazioni. Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia.
In effetti, le nuove tecnologie digitali stanno determinando cambiamenti fondamentali nei modelli di comunicazione e nei rapporti umani.

Questi cambiamenti sono particolarmente evidenti tra i giovani che sono cresciuti in stretto contatto con queste nuove tecniche di comunicazione e si sentono quindi a loro agio in un mondo digitale che spesso sembra invece estraneo a quanti di noi, adulti, hanno dovuto imparare a capire ed apprezzare le opportunità che esso offre per la comunicazione.

Nel messaggio di quest’anno, il mio pensiero va quindi in modo particolare a chi fa parte della cosiddetta generazione digitale: con loro vorrei condividere alcune idee sullo straordinario potenziale delle nuove tecnologie, se usate per favorire la comprensione e la solidarietà umana. Tali tecnologie sono un vero dono per l’umanità: dobbiamo perciò far sì che i vantaggi che esse offrono siano messi al servizio di tutti gli esseri umani e di tutte le comunità, soprattutto di chi è bisognoso e vulnerabile.

L’accessibilità di cellulari e computer, unita alla portata globale e alla capillarità di internet, ha creato una molteplicità di vie attraverso le quali è possibile inviare, in modo istantaneo, parole ed immagini ai più lontani ed isolati angoli del mondo: è, questa, chiaramente una possibilità impensabile per le precedenti generazioni.

I giovani, in particolare, hanno colto l’enorme potenziale dei nuovi media nel favorire la connessione, la comunicazione e la comprensione tra individui e comunità e li utilizzano per comunicare con i propri amici, per incontrarne di nuovi, per creare comunità e reti, per cercare informazioni e notizie, per condividere le proprie idee e opinioni.
Molti benefici derivano da questa nuova cultura della comunicazione: le famiglie possono restare in contatto anche se divise da enormi distanze, gli studenti e i ricercatori hanno un accesso più facile e immediato ai documenti, alle fonti e alle scoperte scientifiche e possono, pertanto, lavorare in équipe da luoghi diversi; inoltre la natura interattiva dei nuovi media facilita forme più dinamiche di apprendimento e di comunicazione, che contribuiscono al progresso sociale.

Sebbene sia motivo di meraviglia la velocità con cui le nuove tecnologie si sono evolute in termini di affidabilità e di efficienza, la loro popolarità tra gli utenti non dovrebbe sorprenderci, poiché esse rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre.

Questo desiderio di comunicazione e amicizia è radicato nella nostra stessa natura di esseri umani e non può essere adeguatamente compreso solo come risposta alle innovazioni tecnologiche. Alla luce del messaggio biblico, esso va letto piuttosto come riflesso della nostra partecipazione al comunicativo ed unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia. Quando sentiamo il bisogno di avvicinarci ad altre persone, quando vogliamo conoscerle meglio e farci conoscere, stiamo rispondendo alla chiamata di Dio – una chiamata che è impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, il Dio della comunicazione e della comunione.

Il desiderio di connessione e l’istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri. In realtà, quando ci apriamo agli altri, noi portiamo a compimento i nostri bisogni più profondi e diventiamo più pienamente umani. Amare è, infatti, ciò per cui siamo stati progettati dal Creatore. Naturalmente, non parlo di passeggere, superficiali relazioni; parlo del vero amore, che costituisce il centro dell’insegnamento morale di Gesù: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza" e "Amerai il tuo prossimo come te stesso" (cfr Mc 12,30-31). In questa luce, riflettendo sul significato delle nuove tecnologie, è importante considerare non solo la loro indubbia capacità di favorire il contatto tra le persone, ma anche la qualità dei contenuti che esse sono chiamate a mettere in circolazione. Desidero incoraggiare tutte le persone di buona volontà, attive nel mondo emergente della comunicazione digitale, perché si impegnino nel promuovere una cultura del rispetto, del dialogo, dell’amicizia.

Pertanto, coloro che operano nel settore della produzione e della diffusione di contenuti dei nuovi media non possono non sentirsi impegnati al rispetto della dignità e del valore della persona umana. Se le nuove tecnologie devono servire al bene dei singoli e della società, quanti ne usano devono evitare la condivisione di parole e immagini degradanti per l’essere umano, ed escludere quindi ciò che alimenta l’odio e l’intolleranza, svilisce la bellezza e l’intimità della sessualità umana, sfrutta i deboli e gli indifesi.

Le nuove tecnologie hanno anche aperto la strada al dialogo tra persone di differenti paesi, culture e religioni. La nuova arena digitale, il cosiddetto cyberspace, permette di incontrarsi e di conoscere i valori e le tradizioni degli altri. Simili incontri, tuttavia, per essere fecondi, richiedono forme oneste e corrette di espressione insieme ad un ascolto attento e rispettoso. Il dialogo deve essere radicato in una ricerca sincera e reciproca della verità, per realizzare la promozione dello sviluppo nella comprensione e nella tolleranza. La vita non è un semplice succedersi di fatti e di esperienze: è piuttosto ricerca del vero, del bene e del bello. Proprio per tale fine compiamo le nostre scelte, esercitiamo la nostra libertà e in questo, cioè nella verità, nel bene e nel bello, troviamo felicità e gioia. Occorre non lasciarsi ingannare da quanti cercano semplicemente dei consumatori in un mercato di possibilità indifferenziate, dove la scelta in se stessa diviene il bene, la novità si contrabbanda come bellezza, l’esperienza soggettiva soppianta la verità.

Il concetto di amicizia ha goduto di un rinnovato rilancio nel vocabolario delle reti sociali digitali emerse negli ultimi anni. Tale concetto è una delle più nobili conquiste della cultura umana. Nelle nostre amicizie e attraverso di esse cresciamo e ci sviluppiamo come esseri umani. Proprio per questo la vera amicizia è stata da sempre ritenuta una delle ricchezze più grandi di cui l’essere umano possa disporre. Per questo motivo occorre essere attenti a non banalizzare il concetto e l’esperienza dell’amicizia. Sarebbe triste se il nostro desiderio di sostenere e sviluppare on-line le amicizie si realizzasse a spese della disponibilità per la famiglia, per i vicini e per coloro che si incontrano nella realtà di ogni giorno, sul posto di lavoro, a scuola, nel tempo libero. Quando, infatti, il desiderio di connessione virtuale diventa ossessivo, la conseguenza è che la persona si isola, interrompendo la reale interazione sociale. Ciò finisce per disturbare anche i modelli di riposo, di silenzio e di riflessione necessari per un sano sviluppo umano.

L’amicizia è un grande bene umano, ma sarebbe svuotato del suo valore, se fosse considerato fine a se stesso. Gli amici devono sostenersi e incoraggiarsi l’un l’altro nello sviluppare i loro doni e talenti e nel metterli al servizio della comunità umana.
In questo contesto, è gratificante vedere l’emergere di nuove reti digitali che cercano di promuovere la solidarietà umana, la pace e la giustizia, i diritti umani e il rispetto per la vita e il bene della creazione. Queste reti possono facilitare forme di cooperazione tra popoli di diversi contesti geografici e culturali, consentendo loro di approfondire la comune umanità e il senso di corresponsabilità per il bene di tutti. Ci si deve tuttavia preoccupare di far sì che il mondo digitale, in cui tali reti possono essere stabilite, sia un mondo veramente accessibile a tutti. Sarebbe un grave danno per il futuro dell’umanità, se i nuovi strumenti della comunicazione, che permettono di condividere sapere e informazioni in maniera più rapida e efficace, non fossero resi accessibili a coloro che sono già economicamente e socialmente emarginati o se contribuissero solo a incrementare il divario che separa i poveri dalle nuove reti che si stanno sviluppando al servizio dell’informazione e della socializzazione umana.

Vorrei concludere questo messaggio rivolgendomi, in particolare, ai giovani cattolici, per esortarli a portare nel mondo digitale la testimonianza della loro fede.

Carissimi, sentitevi impegnati ad introdurre nella cultura di questo nuovo ambiente comunicativo e informativo i valori su cui poggia la vostra vita! Nei primi tempi della Chiesa, gli Apostoli e i loro discepoli hanno portato la Buona Novella di Gesù nel mondo greco romano: come allora l’evangelizzazione, per essere fruttuosa, richiese l’attenta comprensione della cultura e dei costumi di quei popoli pagani nell’intento di toccarne le menti e i cuori, così ora l’annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo. A voi, giovani, che quasi spontaneamente vi trovate in sintonia con questi nuovi mezzi di comunicazione, spetta in particolare il compito della evangelizzazione di questo "continente digitale". Sappiate farvi carico con entusiasmo dell’annuncio del Vangelo ai vostri coetanei! Voi conoscete le loro paure e le loro speranze, i loro entusiasmi e le loro delusioni: il dono più prezioso che ad essi potete fare è di condividere con loro la "buona novella" di un Dio che s’è fatto uomo, ha patito, è morto ed è risorto per salvare l’umanità. Il cuore umano anela ad un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi, dove si edifichi l’unità, dove la libertà trovi il proprio significato nella verità e dove l’identità di ciascuno sia realizzata in una comunione rispettosa. A queste attese la fede può dare risposta: siatene gli araldi! Il Papa vi è accanto con la sua preghiera e con la sua benedizione.

Dal Vaticano, 24 gennaio 2009

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

venerdì 23 gennaio 2009

MORALE/ Un futuro da incubo: se la natura umana viene rinnegata in nome dell’eugenetica “positiva”

Massimo Borghesi
martedì 23 dicembre 2008


La difesa della “natura” umana, richiesta da Benedetto XVI nel suo discorso del 22 dicembre, non è una posizione di retroguardia rispetto all’incalzare del progresso tecnico che pare, ogni giorno, abbattere e dissolvere confini che sembravano eterni. Si tratta di una posizione “progressista”, non maltusiana,che intercetta, al presente, talune delle voci più significative della cultura contemporanea. Valga per tutte la riflessione di Jürgen Habermas che, proprio in un testo del 2001, si poneva il problema de Il futuro della natura umana (Einaudi 2002). La pretesa della tecnica moderna di modificare la natura dell’uomo, intervenendo nel patrimonio genetico, lascia intravedere scenari inquietanti, creazioni di “chimere”. Le nanotecnologie immaginano fusioni produttive di uomo e macchina, l’ingegneria informatica disegna robot umanoidi destinati a sostituire gli uomini. Questo attacco concentrico all’idea di uomo, all’uomo così come è stato concepito fino ad oggi, tende, secondo Habermas a «modificare la nostra autocomprensione etica del genere fino al punto da coinvolgere la stessa coscienza morale, intaccando quei requisiti di naturalità in assenza dei quali non possiamo intenderci quali autori della nostra vita e membri giuridicamente equiparati della comunità morale». Per Habermas la disinvoltura con cui il naturalismo positivistico gioca con i mattoni della vita prelude ad un’idea selettiva che mina, alla radice, l’autonomia del soggetto e l’ordinamento democratico. Paradossalmente l’autottimizzazione genetica del genere umano potrebbe essere portata avanti in direzioni diverse. Secondo Allen Buchanan, citato da Habermas, «dobbiamo ammettere la possibilità che, a partire da un certo momento del futuro, diversi gruppi di esseri umani possano seguire, usando l’ingegneri genetica, strade evolutive divergenti. Se questo accadrà, ci saranno gruppi diversi di esseri, ciascuno con la sua propria “natura” che si relazionano l’un l’altro solo attraverso un comune antenato (la razza umana)».

Questo processo di diversificazione può essere iniziato da subito con un programma di eugenetica positiva, tesa a “migliorare” la specie. In tal modo le parti ricche del pianeta potranno, sin d’ora, avviare programmi di selezione dei migliori. Gli altri, gli abitanti delle zone povere, rimarrebbero allo stadio attuale della “natura”, retrocessi a sotto-uomini, individui del passato portatori di difetti e di malattie. A questo quadro, affatto pacificante, si aggiunga l’ipotesi della clonazione richiamata da Habermas con esemplificazioni tratte da Hans Jonas. Per essa un individuo futuro viene privato del suo “presente”, di uno sviluppo originale. Un altro (che non è Dio), decide per lui, in anticipo, la forma della sua personalità, lo priva della sua identità. Egli è il “doppione” di ciò che è già stato. In tutti questi esempi è evidente la svolta “antidemocratica” a cui porta la genetica “liberale”, le conseguenze maltusiane, selettive;quelle conseguenze che una sinistra “post-moderna”, dimentica della propria tradizione, non riesce più a riconoscere come patrimonio storico della destra. Il post-umanesimo, naturalisticamente declinato, non promette un futuro radioso ma un tempo di disuguaglianze e di lotta. Se la “natura” umana diviene un concetto mobile, modificabile – così come da tempo lascia intendere la teoria evoluzionistica – la stessa dottrina morale che legittima il quadro democratico, fondata su diritti personali e sull’uguaglianza, appare desueta. La tecnica mutando la forma dell’uomo, la sua natura, relativizza anche i valori morali che divengono relativi all’uomo così come lo conosciamo ora. L’uomo del futuro, che possiamo solo immaginare come “analogo” in qualche modo con quello di oggi, avrà valori diversi. La coscienza morale viene a dipendere dal progresso tecnologico. Quel progresso afferma, da ora, di essere in grado di sciogliere le differenze che hanno segnato la storia dell’umanità, quelle tra uomo e donna, tra uomo e animale, tra naturale ed artificiale. Il risultato è un “terzo genere”, un ibrido, una sorta di coincidentia oppositorum. Una rivoluzione che fa saltare tutte le categorie morali.

La spinta, apparentemente irresistibile, che muove la tecnica odierna è quindi la negazione della natura come ambito di forme immutabili. La natura è, al contrario, la “metamorfosi”, il continuo mutare delle forme ad opera di una tecnica che, come riconosce giustamente Emmanuele Severino, è ormai il surrogato della fede. Tecnica e nichilismo: è l’essenza del positivismo odierno. Non è esatto chiamarlo “naturalistico” poiché la ragione lungi dal conformarsi alla natura tende qui a rifiutarla. Essa riconosce solo quanto è sua “produzione”. La ragione puramente tecnica è una ragione senza “logos”, senza un ordine oggettivo del mondo. Donde la critica di Habermas, ultimo erede della Scuola di Francoforte, a questa “ragione strumentale”. Sulla sua linea si colloca il discorso di Benedetto XVI. Il recupero dell’idea di “natura” umana non è, oggi, un’idea fuori moda. È un punto di difesa dell’umano a fronte di un processo di mercificazione dell’umano che non conosce confini.
da: ilsussidiario.net

giovedì 22 gennaio 2009

Un metodo per la pace

Roberto Fontolan giovedì 22 gennaio 2009


Ma quante saranno le case distrutte a Gaza? Quattromila, seimila, diecimila, venticinquemila con le danneggiate? E quanti miliardi di dollari servono per la ricostruzione? Chi li darà, chi li gestirà?

Una fretta indiavolata di “voltare pagina”, di chiudere il libro della guerra con le sue brutture (in proposito, resta difficile da digerire la frase di una ministra israeliana peraltro stimabile sulle morti dei civili a Gaza come “frutto delle circostanze” - occorre sperare in una cattiva traduzione o in una maliziosa citazione) per aprire il rassicurante libro della “ricostruzione”, dove in fondo si tratta semplicemente di soldi, ha dominato il clima generale dopo l’annuncio della tregua unilaterale decisa da Israele.
In coda a ciò, da registrare nella categoria “commedia” le dichiarazioni dei leader di Hamas che danno sette giorni di tempo all’esercito nemico per uscirsene fuori da Gaza; e nella categoria “tragedia” la ricomparsa dei miliziani di Hamas nelle stesse strade di prima.

Comunque, siamo al tema cosa fare ora. Presidiare i valichi di Rafah con i carabinieri, ottenere garanzie dall’Egitto, riammettere Al Fatah a Gaza, indire un nuovo vertice tra gli arabi sempre più spaccati (la “nostra amica” Libia ha partecipato a quello pro Hamas a Doha), chiedere a Israele una proposta nuova, aspettare Obama - ed è ciò che in realtà accadrà.

Ma niente di tutto ciò, incluso Obama, basterà a riaprire davvero il libro che conta, quello della pace, o almeno a congelare positivamente quella che l’Economist ha definito “la guerra dei cent’anni”. Pensiamoci seriamente, sono quattro o cinque generazioni umane. Una interminabile convivenza con la morte, l’esilio, il terrore, l’odio, la disperazione.

Non sarà un cerotto, anche se costosissimo, messo sulla ferita di Gaza a consentire di incamminarsi verso la meta cui tutti agognano (o quasi: restano fuori quelli che hanno trasformato una cultura vitale in cultura della morte e della sventura, come scriveva il libanese Samir Kassir), una meta così visibile eppure così irraggiungibile. Anche la diplomazia mondiale dovrebbe riconoscere che le soluzioni politiche sono la conseguenza di atti della volontà e della libertà.

Le forze che cambiano la storia - affermava don Giussani - sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo. In queste parole, che solo i cinici e i superficiali possono tacciare di irenismo o ingenuità, c’è un metodo - ipotizziamo: il metodo - per vivere responsabilmente il proprio cammino nel mondo e per costruire soluzioni sociali e politiche valide per la storia, o anche contro la storia, se essa appare come un’inesorabile alienante carneficina.

Un metodo all’altezza delle struggenti parole usate da David Grossmann (in un articolo comparso martedi su Repubblica) in cui la richiesta di un cambiamento della politica assomiglia a una richiesta di “conversione” dell’origine della politica. Si può fare? Si può vedere questo metodo all’opera? Agisce realmente nella storia? Si riesce a verificare che non si tratti di un patetico sforzo morale? C’è qualcuno in grado di dimostrare che si tratta di un principio generatore di sviluppo sociale, di integrazione umana, di soluzioni politiche e persino diplomatiche?

Sì, possiamo rispondere di sì a tutto. Con la drammatica consapevolezza che non parliamo di una ricetta né di una soluzione, ma di un metodo che coincide con la vita stessa e che nella vita trova il suo alimento, e qualche volta il suo prezzo.

È l’avventura di Marcos e Cleuza Zerbini con i centomila senza terra e senza università di San Paolo del Brasile. È quella di padre Aldo Trento e del suo popolo di Asuncion. E di Rose Busingye e della sua baraccopoli di Kampala (da queste storie viene fuori tra l’altro una certa questione sul Terzo Mondo che merita di essere affrontata). E di tanti altri dovunque nel mondo, inclusa la Terrasanta-Israele-Palestina.

Ci inganniamo se pensiamo a queste realtà come ad “esempi” dovuti all’eccezionalità delle persone o delle condizioni. È il metodo ad essere eccezionale.

mercoledì 21 gennaio 2009

La vera laicità non teme la libertà religiosa


di Angelo Scola


Nel riflettere sul rapporto tra laicità e libertà religiosa nell'odierna società globalizzata occorre partire da due dati che sono sotto gli occhi di tutti.
Da un lato, la politica, le pubbliche istituzioni e lo Stato sono ormai investiti del potere di decidere su temi che, sotto la voce "bioetica", toccano i fondamenti stessi dell'esistenza umana: la sessualità, la vita e la morte. A questo fatto se ne accompagna un altro. Contrariamente alle profezie diffuse fino agli anni Ottanta - che pronosticavano la fine del sacro e la nascita di un mondo puramente mondano - le concezioni etiche e religiose, che poggiano su principi ritenuti irrinunciabili, sono più che mai presenti e attive sulla scena pubblica.
D'altro canto, l'odierno processo di globalizzazione e i continui flussi migratori che attraversano il pianeta mettono in contatto masse di persone portatrici di culture, tradizioni e religioni differenti. Siamo sempre più coinvolti in quello che ho chiamato "meticciato di civiltà e culture". Con questa formula non intendo dire che il meticciato debba essere perseguito come un ideale positivo. Voglio semplicemente descrivere un processo che, come tutti i processi storici, non chiede il permesso di accadere, ma ci domanda la responsabilità di orientarlo alla vita buona, personale e comunitaria. Se mantenuta in questa precisa prospettiva - quella cioè del processo - la categoria di meticciato può, a mio avviso, creare il contesto adeguato per meglio comprendere i concetti di "tolleranza, integrazione e reciprocità" che da soli non bastano più per spiegare la complessità dei cambiamenti legati al tumultuoso mescolamento di popoli in atto. La risposta al fenomeno non si trova nel multiculturalismo che ha la pretesa di mettere nazionalità, culture e religioni le une affianco alle altre come tante identità isolate e giustapposte. Né, d'altra parte, i vari soggetti identitari, che convivono nello spazio pubblico di una società plurale, possono fondersi - né è bene che lo facciano - in una unica, pericolosa nuova identità sincretistica. Per affrontare questo imponente processo di mescolamento di genti è necessario che tutti i soggetti personali e comunitari contribuiscano ad una vita buona, mediante la reciproca comunicazione e la reciproca testimonianza pubblica dei beni, anche religiosi, di cui sono portatori, nel rispetto della tradizione ma anche con fiducia nella comune appartenenza alla famiglia umana.
Questo cambierà la civiltà europea secondo modalità di cui non possiamo stabilire l'esito a priori, ma se affronteremo con prudente perspicacia il processo di meticciato di culture, il cambiamento sarà per il bene comune. Saprà innestare il nuovo sull'antico, come è già avvenuto sia pur in proporzioni ben diverse, in altre epoche della storia. All'origine dell'Europa stessa troviamo l'archetipo di Enea, con Anchise sulla spalle e Julo per mano, simbolo dell'innesto sul suolo italico della civiltà troiana.
Bioetica da una parte e meticciato di civiltà dall'altra documentano che religioni e mondovisioni hanno un'inevitabile rilevanza pubblica. Mettono così in risalto i limiti di una concezione vecchia della laicità dello spazio pubblico e con essa la riflessione filosofica di matrice illuminista, da cui quella concezione è nata e in cui si è approfondita. Essa poggia su un'idea equivoca di neutralità. Infatti, soprattutto in Italia, neutralità non ha tanto significato che lo Stato non deve preferire nessuna particolare visione religiosa o di etica sostantiva del mondo, quanto piuttosto che esso deve neutralizzare ogni presenza in ambito pubblico. È inoltre importante rilevare che nel suo progetto di regolazione del pluralismo mediante la neutralità, il pensiero liberale si fonda su un paradosso ben illustrato da Mario Toso, rettore della Pontificia università salesiana: "Per un verso, infatti, esso si fa araldo di una concezione dei principi sociali e dei diritti umani capace di trascendere e di abbracciare le differenze culturali, per un altro non può non riconoscere la dipendenza di tale concezione da una determinata tradizione storica". L'illusoria neutralità nel concepire lo spazio pubblico e il riconoscimento dell'inevitabile connessione dell'etica pubblica con i valori espressi dalle singole tradizioni storiche hanno portato alcuni pensatori, quali Habermas, Böckenförde ed in parte Rawls, a formulare un nuovo concetto di laicità e a riconsiderare il ruolo delle tradizioni religiose e delle mondovisioni nel sociale. Ma, se il dibattito internazionale è, almeno in parte, avviato a riconoscere i limiti mostrati dalle vecchie proposte di laicità, devo dire che la pubblicistica italiana sembra intestardirsi su schemi che continuano a presentare la laicità come opposizione al religioso e, non di rado, al fatto cristiano.
Considerate nell'ottica di una corretta interpretazione culturale le religioni rivelano la fallacia del modello di laicità che pretende di offrire loro una plausibilità limitata alla sfera privata della vita, neutralizzandole nello spazio pubblico. Una libertà religiosa rettamente intesa scardina inevitabilmente il drastico quanto irrealistico dualismo pubblico-privato tramandatoci dalla tradizione illuministico-liberale. Con questo intendo dire che alle due sfere pubblico-privato vanno sostituite le due dimensioni di individuo-comunità o persona-società. Jacques Maritain le ha approfondite sul piano della filosofia politica. Gaston Fessard e Hans Urs von Balthasar le hanno scandagliate nel loro valore antropologico che fa da fondamento a quello socio-politico. Ogni persona nasce e vive in relazione e ogni insieme comunitario dev'essere per il compimento della persona. Il rapporto figlio-genitori-fratelli-nonni, e oggi sempre più spesso anche bisnonni, è la forma più elementare di questa insuperabile polarità tra persona e comunità. In ambito socio-politico l'equivoco di considerare pubblico e privato come ambiti separati dell'esistenza nasce dalla pretesa di situare da una parte lo Stato come unico interprete della vita pubblica, e dall'altra i singoli individui con tutti i loro interessi privati, in cui vengono ricomprese le religioni. Invece, come ben descritto dallo storico René Rémond: "Contrariamente a una rappresentazione riduttiva, la relazione tra religione e società non si svolge tutta in un faccia a faccia tra il politico e il religioso. La relazione è triangolare: accanto allo Stato e alla religione, c'è la società che si definisce oggi civile". Le religioni non devono esprimersi nella società civile in forza di privilegi concessi dallo Stato, ma debbono operare soprattutto attraverso i corpi intermedi - la famiglia, la scuola, il quartiere, le associazioni - che sono i luoghi naturalmente deputati ad ospitare il loro apporto alla società plurale.
D'altra parte, la tensione tra persona e comunità non è estranea né all'esperienza elementare né a quella religiosa dell'uomo. I cristiani, ma anche gli ebrei e i musulmani, sperimentano infatti che la loro fede domanda da un lato il coinvolgimento della loro libertà personale, e dall'altro la loro incorporazione all'interno di un organismo comunitario, la Chiesa, il popolo, la umma. Ma, come ben sanno i credenti di queste religioni e, in modo particolare i cristiani, la libertà non viene mutilata bensì esaltata dall'appartenenza ad un corpo, che valorizza la decisività della relazione per il compimento della persona. Come ebbe a scrivere Henri de Lubac nella sua opera magistrale Catholicisme: "Il cattolico non è solo il soggetto (di un potere), egli è membro di un corpo (...) la sua sottomissione non è una dimissione. La sua ortodossia non è un conformismo ma una fedeltà".
La possibilità, offerta dal cristianesimo, ma suggerita anche da altre religioni, di valorizzare la polarità costitutiva individuo-società e persona-comunità non può non avere delle ripercussioni positive sulla sfera pubblica e sul rapporto tra Stato e religioni.
A mio avviso, in questo particolare e delicato frangente storico sono soprattutto due le sfere in cui la libertà religiosa, intesa come promozione effettiva della partecipazione delle religioni al dibattito pubblico, deve essere pienamente attuata: l'educazione e l'economia.
Per limitarmi al nostro Paese ho parlato in altra sede dell'urgenza di superare, assieme all'identificazione tra pubblico e statale, il "mito della scuola di Stato unica" così da consentire a tutti i soggetti presenti nella società civile, che ne sono capaci, di contribuire all'impresa educativa. Con questo non intendo perorare direttamente la pur importante causa della scuola cattolica. Voglio invece dire che la scuola e le università, in omaggio a un ben inteso principio di sussidiarietà, possono trovare nelle famiglie ed in altri corpi sociali intermedi - tra cui anche i soggetti religiosi - attori capaci, a precise condizioni, di far fronte alla grave emergenza educativa di cui ha parlato Benedetto XVI. Con una formula un po' secca dico che lo Stato, portando fino in fondo i principi dell'autonomia e della parità scolastica, deve lasciare alla società civile la gestione della scuola per limitarsi a governarla.
Quanto all'economia, anche in questo ambito le religioni possono contribuire al dibattito del tempo presente. Fino a oggi, nel campo dell'economia e della scienza economica, si sono confrontati modelli esplicativi della realtà che, semplificando, privilegiavano vuoi il ruolo dell'individuo e della sua libera iniziativa (liberismo), vuoi l'organizzazione pianificata della società nel suo complesso (le varie forme di statalismo).
Entrambe queste visioni finiscono per dimenticare la persona riducendola al ruolo di produttore-consumatore. Le religioni possono correggere questo difetto offrendo una concezione integrale dell'uomo, rispettosa delle dimensioni che ne costituiscono l'esperienza elementare (affetti-lavoro-riposo). Preziosa in quest'ottica è la dottrina sociale della Chiesa. Essa non nasce infatti come ricetta astratta da applicare per creare una società cristiana, ma si sviluppa a partire dall'esperienza concreta di comunità cristiane che, guidate dalla luce della Parola di Dio, vivono il loro impegno con la realtà umana e sociale propria di tutti gli uomini. In quanto tale essa può essere proposta come valida per tutti.
Se è dovere dello Stato quello di rispettare e promuovere l'espressione pubblica delle esperienze religiose, quale criterio deve orientare l'azione dei cristiani, e in generale dei credenti delle altre religioni, in seno alle nostre società? Nel rispondere a questa domanda ritengo vada segnalato un duplice rischio. Da un lato quello di perseguire l'egemonia. Essa utilizza l'ideale, e la cultura che ne deriva, a vantaggio del potere di chi li propugna. Dall'altra la tendenza a non esporsi di persona tipica delle nostre società europee un po' intorpidite. La via maestra per il cristiano è quella della testimonianza intesa però in senso pieno, quello per cui Gesù, l'amore oggettivo ed effettivo che dà, innocente, la Sua vita per la salvezza degli uomini, è chiamato nella Scrittura il "testimone fedele". In risposta all'egemonia, la testimonianza ci ricorda che la verità va sempre proposta e mai imposta; in risposta alla passiva ignavia, la testimonianza ci spinge ad offrire ai fratelli uomini di altre religioni e mondovisioni la fede cristiana, passando per l'autoesposizione e il reciproco coinvolgimento.
Il testimone - come ben ci indicano i martiri oggi ancora assai numerosi - non lede il diritto di nessuno.
Così ad esempio, per tornare al tema della laicità e della libertà religiosa, se io giudico sana una società basata sulla famiglia concepita come unione stabile tra l'uomo e la donna aperta alla vita, proporrò nel pubblico agone questa visione della società, accettando lealmente il confronto con altre visioni, nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti e utilizzando tutte le procedure costituzionalmente previste. Se mi sottraessi a una doverosa e propositiva testimonianza di questo genere, priverei la società civile di un essenziale contributo.
Questa impostazione, che vale anche per gli eventi della nascita e della morte così come per tutti i diritti e doveri fondamentali, ha un peso ancor più rilevante in un'epoca come la nostra di incontro e di mescolamento di popoli e culture di cui ho parlato in apertura del mio intervento.
A tal proposito vorrei dire che la città di Genova e quella di Venezia possono svolgere un ruolo fondamentale. Sappiamo che le loro storie sono segnate dall'incontro con l'oriente e con il mondo islamico. Certo, in passato quell'incontro era proprio di un'élite ristretta e non riguardava la stragrande maggioranza della popolazione. Oggi invece chiunque può incontrare chiunque, senza filtri né reti di protezione. E questo è potenzialmente un bene perché libera forze impensate, aprendo al contatto con realtà che finora sono vissute ignorandosi a vicenda. Il compito che ci attende è senza dubbio difficile, non sarà privo di grandi prove e di non poche sofferenze, ma la nostra fiducia deve poggiare sulla consapevolezza che la storia in cui siamo immersi non è un'avventura senza senso, né è affidata alle sole nostre povere forze. Essa è ultimamente guidata dal Padre di Colui che ci ha posto nella condizione di essere uomini nuovi. E dove c'è l'uomo nuovo vale ciò che Paolo richiama ai Colossesi: "Qui non vi è greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto in tutti" (3, 11).



(©L'Osservatore Romano - 22 gennaio 2009)

domenica 18 gennaio 2009

Europa - Perché non possiamo non dirci cristiani


di Carlo Caffarra
Ogni volta che leggo un libro, alla fine mi faccio sempre una domanda: a quale interrogativo fondamentale esso intende rispondere? Quale problema risolvere? Se non vado errato, la domanda fondamentale del libro di Marcello Pera Perché dobbiamo dirci cristiani è la seguente: come impedire che crolli la 'casa' – l’ethos direbbero i greci – che l’Occidente ha costruito come dimora degna dell’uomo?
Come ridare stabilità ad un edificio che sta mostrando crepe talmente pericolose da preludere al crollo?
È opportuno chiarire che cosa denota questa metafora della casa/edificio. A diversità degli altri animali, l’uomo si colloca dentro al mondo in cui vive non solo in modo da assicurarsi la sopravvivenza individuale e specifica. Egli desidera naturalmente una collocazione buona e vera, non solo utile e piacevole: desidera un modo di essere e un modo di stare nella realtà che sia adeguato alla sua natura di persona. Per esemplificare: non un qualsiasi modo di vivere in società, ma il modo giusto. Tutto questo intendo quando parlo di 'casa', di 'edificio' degno dell’uomo.
Ovviamente la domanda di fondo genera logicamente due sottodomande: a/ di che dimora si sta parlando? b/ perché si afferma che essa è a rischio di crollo?
La dimora è il liberalismo, inteso e come dottrina antropologica e come dottrina etica e come dottrina politica. La domanda di fondo quindi si precisa nel modo seguente: come impedire che l’architettura liberale secondo cui l’uomo occidentale ha costruito la sua dimora sia demolita? Le ragioni delle gravi difficoltà sia inerenti alla teoria generale del liberalismo sia inerenti ai due casi su indicati sono tutte riconducibili ad una sola, il divorzio dal cristianesimo. La vera causa per cui la dimora che l’uomo europeo ha costruito per vivere una buona vita sta crollando, è che da essa è stato espulso il cristianesimo.
È stato espulso perché estraneo e perfino pericoloso per la stabilità della casa? Così si è pensato, e si pensa da parte di molti. In realtà, si può dimostrare che l’errore è stato precisamente di pensare questo. Al contrario l’espulsione del cristianesimo non è nella logica interna del liberalismo, ma una sua deviazione. Deviazione che precisamente ha portato alle difficoltà ed aporie attuali.
Non si capisce tutto ciò se non si ha chiaro il contenuto dei termini: cristianesimo e liberalismo.
Per capire il significato del primo termine è fondamentale la distinzione fra cristiani per fede e cristiani per cultura. La cosa va attentamente spiegata. La vera identità di Gesù di Nazareth può essere riconosciuta solo mediante la fede, e la sua presenza nella storia avviene mediante la fede dei suoi discepoli.
Ma è ugualmente vero che la fede in Gesù genera uno stile ed una forma stabile di vita, un modo proprio di vivere l’esperienza umana nelle sue fondamentali dimensioni, un modo proprio di collocarsi nella realtà.
In una parola: la fede nel rigoroso significato teologico genera una cultura.
Orbene nei confronti di una cultura generata dalla fede possiamo dire che il suo riconoscimento, la rivelazione del suo dato obiettivo, non esige la fede in Cristo. Non solo, ma più profondamente: nella cultura generata dalla fede può ritrovarsi anche il non-credente, in quanto essa corrisponde alle esigenze della ragione. Certamente è necessario non rifiutarsi, per questo, ad un uso completo della ragione; non censurare la sua esigenza e la sua domanda di una risposta esplicativa dell’intero dell’essere.
Il secondo termine, liberalismo, non è oggi di facile definizione. Liberalismo denota una visione dell’uomo che ruota attorno ad un nucleo. «Si tratta dell’idea dei diritti naturali (o altrimenti chiamati 'umani', 'fondamentali', 'essenziali', 'di base', eccetera): tutti gli uomini sono liberi e uguali per natura e le loro libertà fondamentali sono antecedenti allo Stato e non coercibili dallo Stato». Dunque, la caratteristica definitoria dell’antropologia liberale è l’affermazione del primato ontologico ed assiologico della singola persona umana, primato che prende corpo nell’ascrizione ad ogni uomo come tale di certe libertà-diritti fondamentali.
Non è ora il caso si esplicitare tutte le implicazioni intrinseche ad una tale ascrizione.
Mi limito ad una che è di importanza fondamentale. Humanitas nel vocabolario liberale non è un mero flatus vocis: è un universale in re. Denota una reale partecipazione di ogni singola persona alla stessa natura umana: esiste quindi una natura della persona umana.
Chiariti i due termini del confronto, possiamo prendere coscienza più chiara della tesi centrale di Marcello Pera: poiché esiste un legame storico e concettuale fra liberalismo e cristianesimo, aver reciso questo legame ha portato il liberalismo dentro una crisi senza uscite; ricostruire questo legame è ciò che oggi è richiesto se l’Europa non vuole dilapidare la sua identità propria.
Mi pare sia difficile contestare la tesi che è stata la Rivelazione cristiana a condurre l’uomo alla consapevolezza della sua dignità di persona.
Dignità di persona che implica una presa di posizione quanto allo statuto ontologico della persona. Tommaso scrive «persona est id quod est perfectissimun in ratione entis». Dignità di persona che implica un giudizio di valore circa la persona stessa: non esiste realtà che valga più che una persona [«che importa all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso«]. Coglie il vero Kierkegaard quando dice che la categoria del singolo è centrale nel cristianesimo, e che persa questa il cristianesimo è finito.

Non c’è dubbio che è possibile teoreticamente un’argomentazione puramente razionale per fondare quella verità circa l’uomo storicamente fatta conoscere all’uomo dalla rivelazione cristiana. Questa operazione teoretica e pratica deve essere compiuta con grande vigilanza pratica e teorica. La mancanza di una tale vigilanza ci ha condotti all’attuale situazione. Quando i Padri del liberalismo classico costruivano il nucleo della dottrina come operazione ragionevole semplicemente, essi lavorano in un contesto cristiano, ed in fondo traducevano nel linguaggio della ragione quanto la fede cristiana aveva insegnato all’Europa.
Il passaggio in aliud genus è stato quando la costruzione razionale non è più stata fatta «a prescindere dalla fede cristiana», ma «contro la fede cristiana». L’espressione più inequivocabile di questa ambiguità è il pensiero di Croce: il passaggio in aliud genus è il necessario sviluppo dello Spirito dentro al Storia oppure è un tagliare le radici alla pianta? Pera pensa che l’avere intenzionalmente de-contestualizzato il liberalismo dal contesto della sua scoperta, è stata la sua condanna a morte.
Ma ciò che mi ha colpito maggiormente è stata la dimostrazione della tesi centrale operata attraverso la sua verifica in tre ambiti oggi di urgente attualità: il rapporto relativismo­democrazia liberale; la categoria del «patriottismo costituzionale» o dell’autosufficienza del liberalismo politico; la costituzione di un’etica pubblica.
Partiamo dalla cosiddetta autosufficienza del liberalismo politico, così come viene pensata soprattutto da Jürgen Habermas. Autosufficienza significa che lo Stato, o altri organismi politici sovra-statali, dopo la completa positivizzazione del diritto, si giustifica non in forza di presupposti metafisici o religiosi [come era il ricorso alle dottrine classiche del diritto naturale], ma solo in forza di un consenso di fondo dei cittadini, preferibilmente formalizzato [si veda a pag. 78]. In altre parole, come scrive Jürgen Habermas: «Ciò che lega insieme una nazione di cittadini – a differenza di una nazione di connazionali in senso etnico – non è una qualche forma di sostrato primordiale, bensì il contesto intersoggettivamente condiviso di un’intesa possibile».
Due sono dunque i presupposti dell’auto­sufficienza. Primo: lo Stato secolarizzato e post-metafisico non ha bisogno di presupposti esterni per mantenersi, né ha bisogno di ricorrere a tradizioni diverse dalle proprie per assicurarsi la lealtà dei cittadini. Esso basta a se stesso. Secondo: il rapporto politico è esclusivamente un rapporto giuridico in una perfetta corrispondenza fra costituzione e leggi ordinarie. A questo punto si capisce molto bene che ispirati a questa teoria, i Padri attuali costituenti dell’Europa unita abbiamo rifiutato qualsiasi riferimento alle radici greche, latine, giudeo-cristiane. Inoltre si capisce bene come l’ingresso della Turchia nell’Unione europea non costituisca nessun problema.
Come scrive Pera qui si «promette di dare all’Europa l’identità e con essa la nazione che le manca per unificarsi, senza attingere a fonti diverse da quelle strettamente politiche». Come è noto, il progetto è fallito. Per quale ragione?
L’autore parla giustamente di una grave «lacuna etica» in questa costruzione. Mi fermo un poco su questo punto nodale, partendo da un testo di Leopardi.
« S
e l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale non esiste o non nasce per sé, nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un’azione o un’omissione sia giusta né ingiusta, buona né cattiva. Perocchè non vi può esser niuna ragione per la quale sia giusto né ingiusto, buono né cattivo, l’ubbedire a qualsivoglia legge, e niun principio vi può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a chi che sia» [ Zibaldone 3349­3350].
Il testo leopardiano pone la domanda di fondo: esiste qualcosa di ingiusto in sé e per sé e che non potrà mai essere giustificato da nessuna procedura legittima? In altre parole: esiste una verità circa il bene dell’uomo indipendentemente dai risultati dell’argomentazione, discussione e deliberazione pubblica? Esiste e non può che essere il riconoscimento di ciascuno da parte di ciascuno dell’uguale dignità di persona. Nel momento in cui affermo che non c’è bisogno di alcun diritto naturale oggettivo, ma che la procedura democratica è l’unica fons essendi della legittimità, delle due l’una. O penso questa procedura come scontro di interessi opposti la cui unica soluzione è l’imposizione del più forte o penso questa procedura come il modo degno dell’uomo per trovare quella soluzione in cui possa riconoscersi la ragionevolezza di ognuno.
Nel primo caso esco per definizione dalla società liberale; nel secondo caso resto nella società liberale ma perché presuppongo e la uguale dignità di ogni persona e il possesso da parte di ciascuno della stessa ragionevolezza o natura ragionevole. Questa è l’idea tommasiana di legge e diritto naturale.
Jürgen Habermas è stato costretto a giungere a queste condizioni, affermando che la legittimazione di una carta costituzionale da parte del popolo non può limitarsi al computo aritmetico di maggioranze-minoranze. Essa deve fondarsi su una argomentazione ragionevole 'dotata di sensibilità alla verità'. Non è difficile concludere allora che i partiti politici non possono assicurare la presenza di una tale sensibilità da sé soli, essendo per loro stessa natura preoccupati prevalentemente di interessi di parte.
Sempre Habermas nella sua opera Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale
esclude che questioni di genetica umana possano essere risolte con procedure democratiche.
La verifica di queste tesi generali possiamo averla quando si affronta il tema di un’etica pubblica e tema collegato del relativismo, che genera il multiculturalismo.
Mi limito ad una sola riflessione. Negata che esista una verità circa il bene dell’uomo o – il che coincide – che esista una natura umana ragionevole, i diritti fondamentali dell’uomo vengono pensati e praticati come ciò che il singolo individuo preferisce per sé, et de gustibus non est disputandum.
Ciò ha una conseguenza devastante sull’idea di legge civile e sul compito del legislatore. La nuova idea è che lo Stato e la legge non devono vietare ciò che l’individuo preferisce. E con ciò la coesione sociale è insidiata alla sua origine stessa. La soluzione del problema non è il ricorso al principio «se tu non vuoi, perché io non posso?», col varo cioè di leggi, né impositive né coercitive, ma permissive. Il non volere colmare la lacuna etica, e un’autosufficienza liberale non può farlo senza rinunciare al principio dell’autolegislazione civile, porta alla disgregazione delle nostre società occidentali. L’aver sostituito la ragione pratica colla ragione comunicativa ha cambiato sostanzialmente tutto il discorso etico pubblico. Secondo Pera c’è una sola via di uscita da questa crisi: il ritorno al contesto di scoperta del liberalismo, alla sua radice, al cristianesimo.
Sono d’accordo, pur tenendo conto di ciò che dirò nella prima osservazione finale. Quale è la ragione ultima dell’accordo? Lo dico schematicamente.
Esistono due sistemi di riferimento quando pensiamo e pratichiamo la nostra vita associata. Chiamo il primo, sistema di riferimento il prossimo; chiamo il secondo, sistema di riferimento membro della comunità. Il primo connota l’interrelazione tra tutti gli uomini sul principio di umanità; il secondo connota l’interrelazione fra alcuni uomini sul principio di una qualità inerente all’umanità.
Il primo trascende il secondo, ne è superiore, e rende ragione fino in fondo di ciò che è contenuto in qualsiasi sistema del tipo 'membro della comunità'.
È precisamente questo che Gesù ha insegnato nella parabola del samaritano ed il senso ultimo del comandamento dell’amore. Paolo ne ha fatto uno dei punti centrali: non è più necessario essere «membro di comunità» per essere redenti. In Cristo non esiste più né gentile né ebreo, né greco né barbaro, né schiavo né libero, né uomo né donna.
Il liberalismo ha elaborato una dottrina politica sulla base di questa verità cristiana, affinché nella convivenza e nella cooperazione umana a vari livelli e nei vari legami, il «sistema di riferimento il prossimo» fosse quello decisivo: ogni uomo in forza della sua stessa umanità ha dignità uguale ad ogni uomo.
Due osservazioni finali. La prima riprende la distinzione «cristiani per cultura»-«cristiani per fede»; la seconda riguarda la lettera di Benedetto XVI premessa al libro.
La prima osservazione è che la presenza di Cristo dentro a una cultura è assicurata esclusivamente dalla fede dei suoi discepoli, la quale non è destinata a rimanere confinata nell’intimo della coscienza del singolo né a supposte comunità di discepoli separate dal mondo. Essa, la fede dei discepoli, deve imprimere nel mondo e nel vissuto umano la forma Christi, di cui solo la fede è trasmettrice.
La possibilità dell’esistenza di «cristiani per cultura» è assicurata esclusivamente dall’esistenza di «cristiani per fede». Ne deriva che la forma Christi in una cultura declina, quando declina la fede dei discepoli del Signore, dalla quale quella «forma» è mediata.
Viene allora da chiedersi: il distacco dell’edificio culturale dal suo stile cristiano è dovuto anche [o soprattutto?] dal declino della fede nei cristiani europei? Dall’indebolirsi della confessione della fede nella Chiesa in Europa?
La seconda osservazione riguarda la lettera di Benedetto XVI a Pera e posta all’inizio del volume citato. È un fatto troppo nuovo per essere trascurato. La lettera fa cinque affermazioni che è agevole individuare, e nelle quali secondo il Pontefice consiste la sostanza del libro. A me sembra che tutte e cinque si pongono senza difficoltà dentro al pensiero di Joseph Ratzinger e al Magistero di Benedetto XVI. Ma data la chiarezza icastica con cui sono espresse, la lettera è un notevole contributo per uscire dalla confusione in cui non raramente versa il dibattito in corso fra cristianesimo e mondo contemporaneo. Mi limito dunque a due osservazioni marginali.
Come Benedetto XVI ha richiamato varie volte, un dialogo interreligioso vero e proprio è possibile e doveroso solo fra cristiani ed ebrei.
Difficile, certo, ma imprescindibile per chi voglia essere veramente discepolo del Signore.
Infine, è davvero necessario ed urgente uscire dalla crisi in cui versa oggi l’etica pubblica. Non si può continuare a vivere in questa situazione: si rischia troppo. L’etica pubblica liberale esige una concezione sostanziale di vita buona, e questa è congeniale a quella cristiana.

sabato 17 gennaio 2009

SUI BUS GENOVESI NIENTE PUBBLICITÀ

L’ELOGIO DI QUEGLI AUTISTI.
CONTRO LA BANALITÀ
DAVIDE RONDONI
Non credo gli autisti dei bus di Geno­va siano tutti cresciuti dalle Orsoli­ne o che ogni domenica frequentino de­voti il collegio dei Gesuiti dove hanno stu­diato da ragazzi. Non credo nemmeno che abbiano tutti una incrollabile fede nella Chiesa una, santa e apostolica. Non mi pare che girino con una divisa da cro­ciati mentre sono alla guida dei loro mez­zi nel traffico di quella bellissima e dura città, nella luce bianca che viene dal ma­re e dal cielo aperto di Liguria. Probabil­mente tra loro c’è chi ha molta fede, chi ne ha così così, e chi forse non ne ha, o sta cercando. La decisione di rifiutarsi di girare con quei manifesti contro Dio sui fianchi delle vetture non credo l’abbiano presa alla fine di una lunga riunione do­ve si sono affrontate dotte questioni teo­logiche o stabiliti sottili raffronti tra le dot­trine di sant’Anselmo e di san Tommaso. Insomma, di fronte alla banalità di quel­la iniziativa credo che abbia prevalso il buon senso, o meglio il senso della di­gnità.
Perché pensare di liquidare in modo co­sì banale il problema di Dio con una pub­blicità è un’offesa alla intelligenza prima ancora che alla fede. La sedicente unio­ne di atei razionalisti è stata ridicolizzata nella sua saccente­ria dal semplice buon senso di gen­te normale, che la­vora tutti i giorni, che sa cosa è lavo­rare, amare, soffrire e magari farsi do­mande nel silenzio della coscienza o di fronte ai propri figli sul destino e sul senso delle cose.
Un gruppo di auti­sti, non una facoltà di dottori della Chiesa. Perché basta, per così dire, esse­re uomini per capire la violenza stupida di quel messaggio. Dove la violenza di of­fendere la serietà di una questione così importante per i singoli e per la storia del­l’umanità è pari solo alla stupidità di chi pensa di offrire riposte banali riducibili a slogan. Non c’è da essere per forza dei cri­stiani, non c’è da essere dei credenti per misurare la miseria di quella iniziativa. C’è solo da avere un senso di dignità. Per­ché a furia di banalizzare le cose, si fa cre­scere solo la banalità non si porta chia­rezza sulle cose. E qualsiasi padre di fa­miglia, qualsiasi uomo o donna a cui scor­re sangue nelle vene sa che Dio è una fac­cenda seria. Comunque la si pensi. Co­munque si vedano le cose. Anzi, è pro­prio una di quelle faccende dalle quali si capisce anche la stessa serietà e impor­tanza della persona umana. Insomma, proprio perché capace di porsi seria­mente questioni come il problema di Dio, l’uomo dimostra di essere una realtà im­mensamente grande e piena di dignità. Lo aveva capito ed espresso tra gli altri un grande poeta come Ungaretti, o uno scienziato come Einstein. E tutta la sto­ria dell’umanità è piena di questo pro­blema, di questo Volto che sembra chia­mare nella notte. Per questo gli autisti di Genova hanno reagito. Hanno capito u­na cosa semplicissima, che sfugge solo a certi atei che fanno dell’ateismo, para­dossalmente, il proprio unico Dio. Del re­sto la Bibbia insegna che non esistono gli atei: li chiama idolatri, perché al vero Dio sostituiscono un idolo, magari il più mi­sero che è la propria presunzione. Gli au­tisti hanno capito che se si banalizza il problema di Dio si sta banalizzando, si sta offendendo la statura dell’uomo. Del­l’uomo che vive e lavora. Dell’uomo rea­le, non dell’uomo astratto dei dibattiti fi­losofici. Non hanno difeso Dio, hanno di­feso se stessi, e la dignità delle persone che portano sull’autobus e nel cuore. Non è un caso che proprio grandi regimi che hanno professato l’ateismo – come il co­munismo e il nazismo – hanno provoca­to le più gravi violenze sull’uomo. Hanno detto un no semplice, pieno di dignità, che è un sì libero alla umanità di tutti con­tro la saccente banalità di pochi.

venerdì 16 gennaio 2009

«Il cristianesimo: un fatto che crea un legame»

di Tommaso Ricci
13/01/2009 - La fede come incontro. La lettura insolita di Nietzsche. Il legame con Benedetto XVI. Esce in italiano Der Mensch ("L'uomo"), uno dei capisaldi del filosofo cristiano. Massimo Borghesi, il curatore, ne parla con Tracce.it.

Romano Guardini.Il quarantesimo anniversario della rivolta studentesca del ’68 ha fagocitato un po’ tutte le commemorazioni ma in quel fatidico anno moriva uno dei pensatori cattolici più rilevanti del Novecento, l’italotedesco Romano Guardini. La casa editrice Morcelliana, nel quadro dell’Opera omnia dell’autore, pubblica ora, in prima mondiale, un importante testo degli anni 30 - gli anni del nazismo in Germania - dal titolo L’uomo. Fondamenti di un’antropologia cristiana (Der Mensch. Grundzüge einer christlichen Anthropologie). Ne parliamo con il curatore, Massimo Borghesi.

Professor Borghesi, l’impresa tentata in Der Mensch da Romano Guardini ha del ciclopico e cioè rimettere a fuoco, accettando pienamente il contesto della cosiddetta modernità, la questione della verità e della pienezza umana in una prospettiva cristiana. Perché il filosofo italo-tedesco ha sentito l’esigenza di imbarcarsi in questo tentativo?
Der Mensch, “L’uomo”, è un’opera incompiuta che sorge dall’insieme dei corsi che Guardini tiene all’Università di Berlino tra il 1934 e il 1939, anno in cui la sua cattedra viene soppressa dal regime nazionalsocialista. Il confronto sul terreno antropologico è un confronto sotterraneo, religioso e politico ad un tempo, con la visione del mondo nazista. Non è un caso che tra gli autori più citati ricorra il nome di Nietzsche, punto di riferimento dell’ideologia nazista. Il Guardini degli anni 30 è proteso, al pari di Maritain, a «distinguere per unire». Si trattava, nel contesto di allora, di chiarire la differenza tra cristianesimo ed umanesimo, fede e religiosità mondana, per mostrare poi come il cristianesimo fosse in grado di plasmare un’antropologia nuova, irriducibile ad ogni posizione naturale. In tal modo venivano a cadere gli equivoci del cosiddetto “cristianesimo tedesco”, ariano. Il cristiano è l’esito di un nuovo inizio; la sua umanità non è riconducibile alla mistica naturalistica del tempo ruotante attorno ai concetti di popolo, razza, nazione, sangue, suolo.

Guardini si confrontava con una cultura e una gioventù impregnate di neopaganesimo. C’è una differenza tra paganesimo precristiano e postcristiano?
Il paganesimo postcristiano è un tentativo di tornare alla sacralizzazione della natura e dei suoi elementi. In Der Mensch Guardini parla della «possibilità di un secondo paganesimo dopo Cristo». Sta pensando alla visione del mondo nazionalsocialista. Dopo il 1945 Guardini scriverà che il neopaganesimo, dopo il cristianesimo, è qualcosa di intimamente diverso dal paganesimo antico: l’uomo non può più credere negli dèi. Negli anni 30, però, gli dèi erano entità collettive, concentrati della forza. Il paganesimo è la sacralizzazione del potere.

Sorprende la “valorizzazione” guardiniana delle obiezioni nietzschiane al cristianesimo secondo cui la fede cristiana porterebbe ad un minus di vita e non ad un plus. Nietzsche è davvero un autore da rivalutare in questa chiave?
Guardini ha un rapporto ambivalente con Nietzsche. La ricezione dell’autore dell’Anticristo, nella cultura tedesca degli anni 10-20, vedeva in Nietzsche l’anticristiano con la nostalgia del cristianesimo. Si trattava, sicuramente, di una lettura riduttiva che non teneva conto del Nietzsche più “esoterico”, quello che verrà alla luce con la pubblicazione degli appunti inediti, durante gli anni 30. Guardini, al pari di Jaspers e di molti altri, intende la natura postulatoria, volontaristica, dell’ateismo nietzschiano interpretandola come la reazione a un cristianesimo inerte, incapace di valorizzare l’umano. Un cristianesimo sacrificale rispetto a cui l’esaltazione superomistica di Nietzsche costituirebbe la risposta compensatoria. Anche Mounier intende l’ateismo di Nietzsche come la reazione ad un cristianesimo moderno incapace di sollevare energie e desiderio di cambiamento. Le cause dell’ateismo nietzschiano si trovano, però, più in profondità. Nietzsche è il culmine e insieme la crisi del pensiero tedesco dell’800.

Lei nella sua introduzione segue la difficile navigazione di Guardini tra le scogliere del modello “medievale” e quelle del disincanto moderno.
Il “tramonto dell’Occidente”, diagnosticato da Oswald Spengler all’indomani della prima guerra mondiale, segna per la generazione di Guardini il tramonto degli ultimi residui dell’Europa cristiana. Per molti cattolici questo declino apriva la possibilità di un “ritorno al Medioevo”. Si trattava di una prospettiva illusoria che Guardini, al pari di Maritain, non condivideva. Il Medioevo cristiano ha realizzato opere grandiose, ma non può costituire un “modello” per il presente. Gli è mancato un’adeguata valorizzazione della libertà e dei diritti della soggettività personale, libertà e diritti che la modernità utilizzerà proprio contro la Chiesa. L’eredità medievale ha pesato anche sul cristianesimo moderno, condizionandolo.

Guardini fa balenare quasi una equiparazione della cristianità contemporanea alle comunità cristiane primitive, fino ad Agostino. Perché?
Perché intuiva la corrispondenza tra il tempo degli inizi della fede, che aveva di fronte i “pagani”, e il suo tempo. Come scrive in un saggio del ’26: «L’atteggiamento medievale si è dissolto, e dopo che la riforma e l’autonomizzazione della cultura hanno sciolto le connessioni storico-psicologiche tra cristianesimo e cultura, entriamo di nuovo nel cerchio di fuoco del problema del cristianesimo primitivo».

Nell’antropologia guardiniana hanno un ruolo fondamentale le categorie di incontro, avvenimento, rischio…
Per Guardini il cristianesimo non è, innanzitutto, una dottrina, ma un avvenimento legato alla presenza, ogni volta unica ed irripetibile, di Gesù Cristo nella storia. Non si diviene cristiani attraverso un cammino, mistico, di discesa nell’interiorità, di astrazione dallo spazio e dal tempo. Si diviene cristiani nell’incontro con fatti, eventi, persone, che rendono presente il mistero di Dio. «L’incontro - scrive in Der Mensch - non è una necessità derivabile da altro, ma un factum. Questo factum però crea immediatamente un senso di legame, in cui io permango e che coincide con il senso del destino. L’incontro poteva non accadere, ma - dopo che è accaduto - è irrevocabile». L’incontro segna il destino di un uomo, buono o cattivo che sia. Per questo è importante che l’incontro sia quello giusto. Il cristianesimo è un evento che si palesa attraverso incontri significativi. Quando accade di-mostra la sua bellezza nell’istante in cui accade.

Quanto di Guardini c’è in Benedetto XVI?
Molto. Guardini è stato una delle figure che hanno contato nella formazione di Joseph Ratzinger. La vicinanza riguardava tanto l’approccio esistenziale della fede, distante dal formalismo della scolastica neotomista di allora, quanto il riferimento fondamentale ad Agostino. Tanto per Ratzinger quanto per Guardini, Agostino è l’autore cristiano che permette l’incontro tra la patristica del cristianesimo delle origini e la modernità. Agostino non è “antico”, o difficilmente riattualizzabile come gli autori medievali. È un autore incredibilmente “moderno”, capace cioè di intercettare, a partire dalla sua esperienza esistenziale illuminata dalla grazia, la sensibilità contemporanea.

mercoledì 14 gennaio 2009

"Bus 'atei'? Una caduta di stile"


La campagna miscredente che fa discutere tutta l’Europa
Pericolo Paura
I bus contro Dio sotto casa di Bagnasco
Dopo la Spagna, anche a Genova l’Unione degli atei agnostici
razionalisti ha affittato gli spazi pubblicitari sui mezzi
pubblici per reclamizzare le sue posizioni anticristiane.

E la guerra di religione continua



GENOVA. «Un’evidente caduta di stile». Così monsignore Marco Doldi, teologo e parroco della chiesa genovese di Nostra Signora delle Vigne commenta l’iniziativa degli autobus con scritte inneggianti all’ateismo. Per monsignore Doldi, che ha affidato il proprio pensiero all’agenzia Sir della Cei, «da sempre il discorso su Dio si tiene nelle sedi e nelle forme più adatte: confronti, lezioni, dibattiti, libri, incontri» ossia «luoghi in cui le persone, consapevoli dell’importanza di affermare l’esistenza di Dio o il suo contrario, si incontrano, forse anche si scontrano, ma dialogano». «Qui, invece - ha continuato - la questione su Dio è affrontata con la pubblicità, che non permette alcun confronto». Doldi ha poi aggiunto che gli organizzatori dell’iniziativa, che hanno come bersaglio dichiarato il cardinale Angelo Bagnasco, in qualità di presidente dei vescovi italiani, non hanno tenuto conto del fatto che il messaggio riguarda ebrei, cristiani e musulmani e neppure hanno tenuto conto che «quello che a loro sembra civiltà, deridere chi crede in Dio, è motivo di grande sofferenza per queste persone ed è ostacolo all’integrazione dei popoli». La conclusione del teologo è che da «millenni credenti e non credenti si parlano; c’è da augurarsi che il dialogo sia sempre mantenuto nello stile, che gli argomenti meritano. Non sul retro degli autobus!».
E sulla vicenda è intervenuto anche l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la Cultura. «Io ho sempre detto – ha affermato Ravasi – che il dialogo con l’ateismo è importante quando viene condotto sulla base di visioni complete e alternative dell’esistenza e della storia. Quando uno, e pensiamo a Marx e a Nietzsche, ha una visione di insieme della realtà – continua il presule – che è alternativa rispetto al cristianesimo, è una cosa. Quando invece, tutto si gioca sulla base della dichiarazione che ha il sapore della goliardia e della provocazione, allora c’è poco da dire».
Il teologo Doldi: con quella pubblicità a Genova impossibile ogni confronto Ravasi: il dialogo si svolge su grandi visioni non su goliardia e provocazione

Andreotti ha 90 anni. La politica (e non solo) gli rende omaggio


La celebrazione pubbli­ca, e solenne, dei 90 anni di Giulio An­dreotti avverrà oggi nell’au­la di Palazzo Madama, l’e­miciclo nel quale siede in qualità di senatore a vita dal 1° giugno 1991. Ma più di un’eco si leverà anche a Montecitorio, in quell’aula della Camera nella quale il 'divo Giulio' ha affrontato dibattitti e battaglie politi­che per ben 43 anni: dall’e­sordio al fianco di Alcide De Gasperi sino al tramonto della Prima Repubblica. E ri­sonanze ci saranno in tanti luoghi simbolo della capita­le, a cominciare dai palazzi governativi nei quali An­dreotti ha abitato con ine- guagliata e straordinaria sa­gacia e perseveranza: da pre­sidente del Consiglio (per sette volte), da ministro del­la Difesa (per otto volte), de­gli Esteri (per cinque volte), delle Partecipazioni statali (per tre volte) delle Finanze, del Bilancio e dell’Industria (per due volte), dei Beni Cul­turali, delle Politiche comu­nitarie e – ultimo non ulti­mo – dell’Interno (per una volta).
Echi molteplici, insomma, che si arresteranno solo sul­la soglia di un’altra e priva­tissima celebrazione – quel­la familiare – della rotonda ricorrenza. Ma c’è da crede­re che Andreotti riuscirà lo stesso a compiere quanto ie­ri ha annunciato in un’in­tervista: «Alla mia età vene­randa i compleanni si fe­steggiano meditando in si­lenzio ». O forse (e in fondo è quasi la stessa cosa) farà si­lenzio a suo modo: limitan­dosi a dire l’essenziale, ma­gari nella forma fulminante della battuta.
Ne è capace, in modo ormai proverbiale. Così come è sta­to capace – nella sua lun­ghissima vita pubblica – di affrontare con apparente imperturbabilità clamori a­mici e ostili frastuoni, ap­plausi e fischi, esaltazioni e invettive. Così come è stato capace – portando l’atroce e infamante catena delle ac­cuse di collusione mafiosa e lottando, con successo, per liberarsene – di farsi giudi­care, lui, il potente per defi­nizione, da semplice citta­dino. Un cittadino che ha continuato a chiedersi – ec­co una delle sue famose bat­tute – «perché mai la bellis­sima frase 'La Giustizia è u­guale per tutti' sia scritta al­le spalle dei magistrati». E non venga tenuta sempre davanti ai loro occhi.
Giulio Andreotti è stato una delle figure simbolo della Dc: partito di raccolta dei cattolici, perno della Re­pubblica «nata dalla Resi­stenza » e motore della straordinaria ricostruzione, modernizzazione e crescita di una nazione e di una so­cietà piegate e piagate dalla guerra. Ed è stato un uomo di governo in grado di arti­colare visioni non scontate (e, a volte, più coraggiose di quanto gli venisse ricono­sciuto) e di declinare in mo­do mediterraneo e creativo (concretamente utile alla causa della pace) la sicura a­desione dell’Italia al campo occidentale della libertà nel­l’era della guerra fredda. Og­gi, nella sua quarta età, in un tempo in cui il pluralismo delle opzioni politiche dei cattolici è una realtà, il 'di­vo Giulio' vive la sua dignità di parlamentare della Re­pubblica da rigoroso testi­mone di una fedele e saggia dedizione alle istituzioni e alla propria coscienza. Una pietra di paragone e, a volte, un segno di contraddizione che induce alla riflessione tanti attenti cittadini, molti nuovi politici e più di un commentatore, e che riesce persino a minare le certezze di chi meno lo stimò e mag­giormente ebbe ad avver­sarne politicamente (e non solo) azione e 'stile'. Certa cinematografia d’occasione e persino di successo ha continuato a dipingerlo co­me «Belzebù», e Andreotti se n’è doluto pubblicamente. Con la moderazione un po’ rassegnata di chi ha contri­buito a rendere celeberrimo l’adagio per cui «a pensar male del prossimo si fa pec­cato, ma ci si azzecca».
Il tempo è però galantuomo. E almeno a una sua celeber­rima sentenza – «il potere lo­gora chi non ce l’ha» – non ha dato seguito. Andreotti ha novant’anni e non è più al potere da un pezzo, ma non è affatto logoro. E oggi rac­coglierà sinceri e meritati auguri. (m.tar.)
Il politico che più è stato identificato con il potere testimonia un modo altro e giusto di stare nelle istituzioni Oggi festa in Senato

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martedì 13 gennaio 2009

Pregano sui sagrati? Non preoccuparsi sarebbe da ingenui


«Per il vescovo di San Marino c’è la volontà di mostrare
che la presenza islamica conquista spazi pubblici».


L’INTERVISTA ∫MONSIGNOR NEGRI

Il Giornale 12/01/2009

Andrea Tornielli

«Un vescovo cattolico non può certo dire che pregare non sia di per sé un non avvertire che ci sono aspetti stridenti in queste preghiere islamiche nelle piazze italiane da parte di chi incita all’odio e brucia le bandiere. Sarebbe da ingenui non preoccuparsi...». Monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino e Montefeltro, di fronte a quanto sta accadendo in varie città italiane teatro di cortei di protesta per gli attacchi scatenati contro Gaza dall’esercito israeliano dopo la rottura della tregua proclamata da Hamas, non si nasconde dietro un dito. Né usa giri di parole o le sottigliezze ovattate del linguaggio «ecclesialese». Il prelato domani pomeriggio sarà insignito a San Marino, per decisione del presidente della Repubblica su proposta del ministro Franco Frattini, della «stella della solidarietà italiana», onorificenza per gli italiani che si sono distinti all’estero, che gli viene conferita a motivo del suo impegno «a favore della scuola e dei giovani» e per aver «sempre preso coraggiosamente posizione sui temi di maggiore attualità».

Come commenta le immagini che mostrano centinaia di fedeli islamici in preghiera nelle piazze italiane dopo aver partecipato ai cortei contro Israele?
«Certamente si conta molto sull’effettochoc nei confronti dell’opinione pubblica.
Si vuole far capire che c’è una forte e radicata presenza islamica nel nostro Paese,
che questa presenza ha un’identità forte e si conquista spazi pubblici».
Non dovrebbe essere di per sé un fatto positivo che la gente preghi?
«Un vescovo cattolico non può certo dire che la preghiera non sia un fatto positivo!
Anche nella sua espressione pubblica:ricordo ancora l’interessante lettura
di un volumetto del teologo e cardinale Jean Danielou che parlava della preghiera
come problema “politico”. Ci si deve però innanzitutto chiedere quale significato
abbia quella preghiera in relazione al fatto che per i musulmani, se essi pregano
in un luogo, questo diventa islamico.E poi non si deve dimenticare che per sua natura nell’islam la preghiera ha spesso una connotazione fortemente legata
agli aspetti politici. Sono un tutt’uno.Io non conosco la lingua araba,ma
mi dicono che non è raro ascoltare anche in Italia, da parte degli imam, accenni e
accenti di odio nei loro sermoni».

Dunque quelle preghiere in piazza la preoccupano?

«Dico che sarebbe da ingenui non avvertire che ci sono aspetti stridenti in queste preghiere islamiche nelle piazze italiane da parte di chi incita all’odio e brucia le bandiere di Israele.
Se chi prega ha appena finito di urlare slogan carichi di odio contro quelli che considera nemici, se la fede viene strumentalizzata e si usa il nome di Dio per invocazioni violente, beh, se me lo permette credo ci sia da guardare con attenzione al fenomeno. Per non sottovalutarlo. Sarebbe da ingenui non preoccuparsi.
Pensiamo, per assurdo,quale scalpore avrebbe suscitato se anche soltanto un gruppo consistente di giovani cattolici radunati attorno al Papa durante la Giornata mondiale della Gioventù,a un certo punto si fosse messa a gridare slogan contro gli islamici o contro altri gruppi religiosio etnici, chiedendo che siano messi al bando. Se chi prega è lo stesso che instilla l’odio,mi preoccupo».

E della preghiera davanti al Duomo di Milano e a San Petronio a Bologna che
cosa dice
?

«Quelle piazze non sono della Chiesa milanese e bolognese, cono spazi pubblici.
Ma mi riesce difficile immaginare che non si sia valutata la portata simbolica di
tale gesto, tant’è che glistessi responsabili islamici hanno espresso rammarico alla
curia. Non so se questo possa essere considerato come una richiesta di scuse.
Comunque significa che anche a loro non è sfuggito che quella preghiera di
massa difronte alle duecattedrali,simboli non soltanto religiosi ma anche culturali,
poteva essere intesa come il tentativo di emarginare i segni della tradizione cattolica».

Che cosa pensa del dialogo tra cristiani e islamici? E degli appelli a concedere la
costruzione di nuove moschee?

«Esprimo innanzitutto un disagio. Non spetta al vescovo dare queste risposte.
Ritengo che il vescovo abbia il dovere di contribuire all’educazione del popolo
cristiano.È il popolo cristiano, sono i laici a trovare modi e tempi per il dialogo.
Mentre spetta alle istituzioni garantire un’effettiva libertà religiosa a chi vive
nel nostro Paese».

Crede che l’Occidente in questo frangente si stia mostrando debole?
«La debolezza culturale dell’Occidente è stata segnalata tante volte da BenedettoXVI.
Temo esista una sorta di sudditanza culturale e anche psicologica nei confronti di certi gruppi. Regolare la concessione degli spazi pubblici, garantire la sicurezza e il rispetto della legge, è compito delle istituzioni. C’è da sperare che non esistano zone franche».

Pensa ci possa essere una regia dietro a quanto si è visto in questi giorni nelle
piazze italiane?

«Non ho né le conoscenze,né la competenza per poterlo affermare.Osservo soltanto che il mondo di oggi è vittima della manipolazione dell’opinione pubblica e condivido davvero l’intervento del presidente della Cei, il cardinale Bagnasco,su questo tema».

I cortei culminati con le preghiere islamiche protestavano per la guerra contro
Gaza. Qual è la sua posizione?

«Il Papa ha detto parole chiarissime di condanna contro ogni forma di violenza,
da ogni parte provenga.Quanto ho appena affermato circa la preoccupazione per le incitazioni all’odio da parte islamica non diminuisce assolutamente la mia
condanna per la reazione israeliana contro Hamas che è non solo sproporzionata ma
ha assunto la forma di veri e propri eccidi nei confronti della popolazione civile».

MEDIO ORIENTE/ A Gaza una guerra in cui perdono tutti


José Miguel García martedì 13 gennaio 2009

Sono già trascorsi più di 15 giorni dall’inizio della guerra dichiarata da Israele ad Hamas. I morti sono saliti a più di 800, i feriti a oltre 3.000. La distruzione di Gaza prosegue. Le condizioni della popolazione palestinese peggiorano ogni volta di più... Hamas si interessa realmente della sorte del suo popolo? Sembra di no. Se ci atteniamo ai fatti sembra proprio il contrario.

Il suo ultimo no al piano egiziano e alla risoluzione dell’Onu che proponeva un cessate il fuoco mostrano chiaramente che l’interesse principale di Hamas è il proprio progetto ideologico di lotta contro Israele. Per il bene della popolazione, la cosa più ragionevole da fare sarebbe stata accogliere la proposta di una tregua. Questa avrebbe permesso l’arrivo di aiuti massici dai paesi occidentali e arabi; un periodo in cui rispondere con maggiore coscienza alle necessità più urgenti; un tempo di riflessione per favorire l’inizio di negoziati di pace.

Hamas tuttavia ha respinto tassativamente entrambe le proposte. Perché? Sebbene sia una forza politica eletta dai palestinesi che vivono in quel piccolo territorio che è Gaza, Hamas non ha cambiato le sue posizioni idelogiche né i suoi obiettivi. Resta dominata dall’odio contro Israele.

Da parte sua, il Governo di Israele ha giustificato la decisione di iniziare questa guerra, e continua a ripeterlo all’opinione pubblica, facendo appello al suo diritto di difendersi dalle aggressioni di Hamas, proteggendo la sicurezza del proprio paese. In nome di questa ragione ha giustificato anche il proprio rifiuto alla risoluzione dell’Onu. «Israele ha il diritto di proteggere i propri cittadini», dice un comunicato stampa del primo ministro. Anche Olmert ha affermato davanti alla stampa che «lo Stato di Israele non ha accettato che alcun organismo esterno determini il suo diritto a difendere la sicurezza dei propri cittadini».

Come è ben noto, Hamas ha attaccato con i suoi missili in varie occasioni alcune delle città israeliane al confine con Gaza. È vero che uno Stato ha il diritto di difendersi dalle aggressioni e a cercare la sicurezza dei propri cittadini, ma questa guerra favorirà la sicurezza dei cittadini di Israele? Non è chiaro se l’esercito di Israele riuscirà a distruggere Hamas; sembra poco probabile. Quindi perchè decidere di iniziare questa guerra?

Sicuramente, tra le conseguenze di questa azione bellica, dovremo conteggiare una maggiore violenza nella società e un odio più forte verso Israele nella popolazione palestinese. Queste distruzioni massicce da parte dell’esercito israeliano saranno utilizzate da Hamas come giustificazione per una nuova ondata di attentati. In ultima istanza, non saranno forse i cittadini israeliani a soffrire sulla propria pelle il dolore e la distruzione?

La guerra è sempre un male. Porta sempre più problemi nella vita quotidiana delle persone e normalmente aggrava i problemi politici. Questa terra, Israele/Palestina, è un buon esempio: in essa abitano due popoli chiamati necessariamente a capirsi, ma resi nemici fin dalla nascita dello Stato di Israele e dalla immediata guerra arabo-israeliana. E, a quanto pare, manca il desiderio di affrontare insieme un problema che è fonte continua di violenza e sofferenza.

La maggioranza della popolazione civile israeliana e palestinese desidera vivere in pace. Perché allora si continua in questa spirale di violenza? Certamente il male può colpire il cuore di ogni uomo; chiunque può farsi dominare dall’odio o dalla vendetta e rendere in mille modi impossibile la vita di chi considera suo nemico o rivale. Ma a volte uno si domanda se situazioni come quella che si vive in questa terra non provengano da posizioni ideologiche radicate in coloro che detengono il potere.

Benedetto XVI nell’Angelus del 28 dicembre ha chiesto che cessi la violenza e ha chiesto «alla comunità internazionale di non lasciare nulla di intentato per aiutare israeliani e palestinesi ad uscire da questo vicolo cieco e a non rassegnarsi alla logica perversa dello scontro e della violenza, ma a privilegiare invece la via del dialogo e del negoziato». Ma il Governo di Israele e Hamas vogliono realmente questo dialogo? Il potere palestinese e israeliano favoriscono la tensione utilizzando i media per alimentare l’odio e il rancore, invece di promuovere le condizioni più favorevoli al negoziato.

Circa un paio di anni fa, nel giorno della commemorazione della morte di Yitzhak Rabin, David Grossman pronunciò a Gerusalemme un discorso in cui chiedeva ai governanti del suo paese una maggior decisione nella ricerca di un accordo di pace con i palestinesi.

Nel discorso fece anche una forte denuncia di ciò che stava avvenendo nella società israeliana. Tra le altre cose disse: «Guardate cosa è successo a una nazione giovane, piena di entusiasmo e spirito. Guardate come, quasi in un processo di invecchiamento accelerato, Israele è passato da una fase di infanzia e gioventù a uno stato di costante lamento, di fiacchezza, alla sensazione di aver perso un’occasione. Come è successo? Quando abbiamo perso la speranza di poter vivere un giorno una vita diversa, migliore? [...] Israele è caduto nell’insensibilità, nella crudeltà, nell’indifferenza verso i deboli, i poveri, coloro che soffrono, che hanno fame, verso i vecchi, i malati e gli invalidi; nell’indifferenza di fronte al commercio di donne, l’esplosione e le condizioni di schiavitù in cui vivono i lavoratori stranieri, indifferenza verso il razzismo radicale, istituzionale, nei confronti della minoranza araba. Dato che tutto questo succede con totale naturalezza, senza suscitare scandali e proteste, comincio a pensare che anche se la pace arrivasse domani, anche se un giorno arrivassimo a una situazione normale, forse avremmo perso l’opportunità di curarci».

La guerra indebolisce sempre, poiché favorisce la crudeltà e le ingiustizie. E gli uomini che la compiono, anche se utilizzano ragioni idelogiche per giustificarsi, non ne escono immuni; si rendono peggiori. Per il bene di Israele, per il bene di questa terra, per il bene dell’Occidente, questa guerra si fermi quanto prima! Speriamo che non sia già tardi per un vero rinnovamento degli uomini che abitano questa terra considerata santa dalle tre religioni monoteiste. Speriamo che queste previsioni di Grossman non si avverino!