martedì 28 giugno 2011

Benedetto Colui che viene nel nome del Signore

Cardinale Scola a Milano: l’augurio di don Carrón

Appresa la notizia della nomina del cardinale Angelo Scola a arcivescovo di Milano, don Julián Carrón ha inviato il seguente messaggio a nome di tutto il movimento di Comunione e Liberazione:

Eminenza carissima, ci uniamo alla gioia del popolo ambrosiano per la Sua nomina a arcivescovo di Milano, grati allo Spirito e al Santo Padre che L’ha scelta come successore di Sant’Ambrogio e San Carlo. «Sufficit gratia Tua»: la fede e la passione per Cristo che abbiamo sempre visto in Lei ci rende certi che questo vorrà condividere con tutti coloro che incontrerà come pastore di Milano.
Come ogni battezzato ambrosiano desideriamo essere confermati nella fede per comunicare ai fratelli uomini il fascino dell’incontro con Cristo, sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in noi in tutti gli ambienti di vita, di studio e di lavoro.
Per questo consegniamo nelle Sue mani le nostre persone e le nostre comunità sparse in tutta la diocesi, per continuare a collaborare alla missione della Chiesa secondo la natura del carisma che abbiamo ricevuto da don Giussani − nostro padre nella fede −, che ha nella testimonianza la sua espressione compiuta, certi che la nostra fede è per la Chiesa e per il mondo.
La Madonna di Caravaggio La sostenga nello struggimento perché Cristo sia conosciuto e assicuri fecondità al Suo ministero, così che tutti possiamo fare esperienza oggi − seguendo il nuovo Arcivescovo − della grande tradizione ambrosiana: «Ubi fides ibi libertas» (S. Ambrogio).
Don Julián Carrón

l’ufficio stampa di CL
Milano, 28 giugno 2011.

sabato 25 giugno 2011

Davanti ai fatti



«Qualche volta dobbiamo chiedercelo: ma che cosa vuol dire incidenza storica? Che cosa muove l’uomo nell’intimo?».
È una domanda che Julián Carrón, responsabile di Cl, ha fatto a tutti, durante un recente incontro pubblico. In pratica, una sfida. Ma il primo modo per non prenderla sul serio è pensare che sia una domanda tagliata su misura per certi momenti. Per esempio, quando c’è una tornata elettorale. E il proprio “peso”, la capacità di smuovere e cambiare il mondo intorno - l’incidenza, appunto - viene voglia di calcolarla così, a voti e poltrone. Se hai vinto, incidi. Se perdi, conti zero.
È una riduzione micidiale. Anzitutto perché nessuna poltrona - nessun potere - colma il desiderio dell’uomo. Ma anche perché considera solo la prima metà della domanda. Come se la storia fosse altro dall’io. Fosse separata. È un dualismo subdolo, che si insinua quasi senza che ce ne accorgiamo e si traduce in un dubbio: ma quello che ha toccato me può davvero muovere anche ciò che ho intorno? L’esperienza cristiana che sta cambiando la mia vita può interessare proprio tutti? Può incidere veramente su tutto? Dubbio che lo stesso Carrón, in quell’incontro, esplicitava così: «Ma Cristo, volendo incidere sulla storia, ha sbagliato metodo creando la Chiesa invece di un partito politico? Se noi non capiamo questo, penseremo sempre che sarebbe meglio fare altro, che saremmo più incidenti facendo altro».

Il punto è che a questa domanda si può rispondere solo dall’interno di un’esperienza. Ovvero, guardando i fatti. E giudicandoli, accorgendoci della loro portata. È lì che il dualismo è sconfitto. Perché ci si accorge che la vittoria vera è l’esaltazione dell’io, la sua liberazione. Ma questo può accadere solo nella storia, non fuori. Dentro le circostanze. È lì, impegnati con la realtà, che ci accorgiamo di come una persona cambiata nell’intimo dal cristianesimo possa muovere anche ciò che ha intorno fino nell’intimo. E così, un po’ alla volta, incidere nella storia. In tempi e modi che non decidiamo noi, perché?ci pensa il Mistero. Ma incide. Come abbiamo visto accadere, per esempio, in decine di incontri avvenuti proprio in quest’ultima campagna elettorale. Una campagna faticosissima, impregnata di delusione per la politica e segnatamente per alcuni politici. Ma in cui tante volte chi era lì a dare un volantino si è scoperto più lieto e più certo di prima, e chi lo riceveva si è ritrovato imprevedibilmente accolto e sottratto alla sfiducia dilagante.

Allora, proviamo a leggere i fatti raccontati in questo numero (le elezioni, ma anche la conversione dei carcerati di Padova, le vite degli universitari) alla luce di questa domanda. A chiederci davanti a quei fatti se la fede incida o no nella vita dell’uomo - nell’intimo - fino a cambiarla. E a costruire una storia diversa dove non te l’aspetteresti: un carcere di massima sicurezza, un palcoscenico dove salgono ragazzi disabili... Forse inizieremo a capire di più il «contraccolpo nel cuore» avvertito da don Giussani davanti a uno dei “suoi” studenti che nel 1969, nei corridoi dell’Università Cattolica, gli aveva detto: «Se non troviamo le forze che fanno la storia, siamo perduti». Lui stesso, anni dopo, quel contraccolpo lo racconterà così: «Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice». E «la forza che fa la storia è un uomo che ha posto la sua dimora tra di noi, Cristo». È riconoscere questo che «introduce la nostra vita all’accento della felicità. È nell’approfondimento di queste cose che uno incomincia a (...) guardarsi nello specchio e sentire il proprio volto più consistente, il proprio io più consistente e il proprio cammino tra la gente più consistente; non dipendente dagli sguardi altrui, ma libero; non dipendente dalle reazioni altrui, ma libero; non vittima della logica di potere altrui, ma libero». Ubi fides, ibi libertas. Nell’intimo. E nella storia.
da Tracce N.6, Giugno 2011

L'Eucarestia, il dono che fa nuove tutte le cose.OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI NELLA SOLENNITÀ DEL CORPUS DOMINI


Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì, 23 giugno 2011



Cari fratelli e sorelle!

La festa del Corpus Domini è inseparabile dal Giovedì Santo, dalla Messa in Caena Domini, nella quale si celebra solennemente l’istituzione dell’Eucaristia. Mentre nella sera del Giovedì Santo si rivive il mistero di Cristo che si offre a noi nel pane spezzato e nel vino versato, oggi, nella ricorrenza del Corpus Domini, questo stesso mistero viene proposto all’adorazione e alla meditazione del Popolo di Dio, e il Santissimo Sacramento viene portato in processione per le vie delle città e dei villaggi, per manifestare che Cristo risorto cammina in mezzo a noi e ci guida verso il Regno dei cieli. Quello che Gesù ci ha donato nell’intimità del Cenacolo, oggi lo manifestiamo apertamente, perché l’amore di Cristo non è riservato ad alcuni, ma è destinato a tutti. Nella Messa in Caena Domini dello scorso Giovedì Santo ho sottolineato che nell’Eucaristia avviene la trasformazione dei doni di questa terra – il pane e il vino – finalizzata a trasformare la nostra vita e ad inaugurare così la trasformazione del mondo. Questa sera vorrei riprendere tale prospettiva.

Tutto parte, si potrebbe dire, dal cuore di Cristo, che nell’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione, ha ringraziato e lodato Dio e, così facendo, con la potenza del suo amore, ha trasformato il senso della morte alla quale andava incontro. Il fatto che il Sacramento dell’altare abbia assunto il nome “Eucaristia” – “rendimento di grazie” – esprime proprio questo: che il mutamento della sostanza del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo è frutto del dono che Cristo ha fatto di se stesso, dono di un Amore più forte della morte, Amore divino che lo ha fatto risuscitare dai morti. Ecco perché l’Eucaristia è cibo di vita eterna, Pane della vita. Dal cuore di Cristo, dalla sua “preghiera eucaristica” alla vigilia della passione, scaturisce quel dinamismo che trasforma la realtà nelle sue dimensioni cosmica, umana e storica. Tutto procede da Dio, dall’onnipotenza del suo Amore Uno e Trino, incarnato in Gesù. In questo Amore è immerso il cuore di Cristo; perciò Egli sa ringraziare e lodare Dio anche di fronte al tradimento e alla violenza, e in questo modo cambia le cose, le persone e il mondo.

Questa trasformazione è possibile grazie ad una comunione più forte della divisione, la comunione di Dio stesso. La parola “comunione”, che noi usiamo anche per designare l’Eucaristia, riassume in sé la dimensione verticale e quella orizzontale del dono di Cristo. E’ bella e molto eloquente l’espressione “ricevere la comunione” riferita all’atto di mangiare il Pane eucaristico. In effetti, quando compiamo questo atto, noi entriamo in comunione con la vita stessa di Gesù, nel dinamismo di questa vita che si dona a noi e per noi. Da Dio, attraverso Gesù, fino a noi: un’unica comunione si trasmette nella santa Eucaristia. Lo abbiamo ascoltato poco fa, nella seconda Lettura, dalle parole dell’apostolo Paolo rivolte ai cristiani di Corinto: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1 Cor 10,16-17).

Sant’Agostino ci aiuta a comprendere la dinamica della comunione eucaristica quando fa riferimento ad una sorta di visione che ebbe, nella quale Gesù gli disse: “Io sono il cibo dei forti. Cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me” (Conf. VII, 10, 18). Mentre dunque il cibo corporale viene assimilato dal nostro organismo e contribuisce al suo sostentamento, nel caso dell’Eucaristia si tratta di un Pane differente: non siamo noi ad assimilarlo, ma esso ci assimila a sé, così che diventiamo conformi a Gesù Cristo, membra del suo corpo, una cosa sola con Lui. Questo passaggio è decisivo. Infatti, proprio perché è Cristo che, nella comunione eucaristica, ci trasforma in Sé, la nostra individualità, in questo incontro, viene aperta, liberata dal suo egocentrismo e inserita nella Persona di Gesù, che a sua volta è immersa nella comunione trinitaria. Così l’Eucaristia, mentre ci unisce a Cristo, ci apre anche agli altri, ci rende membra gli uni degli altri: non siamo più divisi, ma una cosa sola in Lui. La comunione eucaristica mi unisce alla persona che ho accanto, e con la quale forse non ho nemmeno un buon rapporto, ma anche ai fratelli lontani, in ogni parte del mondo. Da qui, dall’Eucaristia, deriva dunque il senso profondo della presenza sociale della Chiesa, come testimoniano i grandi Santi sociali, che sono stati sempre grandi anime eucaristiche. Chi riconosce Gesù nell’Ostia santa, lo riconosce nel fratello che soffre, che ha fame e ha sete, che è forestiero, ignudo, malato, carcerato; ed è attento ad ogni persona, si impegna, in modo concreto, per tutti coloro che sono in necessità. Dal dono di amore di Cristo proviene pertanto la nostra speciale responsabilità di cristiani nella costruzione di una società solidale, giusta, fraterna. Specialmente nel nostro tempo, in cui la globalizzazione ci rende sempre più dipendenti gli uni dagli altri, il Cristianesimo può e deve far sì che questa unità non si costruisca senza Dio, cioè senza il vero Amore, il che darebbe spazio alla confusione, all’individualismo, alla sopraffazione di tutti contro tutti. Il Vangelo mira da sempre all’unità della famiglia umana, un’unità non imposta da fuori, né da interessi ideologici o economici, bensì a partire dal senso di responsabilità gli uni verso gli altri, perché ci riconosciamo membra di uno stesso corpo, del corpo di Cristo, perché abbiamo imparato e impariamo costantemente dal Sacramento dell’Altare che la condivisione, l’amore è la via della vera giustizia.

Ritorniamo ora all’atto di Gesù nell’Ultima Cena. Che cosa è avvenuto in quel momento? Quando Egli disse: Questo è il mio corpo che è donato per voi, questo è il mio sangue versato per voi e per la moltitudine, che cosa accadde? Gesù in quel gesto anticipa l’evento del Calvario. Egli accetta per amore tutta la passione, con il suo travaglio e la sua violenza, fino alla morte di croce; accettandola in questo modo la trasforma in un atto di donazione. Questa è la trasformazione di cui il mondo ha più bisogno, perché lo redime dall’interno, lo apre alle dimensioni del Regno dei cieli. Ma questo rinnovamento del mondo Dio vuole realizzarlo sempre attraverso la stessa via seguita da Cristo, quella via, anzi, che è Lui stesso. Non c’è nulla di magico nel Cristianesimo. Non ci sono scorciatoie, ma tutto passa attraverso la logica umile e paziente del chicco di grano che si spezza per dare vita, la logica della fede che sposta le montagne con la forza mite di Dio. Per questo Dio vuole continuare a rinnovare l’umanità, la storia ed il cosmo attraverso questa catena di trasformazioni, di cui l’Eucaristia è il sacramento. Mediante il pane e il vino consacrati, in cui è realmente presente il suo Corpo e Sangue, Cristo trasforma noi, assimilandoci a Lui: ci coinvolge nella sua opera di redenzione, rendendoci capaci, per la grazia dello Spirito Santo, di vivere secondo la sua stessa logica di donazione, come chicchi di grano uniti a Lui ed in Lui. Così si seminano e vanno maturando nei solchi della storia l’unità e la pace, che sono il fine a cui tendiamo, secondo il disegno di Dio.

Senza illusioni, senza utopie ideologiche, noi camminiamo per le strade del mondo, portando dentro di noi il Corpo del Signore, come la Vergine Maria nel mistero della Visitazione. Con l’umiltà di saperci semplici chicchi di grano, custodiamo la ferma certezza che l’amore di Dio, incarnato in Cristo, è più forte del male, della violenza e della morte. Sappiamo che Dio prepara per tutti gli uomini cieli nuovi e terra nuova, in cui regnano la pace e la giustizia – e nella fede intravediamo il mondo nuovo, che è la nostra vera patria. Anche questa sera, mentre tramonta il sole su questa nostra amata città di Roma, noi ci mettiamo in cammino: con noi c’è Gesù Eucaristia, il Risorto, che ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Grazie, Signore Gesù! Grazie per la tua fedeltà, che sostiene la nostra speranza. Resta con noi, perché si fa sera. “Buon Pastore, vero Pane, o Gesù, pietà di noi; nutrici, difendici, portaci ai beni eterni, nella terra dei viventi!”. Amen.



© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 22 giugno 2011

Testo di riferimento: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», suppl. a Tracce-Litterae
Communionis, n. 5 (2011), Società Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2011, pp. 27-45.
• Vento
• Il viaggio
Gloria
Cominciamo la nostra ultima Scuola di comunità prima dell’estate.
Io sono rimasta veramente colpita dall’ultima Scuola di comunità che abbiamo fatto insieme, in particolare da quello che tu dicevi: che il modo con cui il razionalismo gioca in noi è che diamo per scontata l’esperienza (perciò per noi la mancanza non indica una presenza, la solitudine non indica una compagnia, e così non riusciamo a non sentire appiccicato il Mistero). Rileggendo in queste due settimane la seconda lezione che tu hai fatto alla Fraternità ho messo a fuoco quali sono le due grandi scoperte che il cammino fatto insieme quest’anno mi ha dato. La prima scoperta è che Cristo presente, non il Cristo dei miei pensieri ma Cristo risorto, non ha paura della mia umanità così com’è. Invece io senza di Lui tanto sono attaccata alle mie immagini quanto sono distante da me. Ecco, io mi sono accorta che è finita – dopo cinquant’anni – la vergogna di me; io non devo più fare finta di essere quello che non sono, e questa per me è un’esperienza di
liberazione altrimenti “impossibile”. La seconda cosa che mi ha colpito di quest’anno è che esiste una compagnia che è cercata per non sentire il Mistero, e c’è invece una compagnia, quella a cui tu ci inviti, che sostiene questo dramma con il Mistero, lo approfondisce. La prima compagnia comincia sempre fuori di me, la seconda compagnia comincia in me, e anche per questo è una liberazione.
Secondo me è decisivo capire bene quello che dici della volta scorsa, perché è veramente una sfida
che don Giussani lancia a ciascuno di noi. Lo dico molto sinteticamente: per noi la tristezza, la solitudine, la nostalgia, la domanda sono la prova palese che il Tu non c’è; per don Giussani è proprio il contrario, è il segno più evidente che il Tu c’è. E questo è decisivo che ciascuno lo guardi in faccia. Noi pensiamo che il Mistero non ci sia, a causa del razionalismo, di un uso ridotto della ragione per cui noi non ci rendiamo conto di tutti i fattori che sono implicati nell’esperienza stessa.E questo che cosa causa? Che se noi non ci rendiamo conto che Lui è presente nell’esperienza stessa – nella tristezza come desiderio di un bene assente, nella solitudine come il momento in cui uno può rendersi conto che per spiegare perché si sente da solo fino in fondo deve riconoscere la compagnia originale che lo costituisce ora –, allora ci sentiamo soli, senza coinvolgere un Altro. Mi
interessa che capiamo bene questo, perché altrimenti travisiamo la salvezza cristiana. Che cosa – secondo la nostra prospettiva ridotta – dovrebbe venire a fare Cristo? A risolvere le questioni, e per noi risolvere le questioni vuol dire eliminare il dramma della vita. Se dopo aver incontrato Cristo, siamo ancora tristi o sentiamo nostalgia, questa sarebbe la dimostrazione palese che Lui non c’è.
Ma guardate che questo è il contrario di quello che abbiamo detto il 26 gennaio! Cristo non è venuto a cancellare l’umano, il senso religioso: è venuto a ridestarlo “alla grande”, è venuto a renderlo più drammatico! Perché può renderlo più drammatico? Perché io Lo possa riconoscere, perché io possa godermi la Sua presenza. Invece, quante volte sentite dire che Cristo ci promette una cosa che poi
non compie? Perché abbiamo un’immagine di come deve compiere la promessa, che è cancellare il dramma, cancellare l’umano. E perché noi facciamo questa operazione? Perché abbiamo sempre in testa che la modalità vera dell’umano sarebbe il superamento della sproporzione strutturale. Ma la

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sproporzione strutturale “è” l’uomo! È come se avessimo una obiezione alla totalità di come il Mistero ha fatto le cose («Sarebbe meno drammatico se non avessimo questa sproporzione, se non
sentissimo tutta la drammaticità che questa sproporzione implica, e se qualcuno ce la risparmiasse»). Per questo concepiamo la sproporzione come una tappa da superare; tutta la nostra aspettativa è che in qualche momento della vita noi possiamo superare questa sproporzione. Ma
questa concezione rende il cristianesimo una fregatura: perché non soltanto Cristo non è venuto a
eliminare il senso religioso, ma è venuto a ridestarlo! La salvezza non è cancellare il senso
religioso, ma ridestarlo, affinché possiamo veramente godercela da uomini. Ma perché
commettiamo questo errore nei confronti del cristianesimo? Perché prima l’abbiamo fatto nel
rapporto con noi stessi. Se per noi l’uomo, così come viene descritto nel quinto capitolo de Il senso
religioso (solitudine, nostalgia, tristezza), non documenta che il Mistero c’è, che cosa può mai
diventare la presenza di Cristo? Ma dobbiamo qualche volta domandarci: che cos’è l’uomo e che
cos’è la pienezza dell’uomo? Cristo ci commuove fino al midollo, e questo non fa sparire la
sproporzione strutturale, la ridesta tutta. Ma tante volte avete l’obiezione che esprime questa lettera:
«Ho una domanda che mi urge dalla Scuola di comunità scorsa. Spiegando la lettera con cui si è
cominciato, hai chiarito perfettamente che la prova evidente che il Tu c’è è proprio l’esperienza
della nostalgia, della mancanza con la quale magari non facciamo i conti [per questa persona è stato
perfettamente chiaro]. Ma, vedi, questo non risolve il problema per me. Perché la nostalgia che vivo
implica che il Tu ci sia, ma non che sia presente. Come quando ho nostalgia di uno che amo ed è
lontano: certo che c’è, ma io vorrei che fosse qui, non solo essere certa che esiste. Nella lettera
citata proprio questo mi commuove e mi riempie di invidia: che per lei il Tu è lì, come un amore
presente. Vorrei che il cammino di certezza che riconosco stiamo facendo diventasse un’esperienza
di compagnia reale, davvero un Tu che è qui con me, da abbracciare». Che il Tu ci sia, ma che non
sia presente: questa è una distinzione che indica fino a che punto arriva il nostro razionalismo! Se
Dio non fosse presente adesso dandomi la vita, io non ci sarei. Egli è presente nel segno: il mio io
documenta che c’è e che è presente. Tanto è presente, che io sono qui, ora. Paragoniamoci con
l’esempio dei fiori regalati: documentano che c’è un altro (il datore), anche se non è presente,
perché la presenza dell’altro è fuori dai fiori, perciò possono esserci i fiori ma non essere presente
l’altro che ce li ha mandati. Ma quel che vale per i fiori vale anche per noi? Cioè: io posso esistere
senza che il Tu che mi fa ora sia presente?! Ciascuno di voi può essere presente, può esistere ora
senza un Tu che gli dia l’essere ora?! Senza chiarirci questo, poi facciamo fatica a capire quello che
dice il Volantone di Pasqua. Perché la concezione che mi sembra che alcuni tra noi abbiano di Dio è
di un qualcuno che mette in marcia il motore del mondo e poi se ne va in vacanza, fin quando
ritornerà. E così anche per il cristianesimo: Cristo è venuto, fortunati quelli che L’hanno
sperimentato “dal vivo”, noi non siamo tra essi e possiamo limitarci solo a mettere in pratica degli
insegnamenti in Sua assenza, finché Lui torni a dirci se siamo stati bravi o meno... Ma guardate
cosa dice Giussani nel Volantone: «L’avvenimento non identifica soltanto qualcosa che è accaduto
e con cui tutto è iniziato, ma ciò che desta il presente, definisce il presente, dà contenuto al presente,
rende possibile il presente». È presente? In che cosa lo vedo? In quel che Egli rende possibile. Non
è che c’è Cristo risorto, ma non è presente; l’avvenimento non è una categoria che dice soltanto
dell’inizio, ma che definisce, dà contenuto, rende possibile il presente. Che consapevolezza aveva e
ha Giussani di quello che sta succedendo ora. E per questo dice dopo: «Cristo è qualcosa che mi sta
accadendo». Di fronte a una frase così, come possiamo dire che c’è, ma non è presente? Non è
possibile, non è possibile! Infatti, poi, pensiamo che l’unica modalità con cui Lui è presente è quella
che noi abbiamo nella nostra immaginazione. Per i discepoli di Emmaus Cristo era qualcosa che
stava accadendo loro in quel momento esatto: «Non ci ardeva il cuore mentre ci parlava lungo il
cammino?»: non Lo conoscevano al di fuori dell’esperienza presente. Infatti sentite cosa mi scrive
un’altra persona: «La nostalgia di certe persone – quando non le vedo – la sento perché sono una
presenza forte nella mia vita. Loro sono presenti e per questo sento la nostalgia». Dice Giussani:
«Non si può adorare una presenza – Dio! – senza che si soffra per un’assenza, che tu vuoi colmare,
hai la febbre per questo [ci ridesta così potentemente che uno desidera di più]. [Per questo] non mi

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spaventa il mio limite [come dicevamo prima], è la dimostrazione più fantastica dell’esistenza di
Dio, che si palesa in negativo, come mia mancanza». Questa mattina mi diceva un amico che,
parlando con sua moglie, si domandavano: ma che cosa vuol dire «ti voglio bene»? E la moglie gli
diceva: «Ti voglio bene perché ti aspetto, io percepisco che ti voglio bene perché ti aspetto». Potete
immaginare che uno possa aspettare senza che ci sia un altro? «Ti aspetto» è la documentazione
palese che c’è. Per questo si identifica voler bene con «ti aspetto»; quanto più ti voglio bene, tanto
più sei presente, tanto più ti aspetto. Ma questo per noi – come scrive un altro – è come se fosse un
percorso solo intellettuale: «Per me ascoltare la tua esposizione – scusa l’inadeguatezza del termine
– è stato seguire come un percorso razionale: l’evidenza che non mi faccio da me, la nostalgia, la
tristezza, la solitudine che implicano un Tu, il desiderio di un bene assente e la compagnia originale.
Ho avvertito netta la distanza tra la tua esperienza e la mia, come se quelle parole per me
mancassero di carne e di sangue». Questa è la questione. Per noi il Tu è mancante di carne e di
sangue. E come si possono riempire le parole di carne e di sangue? Questo è il grande contributo di
metodo che don Giussani ci offre in continuazione. Diceva una ragazza universitaria che la vita
aveva iniziato a cambiare per lei da quando aveva incominciato a entrare nella vita, nelle cose, con
l’ipotesi di Cristo, cioè con l’ipotesi di quello che si era svelato nell’incontro con Cristo; e si è resa
conto che, pian piano, entrando così nella vita, quell’ipotesi a un certo momento non è più solo
un’ipotesi, ma una certezza. Se le parole sono identiche, perché per alcuni sono carne e sangue,
mentre per altri rimangono solo parole? Perché quello che riempie di carne e di sangue le parole è
l’esperienza. Se non sei disponibile a fare questa strada, potrai continuare a dire che sono parole; e
chi ti potrà convincere del contrario? Soltanto se uno lo verifica nell’esperienza, incomincerà a
vedere che diventano carne e sangue, perché le cose vissute nell’esperienza non possono essere più
solo parole. E allora questo diventa certezza, che è quello che tante volte a noi manca, come mi
scrive un altro: «È come se queste cose le dessi per scontate, ho cercato di capire il perché e non
riesco più a essere soddisfatto di quello che ho ricevuto; e ho formulato un’ipotesi: la ragione è che
non sono povero, non ho più gli occhi di un bambino, mi sono seduto sulla strada che devo
percorrere. Ma perché questo? Perché non riesco più a riconoscerLo. È come se L’avessi
riconosciuto nel passato, riconosco che Lui c’è stato, ma ora non riesco a vederLo in tutto quello
che faccio. Di conseguenza, mi attacco alle persone, la mia morosa in primis, e non ho il cuore
libero, aperto. Riprendo il capitolo sulla povertà e ho trovato un’ipotesi di risposta: “Se Cristo ti dà
la certezza di compiere ciò che ti fa desiderare, allora tu sei liberissimo dalle cose”, invece io questa
certezza la maggior parte delle volte faccio fatica ad averla. Il capitolo continua con questa frase:
“Bisogna che diventiamo più poveri, ossia certi di alcune grandi cose”. Desidero essere sempre
certo di questa presenza perché sono certo del nome che porto». È questo che dice anche il
Volantone di Pasqua: «Fuori di questo “ora” non c’è niente!». Per questo, o noi lo cogliamo nel
presente, nell’ora, o non c’è niente da fare. Ma per coglierlo nell’ora occorre questa semplicità del
bambino di non dare per scontato tutto. Paradossalmente è questa semplicità del bambino che ci
rende certi. L’esempio più palese di tutti che possiamo immaginare è quello del cieco nato (più
povero di così si muore!), che aveva soltanto questa certezza: prima non vedeva e poi vede. Questa
povertà, questo essere come bambino davanti a quello che accade, lo rende certo, mentre tutti gli
altri sono lì a manipolare i dati cercando di fare fuori l’evidenza: prima non vedeva e poi vede. Non
è complicato. Il cieco nato dimostra che riconoscerLo presente non è complicato: con la semplicità
di un bambino non dà per scontato che prima non ci vedeva e adesso ci vede. Il percorso da fare è
questo, amici, perché un’ipotesi diviene certezza soltanto se noi in continuazione la verifichiamo
nell’esperienza.
Come lo hai verificato tu?

Settimana scorsa sono andata in un mercato e stavo distribuendo il volantino Pronti a rendere ragione della speranza che è in noi. E a me, andando lì, bruciava questa domanda, io mi chiedevo: ma cos’è che realmente è in grado di cambiarmi, cioè di tirarmi fuori dallo scetticismo in cui così spesso sono immersa, dalla stanchezza in cui cado? Cos’è che realmente è in grado di smuovere la

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radice del mio io? A un certo punto, ero davanti a una bancarella, c’era un uomo che vendeva delle uova e mi ha chiesto che cosa stavo facendo. Gli do un volantino e gli faccio questa domanda sincera: «C’è qualcosa che è in grado di cambiarla? Di vincere lo scetticismo, la stanchezza, la noia? Cioè qualcosa che sostiene i suoi desideri e risponde ai bisogni veri che lei ha?». Dopo un po’ di discussione lui era sempre più provocato e interessato, e mi rispondeva così: «Per me la
risposta a questa domanda sono i Vangeli e i comandamenti». Io mi sono trovata a dire: «Ma cos’è che la spinge a seguire delle norme? Le basta questo? Che convenienza porta nella sua vita, nelle sue giornate? Risponde a tutto il suo bisogno più profondo di uomo? Al desiderio che le sue giornate siano intense e che la sua vita non sia mediocre? Sostiene quelli che sono i desideri più veri, più profondi?». E lui era sempre più scosso e toccato da quelle domande e mi diceva, di fatto, che la convenienza era nulla e che le sue giornate parlavano di una certa stanchezza. E, di fronte a questo, io mi trovavo sempre più mossa e continuavo a chiedergli: «Ma lei desidera essere felice?
Desidera che la sua quotidianità possa essere intensa e non un tirare avanti? Si può accontentare di vivacchiare?». E quell’uomo, di fronte a queste domande, non si voleva tirare indietro; le desiderava tutte, ma si accorgeva che le risposte che dava erano mezze risposte che non bastavano e non convincevano nemmeno lui, mentre quelle domande erano radicali perché andavano a toccare qualcosa di decisivo. E ancora, di fronte a tutte le sue critiche sugli scandali della Chiesa e
sulla società, io mi sono trovata libera di chiedergli: «Ma lei non vorrebbe essere abbracciato così com’è, con tutto il suo limite, anche il suo peccato? Lei non desidera essere amato e amare sempre di un amore infinito? C’è o non c’è qualcosa nella realtà che non tradisce?». E mi rispondeva: «Mi stai mettendo con le spalle al muro, mi stai mettendo in confusione». A un certo punto, ha iniziato a dirmi: «Ma dimmelo, dimmi com’è per te, allora». E così io, molto sinteticamente – perché per la
maggior parte del tempo gli ho fatto domande – gli raccontavo che quello che cambia me è l’accadere di Cristo, che per me il cristianesimo è carne, non regole magari anche giuste da seguire, e io lo vivo nella carne del movimento. E poi gli dicevo del moroso, degli amici, dei rapporti che cambiano e di una compagnia nuova e della possibilità di guardare tutto il mio bisogno, e gli ho regalato il Tracce di maggio dicendogli che quella per me è la testimonianza, è la
documentazione che il Mistero accade continuamente nel mondo, che entra nelle giornate e stravolge la quotidianità, ma che, soprattutto, gli regalavo il libretto degli Esercizi per il valore che ha per me in questo periodo nel riguardare e riscoprire tutto quello che sono, la radice del mio essere. E lui mi ha detto per tutta risposta: «Ma voi ci siete, vi trovate?», e allora gli ho detto della
Scuola di comunità e mi diceva ancora: «Ora ti ho detto le mie questioni, se voi mi aiutate io vi ringrazio». E io, di fronte a quell’uomo, mi sono accorta che veramente la mia umanità senza tutte quelle domande è ridotta – la mia e quella di quell’uomo –, e che mi urge poter guardare tutto quello che sono, ché sono fatta per vivere all’altezza del mio bisogno, e tutte quelle domande non potevo schivargliele, mi sono trovata a non scontargliene neanche una nonostante quel venditore non riuscisse a darsi risposte soddisfacenti. Ma io lì ero libera nel porgliele e nell’affondare sempre più nei nostri bisogni più radicali, perché certa che la risposta a tutto questo c’è e, anzi, mi sono scoperta totalmente grata di esserci e di essere così, con qualcosa di irriducibile, e non con qualcosa che non va, da guarire in fondo: Cristo c’è perché risponde interamente a quello che è il
mio bisogno.

Uno che domanda così c’è o non c’è? Quello che cambia lei è l’accadere di Cristo. Altrimenti avrebbe potuto incalzare così l’interlocutore? Che uno faccia i conti con tutte queste domande, che sia in grado di stare davanti alle domande è segno che c’è o che non c’è?

Dopo un periodo in cui all’università sono capitati fatti eccezionali (elezioni studentesche, campagna elettorale, pellegrinaggio dal Papa), non mi tornava una cosa, era come se mi stessi dicendo: va bene, adesso son finiti i fuochi d’artificio, devi pensare un po’ al tuo. Ma più passavano i giorni, più questa cosa mi strideva: io voglio e desidero una vita unita. Poi è uscito il volantino di cui parlava l’intervento precedente, e mi ha molto colpito la reazione di una mia
amica: «Finché mi avete chiesto di prendere sul serio l’ipotesi di fare campagna elettorale ci sono
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stata; ma andare a dire Cristo nei mercati, questo è troppo». E lì mi ha impressionato, perché lei semplicemente ha dato voce alla questione che sto capendo che è sempre più radicale per me: questo volantino mi ha salvato dal non rimanere ingannato, ché nemmeno i miracoli mi possono bastare. L’unica cosa che mi può bastare è quel che dice un volantino così: «La forza che fa la storia è un uomo che ha posto la sua dimora tra di noi, Cristo». Io ho bisogno di questa radicalità e
infatti per me adesso sto capendo infinitamente di più cosa intendeva il Volantone di Pasqua, perché o tutto quello che io ho visto, anche di grande e di eccezionale, mi viene ridato ora, oppure mi scivola tutto tra le mani e alla fine resto schiavo di me stesso e del potere. Mi ha aiutato a capirlo di più anche un’altra cosa. La mia morosa fa l’infermiera e mi raccontava che in reparto
sono arrivati feriti due ragazzi minorenni che, dopo aver rubato un auto, hanno fatto un incidente ammazzando altre persone, insomma una situazione drammatica. Mi raccontava che molti in reparto erano scandalizzati di questa cosa, non volevano curarli con l’antidolorifico: «Hanno fatto del male e devono soffrire». La cosa che più mi ha colpito non è stato tanto lo scandalo di questi, ma che lei senza fare le moine o dire: «Vabbè, c’è Gesù», si è messa a curarli sfidando i colleghi:
«Nel trattarli in un certo modo, questi ragazzi, che molto probabilmente non hanno nemmeno idea di che cosa è il bene e che cosa è il male, magari possono vedere un minimo di di erenza nella vita,un minimo di bene nella vita». Perché mi ha colpito? Perché non c’era nessuno, c’era lei! Io capisco che ho bisogno di questa presenza ora, perché il giorno che fossi da solo non debba ogni volta cercare la stampella (che è l’amico o tutte le frasi di Cl); sono io che anche nel silenzio dello studio, da solo, posso fare esperienza di Cristo che incide nella storia.

Vedete? Fatti eccezionali e miracoli: ma senza il riconoscimento della Sua presenza, dopo che si ferma questa frenetica attività tutto decade. E lui ci dice che ha bisogno che gli sia ridato ora. E qual
è la modalità con cui Lui permane oggi, in mezzo a noi? Generando persone in grado di stare nel reale, anche contro tutto e contro tutti, testimoniando – come la sua morosa – Cristo nel modo di trattare il reale. Questi ragazzi minorenni hanno fatto una cosa assolutamente sbagliata, se la dovranno vedere con il Signore; ma questo non toglie a lei il compito di rispondere al bisogno che hanno. Che uno non si vergogni di Cristo vuol dire che queste circostanze uno le guarda come è stato guardato lui, e questo sfida tutti. E occorre che questo in lei stia succedendo ora, perché altrimenti uno preferisce fare come tutti, adeguarsi. Che razza di sfida!

Ciao.
Sintetica, eh!
Sono qui per comunicare una cosa un po’ strana che mi succede. Nella mia vita quotidiana posso con sicurezza affermare che a questo punto del cammino io sono in grado di tradire, dimenticare o bypassare mille volte, ma mai, mai tornare indietro. E provo a spiegarti perché. Mi sembra di essere diventata in grado di acquisire e percepire con la voracità di un piranha tutto ciò che il Gius e tu ci spiegate sul senso religioso. Io quella domanda lì, quella che l’uomo si porta dentro dalla
memoria dei tempi, ce l’ho da quando sono nata, ma nessuno mi aveva insegnato né a leggerla né a guardarla; io l’avevo sempre soffocata, negata, avvilita con tutto il sostegno, l’impalcatura del mondo intorno. Però c’era. C’è sempre stata proprio perché non me la sono data io, era lì, chiusa nel mio cuore. Ha cominciato a esplodere e a non poter essere più contenuta di fronte a dei fatti decisivi che richiedevano una scelta radicale: vivere o morire. Se scegli di vivere, devi andare fino in fondo a tutto di ogni cosa, di ogni dettaglio, e lì ti ritrovi, c’è tutta la potenza e la misericordia del Mistero – una grazia infinita – che cominciano a parlarti, a mostrarsi, a rispondere a tutto quello che sei. Dove sta il mio dubbio, allora, per quello che ti dicevo? Che è stato detto, e forse appunto io mi sono sbagliata…
Tu non ti preoccupare.
Anch’io mille volte tradisco, mille volte sbaglio, e sento anche tutta la consistenza della differenza di potenziale così come c’è nella Scuola di comunità, tutta questa mia sproporzione, ma questa vita riscoperta di domanda e di risposta, di mendicanza e di dono, costituiscono continuamente una provocazione nella provocazione, che si trasforma in continua adesione e sollecitazione a viverLo
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dove Lui è e cioè, inspiegabilmente, nel mio cuore. Se non rispondo, questa vita si spegne e qualcosa dentro bussa forte; mi sembra di capire che è quella coscienza con la sua vocina raccontata dai miei genitori quando ero piccola. Questo sentirLo accanto è così bello, ma così bello, che la sensazione è quella di aver del tritolo nel cuore, un puro gusto di vivere, un centuplo moltiplicato al cubo, una grazia infinita. Per esempio, mentre ero in coda in un ufficio pubblico,
per cercare una biro nella borsa mi è caduto tutto il contenuto della borsa in terra; un tizio dietro mi aiuta a raccattare tutto e c’era il libricino degli Esercizi. Mentre mi profondevo in scuse e ringraziamenti, devo averlo guardato in modo particolare e ho pronunciato queste parole: «Grazie,o mamma mia, questo libretto per me è insostituibile, è la mia vita; sa, sono passata dal libretto di
Mao a quello di Carrón».
Un salto troppo grande...
Farà ridere, però è davvero così. In queste parole c’era tutta la mia vita, ma proprio tutta. Il tizio mi guarda un po’ disorientato e mi dice: «Quando avrà finito allo sportello mi racconta chi è questo Carrón?». Ho cominciato ad “aprire il file”, raccontandogli come un fiume in piena della mia vita sbalorditiva cambiata, colorata, illuminata. Il mio cuore è diventato grato di tutto, perfino
della povertà che prima mi spaventava così tanto a morte, grata del mio matrimonio, dei miei figli. Tutto è punto di partenza. Adesso mi sento un po’ matador come hai detto l’altra volta. Insomma, io avverto tutta questa tristezza quando Lui non c’è, però avverto anche tutto questo tritolo nel cuore.
Volevo solo sapere se ero sulla strada giusta.
Ma tu cosa dici, è la strada giusta o no?
Per me sì, assolutamente.
Perché?
Ma perché è un rispondere a tutto, tutto quanto mi viene incontro.
Se tu dici che tu sei più lieta che mai, hai conferma nella tua esperienza alla tua domanda?
Sì.

Basta. Nessun commento che io aggiunga dà più conferma che l’esperienza che fai tu. Tutti noi abbiamo avuto la grazia che ha avuto lei, ognuno con il suo dramma, il problema non è la circostanza che uno attraversa, ma se domina quel che ci è capitato, perché questo è quello che
rende lieti e liberi più che mai, qualsiasi sia la circostanza. Ma lei ci ha detto una condizione: «Senon rispondo, questa vita si spegne». Cristo ha collegato la partecipazione a questa novità alla sequela, cioè al rispondere, che non è chissà quale energia, ma è un abbandonarsi, ci ha detto. Per questo è a portata di mano di tutti, anche nell’estate che abbiamo davanti, in cui potremo riprendere
con calma tutto quello su cui abbiamo cominciato a lavorare. Il testo degli Esercizi sarà una convivenza che ci fa compagnia, perché quelle parole diventino familiari, diventino lo sguardo normale della vita. È utile rileggere i testi stessi di don Giussani del capitolo quinto e del capitolo ottavo de Il senso religioso, perché allora potremo veramente godere di più di tutta la ricchezza, di tutti i dettagli che tante volte perdiamo. Siccome abbiamo davanti mesi, anche se facessimo soltanto qualche momento al giorno, potrebbe farci sempre più compagnia.
Dopo la Giornata d’inizio anno riprenderemo a fare gli incontri della Scuola di comunità in collegamento.
Vacanze. Tutti sappiamo la stima particolare che don Giussani ha per il tempo libero, perché nel tempo libero, quando non siamo costretti da certi doveri o impegni a cui dobbiamo rispondere,possiamo usare il tempo come vogliamo. Per questo il tempo libero è dove uno vede, scopre che cosa ha di più caro, che cosa vuole realmente, a che cosa dà lo spazio e il tempo, oltre che pensare a riposarsi, ovviamente. Ma vediamo anche la concezione che abbiamo del riposo, perché uno può pensare che riposare voglia dire anche interrompere la familiarità di cui parlavo un istante fa, perché questo farebbe parte dell’impegno; ma questo dice del nostro razionalismo, come se potessimo veramente riposare senza che “riposi” la totalità dell’io, senza questa unità di cui si parlava prima.
Per questo la vacanza è una possibilità per ciascuno di esprimere liberamente il nostro rapporto con
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il Mistero, il nostro rapporto con la realtà tutta che può essere caricata del Mistero. Il silenzio o la preghiera, o la Scuola di comunità, la convivenza, l’amicizia, il Meeting sono per aiutare questa posizione personale.
Vi ricordo da ultimo la partecipazione alla processione del Corpus Domini nelle vostre città. Per la diocesi di Milano sarà domani sera.
Buona estate a tutti. Preghiamo.
Veni Sancte Spiritus

lunedì 13 giugno 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 8 giugno 2011

Testo di riferimento: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», suppl. a Tracce-Litterae
Communionis, n. 5 (2011), Società Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2011, pp. 12-26.
• Luntane, cchiù luntane
• Lela
Gloria
Ci eravamo dati come lavoro per oggi ancora la prima lezione degli Esercizi della Fraternità.
Volevo chiederti un aiuto perché – torno a due Scuole di comunità fa – ho un sasso nella scarpa che non riesco a togliermi ed è l’ultima lettera che hai letto, in cui c’è un passaggio in cui o lei non ha detto una cosa, oppure, se è così come tu l’hai ripresa alla fine, c’è qualcosa che io non conosco ancora e che voglio conoscere perché, se lo conosco, penso che mi possa aiutare tante volte a disincastrarmi in tante situazioni. Ho anche chiacchierato con amici, chiesto chiarimenti, ma mi sembra di non esserne venuto a una. Leggo un pezzettino – se posso – della lettera. La lettera racconta di un disagio, di una fatica a fronte di una serie di circostanze e a un certo punto dice questo: «Allora mi sono ricordata della promessa che ti ho fatto: non dirò mai niente senza prima essermi guardata in azione. Mi sono osservata tutta la giornata cercando di capire cosa mi muovesse, perché facevo tutto: il pranzo con quell’amica, lo studio fatto in un certo modo... In ogni mia azione c’era un denominatore comune: una costante ricerca di qualcosa che colmasse la mia nostalgia. Su di me, sulla vita, ho solo una certezza: che il mio cuore è pieno di nostalgia, è pieno di attesa, di tensione, è pieno della promessa che la vita non è vuota, che cerco qualcosa che c’è, altrimenti smetterei di cercare.
Il mio cuore cerca, quindi afferma con certezza costante un Altro [e qui il punto]. Improvvisamente, senza nessun calcolo, senza nessuna formula e senza nessun
ragionamento, di nuovo è tornato quel Tu. Irrompendo mi ha sovrastata, mi ha investita, mi ha coinvolta, abbracciata. Eravamo io e questo Tu, e basta. E ho ripreso a respirare. Un rapporto così intimo e tenero da togliere le parole». A me ha colpito, perché: o lei non ha raccontato alcune cose, oppure, se è così come lei ha detto, vuol dire che lei non ha avuto bisogno – apparentemente, così come la vedo io – né di qualcosa al di fuori di sé, un fatto, un qualcosa che è accaduto, né di leggere qualcosa, né di fare memoria di qualcosa d’altro. Perché io, quando mi incastro, non ho questa risorsa. Mi sorprende che tu due volte dici che questo è un punto di non ritorno. A me interessa un punto di non ritorno perché io ho sempre pensato che quando uno si incastra o fa memoria di un fatto o vuole che quello che è accaduto riaccada, e quindi si danna per scoprirlo, curiosando nel reale, lo va a cercare ovunque esso sia, ma la compagnia così intima di questo Tu
io faccio fatica a capirla, sembra che compaia magicamente; forse ne faccio esperienza inconsciamente, non lo so, ma io voglio un punto di non ritorno perché so che mi può fare compagnia sempre.
Questo è il nocciolo della prima lezione, è la difficoltà che noi ci troviamo addosso in continuazione. Per questo non voglio rispondere a questa domanda adesso, all’inizio della Scuola di comunità, voglio vedere se c’è qualcuno che ha qualcosa da dire su questo passaggio. Perché lui dice, davanti alla lettera: è come se improvvisamente apparisse un Tu – che è quello che capita tante volte anche a noi –, un Tu che uno tira fuori dalla manica, quasi se lo inventasse. E allora è come se
noi diventassimo, a un certo punto, creatori invece di testimoni. Allora, nei passaggi che fa la lettera, manca qualcosa o no?

Tutti gli interventi che avete preparato li mettete da parte. Ora rispondiamo a quel che è venuto fuori, perché qui stiamo a quello che accade ora. Forza!

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Volevo ringraziarti, e nel contempo ringrazio il movimento, perché quando tu agli Esercizi hai affrontato il secondo punto, il “misterio eterno dell’esser nostro”, a me ha scosso tantissimo. Infatti mi ha fatto mettere a fuoco il punto di coscienza che sono e che si svela nell’azione e nell’impatto con la realtà, quando vivo una profonda nostalgia di questo Tu, in una modalità anche molto sofferta. Però mentre altre volte l’ho vissuto riducendolo a un fatto intimistico e psicologico…
E perché non è un fatto intimistico e psicologico?
Io so che ha generato una maggiore certezza quello che tu hai detto, la certezza del vincolo di rapporto con questa Presenza. Per cui, in questa certezza di un cuore che vibra per Lui, ho visto
che l’impegno con le cose diventa ancora più profondo, va in affondo. Per esempio, in me ha generato ancora di più un gusto culturale nel lavoro di ricerca che sto facendo, dove sono attenta a vedere tutte le cose che possono confluire dentro questa mia tensione nel lavoro.
Grazie.
Quando avevi letto quella lettera a me era sorta la stessa domanda: ma come faccio a fidarmi di una cosa che accade in me? E questo svelava una posizione che io mi ero scoperta addosso anche altre volte rispetto a quello che tu dicevi.
Ripeti la domanda che hai fatto…
Come faccio a fidarmi di qualcosa che accade in me? Mi sembra così fragile. Allora sono stata a guardare queste settimane e mi è accaduto questo. Sono andata a volantinare, e ho invitato alcuni ragazzi delle superiori. Dopo due giorni uno con cui io faccio abbastanza fatica è venuto da me, io ho cercato come al solito di svicolare, e lui, invece, è venuto a domandarmi: «Ma io ho fatto un’esperienza andando a volantinare. Da una parte ero esaltato, contento, perché ho scoperto che
io avevo qualcosa da dire, ma nello stesso tempo ho fatto l’esperienza di una – come dire – piccolezza». Quando lui ha detto questa frase mi sono fermata, l’ho guardato e ho detto: «Ma è quel che ho vissuto io». Mi sono scoperta libera nel rapporto con lui. In quell’istante ho capito che qualcosa stava accadendo in me, cioè quell’esperienza di libertà è stata il modo con cui ho capito quello che tu avevi detto attraverso la lettera, perché Cristo è qualcosa che stava accadendo come
libertà in me, per cui io ho detto: ma io posso fidarmi, perché un Altro abita la mia vita.
Però lei nella lettera non fa menzione di questo.
No, sto dicendo…
Non pensare di cavartela così.
No, no.
Non aggiungete voi quello che vi viene in testa, rispondete a questo.
Io sto parlando della libertà.
Poi arriveremo anche lì dove tu vuoi.
Sì, sì, però dico: nel tempo questa è stata la scoperta per me, per una libertà che accadeva in me, non generata da me. Io faccio esperienza di quello che lei chiama “Tu” rispetto a qualcosa che accade in me come qualcosa di misterioso in cui io scopro, mi sono scoperta…
Dove lei fa esperienza di questo?
Ah, lei?
Sì, in quello che dice lei.
Che lei non poteva esaurire questa... Quella nostalgia che lei ha scoperto, quel desiderio che si è trovata addosso in tutto quello che faceva, era qualcosa di diverso da lei stessa.
Perché?
Perché lei non poteva colmare quel desiderio, si muoveva per cercare una risposta.
Siete d’accordo? Grazie.
Vedo che la coda oggi si è smaltita subito. Come diceva un mio professore: i buoni toreri si fanno
davanti ai buoni tori (ma vedo che qui manca esperienza taurina...). Io ringrazio che il primo intervento abbia posto questa questione, perché coglie una vera difficoltà che abbiamo, tale per cui anche se leggiamo il quinto capitolo de Il senso religioso, cioè la colonna vertebrale della prima
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lezione di sabato mattina, si vede la fatica che facciamo proprio perché davanti a una lettera come quella citata non capiamo. Ma tutto quello che dice Giussani in quel capitolo, lo dice a partire dalla tristezza, dalla solitudine, dall’attesa, dalla nostalgia! E tutto questo per lui che cosa implica? Come dice in modo solare alla fine, nella conclusione, il fatto che ci siano tutti questi fattori, il fatto che ci
sia la domanda è il segno più palese che c’è la risposta: «L’affermazione della esistenza della risposta, come implicata nel fatto stesso della domanda» (Il senso religioso, p. 76). Per noi questo passaggio è quasi incomprensibile. Perché? In che cosa si vede? Perché è come se una volta descritta tutta la nostalgia, tutta l’attesa, tutta la tensione, tutta la promessa, quando uno dice «Tu»,
sembra che lo tiri fuori come il coniglio dal cappello, magicamente appunto. Cioè: non vediamo il rapporto tra tutti questi fatti che non possiamo cancellare dalla vita e l’affermazione del Tu. E questo fa sì che noi, alla fine, tante volte pensiamo che questo Tu è affermato perché lo decidiamo noi, e che non venga fuori dalle viscere dell’esperienza reale che abbiamo fatto; e per questo ci sembra che lo inventiamo noi. Perché devo dire: «Tu»? Perché sono sicuro nel dire: «Tu»? Perché
sono sicuro che esiste questo Tu? Siccome non risolviamo il problema a questo livello, quante volte in questi anni ci siamo detti: «Ma perché devo dire Cristo davanti ai fatti accaduti? Ma perché devo dire…?». È lo stesso problema, applicato alla fede. Che cosa succede, amici? Qual è la differenza di atteggiamento tra Giussani o questa lettera e noi? Che noi diamo per scontato il desiderio, diamo
per scontato che ci sia la nostalgia, diamo per scontato di sentire la solitudine. Che cosa vuol dire dare per scontato? Che sentire la solitudine e la tristezza non implica niente altro; e invece se voi leggete tutto quello che dice Giussani in questo quinto capitolo, ogni volta che parla di queste cose implica qualcosa d’altro: non può parlare della tristezza senza riconoscere che è desiderio di un bene assente; non può parlare della solitudine senza che questa solitudine, quando uno la guarda in faccia, sia l’occasione di riscoprire l’originale compagnia; non può parlare della nostalgia perché non esisterebbe la nostalgia senza un Tu. Per questo, quando una persona scrive una lettera come quella che abbiamo riletto, a noi sembra che manchi qualche pezzo. Perciò mi ero soffermato sulla questione della nostalgia, che è dove più chiaramente possiamo guardarlo. Perché Lagerkvist (è citato dal don Gius alla fine del capitolo) parla di nostalgia? Perché uno, quando guarda in sé il
fenomeno della nostalgia, non può non implicare un tu di cui ha nostalgia? Perché il fatto che ci sia la nostalgia è il segno più palese, la prova più evidente che non mi invento un tu, perché nessuno che abbia nostalgia si inventa un tu; chi non ha un tu non ha nostalgia! Il fatto che noi ci rendiamo conto che c’è la nostalgia è la prova più palese che c’è un tu, non perché lo decido io, non perché lo affermo io, non perché lo genero io, non perché lo creo io – aggiungete tutti i verbi che volete – ,
ma perché c’è! Perché c’è! Non è intimistico né psicologico, perché per affermare il fenomeno della nostalgia occorre qualcosa fuori di me di cui ho la nostalgia, e occorre qualcosa in me comestruttura che io non posso spiegare senza questo Tu di cui ho nostalgia. E qui tocchiamo proprio con mano il nostro razionalismo, cioè questo uso della ragione da cui Giussani cerca costantemente di aiutarci a uscire attraverso le citazioni delle esperienze umane degli uomini “più umani”, da
Dostoevskji a Leopardi a Pavese. Perché? Perché al vertice dell’esperienza umana uno non aggiunge le sue fantasie, ma si rende conto di quello che è implicato nel dinamismo del proprio io. Quello che noi diamo per scontato è questo dinamismo, questa dinamica dell’io. E se non c’è questa compagnia originale nell’io, poi possiamo essere in mezzo a tanti ma essere da soli, perché la compagnia non può essere che questo Tu. È lì, nel momento della solitudine (dice il don Gius) dove
uno scopre la sua originale compagnia. E se noi non ci soffermiamo su questo continueremo a usare la ragione razionalisticamente, cioè come misura. E poi, quando arriviamo al punto, affermiamo senza motivo adeguato il Tu, ma non siamo sicuri. Da che cosa si vede? Dal fatto che è una supposizione e non una conoscenza. E analogamente succederà domani con Cristo, perché è lo stesso uso della ragione che ci lascia costantemente incerti. In questo senso la portata del percorso che ci fa fare don Giussani è epocale, perché è la lotta più accanita contro questa riduzione della
ragione a misura, tale per cui affermare questo Tu sembra appiccicato – come mi dite sempre –, aggiunto, sembra qualcosa che non è dentro l’esperienza stessa. Invece lui dice tranquillamente che per il fatto che c’è la domanda esiste la risposta. Questa lettera svela la nostra difficoltà: perché noi

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non abbiamo il coraggio di dire a Giussani che gli manca qualcosa, ma la stessa obiezione che potete fare all’amica della lettera o a me la potete rivolgere direttamente a Giussani, direttamente! E qui si vede chiaramente come possiamo ripetere per anni il quinto capitolo de Il senso religioso e non spostarci di un millimetro dalla nostra posizione. Leggiamo ma non incide, non incide. Capite il
perché della lotta accanita del Papa per allargare la ragione? Non è un problema di Dio, non è un problema del Tu, è ancora una volta un problema dell’io, della capacità dell’io di affermare il Tu. Per questo la Chiesa ha difeso sempre, in mezzo a questo razionalismo dilagante, fin dal Concilio Vaticano I, questa possibilità della ragione di affermare il Tu, di affermare il Mistero. Se non è vero questo, non sta in piedi non questo capitolo, non tutto il libro, ma tutto il PerCorso. Se io ci sono,
qual è la cosa più evidente? Che c’è un Tu. Ma questo non è un problema psicologico o intimistico, perché io ci sono nel reale e devo dare ragione adeguata, in ogni istante che vivo, del perché ci sono. Noi questo lo diamo per scontato, ma è la cosa meno scontata che ci sia! E siccome lo diamo per scontato, non ci rendiamo conto che il fatto di non essere scontato implica già che c’è Uno che me lo dà ora: sono Tu che mi fai, ora. Non perché lo penso io, non perché lo sento io, non perché
me lo immagino io, non perché me lo creo io: perché ci sono! Non è un problema psicologico, non è un problema di proiezione alla Feuerbach, è un problema implicato nello stesso fatto che ci sono. Ragazzi – e “meno” ragazzi –, questo è decisivo perché tutti i nostri guai, tutte le nostre paure, tutte le nostre incertezze hanno il loro punto sorgivo qui, perché così non possiamo aderire a niente. E non è così perché lo dico io, è così e basta. Non è un problema di numeri, non è un problema di
consenso. No! No, anche se fossi io solo a sostenerlo, a rendermene conto, e tutti voi foste distratti, sarebbe ugualmente vero che io adesso non mi faccio da me. Se uno non arriva a questo, a questa certezza nell’uso della ragione, cioè a una modalità di vivere l’io con tutta la sua natura di io, ci sembrerà sempre che affermare il Tu sia buttarci nel vuoto (che è l’immagine che tanti hanno della
fede). Per questo vi prego di andare a fondo di questo punto, perché nelle lettere che mandate si percepisce: «Nonostante quanto ho vissuto agli Esercizi e a Roma, nonostante in questi ultimi mesi e in questi ultimi anni sia stata tempestata da testimoni, da fatti che mi hanno veramente resa più lieta la vita quotidiana, nonostante la valanga di amici che sono arrivati inaspettati, un marito, tre
figli, un lavoro, nonostante tutto questo da quando sono tornata da Roma mi attanaglia il cuore una grande tristezza. Per questo la scorsa Scuola di comunità sembrava proprio tutta per me, a cominciare dal canto. Nulla, proprio nulla, a parte alcuni brevi momenti in cui cerco di non pensare, mi toglie questa tristezza. A volte mi sono chiesta proprio anche davanti a te: ma di che cosa stiamo parlando [brava, finalmente: ma di che cosa stiamo parlando?]? Eppure lo so bene di cosa stiamo
parlando, o meglio di Chi, ma è come se in fondo in fondo io pensassi che Cristo c’è, mi vuole bene, L’ho visto, mi ha abbracciata, ma in fondo in fondo sono come il giovane ricco, me ne vado via triste. Ti dico che venerdì scorso mi si è aperto uno spiraglio leggendo il quinto capitolo de Il senso religioso; ho cominciato a capire quantomeno di non essere sola; le domande sulla vita, sulla mia vita (ma perché sono nata? ma perché ci sono adesso? di che cosa è fatta la realtà, le montagne,
il cielo, i miei amici, i figli, io?), lì così bene descritte, sono le mie. Ma questo vuol dire che l’incontro con Cristo fa esplodere il senso religioso [se questo succede guardando la tristezza, immaginate cosa succede nell’incontro con Cristo che risveglia ancora molto di più la domanda, perché quanto più grande è la domanda, quanto più intensa è la domanda, quanto più mi prende
tutto, quanto più difficile è dare una spiegazione, tanto più evidente è che c’è qualcosa d’altro: l’incontro con Cristo rende più palese quello che dice il capitolo quinto]. Ho sempre pensato [questo è il nostro problema] che incontrando la risposta sarei stata finalmente a posto, invece non si chiude niente, la ferita che ho dentro non si chiude. Ma cosa mi succede? Sono tornata al punto di partenza? Sono tornata indietro? Tutto mi sembra così poco soddisfacente, ultimamente il cuore mi
esplode per la domanda di significato che ho». Ma questa domanda di significato, che esplode ancora dentro di sé, di che cosa è segno? Ma questa intensità del vivere, questa nostalgia che non avevo prima – e che mi viene fuori quando incontro qualcuno –, e che è infinitamente più grande di quando ero addormentato, questo è segno che sono tornato indietro o che quanto più appare quella Persona tanto di più si rende evidente fino a che punto ha ridestato tutto di me? Questa è la
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conferma che c’è qualcosa di reale e presente che mi ridesta costantemente. E allora davanti a questo la lettera dice: «Mi torna sempre alla mente una frase che hai detto più volte: “È un problema di conoscenza”. È un problema di conoscenza, mi dico, e ieri sera sono uscita in macchina da sola a fare un giro per poter piangere in pace. Svoltata una curva (abito in collina), mi si è parato davanti uno spettacolo bellissimo. Ho fermato la macchina e lì, davanti a quel tramonto, non ho potuto non
chiedere al Mistero che mi rispondesse. Lì non potevo più obiettare [e non perché non avvertisse la sproporzione]. Lì ho sentito tutta la sproporzione fra me e Lui. È caduta tutta la pretesa, è rimasta solo la mendicanza». Dice un altro: «Ho ascoltato la Scuola di comunità di mercoledì scorso. Tu leggevi delle lettere. Percepivo che i protagonisti raccontavano un percorso umano della scoperta della presenza di Cristo certa, godibile e praticabile. Non si trattava di oche giulive, ma di persone
che vivono drammaticamente, non senza fatica, con una umanità per la quale come primo movimento ho avvertito invidia. Io nella mia vita ho avuto il dono di aver incontrato Cristo perché ho conosciuto quella letizia che ieri sera veniva descritta, poi però questo Cristo è sembrato sfumare, come forse è giusto che sia, mi è rimasto un grandissimo desiderio di Lui». Vedete come si mettono insieme queste due cose? Cristo mi è sembrato sfumare ed è rimasto un grandissimo
desiderio di Lui. Ma questo desiderio di Lui non è la testimonianza più palese che non è sfumato? La nostalgia sorge perché è sfumato o perché c’è? Il don Gius lo dice in modo inequivocabile a cavallo delle pagine 74 e 75 de Il senso religioso (l’avevamo già citato agli Esercizi): «Perciò, prima della solitudine sta la compagnia, che abbraccia la mia solitudine, per cui essa non è più vera
solitudine, ma grido di richiamo alla compagnia nascosta». E siccome questo non lo capiamo, allora arriviamo a dire contemporaneamente che abbiamo questo grandissimo desiderio di Lui e che Lui è sfumato. Ma cosa dice Giussani in tutto il capitolo? Proprio questo: che non è sfumato, che questo è il segno più palese che c’è! Se lo sta inventando? È un visionario anche Giussani? Tutti quelli che cita sono visionari? Solo noi siamo veramente realisti? O sono loro che sono veramente uomini e
invece noi siamo ridotti dal potere? Ciascuno può decidere, ma questo vuol dire che c’è ancora tanto percorso da fare. Meno male che la lettera continua dicendo: «Sentendo le lettere che leggevi e quell’invidia, mi sono ritrovato con più voglia che mai. Avvertivo che quella compagnia che attendo stava accadendo [ma stava accadendo non soltanto per le lettere, le lettere facevano presente che cosa stava accadendo anche in quel suo desiderio, ma lui lì non lo riconosce], e per questo ho
capito quello che dicevamo dopo. Dopo alcune battute mi sono ritrovato a fare già propositi [vedete?]. Dicevo: per una cosa così devo dare tutto. Prevaleva però al fondo una tristezza perché io, a ben pensare, non mi sono mai tirato indietro in nulla e ciononostante quel Cristo che desidero non L’ho mai potuto possedere come amico. Mi ha assalito una dolce percezione di impotenza perché tutto ciò che desidero non è in mano mia, e l’Amato non lo posseggo io. E in questa
sfinitezza mi sono sorpreso a ripetere: “Vieni Tu, o Cristo”. Io non sono stato mai prima molto avvezzo alla preghiera [perché uno è avvezzo alla preghiera soltanto quando nasce dalle viscere dell’io, invece per noi è spesso una cosa pia, devota] e specialmente quella fatta con le parole spesso ripetitive che la Chiesa suggerisce. Invece in questi giorni avverto la preghiera [guardate che cosa scopriamo quando uno non salta niente: allora le parole riacquistano un significato dall’interno delle viscere dell’esperienza] come la cosa più intelligente da fare [non la cosa per pii e devoti, ma per uno che si rende cosciente di che cosa è lui e il reale; il più intelligente, non il più scemo], la più costruttiva, e non mi affatica più. Se questa si chiama “vita nuova”, ora so di che si tratta: non più
un’espressione verbale, ma un’esperienza. Capisco allora che cosa significa chiedere a Cristo: “Insegnaci a pregare”, perché Lui mi ci ha condotto non con una disquisizione, ma attraverso l’urgenza di un’esperienza [che è la fine della lezione: a te, Cristo, si rivolge tutto il mio desiderio]; e capisco anche le parole del Papa all’udienza dell’11 maggio scorso: “Nella dinamica di questo
rapporto con chi dà senso all’esistenza, con Dio, la preghiera ha una delle sue tipiche espressioni nel gesto di mettersi in ginocchio”. Posso inginocchiarmi spontaneamente dichiarando il mio limite e dunque il mio avere bisogno di un Altro. Questo capitolo è ancora da riscoprire tutto».
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La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 22 giugno alle ore 21.30. Riprenderemo la seconda lezione. Questo non vuol dire chiudere la prima, perché resta ancora tanto da imparare.
È stato preparato un volantino a firma di Comunione e Liberazione sulle recenti elezioni, che leggo.
Pronti a rendere ragione della speranza che è in noi
Come qualsiasi altra circostanza della vita, anche le elezioni amministrative hanno costretto ognuno di noi a prendere posizione e ad assumersi la propria responsabilità. Soprattutto questa volta, non è stato facile andare oltre le apparenze e i luoghi comuni alimentati dal mondo politico e dall’opinione
dominante. Fin dall’inizio ci siamo detti: siamo cristiani e dunque, prima di qualunque calcolo elettorale e prima di sapere quale sarà il risultato finale, vogliamo verificare se la fede ha qualcosa da dire anche in questa occasione − in altre parole, se ha incidenza storica − o se deve rinunciare alla partita,
rassegnandosi al ruolo di “cortigiana” di chi conquisterà il potere o di “consolatrice” per chi sarà sconfitto.
Molti hanno accettato la sfida e si sono lanciati nella verifica, concretamente, incontrando la gente nei mercati, davanti alle chiese, nei caseggiati e nei luoghi di studio e di lavoro. E che cosa si è visto?
Un di uso quanto confuso desiderio di cambiamento, ma anche tanto scetticismo − e non solo a livello della politica −. A volte, una aggressività eclatante ed esagerata. E soprattutto un mare di bisogni e di solitudine. Dove è stato possibile bucare il muro dei pregiudizi e dell’ostilità, quanta umanità ferita e provata dalla vita è emersa, quanta gente sembrava non aspettare altro che qualcuno disposto a starvi di fronte, semplicemente!
Così, queste elezioni sono diventate l’occasione per ascoltare, per rendersi conto di necessità e di drammi inimmaginabili, talvolta per tendere una mano e offrire un aiuto. In qualche situazione è bastato uno scambio di numeri telefonici per risvegliare desiderio e speranza.
Che cosa ha reso possibile tutto questo?
Non certo una scaltrezza e una dialettica politica. Ci vuole ben altro per bucare la crosta di cui molti si sono rivestiti per difendersi da una realtà che non soddisfa. Ora, di fronte a un bisogno tanto profondo, può riaffiorare la tentazione dell’utopia: il sogno che la politica − di qualunque colore e tendenza − possa offrire una soluzione magica che elimini il dolore, il male e l’ingiustizia, liberi l’uomo e lo salvi. Sappiamo bene, tuttavia, quanto è deludente riporre la speranza in una cosa inconsistente come le utopie, che la storia ha puntualmente
smentito. Per questo ci siamo ripetuti: «Non aspettiamoci un miracolo, ma un cammino». Perciò abbiamo condiviso con chiunque l’unica cosa reale che abbiamo: una esperienza di novità umana, che si è dimostrata capace di darci una pienezza e una positività in qualunque circostanza ci trovassimo.
Dopo queste elezioni suonano attualissime le parole che don Giussani rivolse a un giovane incontrato in Università Cattolica alla fine degli anni Sessanta, che considerava ormai la rivoluzione l’unico modo per incidere sulla storia:

«Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono felice l’uomo.
La forza che fa la storia è un uomo che ha posto la sua dimora tra di noi, Cristo. La riscoperta di questo impedisce la nostra distrazione come uomini, il riconoscimento di questo introduce la nostra vita all’accento della felicità, sia pure intimidita e piena di una reticenza inevitabile. È nell’approfondimento di queste cose che uno incomincia a toccarsi alla mattina le spalle e sentire il proprio corpo più consistente e a guardarsi nello specchio e sentire il proprio volto più consistente, sentire il proprio io più consistente e il proprio cammino tra la gente più consistente, non dipendente dagli sguardi altrui, ma libero, non dipendente dalle reazioni altrui, ma libero, non vittima della logica di potere altrui, ma libero».
Le elezioni ci hanno provocati a una consapevolezza maggiore di quali sono «le forze che muovono la storia» e ad essere meno ingenui sul potere salvifico della politica. Solo la fede rende più umana la vita ora mette in moto una vibrazione di fronte al bisogno nostro e altrui, scatena una passione per il destino di ogni singolo uomo in cui ci si imbatte, fino ad aprire una possibilità di dialogo con persone indi erenti, deluse o arrabbiate.
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E ora? Non desideriamo altro che la libertà per noi e per tutti − di costruire e di condividere la nostra esperienza con chiunque, a cominciare da coloro che abbiamo incontrato in questi mesi, dai loro bisogni. La politica − chi ha vinto, ma anche chi ha perso − sarà in grado di riconoscere questa novità di vita nel presente e di difenderla come un bene per tutti? Quando siamo nati abbiamo domandato una sola cosa a chi comandava allora: «Mandateci in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educare». Allora come oggi, Comunione e Liberazione esiste solo per questo. Chiediamo troppo?

Capire questo è l’unica possibilità che quello che abbiamo vissuto ci faccia fare un passo di consapevolezza perché, come ci ha detto sempre Giussani, «non c’è vera esperienza se non ci fa crescere nella consapevolezza di quello che abbiamo vissuto». Per questo il giudizio contenuto nel volantino è un’occasione per non perdere l’esperienza di quanto in questo periodo ci è capitato e abbiamo visto accadere. È importante innanzitutto per noi, perché prendiamo più consapevolezza della nostra esperienza e dell’origine della nostra incidenza storica, e per offrire alle persone
incontrate durante la campagna elettorale la possibilità di continuare un confronto, un dialogo, e di offrire un aiuto. Tanti mi avete detto di persone che dopo le elezioni vi hanno cercato: dobbiamo riprendere il dialogo che abbiamo incominciato, perché non è finita la partita, per tanti è appena incominciata. Per questo è un’occasione per continuare un dialogo. Proponiamo alcuni libri per l’estate.
Il primo è il libro del Papa Gesù di Nazaret.Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione.
Il fatto che ne abbiamo scelto un brano per il volantone di Pasqua vi ha già permesso di avere un assaggio della portata del libro. Per questo, per una familiarità con Cristo, per una conoscenza più approfondita di Lui un libro così non è da perdere.
Per aiutarci a questo a Tracce di luglio sarà allegato un libretto con il testo dell’intervento di Ignacio Carbajosa alla presentazione del libro del Papa a Madrid. Potrà essere utile anche in vista delle presentazioni pubbliche del libro che i Centri culturali faranno nelle varie città.
Il secondo libro è Ciò che abbiamo di più caro, di don Giussani, che raccoglie le equipes del Clu degli anni 1988 e 1989
Come vi ho già accennato, è provvidenziale vedere come don Giussani con
questi testi ci accompagna nel cammino proprio rispetto a quello che stiamo vivendo ora. Il terzo libro è Brand di Ibsen,che è il dramma di un pastore protestante che ha sacrificato la propria vita per conseguire l’ideale etico, la perfezione morale attraverso la volontà umana. È molto interessante leggerlo alla luce del capitolo di cui abbiamo parlato oggi, perché il Brand è un esempio di quello che tante volte noi pensiamo: che ce la possiamo cavare con il nostro tentativo. E questo è un problema di conoscenza; poiché non abbiamo capito la natura dell’io, continuiamo a riporre la nostra speranza in quello che riusciamo a fare. Nel libro vedrete che cosa vuol dire questo e che razza di disperazione provoca. Don Giussani commentava: «La più incisiva immagine di questa disperazione sulla propria impotenza etica è nell’ultima scena quando il protagonista, che ha cercato la coerenza tutta la vita, di fronte alla morte, grida: “Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?”».
Da ultimo, il romanzo Il Padrone del Mondo di Robert Hugh Benson, in cui si vede come il potere tende a farci perdere la coscienza di noi stessi.
Veni Sancte Spiritu
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domenica 12 giugno 2011

" Il grande dono di Dio: Ha fatto della nostra povera umanità ,un segno potente del Suo amore e della Sua pietà per tutti gli uomini.


Testimonianza di Mario Dupuis, "Ca' Edimar"

Accetto di parlare qui solo perché questo mi fa essere più cosciente di essere, io e i miei amici, più mendicante dell’amore di Cristo di quanto lo eravamo dieci anni fa, quando è iniziata l’avventura di Ca’ Edimar, una grande casa a Padova dove vivo un’esperienza di fraternità con altre famiglie che ha come frutto l’accoglienza in casa di ragazzi che non possono più stare nella loro.

E allo stesso tempo, accetto di parlare, anche a nome dei ragazzi che, essendo minorenni, non possono intervenire e dire loro stessi quello che di loro vi dirò io, perché mi fa essere più grato del grande dono che Dio ci ha fatto prendendo la nostra povera umanità per farne un segno potente del Suo amore e della Sua pietà per tutti gli uomini. Perché quell’abbraccio e quello sguardo nato nell’umanità di Gesù duemila anni fa, continui a generare negli uomini una novità e una speranza per sé, prima sconosciute.

L’altra sera uno dei ragazzi con i quali ho avuto molto da discutere ultimamente mi scriveva, a notte tarda, questo biglietto: “spero che queste mie divergenze con te non rovinino il rapporto con te, perché io sarò sempre davanti alla tua porta a chiederti quell’abbraccio che mi hai dato 4 anni fa pochi giorni dopo che mi hai accolto.” Era già stato accolto in tante comunità ed ora era accolto nella nostra. Ma non è quella la novità per lui, quello che si ricorda dopo 4 anni è quell’abbraccio, quello sguardo, almeno per un istante – perché di più non siamo capaci – così denso di gratuità, di pura gratuità – che colpisce per sempre e diventa una speranza anche quando – ed è il più delle volte, perché siamo limitati – non è più così gratuito. E la tristezza che non è sempre così gratuito acquisce la consapevolezza che l’istante di pura gratuità è opera di un Altro.

Solo se si partecipa di qualcosa di divino si può abbracciare e accogliere in un modo così umano, si può perdonare la diversità dell’altro che punge. Non è una nostra capacità, ma qualcosa che ti viene dato e che ti sorprende. E’ una gratuità che irrompe e risveglia in chi la vive o la riceve un’attrattiva irresistibile, come quella di una ragazza che ci diceva: “Vengo qui perché in cambio del vostro rapporto con me voi non mi chiedete niente, mentre anche mia madre, quando mi fa il letto, è per poi chiedermi qualcosa”.

Un abbraccio così, uno sguardo così è una novità assoluta che si radica nel cuore e nessuna resistenza, nessuna incapacità di cambiare può spegnere ciò che essa accende. E’ una novità che fa iniziare un cammino, una strada che può essere faticosa e a volte contraddittoria, ma è una strada piena del desiderio di un sì.

Il Mistero attende quel nostro sì dal momento in cui ci ha fatti. A Ca’ Edimar facciamo compagnia al Mistero che attende quel sì da chi arriva lì, chiuso e arrabbiato con tutto e tutti, e facciamo compagnia all’umanità di chi, grande o piccolo, cinico o fragile, quel sì non lo sa ancora dire. E quando quel sì appare all’orizzonte, quando quel sì – o un perché no - affiora in un ragazzo, non puoi mentire dicendo “Ce l’abbiamo fatta”, puoi solo stupirti di qualcosa che accade, di Cristo che accade in quel sì.

Come mi sono stupito io, da quel giorno in cui uno sguardo su di me e su mia figlia mi ha fatto di schianto percepire che, con una figlia handicappata, si poteva aprire un cammino di conoscenza inaspettato. Non uno sguardo che mi ha risolto il problema di come stare con un dolore così grande, ma che mi ha fatto desiderare di nuovo la felicità per me, per la mia famiglia, per mia figlia, per i miei amici. Non un ragionamento, non una spiegazione sul senso del dolore, ma uno sguardo, un abbraccio, un fatto. Carron, tempo fa, ci diceva: “Lui, Cristo, non risponde alle nostre difficoltà con un ragionamento, ma con un fatto, con un fatto così attraente che suscita una speranza che non mi potrei sognare.”

Non siamo diventati più bravi ad accogliere Anna, siamo stati destati ad imparare perché Anna era al mondo, che cosa ci sta a fare un’esperienza di limite e di dolore con il nostro desiderio di felicità e di bellezza. Uno sguardo che fa desiderare, un desiderio che fa domandare, una domanda che capisce da dove nasce quello sguardo.

E questo cammino ha preso anche altri che non stavano più con noi solo perché chi ha una figlia handicappata ha sempre bisogno di aiuto, ma perché interessati a questa sfida per la vita, per sé. Così è nata una comunione, un’amicizia senza aver fatto niente per costruirla se non andando dietro ognuno a questa sfida per sé, in particolare con Riccardo e la sua famiglia. E la nostra casa è diventata il luogo di una memoria, perché Anna, con il suo bisogno continuo di tutto, sembrava dicesse “Chi cercate?” e più questo Chi – Cristo – diventava familiare, più rispondere ai bisogni di Anna diventava la carne di questa familiarità, di questa tenerezza con il Mistero.

Così quando Anna è morta, a quindici anni, ci siamo ritrovati addosso questo desiderio di conoscenza più vivo che mai e questa vita di comunione radicata in questo desiderio che tendeva inevitabilmente a diventare una casa. Non abbiamo deciso di fare un’opera anche se poi è nata un’opera; abbiamo deciso semplicemente di continuare quello che Anna e lo sguardo di Don Giussani avevano iniziato in noi e di dare forma a questa decisione con una casa dove ospitare una “nuova Anna”. Così è nata Casa Edimar, poi diventata Ca’ Edimar che dalle nostre parti significa un piccolo villaggio dove vivono più famiglie e più persone.

Accogliamo i ragazzi nel senso che offriamo loro l’esperienza che accoglie noi, l’esperienza che perdona noi, che fa ricominciare noi. Non offriamo loro appena qualcosa che ci è accaduto perché nell’educazione non si vive di rendita; offriamo loro qualcosa che sta accadendo a noi, anche tramite loro.

Perché accade qualcosa per noi, quando uno di loro ci dice che suo padre, fortemente attaccato alla sua religione, gli ha dato questo consiglio “Non fidarti mai di nessuno” e lui ha pensato subito “Ma io ho coloro di cui fidarmi e questi sono di una religione che non crede, come nella mia, in un Dio potente e basta, crede in Dio diventato uomo, un uomo di cui fidarmi”.

Accade qualcosa per noi quando uno di loro che potrebbe tornare a casa dopo i 18 anni decide di stare ancora con noi perché sì vuole bene alla sua famiglia e la sua famiglia a lui, ma questo non gli basta più per poter diventare grande e non barare più.

Accade qualcosa per noi quando uno di loro dice: Non sono più arrabbiato con mia madre perché mi ha abbandonato e perché picchiava mio fratello più piccolo, ma da quando ho sentito la testimonianza di uno che ha perdonato coloro che gli hanno ucciso, in quella tragica strage, tutti i suoi cari, ho capito che non mi basta più non essere arrabbiato con lei, voglio perdonarla.

Accade qualcosa per noi quando un ragazzo dice: Cosa mi sta succedendo? Fino a ieri lo scopo di stare con una ragazza era solo quello di esibire le mie prestazioni sessuali e ora mi ritrovo a dire all’ultima ragazzina di tredici anni che si è detta disponibile: No, non voglio più trattarmi così e non voglio trattare te così. Ti voglio rispettare. Cosa mi sta succedendo Mario?

Non occorre appiccicare nessuna frase imparata per rispondere. Basta guardare stupiti e domandare, mendicare di non andarsene di fronte a questa Presenza. La mia famiglia, quella di Riccardo e quella di Gianpietro, che si è aggiunta alla nostra compagnia un anno fa, rimaniamo a Ca’ Edimar non perché siamo sempre più bravi ad accogliere, ma perché lì è evidente che Cristo sta accadendo per noi; lì Cristo è amato, osannato, ignorato, tradito come allora, ma come allora sta accadendo.

Per questo non vi chiedo di pregare perché io e i miei amici continuiamo ad essere capaci di questo sguardo e di questo abbraccio, ma perché continuiamo a chiederlo, a desiderarlo per noi, a cercarlo per noi.


Uno dei ragazzi che non può essere qui, ma che era già venuto due anni fa, mi ha scritto questo da leggere: “Pregate perché la Madonna ci assista nel momento del bisogno e non mi faccia mai mancare la bellezza e la verità che finalmente ho trovato e sto continuando a vivere nell’abbraccio a Ca’ Edimar e con tanti altri amici. Che possiate vivere questa esperienza al meglio e fino in fondo, scoprendo la verità di questo gesto. Buona nottata.”

Il Papa ci ha detto mercoledì: “La Madonna vi accompagni”. Don Giussani, che abbiamo avuto il dono di incontrare pochi mesi prima della sua morte, ci aveva lasciato, tra le altre, questa consegna: “Pregate la Madonna che porti a compimento ciò che ha iniziato”.

Siamo qui per pregarti o Maria di portare a compimento ciò che è iniziato in ognuno di noi che siamo qui, anche per chi, come alcuni nostri ragazzi, è all’inizio di questo cammino, anche per chi vivesse il suo inizio qui stasera, stanotte. Perché sappiamo che Tu, essendo Madre, non vedi l’ora di compiere ciò che lo Spirito inizia in ognuno di noi, come lo hai compiuto nel tuo grembo, permettendo a Dio di diventare da quella notte “Colui che è tra noi”.

Grazie.

Buona Festa di Pentecoste



Discendi Santo Spirito,
le nostre menti illumina;
del Ciel la grazia accordaci
tu, Creator degli uomini.

Chiamato sei Paraclito
e dono dell'Altissimo,
sorgente limpidissima,
d'amore fiamma vivida.

I sette doni mandaci,
onnipotente Spirito;
le nostre labbra trepide
in te sapienza attingano.

I nostri sensi illumina,
fervor nei cuori infondici;
rinvigorisci l'anima
nei nostri corpi deboli.

Dal male tu ci libera,
serena pace affrettaci;
con te vogliamo vincere
ogni mortal pericolo.

Il Padre tu rivelaci
e il Figlio, l'Unigenito;
per sempre tutti credano
in te, divino Spirito. Amen

Veni, Sancte Spíritus,
et emítte cǽlitus
lucis tuæ rádium.
Vieni, Santo Spirito,
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce

sabato 11 giugno 2011

«Aspettatevi un cammino, non un miracolo»



Messaggio di Julian Carron per il XXXIII Pellegrinaggio

Carissimi amici, l’invito che don Giussani rivolse a un gruppo di giovani non è contraddittorio col gesto che state per compiere, in un luogo segnato dagli innumerevoli prodigi compiuti dalla Madonna. Ciascuno di voi ha una grazia particolare da chiedere alla madre di Cristo. Ma quest’anno vi invito ad aggiungerne una, proprio secondo le intenzioni di don Giussani:

«Aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità, che elida la vostra fatica, che renda meccanica la vostra libertà. No! Non aspettatevi questo. È questa una differenza profonda da prima, dal cammino percorso fino adesso: la differenza profonda è che non potrai seguirci se non teso a comprendere. Adesso dovrai incominciare ad amare realmente la vita e il suo destino».

Solo una mendicanza desiderosa di capire ci può strappare dal nulla che incombe sui nostri desideri più veri e sui nostri tentativi più grandi. In un mondo che ha voltato le spalle a Cristo e alla Sua presenza storica − la Chiesa −, non potremo resistere se non diventerà in noi chiara la ragione per cui siamo cristiani. In questo ci sostiene l’infaticabile testimonianza di Benedetto XVI:

«Tutti sappiamo che nel cuore di ognuno dimora un forte desiderio di felicità. Ogni azione, ogni scelta, ogni intenzione porta celata in sé questa intima e naturale esigenza. Ma molto spesso ci si accorge di aver riposto la fiducia in realtà che non appagano quel desiderio, anzi, rivelano tutta la loro precarietà. Ed è in questi momenti che si sperimenta il bisogno di qualcosa che vada “oltre”, che doni senso al vivere quotidiano. (...) Gesù è vostro contemporaneo. È Lui che cerca voi, prima ancora che voi lo cerchiate! Rispettando pienamente la vostra libertà, Egli si avvicina a ciascuno di voi e si propone come la risposta autentica e decisiva a quell’anelito che abita il vostro essere, al desiderio di una vita che valga la pena di essere vissuta» (Benedetto XVI, Zagabria 4 giugno 2011).

Offrite il sacrificio di ogni passo per il Santo Padre: la Sua immedesimazione con Cristo morto e risorto sia la sicurezza del vostro cammino nella notte. Vi auguro di verificare, come vediamo in lui, che cosa accade quando un uomo si lascia afferrare da Cristo: un incremento e una pienezza di umanità che gli altri possono riconoscere come un autentico miracolo, tanto è impossibile all’uomo.

Domandate al Beato Giovanni Paolo II e a don Giussani il dono di questa esperienza umana che rende piena la vita, in qualunque circostanza ci troviamo.

Julián Carrón

venerdì 10 giugno 2011

Solo i "limoni" di Montale e Tolkien possono guarirci dalla Facebook-mania


Che c’entrano i limoni con le nuove tecnologie? Quando si mostra un segno della bellezza da toccare, odorare, gustare, ci rendiamo conto che è della realtà che abbiamo bisogno, che il virtuale può essere utile, non sostitutivo. Jonah Lynch, sacerdote, missionario della Fraternità San Carlo Borromeo, è un divoratore di libri e una mente “filosofica”. Ciò che legge, vede, osserva diventa domanda e ricerca, metro di paragone e giudizio. Per questo parte dalla splendida poesia di Montale per ragionare sulle tecnologie che sempre più accompagnano e determinano le nostre giornate.
La questione è urgente soprattutto se si ha una responsabilità educativa: lo sanno i padri e le madri, lo sa bene chi, vicerettore di un seminario, si trova a far maturare una libertà orientata al bene in giovani “nativi digitali”. Abituati a convivere con Facebook, Google, cellulari, a scaricare film e ingozzarsi di notizie solo apparentemente non filtrate. L’abbondanza, l’infinità possibilità ci riempie di ebbrezza, il multitasking ci illude di risparmiare tempo, posso fare più cose insieme, l’istantaneità domina i nostri atti e i nostri pensieri. Compro, guardo, parlo, scrivo, contemporaneamente se voglio, con una tastiera e uno schermo davanti. Ma quanto perdiamo in profondità, in capacità di assimilazione, in memoria a lungo termine? E la possibilità di non avere intermediari, di fare tutto da soli, ci fa ricordare il nostro limite, il bisogno di fidarsi di qualcuno?
Avere un profilo facebook permette contatti lontani, dibattiti allargati, libera da timidezze ed esitazioni. Perché rende finti, insinceri. Quanto paghiamo questa vanità, quanto incide sulla concezione di sé? Eppure per vivere i rapporti umani abbiamo bisogno di carne, non di schermi. Lynch, che è un fisico, e ha vissuto una giovinezza americana e ipertecnologica, non ha rigurgiti neoluddisti, non demonizza la téchne (e soprattutto non la isola, non la contrappone all’arte), non fa prediche. Solo una proposta più affascinante è in grado di spostare il baricentro dell’essere.
Tutto è buono, se è strumento, a servizio dell’uomo e del bene. Però, la tecnologia non è neutrale, ci spiega, porta con sé un mutamento radicale nel rapporto col mondo. Si citano fisici, psichiatri, filosofi, il rischio di un cambiamento antropologico è reale, e non è affatto detto che sia positivo.
Per il giovane sacerdote americano, che suona il violino e ama la poesia, è stato possibile rendersi conto che il tempo e il suo trascorrere sono qualcosa di positivo, che lo stare su una parola, una frase aiuta il pensiero, stimola connessioni neuronali, che una birra con gli amici è insostituibile e l’affetto ha bisogno di sguardi e di strette di mano. L’incontro con il Cristianesimo, il suo amore scandaloso per la carne, per la materia offre la risposta per educare i ragazzi di un seminario, per mostrare la strada a chi legge.
Per “vagliare tutto, e trattenere il valore”, ci vuole una libertà adulta, consapevole, educata.
Anche esercitando il sacrificio del distacco, il digiuno, sapienti e potenti mezzi pedagogici della tradizione della Chiesa. Essa ha una novità da offrire che supera ogni progresso e che da duemila anni si trasmette per contagio, da uomo a uomo. Come ci insegna Tolkien, gli anelli più potenti e magici non si lasciano usare, usano chi li porta, fino a dominarlo. Mentre nulla può ordinare la vita, neppure la tecnica, semmai dev’essere il contrario.

Monica Mondo (http://www.ilsussidiario.net)

La meglio gioventù

Per parlare dei ragazzi bisogna guardarli e ascoltarli. Non in televisione, ma in carne e ossa. Da quando insegno ho sempre avvertito una certa distanza tra i ragazzi che incontravo in classe e quelli raccontati dai media. Il ragazzo che emerge dai media non è reale: come il marziano che cercando di decodificare i segnali usati dagli uomini senza conoscerli pensa che il semaforo rosso obblighi a fermarsi e mettersi le dita nel naso. La distanza tra realtà e rappresentazione ha lentamente scavato dentro di me il desiderio di raccontare il volto dei giovani che le telecamere non inquadrano. I ragazzi mi sembravano molto migliori di come ce li raccontano, ma non volevo cadere nell’errore opposto: una rappresentazione ideologica nell’altro senso.

Posso essere felice?
Negli anni precedenti all’uscita del mio libro sono andato in giro per molte città italiane per conoscere realtà scolastiche diverse grazie all’esperienza di professore e a quella di esperto di educazione e media, punto di osservazione privilegiato per cogliere i bisogni di questa generazione. Dopo l’uscita del libro la mia possibilità di incontrare ragazzi di scuole e città diverse si è moltiplicata aldilà di ogni mia più rosea aspettativa, ed è stato uno dei doni più interessanti del libro. Sono stato in decine di scuole di tutto il Paese e ho incontrato migliaia di ragazzi, con un dispendio di energie ripagate cento volte tanto: chi sta con i giovani diventa giovane. Il libro era il punto d’appoggio su cui fare leva: durante gli incontri si partiva dal libro per raggiungere altri porti. Questo è accaduto senza forzature, perché erano i ragazzi stessi a porre domande a un interlocutore che ritenevano valido per il semplice fatto di aver parlato di certi temi in un romanzo. Ho trovato un’accoglienza sorprendente (in scuole di tutti i tipi), e spesso gli incontri si svolgevano in orario pomeridiano, a partecipazione libera: centinaia di ragazzi. Li ho visti rimanere oltre l’orario scolastico, ritardare l’orario del treno, organizzarsi affittando un pullman... per ascoltare un professore parlare di un libro. Mi chiedevo dove fosse la ragione di questa mobilitazione. La risposta era nelle loro domande: venivano per chiedere su dolore, morte, felicità, amore, sesso, Dio, fede, paura... Insomma quelle domande che ruotano attorno ai quesiti di sempre, riassunti nel grido: posso essere io felice? Percepivano nel libro uno spiraglio su un mondo desiderato. Niente muove le persone come la felicità, niente muove un ragazzo o una ragazza come la possibilità di raggiungerla.

Donare il tempo
Mi ha colpito il fatto che mentre molti adulti mi ringraziano o criticano per quello che faccio o dico, per la mia performance, i ragazzi ringraziano soprattutto per il tempo che dedico loro: «Grazie per il suo tempo» è il grazie più frequente. Così ho capito che prima ancora di giudicare i ragazzi che ho di fronte devo giudicare l’uso che faccio del mio tempo: quanto tempo dedico ai miei alunni al di fuori delle ore in classe? Tempo di quello vero: che prendi e butti via per loro. Donare tempo è l’unica forma di amore reale: Dio si è fatto tempo per regalarci il senza tempo. Il ringraziare per il tempo donato manifesta due punti forti di questa generazione: la silenziosa richiesta di ascolto da parte degli adulti (che rinfacciano loro proprio il fatto di non ascoltare, ma perché una persona ascolti deve essere prima ascoltata) e la capacità di ringraziare quando riconoscono la gratuità. Sono attratti dalla vita come dono, non come prestazione o come consumo egoistico.

Niente effetti speciali
Negli incontri non vado a fare pubblicità al mio libro, ma vado a complicare le loro vite, a spronarli, a metterli in crisi. Molti di loro escono in crisi, una crisi positiva, una benedizione, la crisi di chi scopre che può liberare delle forze imprigionate. Solo a contatto con la ricerca della verità le forze di un ragazzo si liberano, la libertà è messa in gioco. Non uso effetti speciali, solo le parole. E la parola che loro vogliono sentire non è quella che dà soluzioni, quella non l’ascoltano, ma la parola accompagnata da occhi che brillano, la parola vissuta, la parola che cerca la verità e la ama senza nascondere la fatica e gli insuccessi. Questi ragazzi hanno bisogno di persone che manifestino di non avere paura di vivere, anche se la vita fa tremare e non bisogna nasconderlo, solo così cominciano a generare la vita e si sentono spronati a farlo, nell’età in cui il loro corpo scopre di essere fatto per generarla. Ma abbiamo talmente anestetizzato la verità e virtualizzato la realtà che le verità più evidenti come il corpo, l’amore, il sesso, il dolore, la morte, la felicità, Dio... diventano allegorie ideologiche, ingabbiate in interpretazioni preconfezionate prima ancora di essere vissute, e questo vale anche in ambito cattolico.
Ho visto ragazzi creare canzoni, pezzi teatrali, balli, video ispirati al libro. Ho ascoltato confidenze disperate di ragazzi che non riuscivano a trovare un adulto a cui chiedere aiuto, ho visto ragazzi alla ricerca di un sogno diverso da ciò che si può comprare. Mi sembra di avere a che fare con una generazione che è stata generata biologicamente ma non culturalmente, e quindi è privata di un ordine simbolico e narrativo grazie al quale interpretare esperienze ed emozioni. Se manca il senso si perdono i significati. Dolore senza significato, vita senza significato, sesso senza significato... Ecco cosa cercano: una capacità di lettura della realtà, che se viene a mancare oscilla tra labilità delle emozioni (più forti sono, più mi sento vivo) e dipendenza dal più forte, dal così fan tutti (conformismo). Entrambi gli atteggiamenti scavano un pozzo di dolore nei loro cuori, una prigione interiore di noia e incertezza.

C’è bisogno di adulti
Quali le risorse da intercettare? Infinite. La loro fame è maggiore, perché più profonda. Più difficile da raggiungere perché più facilmente soddisfatta da surrogati.
Ho incontrato ragazzi che a 14 anni hanno già messo in piedi business leciti da centinaia di euro, ho incontrato ragazzi che a 16 anni hanno inventato una radio dal computer di casa loro, ho incontrato ragazzi generosi e disposti a mettersi in gioco per gli altri, se solo qualcuno sfida le loro vite e le inserisce in un orizzonte più grande. Ho incontrato anche ragazzi cinici, scettici: già arrugginiti e disincantati alla loro età, rifugiati in un mondo piccolo piccolo di affetti privati e ossessivi, droghe e disturbi di vario tipo, senza interessi o passioni, se non quelle capaci di scatenare adrenalina.
Ecco cosa mi ha scritto sul blog (profduepuntozero.it) una sedicenne: «Prova un giorno a travestirti da insegnante precario e a insegnare a una terza aziendale, dove sono tutti ragazzi che spacciano a cui non importa nulla di avere un diploma... O semplicemente nella mia classe, ghetto di ragazze popolari che arrivano la mattina strafatte di canne e dormono tutto il tempo con la testa sul banco... Prova a insegnare Dante, Boccaccio e Petrarca a dei ragazzi che non sanno cosa vuol dire amare la vita... E i professori si lasciano trasportare, un po’ come quei ragazzi, a quella stessa condizione, pensando che non ci sia più nulla da fare. Il più di volte troviamo insegnanti con poca voglia di vivere, quindi di lavorare, quindi di insegnare. Allora la domanda che sorge è se non bisogna cambiare il mondo adulto prima di voler cambiare il mondo adolescenziale, prima di lavorare sull’insegnamento lavoriamo sugli insegnanti». Accolta la provocazione le ho risposto che sono stato precario sino all’anno scorso (33 anni), che ho cambiato due volte città (Palermo, Roma, Milano), che ho cominciato a insegnare alle medie e in un doposcuola di un quartiere disastrato della mia città natale. Ho incontrato ragazzi del liceo, ma anche di istituti professionali, tecnici, nautici e chi più ne ha più ne metta, e non li ho trovati meno motivati e reattivi dei primi, anzi, gli incontri più interessanti li ho avuti proprio in questo tipo di realtà. Le ho poi chiesto spiegazione su alcune delle dinamiche autodistruttive descritte e mi ha risposto: «Non tutti sono capaci di costruire il ponte della comunicazione tra alunni e insegnanti, certi ci provano ma usando un legno scadente che si distrugge alla prima bufera. Allora si rinuncia a ricostruirlo con gli strumenti giusti e si resta bloccati ognuno dalla propria parte senza possibilità di congiunzione. A me personalmente la distanza fa paura. Fa paura a molti ragazzi. Hanno paura che nessuno in realtà possa davvero arrivare a concepire almeno in parte il loro dolore, spesso perché a casa, la famiglia non si rende conto del disagio e li abbandona emotivamente a loro stessi, così quando arrivano a scuola cercano in qualche modo di attirare una silenziosa attenzione, cercano di esternarlo con comportamenti "animali", sfogando una rabbia e una tristezza davvero spaventose. Ai ragazzi forse importa avere un diploma, il problema è che se non hanno le basi affettive indispensabili per affrontare la crescita con le sue difficoltà, non avranno le energie necessarie per arrivare a guadagnarselo. Se però sono stanchi a 16 anni e la vita ti annoia, probabilmente l’apatia affettiva li ha già svuotati e non sanno come andare avanti, con che forza e per quale scopo. I genitori sono lontani anni luce sensibilmente parlando. Allora ci provano con gli insegnanti, insomma con qualcuno che ricordi loro, e chiedono aiuto attraverso i loro comportamenti. Abbiamo pochi professori che se ne accorgono, pochi quelli che ci tengono davvero. Per questo sei l’eccezione che conferma la regola. C’è bisogno di adulti: chi c’è? Se fossi un’insegnante mi rimboccherei le maniche per fare la mia parte, non emarginando nessuno. Se fossi un’insegnante cercherei di sfruttare al meglio gli attrezzi che ho a disposizione». Io meglio non avrei saputo dirlo.

«Prof, avremo un futuro?»
La meglio gioventù c’è, ma la meglio "non-gioventù" dov’è? Il problema restiamo noi adulti e la cultura che abbiamo costruito attorno a questi ragazzi. Così mi scrive una maturanda: «La prof di italiano ci ha detto: Smettete di sognare, non ne vale la pena... perdete solo tempo... vivete con i piedi per terra perché con una generazione senza futuro e senza valori come la vostra solo vivendo razionalmente riuscirete a concludere qualcosa... Non date retta a certi professori che vi spingono a osare... a puntare in alto... a credere che ogni tanto la botta di "fortuna" arrivi per tutti... la fortuna non esiste... esistono solo raccomandazioni e raccomandati... quindi rassegnatevi...».
La misura alta del quotidiano di cui parlava il beato Karol è spazzata via.Il criterio di felicità è ridotto al successo e non alla capacità di sognare la vita che ci è stata data, accettare e trasformare il destino che abbiamo in una vita personale, vivendo per la ricerca di verità, bene e bellezza nello spazio consentito dai nostri limiti e pregi. La razionalità è pura funzione pragmatica. «Ho paura prof, tanta paura, paura di crescere, paura che la prof abbia ragione, paura di sognare. Sono demoralizzata perché mi rendo conto che forse non avremo mai davvero un futuro. È così brutto a 18 anni pensare questo...».

L’epoca delle passioni tristi
La meglio gioventù c’è, non c’è però speranza, perché le utopie si sono rivelate tali. La meglio gioventù c’è: c’è quella forte, con alle spalle famiglie forti, che stanno già costruendo il loro futuro e non aspettano altro che il tempo faccia il suo corso con chi li ha preceduti (la società italiana è una piramide rovesciata, pochi giovani portano il peso di un’Italia che invecchia). C’è la gioventù fragile, che soccombe sotto i colpi del cinismo e del disfattismo di chi spesso non vuole fare i conti con i propri fallimenti, ma anche questi cercano interlocutori per sopravvivere e a volte la loro fragilità esplode in richiami che non si possono ignorare: dipendenze, disturbi alimentari, suicidi. Sono i frutti più maturi della dittatura del relativismo. Ho sentito una professoressa dire, dopo un mio incontro: «A scuola dobbiamo seminare dubbi, non certezze». Io non semino certezze, ma voglia di vivere per la verità, il bene e la bellezza. L’alternativa non è tra dubbi e certezze, ma tra senso e non senso della vita. L’epoca delle passioni tristi (titolo di un libro che ogni educatore dovrebbe leggere) è l’epoca che ha imbrigliato le risorse migliori, perché la ricerca della verità è stata rimossa dal centro della società e delle relazioni. Non si genera vita perché si ha paura di vivere e si ha paura perché non c’è verità da seguire.
Chi paga la dittatura relativista sono quelli che per essenza sono fatti per la verità: i giovani. Le loro passioni tristi sono la nostra mancanza di vita interiore e di tempo, il nostro attaccamento alle cose prima che alle persone, la nostra fatica a donare, la nostra ebbrezza di carriere e consumi. Valgano le parole del rabbino di un romanzo di S.Zweig: «È più forte chi si aggrappa all’invisibile di chi confida nel percepibile, perché questo è effimero, quello permanente». Avremo il coraggio di tornare ad aggrapparci all’invisibile?
Alessandro D'Avenia

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