lunedì 13 giugno 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 8 giugno 2011

Testo di riferimento: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», suppl. a Tracce-Litterae
Communionis, n. 5 (2011), Società Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2011, pp. 12-26.
• Luntane, cchiù luntane
• Lela
Gloria
Ci eravamo dati come lavoro per oggi ancora la prima lezione degli Esercizi della Fraternità.
Volevo chiederti un aiuto perché – torno a due Scuole di comunità fa – ho un sasso nella scarpa che non riesco a togliermi ed è l’ultima lettera che hai letto, in cui c’è un passaggio in cui o lei non ha detto una cosa, oppure, se è così come tu l’hai ripresa alla fine, c’è qualcosa che io non conosco ancora e che voglio conoscere perché, se lo conosco, penso che mi possa aiutare tante volte a disincastrarmi in tante situazioni. Ho anche chiacchierato con amici, chiesto chiarimenti, ma mi sembra di non esserne venuto a una. Leggo un pezzettino – se posso – della lettera. La lettera racconta di un disagio, di una fatica a fronte di una serie di circostanze e a un certo punto dice questo: «Allora mi sono ricordata della promessa che ti ho fatto: non dirò mai niente senza prima essermi guardata in azione. Mi sono osservata tutta la giornata cercando di capire cosa mi muovesse, perché facevo tutto: il pranzo con quell’amica, lo studio fatto in un certo modo... In ogni mia azione c’era un denominatore comune: una costante ricerca di qualcosa che colmasse la mia nostalgia. Su di me, sulla vita, ho solo una certezza: che il mio cuore è pieno di nostalgia, è pieno di attesa, di tensione, è pieno della promessa che la vita non è vuota, che cerco qualcosa che c’è, altrimenti smetterei di cercare.
Il mio cuore cerca, quindi afferma con certezza costante un Altro [e qui il punto]. Improvvisamente, senza nessun calcolo, senza nessuna formula e senza nessun
ragionamento, di nuovo è tornato quel Tu. Irrompendo mi ha sovrastata, mi ha investita, mi ha coinvolta, abbracciata. Eravamo io e questo Tu, e basta. E ho ripreso a respirare. Un rapporto così intimo e tenero da togliere le parole». A me ha colpito, perché: o lei non ha raccontato alcune cose, oppure, se è così come lei ha detto, vuol dire che lei non ha avuto bisogno – apparentemente, così come la vedo io – né di qualcosa al di fuori di sé, un fatto, un qualcosa che è accaduto, né di leggere qualcosa, né di fare memoria di qualcosa d’altro. Perché io, quando mi incastro, non ho questa risorsa. Mi sorprende che tu due volte dici che questo è un punto di non ritorno. A me interessa un punto di non ritorno perché io ho sempre pensato che quando uno si incastra o fa memoria di un fatto o vuole che quello che è accaduto riaccada, e quindi si danna per scoprirlo, curiosando nel reale, lo va a cercare ovunque esso sia, ma la compagnia così intima di questo Tu
io faccio fatica a capirla, sembra che compaia magicamente; forse ne faccio esperienza inconsciamente, non lo so, ma io voglio un punto di non ritorno perché so che mi può fare compagnia sempre.
Questo è il nocciolo della prima lezione, è la difficoltà che noi ci troviamo addosso in continuazione. Per questo non voglio rispondere a questa domanda adesso, all’inizio della Scuola di comunità, voglio vedere se c’è qualcuno che ha qualcosa da dire su questo passaggio. Perché lui dice, davanti alla lettera: è come se improvvisamente apparisse un Tu – che è quello che capita tante volte anche a noi –, un Tu che uno tira fuori dalla manica, quasi se lo inventasse. E allora è come se
noi diventassimo, a un certo punto, creatori invece di testimoni. Allora, nei passaggi che fa la lettera, manca qualcosa o no?

Tutti gli interventi che avete preparato li mettete da parte. Ora rispondiamo a quel che è venuto fuori, perché qui stiamo a quello che accade ora. Forza!

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Volevo ringraziarti, e nel contempo ringrazio il movimento, perché quando tu agli Esercizi hai affrontato il secondo punto, il “misterio eterno dell’esser nostro”, a me ha scosso tantissimo. Infatti mi ha fatto mettere a fuoco il punto di coscienza che sono e che si svela nell’azione e nell’impatto con la realtà, quando vivo una profonda nostalgia di questo Tu, in una modalità anche molto sofferta. Però mentre altre volte l’ho vissuto riducendolo a un fatto intimistico e psicologico…
E perché non è un fatto intimistico e psicologico?
Io so che ha generato una maggiore certezza quello che tu hai detto, la certezza del vincolo di rapporto con questa Presenza. Per cui, in questa certezza di un cuore che vibra per Lui, ho visto
che l’impegno con le cose diventa ancora più profondo, va in affondo. Per esempio, in me ha generato ancora di più un gusto culturale nel lavoro di ricerca che sto facendo, dove sono attenta a vedere tutte le cose che possono confluire dentro questa mia tensione nel lavoro.
Grazie.
Quando avevi letto quella lettera a me era sorta la stessa domanda: ma come faccio a fidarmi di una cosa che accade in me? E questo svelava una posizione che io mi ero scoperta addosso anche altre volte rispetto a quello che tu dicevi.
Ripeti la domanda che hai fatto…
Come faccio a fidarmi di qualcosa che accade in me? Mi sembra così fragile. Allora sono stata a guardare queste settimane e mi è accaduto questo. Sono andata a volantinare, e ho invitato alcuni ragazzi delle superiori. Dopo due giorni uno con cui io faccio abbastanza fatica è venuto da me, io ho cercato come al solito di svicolare, e lui, invece, è venuto a domandarmi: «Ma io ho fatto un’esperienza andando a volantinare. Da una parte ero esaltato, contento, perché ho scoperto che
io avevo qualcosa da dire, ma nello stesso tempo ho fatto l’esperienza di una – come dire – piccolezza». Quando lui ha detto questa frase mi sono fermata, l’ho guardato e ho detto: «Ma è quel che ho vissuto io». Mi sono scoperta libera nel rapporto con lui. In quell’istante ho capito che qualcosa stava accadendo in me, cioè quell’esperienza di libertà è stata il modo con cui ho capito quello che tu avevi detto attraverso la lettera, perché Cristo è qualcosa che stava accadendo come
libertà in me, per cui io ho detto: ma io posso fidarmi, perché un Altro abita la mia vita.
Però lei nella lettera non fa menzione di questo.
No, sto dicendo…
Non pensare di cavartela così.
No, no.
Non aggiungete voi quello che vi viene in testa, rispondete a questo.
Io sto parlando della libertà.
Poi arriveremo anche lì dove tu vuoi.
Sì, sì, però dico: nel tempo questa è stata la scoperta per me, per una libertà che accadeva in me, non generata da me. Io faccio esperienza di quello che lei chiama “Tu” rispetto a qualcosa che accade in me come qualcosa di misterioso in cui io scopro, mi sono scoperta…
Dove lei fa esperienza di questo?
Ah, lei?
Sì, in quello che dice lei.
Che lei non poteva esaurire questa... Quella nostalgia che lei ha scoperto, quel desiderio che si è trovata addosso in tutto quello che faceva, era qualcosa di diverso da lei stessa.
Perché?
Perché lei non poteva colmare quel desiderio, si muoveva per cercare una risposta.
Siete d’accordo? Grazie.
Vedo che la coda oggi si è smaltita subito. Come diceva un mio professore: i buoni toreri si fanno
davanti ai buoni tori (ma vedo che qui manca esperienza taurina...). Io ringrazio che il primo intervento abbia posto questa questione, perché coglie una vera difficoltà che abbiamo, tale per cui anche se leggiamo il quinto capitolo de Il senso religioso, cioè la colonna vertebrale della prima
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lezione di sabato mattina, si vede la fatica che facciamo proprio perché davanti a una lettera come quella citata non capiamo. Ma tutto quello che dice Giussani in quel capitolo, lo dice a partire dalla tristezza, dalla solitudine, dall’attesa, dalla nostalgia! E tutto questo per lui che cosa implica? Come dice in modo solare alla fine, nella conclusione, il fatto che ci siano tutti questi fattori, il fatto che ci
sia la domanda è il segno più palese che c’è la risposta: «L’affermazione della esistenza della risposta, come implicata nel fatto stesso della domanda» (Il senso religioso, p. 76). Per noi questo passaggio è quasi incomprensibile. Perché? In che cosa si vede? Perché è come se una volta descritta tutta la nostalgia, tutta l’attesa, tutta la tensione, tutta la promessa, quando uno dice «Tu»,
sembra che lo tiri fuori come il coniglio dal cappello, magicamente appunto. Cioè: non vediamo il rapporto tra tutti questi fatti che non possiamo cancellare dalla vita e l’affermazione del Tu. E questo fa sì che noi, alla fine, tante volte pensiamo che questo Tu è affermato perché lo decidiamo noi, e che non venga fuori dalle viscere dell’esperienza reale che abbiamo fatto; e per questo ci sembra che lo inventiamo noi. Perché devo dire: «Tu»? Perché sono sicuro nel dire: «Tu»? Perché
sono sicuro che esiste questo Tu? Siccome non risolviamo il problema a questo livello, quante volte in questi anni ci siamo detti: «Ma perché devo dire Cristo davanti ai fatti accaduti? Ma perché devo dire…?». È lo stesso problema, applicato alla fede. Che cosa succede, amici? Qual è la differenza di atteggiamento tra Giussani o questa lettera e noi? Che noi diamo per scontato il desiderio, diamo
per scontato che ci sia la nostalgia, diamo per scontato di sentire la solitudine. Che cosa vuol dire dare per scontato? Che sentire la solitudine e la tristezza non implica niente altro; e invece se voi leggete tutto quello che dice Giussani in questo quinto capitolo, ogni volta che parla di queste cose implica qualcosa d’altro: non può parlare della tristezza senza riconoscere che è desiderio di un bene assente; non può parlare della solitudine senza che questa solitudine, quando uno la guarda in faccia, sia l’occasione di riscoprire l’originale compagnia; non può parlare della nostalgia perché non esisterebbe la nostalgia senza un Tu. Per questo, quando una persona scrive una lettera come quella che abbiamo riletto, a noi sembra che manchi qualche pezzo. Perciò mi ero soffermato sulla questione della nostalgia, che è dove più chiaramente possiamo guardarlo. Perché Lagerkvist (è citato dal don Gius alla fine del capitolo) parla di nostalgia? Perché uno, quando guarda in sé il
fenomeno della nostalgia, non può non implicare un tu di cui ha nostalgia? Perché il fatto che ci sia la nostalgia è il segno più palese, la prova più evidente che non mi invento un tu, perché nessuno che abbia nostalgia si inventa un tu; chi non ha un tu non ha nostalgia! Il fatto che noi ci rendiamo conto che c’è la nostalgia è la prova più palese che c’è un tu, non perché lo decido io, non perché lo affermo io, non perché lo genero io, non perché lo creo io – aggiungete tutti i verbi che volete – ,
ma perché c’è! Perché c’è! Non è intimistico né psicologico, perché per affermare il fenomeno della nostalgia occorre qualcosa fuori di me di cui ho la nostalgia, e occorre qualcosa in me comestruttura che io non posso spiegare senza questo Tu di cui ho nostalgia. E qui tocchiamo proprio con mano il nostro razionalismo, cioè questo uso della ragione da cui Giussani cerca costantemente di aiutarci a uscire attraverso le citazioni delle esperienze umane degli uomini “più umani”, da
Dostoevskji a Leopardi a Pavese. Perché? Perché al vertice dell’esperienza umana uno non aggiunge le sue fantasie, ma si rende conto di quello che è implicato nel dinamismo del proprio io. Quello che noi diamo per scontato è questo dinamismo, questa dinamica dell’io. E se non c’è questa compagnia originale nell’io, poi possiamo essere in mezzo a tanti ma essere da soli, perché la compagnia non può essere che questo Tu. È lì, nel momento della solitudine (dice il don Gius) dove
uno scopre la sua originale compagnia. E se noi non ci soffermiamo su questo continueremo a usare la ragione razionalisticamente, cioè come misura. E poi, quando arriviamo al punto, affermiamo senza motivo adeguato il Tu, ma non siamo sicuri. Da che cosa si vede? Dal fatto che è una supposizione e non una conoscenza. E analogamente succederà domani con Cristo, perché è lo stesso uso della ragione che ci lascia costantemente incerti. In questo senso la portata del percorso che ci fa fare don Giussani è epocale, perché è la lotta più accanita contro questa riduzione della
ragione a misura, tale per cui affermare questo Tu sembra appiccicato – come mi dite sempre –, aggiunto, sembra qualcosa che non è dentro l’esperienza stessa. Invece lui dice tranquillamente che per il fatto che c’è la domanda esiste la risposta. Questa lettera svela la nostra difficoltà: perché noi

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non abbiamo il coraggio di dire a Giussani che gli manca qualcosa, ma la stessa obiezione che potete fare all’amica della lettera o a me la potete rivolgere direttamente a Giussani, direttamente! E qui si vede chiaramente come possiamo ripetere per anni il quinto capitolo de Il senso religioso e non spostarci di un millimetro dalla nostra posizione. Leggiamo ma non incide, non incide. Capite il
perché della lotta accanita del Papa per allargare la ragione? Non è un problema di Dio, non è un problema del Tu, è ancora una volta un problema dell’io, della capacità dell’io di affermare il Tu. Per questo la Chiesa ha difeso sempre, in mezzo a questo razionalismo dilagante, fin dal Concilio Vaticano I, questa possibilità della ragione di affermare il Tu, di affermare il Mistero. Se non è vero questo, non sta in piedi non questo capitolo, non tutto il libro, ma tutto il PerCorso. Se io ci sono,
qual è la cosa più evidente? Che c’è un Tu. Ma questo non è un problema psicologico o intimistico, perché io ci sono nel reale e devo dare ragione adeguata, in ogni istante che vivo, del perché ci sono. Noi questo lo diamo per scontato, ma è la cosa meno scontata che ci sia! E siccome lo diamo per scontato, non ci rendiamo conto che il fatto di non essere scontato implica già che c’è Uno che me lo dà ora: sono Tu che mi fai, ora. Non perché lo penso io, non perché lo sento io, non perché
me lo immagino io, non perché me lo creo io: perché ci sono! Non è un problema psicologico, non è un problema di proiezione alla Feuerbach, è un problema implicato nello stesso fatto che ci sono. Ragazzi – e “meno” ragazzi –, questo è decisivo perché tutti i nostri guai, tutte le nostre paure, tutte le nostre incertezze hanno il loro punto sorgivo qui, perché così non possiamo aderire a niente. E non è così perché lo dico io, è così e basta. Non è un problema di numeri, non è un problema di
consenso. No! No, anche se fossi io solo a sostenerlo, a rendermene conto, e tutti voi foste distratti, sarebbe ugualmente vero che io adesso non mi faccio da me. Se uno non arriva a questo, a questa certezza nell’uso della ragione, cioè a una modalità di vivere l’io con tutta la sua natura di io, ci sembrerà sempre che affermare il Tu sia buttarci nel vuoto (che è l’immagine che tanti hanno della
fede). Per questo vi prego di andare a fondo di questo punto, perché nelle lettere che mandate si percepisce: «Nonostante quanto ho vissuto agli Esercizi e a Roma, nonostante in questi ultimi mesi e in questi ultimi anni sia stata tempestata da testimoni, da fatti che mi hanno veramente resa più lieta la vita quotidiana, nonostante la valanga di amici che sono arrivati inaspettati, un marito, tre
figli, un lavoro, nonostante tutto questo da quando sono tornata da Roma mi attanaglia il cuore una grande tristezza. Per questo la scorsa Scuola di comunità sembrava proprio tutta per me, a cominciare dal canto. Nulla, proprio nulla, a parte alcuni brevi momenti in cui cerco di non pensare, mi toglie questa tristezza. A volte mi sono chiesta proprio anche davanti a te: ma di che cosa stiamo parlando [brava, finalmente: ma di che cosa stiamo parlando?]? Eppure lo so bene di cosa stiamo
parlando, o meglio di Chi, ma è come se in fondo in fondo io pensassi che Cristo c’è, mi vuole bene, L’ho visto, mi ha abbracciata, ma in fondo in fondo sono come il giovane ricco, me ne vado via triste. Ti dico che venerdì scorso mi si è aperto uno spiraglio leggendo il quinto capitolo de Il senso religioso; ho cominciato a capire quantomeno di non essere sola; le domande sulla vita, sulla mia vita (ma perché sono nata? ma perché ci sono adesso? di che cosa è fatta la realtà, le montagne,
il cielo, i miei amici, i figli, io?), lì così bene descritte, sono le mie. Ma questo vuol dire che l’incontro con Cristo fa esplodere il senso religioso [se questo succede guardando la tristezza, immaginate cosa succede nell’incontro con Cristo che risveglia ancora molto di più la domanda, perché quanto più grande è la domanda, quanto più intensa è la domanda, quanto più mi prende
tutto, quanto più difficile è dare una spiegazione, tanto più evidente è che c’è qualcosa d’altro: l’incontro con Cristo rende più palese quello che dice il capitolo quinto]. Ho sempre pensato [questo è il nostro problema] che incontrando la risposta sarei stata finalmente a posto, invece non si chiude niente, la ferita che ho dentro non si chiude. Ma cosa mi succede? Sono tornata al punto di partenza? Sono tornata indietro? Tutto mi sembra così poco soddisfacente, ultimamente il cuore mi
esplode per la domanda di significato che ho». Ma questa domanda di significato, che esplode ancora dentro di sé, di che cosa è segno? Ma questa intensità del vivere, questa nostalgia che non avevo prima – e che mi viene fuori quando incontro qualcuno –, e che è infinitamente più grande di quando ero addormentato, questo è segno che sono tornato indietro o che quanto più appare quella Persona tanto di più si rende evidente fino a che punto ha ridestato tutto di me? Questa è la
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conferma che c’è qualcosa di reale e presente che mi ridesta costantemente. E allora davanti a questo la lettera dice: «Mi torna sempre alla mente una frase che hai detto più volte: “È un problema di conoscenza”. È un problema di conoscenza, mi dico, e ieri sera sono uscita in macchina da sola a fare un giro per poter piangere in pace. Svoltata una curva (abito in collina), mi si è parato davanti uno spettacolo bellissimo. Ho fermato la macchina e lì, davanti a quel tramonto, non ho potuto non
chiedere al Mistero che mi rispondesse. Lì non potevo più obiettare [e non perché non avvertisse la sproporzione]. Lì ho sentito tutta la sproporzione fra me e Lui. È caduta tutta la pretesa, è rimasta solo la mendicanza». Dice un altro: «Ho ascoltato la Scuola di comunità di mercoledì scorso. Tu leggevi delle lettere. Percepivo che i protagonisti raccontavano un percorso umano della scoperta della presenza di Cristo certa, godibile e praticabile. Non si trattava di oche giulive, ma di persone
che vivono drammaticamente, non senza fatica, con una umanità per la quale come primo movimento ho avvertito invidia. Io nella mia vita ho avuto il dono di aver incontrato Cristo perché ho conosciuto quella letizia che ieri sera veniva descritta, poi però questo Cristo è sembrato sfumare, come forse è giusto che sia, mi è rimasto un grandissimo desiderio di Lui». Vedete come si mettono insieme queste due cose? Cristo mi è sembrato sfumare ed è rimasto un grandissimo
desiderio di Lui. Ma questo desiderio di Lui non è la testimonianza più palese che non è sfumato? La nostalgia sorge perché è sfumato o perché c’è? Il don Gius lo dice in modo inequivocabile a cavallo delle pagine 74 e 75 de Il senso religioso (l’avevamo già citato agli Esercizi): «Perciò, prima della solitudine sta la compagnia, che abbraccia la mia solitudine, per cui essa non è più vera
solitudine, ma grido di richiamo alla compagnia nascosta». E siccome questo non lo capiamo, allora arriviamo a dire contemporaneamente che abbiamo questo grandissimo desiderio di Lui e che Lui è sfumato. Ma cosa dice Giussani in tutto il capitolo? Proprio questo: che non è sfumato, che questo è il segno più palese che c’è! Se lo sta inventando? È un visionario anche Giussani? Tutti quelli che cita sono visionari? Solo noi siamo veramente realisti? O sono loro che sono veramente uomini e
invece noi siamo ridotti dal potere? Ciascuno può decidere, ma questo vuol dire che c’è ancora tanto percorso da fare. Meno male che la lettera continua dicendo: «Sentendo le lettere che leggevi e quell’invidia, mi sono ritrovato con più voglia che mai. Avvertivo che quella compagnia che attendo stava accadendo [ma stava accadendo non soltanto per le lettere, le lettere facevano presente che cosa stava accadendo anche in quel suo desiderio, ma lui lì non lo riconosce], e per questo ho
capito quello che dicevamo dopo. Dopo alcune battute mi sono ritrovato a fare già propositi [vedete?]. Dicevo: per una cosa così devo dare tutto. Prevaleva però al fondo una tristezza perché io, a ben pensare, non mi sono mai tirato indietro in nulla e ciononostante quel Cristo che desidero non L’ho mai potuto possedere come amico. Mi ha assalito una dolce percezione di impotenza perché tutto ciò che desidero non è in mano mia, e l’Amato non lo posseggo io. E in questa
sfinitezza mi sono sorpreso a ripetere: “Vieni Tu, o Cristo”. Io non sono stato mai prima molto avvezzo alla preghiera [perché uno è avvezzo alla preghiera soltanto quando nasce dalle viscere dell’io, invece per noi è spesso una cosa pia, devota] e specialmente quella fatta con le parole spesso ripetitive che la Chiesa suggerisce. Invece in questi giorni avverto la preghiera [guardate che cosa scopriamo quando uno non salta niente: allora le parole riacquistano un significato dall’interno delle viscere dell’esperienza] come la cosa più intelligente da fare [non la cosa per pii e devoti, ma per uno che si rende cosciente di che cosa è lui e il reale; il più intelligente, non il più scemo], la più costruttiva, e non mi affatica più. Se questa si chiama “vita nuova”, ora so di che si tratta: non più
un’espressione verbale, ma un’esperienza. Capisco allora che cosa significa chiedere a Cristo: “Insegnaci a pregare”, perché Lui mi ci ha condotto non con una disquisizione, ma attraverso l’urgenza di un’esperienza [che è la fine della lezione: a te, Cristo, si rivolge tutto il mio desiderio]; e capisco anche le parole del Papa all’udienza dell’11 maggio scorso: “Nella dinamica di questo
rapporto con chi dà senso all’esistenza, con Dio, la preghiera ha una delle sue tipiche espressioni nel gesto di mettersi in ginocchio”. Posso inginocchiarmi spontaneamente dichiarando il mio limite e dunque il mio avere bisogno di un Altro. Questo capitolo è ancora da riscoprire tutto».
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La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 22 giugno alle ore 21.30. Riprenderemo la seconda lezione. Questo non vuol dire chiudere la prima, perché resta ancora tanto da imparare.
È stato preparato un volantino a firma di Comunione e Liberazione sulle recenti elezioni, che leggo.
Pronti a rendere ragione della speranza che è in noi
Come qualsiasi altra circostanza della vita, anche le elezioni amministrative hanno costretto ognuno di noi a prendere posizione e ad assumersi la propria responsabilità. Soprattutto questa volta, non è stato facile andare oltre le apparenze e i luoghi comuni alimentati dal mondo politico e dall’opinione
dominante. Fin dall’inizio ci siamo detti: siamo cristiani e dunque, prima di qualunque calcolo elettorale e prima di sapere quale sarà il risultato finale, vogliamo verificare se la fede ha qualcosa da dire anche in questa occasione − in altre parole, se ha incidenza storica − o se deve rinunciare alla partita,
rassegnandosi al ruolo di “cortigiana” di chi conquisterà il potere o di “consolatrice” per chi sarà sconfitto.
Molti hanno accettato la sfida e si sono lanciati nella verifica, concretamente, incontrando la gente nei mercati, davanti alle chiese, nei caseggiati e nei luoghi di studio e di lavoro. E che cosa si è visto?
Un di uso quanto confuso desiderio di cambiamento, ma anche tanto scetticismo − e non solo a livello della politica −. A volte, una aggressività eclatante ed esagerata. E soprattutto un mare di bisogni e di solitudine. Dove è stato possibile bucare il muro dei pregiudizi e dell’ostilità, quanta umanità ferita e provata dalla vita è emersa, quanta gente sembrava non aspettare altro che qualcuno disposto a starvi di fronte, semplicemente!
Così, queste elezioni sono diventate l’occasione per ascoltare, per rendersi conto di necessità e di drammi inimmaginabili, talvolta per tendere una mano e offrire un aiuto. In qualche situazione è bastato uno scambio di numeri telefonici per risvegliare desiderio e speranza.
Che cosa ha reso possibile tutto questo?
Non certo una scaltrezza e una dialettica politica. Ci vuole ben altro per bucare la crosta di cui molti si sono rivestiti per difendersi da una realtà che non soddisfa. Ora, di fronte a un bisogno tanto profondo, può riaffiorare la tentazione dell’utopia: il sogno che la politica − di qualunque colore e tendenza − possa offrire una soluzione magica che elimini il dolore, il male e l’ingiustizia, liberi l’uomo e lo salvi. Sappiamo bene, tuttavia, quanto è deludente riporre la speranza in una cosa inconsistente come le utopie, che la storia ha puntualmente
smentito. Per questo ci siamo ripetuti: «Non aspettiamoci un miracolo, ma un cammino». Perciò abbiamo condiviso con chiunque l’unica cosa reale che abbiamo: una esperienza di novità umana, che si è dimostrata capace di darci una pienezza e una positività in qualunque circostanza ci trovassimo.
Dopo queste elezioni suonano attualissime le parole che don Giussani rivolse a un giovane incontrato in Università Cattolica alla fine degli anni Sessanta, che considerava ormai la rivoluzione l’unico modo per incidere sulla storia:

«Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono felice l’uomo.
La forza che fa la storia è un uomo che ha posto la sua dimora tra di noi, Cristo. La riscoperta di questo impedisce la nostra distrazione come uomini, il riconoscimento di questo introduce la nostra vita all’accento della felicità, sia pure intimidita e piena di una reticenza inevitabile. È nell’approfondimento di queste cose che uno incomincia a toccarsi alla mattina le spalle e sentire il proprio corpo più consistente e a guardarsi nello specchio e sentire il proprio volto più consistente, sentire il proprio io più consistente e il proprio cammino tra la gente più consistente, non dipendente dagli sguardi altrui, ma libero, non dipendente dalle reazioni altrui, ma libero, non vittima della logica di potere altrui, ma libero».
Le elezioni ci hanno provocati a una consapevolezza maggiore di quali sono «le forze che muovono la storia» e ad essere meno ingenui sul potere salvifico della politica. Solo la fede rende più umana la vita ora mette in moto una vibrazione di fronte al bisogno nostro e altrui, scatena una passione per il destino di ogni singolo uomo in cui ci si imbatte, fino ad aprire una possibilità di dialogo con persone indi erenti, deluse o arrabbiate.
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E ora? Non desideriamo altro che la libertà per noi e per tutti − di costruire e di condividere la nostra esperienza con chiunque, a cominciare da coloro che abbiamo incontrato in questi mesi, dai loro bisogni. La politica − chi ha vinto, ma anche chi ha perso − sarà in grado di riconoscere questa novità di vita nel presente e di difenderla come un bene per tutti? Quando siamo nati abbiamo domandato una sola cosa a chi comandava allora: «Mandateci in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educare». Allora come oggi, Comunione e Liberazione esiste solo per questo. Chiediamo troppo?

Capire questo è l’unica possibilità che quello che abbiamo vissuto ci faccia fare un passo di consapevolezza perché, come ci ha detto sempre Giussani, «non c’è vera esperienza se non ci fa crescere nella consapevolezza di quello che abbiamo vissuto». Per questo il giudizio contenuto nel volantino è un’occasione per non perdere l’esperienza di quanto in questo periodo ci è capitato e abbiamo visto accadere. È importante innanzitutto per noi, perché prendiamo più consapevolezza della nostra esperienza e dell’origine della nostra incidenza storica, e per offrire alle persone
incontrate durante la campagna elettorale la possibilità di continuare un confronto, un dialogo, e di offrire un aiuto. Tanti mi avete detto di persone che dopo le elezioni vi hanno cercato: dobbiamo riprendere il dialogo che abbiamo incominciato, perché non è finita la partita, per tanti è appena incominciata. Per questo è un’occasione per continuare un dialogo. Proponiamo alcuni libri per l’estate.
Il primo è il libro del Papa Gesù di Nazaret.Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione.
Il fatto che ne abbiamo scelto un brano per il volantone di Pasqua vi ha già permesso di avere un assaggio della portata del libro. Per questo, per una familiarità con Cristo, per una conoscenza più approfondita di Lui un libro così non è da perdere.
Per aiutarci a questo a Tracce di luglio sarà allegato un libretto con il testo dell’intervento di Ignacio Carbajosa alla presentazione del libro del Papa a Madrid. Potrà essere utile anche in vista delle presentazioni pubbliche del libro che i Centri culturali faranno nelle varie città.
Il secondo libro è Ciò che abbiamo di più caro, di don Giussani, che raccoglie le equipes del Clu degli anni 1988 e 1989
Come vi ho già accennato, è provvidenziale vedere come don Giussani con
questi testi ci accompagna nel cammino proprio rispetto a quello che stiamo vivendo ora. Il terzo libro è Brand di Ibsen,che è il dramma di un pastore protestante che ha sacrificato la propria vita per conseguire l’ideale etico, la perfezione morale attraverso la volontà umana. È molto interessante leggerlo alla luce del capitolo di cui abbiamo parlato oggi, perché il Brand è un esempio di quello che tante volte noi pensiamo: che ce la possiamo cavare con il nostro tentativo. E questo è un problema di conoscenza; poiché non abbiamo capito la natura dell’io, continuiamo a riporre la nostra speranza in quello che riusciamo a fare. Nel libro vedrete che cosa vuol dire questo e che razza di disperazione provoca. Don Giussani commentava: «La più incisiva immagine di questa disperazione sulla propria impotenza etica è nell’ultima scena quando il protagonista, che ha cercato la coerenza tutta la vita, di fronte alla morte, grida: “Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?”».
Da ultimo, il romanzo Il Padrone del Mondo di Robert Hugh Benson, in cui si vede come il potere tende a farci perdere la coscienza di noi stessi.
Veni Sancte Spiritu
s

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