sabato 31 gennaio 2009

La convivenza un tempo possibile fra religione e politica

Danilo Zardin
venerdì 30 gennaio 2009


Per tutta la lunga fase di avvio della modernità, quanto meno fino alla crisi della coscienza europea maturata con la svolta settecentesca e dopo il crollo di molti dei fondamenti dell’Antico Regime, l’intreccio fecondo tra l’eredità della tradizione cristiana e il sistema dell’esistenza collettiva ha continuato a condizionare, molto spesso da posizioni risolutamente egemoniche, l’intero continente europeo. Si trattava, ovviamente, di una tradizione riformulata secondo i nuovi schemi confessionali emersi dalle fratture dolorose del Cinquecento. Gran parte della produzione artistica e letteraria dell’età successiva, la storia della musica, i fermenti della ricerca scientifica che hanno rivoluzionato l’immagine del cosmo e spalancato orizzonti assolutamente inediti al sapere rimarrebbero inspiegabili al di fuori del dialogo incessante con il patrimonio di una fede magari deformata e tradita, ma sempre tenuta al centro della scena. La metafisica ha continuato a lungo a nutrirsi di Aristotele e della sua reinterpretazione per opera degli Scolastici medievali, che anche in terra protestante (lo ha chiarito Lewalter) influenzarono profondamente la riflessione sistematica e l’insegnamento dei filosofi, culmine del tirocinio umanistico preliminare all’esercizio delle professioni e dei ruoli sociali più elevati. La rinascita di una Seconda Scolastica cristiana, erede di Tommaso e dell’universitas studiorum medievale, è stata un altro frutto sostanzioso di questa modernità ancora largamente praticante e conformista nella sua pressoché totale generalità. I divorzi e i tradimenti sono l’esito tragico di una storia di conflitti che non hanno avuto subito il predominio quando il cristianesimo di massa europeo ha cominciato a modularsi in una veste moderna, ma più avanti nel tempo. L’abbozzo di una autonomia distinta della ragione filosofica, in dialettica con il sapere teologico fondato sulla rivelazione divina (ne parla, positivamente, Benedetto XVI, nel suo discorso al Collège des Bernardins di Parigi, dello scorso settembre). La Ratio studiorum dei Gesuiti. L’«illuminismo cristiano» fiorito come germe dalle radici delle due Riforme religiose, saldato allo sviluppo di una forma più avanzata di organizzazione della vita politica e sociale (per riprendere un’altra potente suggestione dell’attuale pontefice): questi sono tutti segnali impressionanti di una tendenza che vedeva gli uomini e le istituzioni della Chiesa alla testa dei processi di trasformazione, non nelle retrovie o sempre, e soltanto, su barricate di contestazione.



Per meglio chiarirlo, torniamo a sfruttare il linguaggio illuminante delle immagini. Pensiamo a un altro celebre ritratto, questo volta non di un individuo isolato ma di gruppo, che ci mette a più diretto contatto con le stanze del potere in cui si forgiavano i destini degli uomini della prima età moderna. Il protagonista centrale questa volta è Carlo V d’Asburgo, re di Spagna e imperatore del Sacro Romano Impero, l’energico dominatore della scena politica europea della prima metà del Cinquecento. In un grande dipinto di Tiziano, oggi conservato al Prado, il sovrano della Monarquía universal di fede cattolica è rappresentato con a fianco i suoi più stretti famigliari: la defunta moglie Isabella di Portogallo; il figlio Filippo II, destinato a succedergli sul trono iberico; la sorella Maria, regina d’Ungheria; l’infanta Giovanna. Ma nessuno di loro indossa le insegne del potere regale. Portano la lunga veste bianca di penitenza. Sono scalzi, le mani giunte nel segno della preghiera. La corona è deposta ai piedi dell’eccelso sovrano. Tutti sono rappresentati in adorazione della Trinità, che li sovrasta nella cornice di un cielo paradisiaco. Un nugolo di angeli attornia la famiglia imperiale e la sollecita al gesto della prosternazione devota, punta avanzata di una folla di beati e di patriarchi dell’Antico Testamento che si lanciano, le mani levate verso l’alto, nel desiderio di toccare il manifestarsi del mistero divino, da cui si irradia lo splendore luminoso della sua Gloria, eterna e invincibile. In un angolo, si riconosce una immagine che è stata identificata con il volto dello stesso Tiziano, a fianco di quello attribuibile a uno dei letterati di punta dell’Italia del Cinquecento: Pietro Aretino.



Pura simulazione ipocrita, di chi era abituato a servirsi dei simboli della fede cristiana come instrumentum regni? Il senso dell’Adorazione della Trinità di Tiziano sembra, piuttosto, di altra natura. Con tutta l’enfasi dell’arte celebrativa, annuncia che anche il potere più alto nel mondo non poteva non concepirsi come un servizio subordinato a una realtà superiore, che dettava il fine ultimo ideale della vita complessiva della comunità umana. Emerge qui una costante molto sottovalutata della politica degli Stati europei agli inizi del mondo moderno, quale si riflette innanzitutto nello specchio delle teorie giuridiche e degli schemi etici nei quali erano educati gli uomini che il potere lo dovevano gestire e da cui traeva legittimazione la loro azione concreta. Il pensiero politico dell’Antico Regime non risulta affatto schiacciato sotto l’egida di Machiavelli e di Hobbes. Al contrario, dovunque si esprimeva, soprattutto sul versante cattolico, con il linguaggio risoluto dell’anti-machiavellismo. Il modello da incarnare era il modello del principe sì «politico», ma anche, inscindibilmente, «cristiano» (Ribadeneyra, Saavedra Fajardo, Contzen, ecc.). La politica non era autonoma e ab-soluta (questo lo hanno fatto credere i paladini dell’assolutismo monopolista dello Stato secolarizzato, sorto come mito secoli dopo: ma non corrisponde alla storia autentica dei fatti culturali). La politica, che era poi ben lontana, allora, dal ridursi al potere amministrato dallo Stato, era anch’essa sottoposta al vincolo delle virtù morali, di stampo ultimamente aristotelico: dal tomismo medievale in giù, era questo l’unico modo sensato con cui si poteva pensare di cimentarsi nella ricerca del «bene comune». Del resto, non a caso, i primi costruttori della teoria politica della «ragione di Stato», solo più tardi scivolata verso l’esaltazione unilaterale e squilibrata del suo primato direttivo, non sono stati i nemici implacabili del potere mondano della Chiesa, come Paolo Sarpi; ma già prima, e più efficacemente di lui, devoti religiosi come Botero e i campioni della filosofia morale dei Gesuiti, in una linea che, in seguito, Bossuet farà sua nella Francia del «re cattolico» Luigi XIV e che Muratori svilupperà, con accenti ancora più moderni, all’aprirsi del secolo dei Lumi.

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