mercoledì 30 giugno 2010

«Comunione con Pietro garanzia di libertà per i pastori e la Chiesa»

«Le potenze degli inferi, ha promesso Cristo, non prevarranno sulla sua Chiesa. Sono parole che hanno una significativa valenza ecumenica: effetto tipico dell’azione del Maligno è la divisione. L’unità della Chiesa è radicata nella sua unione con Cristo»



Benedetto XVI, nella solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, ha presieduto ieri nella Basilica Vaticana la concelebrazione eucaristica con 38 arcivescovi metropoliti ai quali, nel corso del rito, ha imposto i palli.

Come di consueto in occasione della festa dei patroni della città di Roma, era presente alla Messa una delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Al termine del rito il Papa e il metropolita ortodosso Gennadios sono scesi alla alla Confessione di San Pietro per una breve preghiera.

Il testo integrale dell’omelia pronunciata dal Pontefice prima della benedizione e imposizione dei palli.

Cari fratelli e sorelle! I testi biblici di questa liturgia eucaristica della solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, nella loro grande ricchezza, mettono in risalto un tema che si potrebbe riassumere così: Dio è vicino ai suoi fedeli servitori e li libera da ogni male, e libera la Chiesa dalle potenze negative. È il tema della libertà della Chiesa, che presenta un aspetto storico e un altro più profondamente spirituale. Questa tematica attraversa tutta l’odierna liturgia della Parola. La prima e la seconda Lettura parlano, rispettivamente, di san Pietro e di san Paolo sottolineando proprio l’azione liberatrice di Dio nei loro confronti.

Specialmente il testo degli Atti degli Apostoli

descrive con abbondanza di particolari l’intervento dell’angelo del Signore, che scioglie Pietro dalle catene e lo conduce fuori dal carcere di Gerusalemme, dove lo aveva fatto rinchiudere, sotto stretta sorveglianza, il re Erode (cfrAt 12,1-11).

Paolo, invece, scrivendo a Timoteo quando ormai sente vicina la fine della vita terrena, ne fa un bilancio consuntivo da cui emerge che il Signore gli è stato sempre vicino, lo ha liberato da tanti pericoli e ancora lo libererà introducendolo nel suo Regno eterno (cfr2 Tm 4, 6-8.17-18). Il tema è rafforzato dal Salmo responsoriale (Sal 33), e trova un particolare sviluppo anche nel brano evangelico della confessione di Pietro, là dove Cristo promette che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa (cfr

Mt16,18).O sservando bene si nota, riguardo a questa tematica, una certa progressione. Nella prima Lettura viene narrato un episodio specifico che mostra l’intervento del Signore per liberare Pietro dalla prigione; nella seconda Paolo, sulla base della sua straordinaria esperienza apostolica, si dice convinto che il Signore, che già lo ha liberato «dalla bocca del leone», lo libererà «da ogni male» aprendogli le porte del Cielo; nel Vangelo invece non si parla più dei singoli apostoli, ma della Chiesa nel suo insieme e della sua sicurezza rispetto alle forze del male, intese in senso ampio e profondo. In tal modo vediamo che la promessa di Gesù – «le potenze degli inferi non prevarranno» sulla Chiesa – comprende sì le esperienze storiche di persecuzione subite da Pietro e da Paolo e dagli altri testimoni del Vangelo, ma va oltre, volendo assicurare la protezione soprattutto contro le minacce di ordine spirituale; secondo quanto Paolo stesso scrive nella

Lettera agli Efesini: «La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef6,12).

I ■ effetti, se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, possiamo osservare che – come aveva preannunciato il Signore Gesù (cfr Mt 10,16-33) – non sono mai mancate per i cristiani le prove, che in alcuni periodi e luoghi hanno assunto il carattere di vere e proprie persecuzioni.

Queste, però, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono il pericolo più grave per la Chiesa. Il danno maggiore, infatti, essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto.

Questa realtà è attestata già dall’epistolario paolino. La Prima Lettera ai Corinzi, ad esempio, risponde proprio ad alcuni problemi di divisioni, di incoerenze, di infedeltà al Vangelo che minaccianoseriamente la Chiesa. Ma anche laSeconda Lettera a Timoteo – di cui abbiamo ascoltato un brano – parla dei pericoli degli «ultimi tempi», identificandoli con atteggiamenti negativi che appartengono al mondo e che possono contagiare la comunità cristiana: egoismo, vanità, orgoglio, attaccamento al denaro, eccetera (cfr 3,1-5). La conclusione dell’Apostolo è rassicurante: gli uomini che operano il male – scrive – «non andranno molto lontano, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti» (3,9). Vi è dunque una garanzia di libertà assicurata da Dio alla Chiesa, libertà sia dai lacci materiali che cercano di impedirne o coartarne la missione, sia dai mali spirituali e morali, che possono intaccarne l’autenticità e la credibilità.

l tema della libertà della Chiesa, garantita da Cristo a Pietro, ha anche una specifica attinenza con il rito dell’imposizione del pallio, che oggiIrinnoviamo per trentotto arcivescovi metropoliti, ai quali rivolgo il mio più cordiale saluto, estendendolo con affetto a quanti hanno voluto accompagnarli in questo pellegrinaggio. La comunione con Pietro e i suoi successori, infatti, è garanzia di libertà per i pastori della Chiesa e per le stesse comunità loro affidate. Lo è su entrambi i piani messi in luce nelle riflessioni precedenti. Sul piano storico, l’unione con la Sede Apostolica assicura alleChiese particolari e alle Conferenze episcopali la libertà rispetto a poteri locali, nazionali o sovranazionali, che possono in certi casi ostacolare la missione della Chiesa. Inoltre, e più essenzialmente, il ministero petrino è garanzia di libertà nel senso della piena adesione alla verità, all’autentica tradizione, così che il Popolo di Dio sia preservato da errori concernenti la fede e la morale. Il fatto dunque che, ogni anno, i nuovi metropoliti vengano a Roma a ricevere il pallio dalle mani del Papa va compreso nel suo significato proprio, come gesto di comunione, e il tema della libertà della Chiesa ce ne offre una chiave di lettura particolarmente importante. Questo appare evidente nel caso di Chiese segnate da persecuzioni, oppure sottoposte a ingerenze politiche o ad altre dure prove.

Ma ciò non è meno rilevante nel caso di comunità che patiscono l’influenza di dottrine fuorvianti, o di tendenze ideologiche e pratiche contrarie al Vangelo.

Il pallio dunque diventa, in questo senso, un pegno di libertà, analogamente al «giogo» di Gesù, che Egli invita a prendere, ciascuno sulle proprie spalle (cfrMt 11,29-30). Come il comandamento di Cristo – pur esigente – è «dolce e leggero» e, invece di pesare su chi lo porta, lo solleva, così il vincolo con la Sede Apostolica – pur impegnativo – sostiene il pastore e la porzione di Chiesa affidata alle sue cure, rendendoli più liberi e più forti.

U ■ ’ultima indicazione vorrei trarre dalla Parola di Dio, in particolare dalla promessa di Cristo che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa. Queste parole possono avere anche una significativa valenza ecumenica, dal momento che, come accennavo poc’anzi, uno degli effetti tipici dell’azione del Maligno è proprio la divisione all’interno della comunità ecclesiale. Le divisioni, infatti, sono sintomi della forza del peccato, che continua ad agire nei membri della Chiesa anche dopo la redenzione. Ma la parola di Cristo è chiara: «Non praevalebunt – non prevarranno» (Mt 16,18). L’unità della Chiesa è radicata nella sua unione con Cristo, e la causa della piena unità dei cristiani – sempre da ricercare e da rinnovare, di generazione in generazione – è pure sostenuta dalla sua preghiera e dalla sua promessa. Nella lotta contro lo spirito del male, Dio ci ha donato in Gesù l’«Avvocato» difensore, e, dopo la sua Pasqua, «un altro Paraclito» (cfrGv 14,16), lo Spirito Santo, che rimane con noi per sempre e conduce la Chiesa verso la pienezza della verità (cfrGv 14,16; 16,13), che è anche la pienezza della carità e dell’unità. Con questi sentimenti di fiduciosa speranza, sono lieto di salutare la delegazione del Patriarcato di Costantinopoli, che, secondo la bella consuetudine delle visite reciproche, partecipa alle celebrazioni dei santi Patroni di Roma. Insieme rendiamo grazie a Dio per i progressi nelle relazioni ecumeniche tra cattolici ed ortodossi, e rinnoviamo l’impegno di corrispondere generosamente alla grazia di Dio, che ci conduce alla piena comunione.

Cari amici, saluto cordialmente ciascuno di voi: signori cardinali, fratelli nell’Episcopato, signori ambasciatori e autorità civili, in particolare il sindaco di Roma, sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Vi ringrazio per la vostra presenza. I santi apostoli Pietro e Paolo vi ottengano di amare sempre più la santa Chiesa, corpo mistico di Cristo Signore e messaggera di unità e di pace per tutti gli uomini. Vi ottengano anche di offrire con letizia per la sua santità e la sua missione le fatiche e le sofferenze sopportate per la fedeltà al Vangelo. La Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Madre della Chiesa, vegli sempre su di voi, in particolare sul ministero degli Arcivescovi Metropoliti. Col suo celeste aiuto possiate vivere e agire sempre in quella libertà, che Cristo ci ha guadagnato.

Amen.

Benedetto XVI

sabato 26 giugno 2010

Ritroviamo l’allegria del calcio E intanto giochiamo la partita vera

Siamo fuori dal Mondiale di calcio.

Ma speriamo almeno di non essere rimbambiti. Si può patire un’onta calcistica senza però rinscimunire, no? Tra giovedì sera e venerdì, a veder le prime pagine e le lenzuolate di parole mdandate in stampa e i titoloni dei servizi televisivi sembrava che una specie di ciclone o pestilenza si fosse abbattuta sul Paese. Si oscillava dall’uso di parole come «disfatta» ai titoli sparati come «disastro».

Ho visto parecchie imprecazioni «vergogna» e cose tipo «mai così male». Gli italiani sono grandi appassionati di calcio.

Lo amano, lo praticano come possono, e sono tifosi accesi.

Anch’io ero tra quelli in ginocchio davanti al video quando hanno annullato il goal (valido), e che hanno invocato il ritorno di Pirlo. Pur masticando amaro ero tra quelli che ci han creduto fino in fondo, e che provano un gran dispiacere perché non ci saranno con i propri figli e con gli amici altre occasioni per tifare e divertirsi davanti alla tv. Ma questa aria giornalistica da vittime di un tifone, da disastrati e svergognati riferita alle prestazioni di una squadra di calcio non è un gran bel segno.

Significa che la passione ha perso leggerezza e che in un momento in cui i media hanno una responsabilità delicata sui sentimenti e i moti sociali si usano le parole a vanvera, senza pensarci. Essere molto appassionati a una cosa come il calcio non dovrebbe impedire di soppesarne il valore essenziale. Che è lieve, allegro e relativo. Se smettiamo di prenderlo con la adeguata allegria e leggerezza diviene anch’esso un argomento plumbeo.

E davvero diventa la versione moderna di

panem et circenses . Quei sostantivi e quegli aggettivi così roboanti e gravi, così piattamente seriosi, così impettiti applicati non a uno delle tante vere «disfatte» della società e della cultura italiana ma a un torneo di pallone – per quanto mondiale e collegato a interessi e promozioni – fanno un effetto un po’ grottesco e un po’ amaro.

Non sono altre, forse, le cose per cui dovremmo ora provar vergogna? Non dovremmo gridare alla «disfatta», con più veemenza e con più insurrezionale pietà, davanti all’aumento della miseria, della difficoltà di lavorare, della crisi di natalità ormai sclerotizzata in uno zero che è peggio di qualsiasi pareggio calcistico, uno zero che ci elimina dalla storia e non da un torneo? Va bene la retorica giornalistica, la necessità del titolone. Ma se sono i giornalisti i primi a perdere il senso della misura, cioè proprio coloro che dovrebbero aiutare a comprendere il peso delle cose nella vita comune, allora si può davvero usare tutto, compreso il bel gioco del calcio, per confondere le menti. Il disastro Italia, la nostra eliminazione non si è giocata giovedì. Si sta giocando oggi. Giovedì è terminato un bel sogno, ed è finito l’orgoglio di sentirci campioni. Ci si può ridere sopra, anche. Ma ora dovrebbe restare in campo l’orgoglio di essere almeno passabili sotto il profilo della qualità della scuola, delle riforme, delle risposte alla necessità del lavoro, della capacità di governo comune dei processi, della lotta alla criminalità furba e alle rendite succhiasoldi. Oggi si sta giocando la partita decisiva. Chi fa finta di non saperlo e spreca aggettivi solo per quella di due giorni fa è doppiamente miope: non conosce più l’allegria, cioè il sapore vero del calcio, e dimostra di non avere la giusta tensione per la partita in cui ci stiamo davvero giocando tutto.
DAVIDE RONDONI

venerdì 25 giugno 2010

" Luntane cchiù luntane "

Nella musica, nel panorama della natura, nel sogno notturno (come scrive nel suo Canto Notturno… Leopardi), è a qualcosa d’altro che l’uomo rende il suo omaggio, da cui aspetta: lo aspetta. Il suo entusiasmo è per qualcosa che la musica, o tutto ciò che è bello al mondo, ha destato dentro. Quando l’uomo “pre-sente” questo, immediatamente piega l’animo ad attendere l’altra cosa: anche davanti a ciò che può afferrare, attende un’altra cosa; afferra ciò che può afferrare, ma attende un’altra cosa. (Luigi Giussani) ===============*********************=============== E’ descritto bene il sentimento che la realtà provoca in noi quando è guardata in tutta la sua profondità per cui essa diventa segno dell’Infinito. In tutte le cose è scritto il richiamo a qualcosa d’Altro.




LUNTANE, CCHIÙ LUNTANE

Pe cantà sta chiarità
ncore me sente tremà!
Tutte stu ciele stellate, tutte stu mare
Che me fa sugnà.
Ma pe ‘tte sole, pe ‘tte esce dall’anima me,
mezz’a stu ciele, stu mare, nu cantemente che nze po
tenè.

Luntane, cchiù luntane de li luntane stelle,
luce la luce cchiù belle
che me fa ncore cantà.
Luntane cchiù…

Marinà, s’ha da vugà tra tutta sta chiarità,
cante la vele a lu vente, nu cante granne che luntane và:
tu la si ddove vò i’ st’aneme pe’ ne’ murì
bella paranze. Luntane ‘nghe sti suspire tu i’ da menì.

Luntane...

LONTANO, PIÙ LONTANO

Per cantare questo chiarore,
in cuore mi sento tremare!
Tutto questo cielo stellato,tutto questo mare
che mi fa sognare.
Ma per te solo, per te esce dall’anima mia,
in mezzo a questo cielo, a questo mare, un canto che non si può
trattenere.

Lontano, più lontano delle lontane stelle,
riluce la luce più bella che mi fa ancora cantare.
Lontano più lontano …

Marinaio, si deve remare tra tutto questo chiarore,
canta la vela al vento un canto grande che lontano va.
Tu lo sai, bella barca, dove vuole andare quest’anima per non morire…
Lontano con questi sospiri tu devi venire.

Lontano...

Scuola di comunità con Julián Carrón- Milano, 23 giugno 2010

Testo di riferimento: «Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?», Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione (Rimini 2010), Società Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2010.
• Canto “Luntane, cchiù luntane”
• Canto “Ojos de cielo”
Mi piacerebbe sentire che cosa avete pensato ascoltando questo canto: chi ha questi «occhi di cielo» in grado di cancellare l’inferno della vita? Uno che scopre questi occhi può domandare: «Non abbandonarmi»; posso entrare in qualsiasi inferno con questi occhi, con Lui negli occhi, fino in fondo al buio e lì, per questa certezza, gridare: «Non mi abbandonare in pieno volo». La volta scorsa avevo incominciato la Scuola di comunità dicendo questo – lo ridico perché mi ha colpito
rileggerlo; per come poi si è svolta la Scuola di comunità, abbiamo fatto veramente fatica –: la Scuola di comunità è un’ipotesi di lavoro – ci ha insegnato sempre don Giussani – per entrare nel reale e tutti siamo chiamati a verificarla nella nostra esperienza. Perciò non si viene qui a fare i commenti; si viene a raccontare, a documentare un’esperienza, visto che pochi credono che vivere il reale con questa ipotesi sia davvero un’altra cosa, neanche noi; è inutile far commenti, perché non ci
cambiano veramente la testa, la mentalità, occorre – ma noi non gli diamo credito, abbiamo sentito – documentare, testimoniare che entrare nel reale secondo quanto ci siamo detti può far respirare, che uno può entrare nell’inferno di qualsiasi situazione pur drammatica. Abbiamo davanti l’inizio della prima lezione degli Esercizi, «La provocazione del reale», che descrive che cosa succede
quando io mi lascio provocare dal reale e che cosa significa che la realtà vissuta come segno è un’altra cosa. Se non avete testimonianze su questo, state seduti tranquilli. Mi scrive una persona:

«L’ultima volta mi è parso che tu fossi “intensamente” interessato a far sì che noi comprendessimo il lavoro che dobbiamo fare. Ti ringrazio per questo, perché capisco che è la sola speranza, altrimenti la realtà ti soffoca [la realtà diventa un inferno], la realtà ferma in se stessa, nella sua immagine esteriore, ti soffoca; a che serve anche la bellezza di mia moglie, di un tramonto, di un incontro, di una cosa che riesce al lavoro, se l’ipotesi con cui guardi è che questa svanisca e non
abbia un supporto che la sostiene? [Di fronte alle difficoltà è questo che ti provoca a guardare oltre.]
Talvolta basta leggere un passo della Scuola di comunità perché cambi tutto [lasciar entrare una briciola!], cambia te e perciò cambia tutto. Siccome sono duro a capire, ti volevo chiedere un approfondimento».

Già la volta scorsa avevamo sentito quello che aveva raccontato un nostro
amico: di come era cambiato facendo le pulizie dal primo giorno a quando aveva lasciato entrare questa ipotesi. Questa è la verifica che noi dobbiamo fare, perché altrimenti, come dicevamo alla fine della Scuola di comunità, noi non diamo credito. In che cosa si vede? Non nel fatto che mettiamo in discussione quello che ci diciamo o il libretto degli Esercizi o la Scuola di comunità; semplicemente non li prendiamo in considerazione nel modo con cui affrontiamo il reale. La frattura tra il sapere e il credere è qua; non è un sapere talmente mio che io non posso entrare nel
reale senza di esso. Per questo voglio che intervenga il nostro amico per spiegare quel che mi ha detto prima; è un esempio che può aiutare a spiegare e a capire il modo di lavoro.


Qualche giorno fa per lavoro dovevo assemblare una porta in negozio. L’avevo già fatto altre volte, questa era una porta un po’ particolare. Allora arrivo lì, la spacchetto e come al solito c’è dentro il disegno di come si fa ad assemblare; io l’ho preso, l’ho messo da parte, ho detto: «Tanto ce la faccio», e comincio a montarla così. Alla fine mi rimangono in mano dei pezzi e non è che dico:
«C’è qualcosa che non va», no, dico: «Che bravo, ce l’ho fatta lo stesso, questo qua era uno in più»; il foglietto è sempre là; poi può succedere che un angolo non sta su e dici: «Il solito difetto di fabbrica» e via. Era solo un esempio per dirti come sono io.
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Questo è un esempio di quello che facciamo con la Scuola di comunità. Sulle istruzioni facciamo commenti e riflessioni; ma noi continuiamo a entrare nel reale (a rapportarci all’oggetto) secondo la nostra immaginazione, la nostra intelligenza, le nostre doti, tutto quanto volete, tutto quanto abbiamo imparato. È il dualismo alla perfezione. Che cosa serve fare commenti? A un certo momento, ci stufiamo di fare i commenti, perché continuiamo a non entrare nel reale, a non vivere
bene le cose. Che cosa facciamo, invece, di solito davanti a un apparecchio? Che quando non riusciamo a farlo funzionare andiamo alle istruzioni lasciate da parte, le incominciamo a prendere veramente sul serio come l’ipotesi di lavoro per farlo funzionare e non per fare riflessioni sulle istruzioni per l’uso. Così, nella vita è amico chi ti offre qualcosa per entrare nella realtà. Quando uno non riesce a farcela, ritorna di nuovo a vedere il passettino successivo che deve fare fin quando
si blocca un’altra volta, e avanti così. È un’ipotesi di lavoro per entrare nel reale, per vedere che la vita funziona. Per questo mi piace tantissimo l’espressione di Giussani. Perché parla di ipotesi di lavoro? Perché quello che uno ha acquistato lungo la vita − ed è certo che è stato acquisito −, lo offre a un altro come un amico: «Guarda che facendo così la vita funziona, puoi stare davanti a qualsiasi situazione, in qualsiasi circostanza pur brutta che sia». Uno che fa così è veramente un amico, perché ci offre tutta l’esperienza che ha vissuto. Che cosa è la Scuola di comunità?
L’esperienza, che don Giussani ha vissuto, comunicata a noi; ma non può diventare nostra usandola secondo una modalità che non è quella per cui ci è stata data. Egli la chiama ipotesi di lavoro proprio perché possiamo verificare che vivendo così la vita si chiarisce, la vita comincia a essere interessante. Per questo se ciascuno reagisce secondo la mentalità che ha e non prende sul serio quello, è inutile; a un certo momento, qui non succede più niente. Ma come può succedere se non
l’abbiamo neanche preso in considerazione per entrare nel reale? Davanti al bambino che piange perché il giocattolo non funziona, l’apparecchio non funziona, che cosa gli dici? Preghi? La prima preghiera è prendere sul serio le istruzioni; il primo riconoscimento del bisogno che abbiamo è non essere presuntuosi e cercare di entrare nel reale con a fianco una presenza a cui posso domandare.
Per questo è decisivo, alla fine di quest’anno e con questi mesi che abbiamo davanti, guadagnare una chiarezza sul modo di stare nel reale. È quello che mi scrive una persona rispetto alla Scuola di comunità scorsa:

«L’ultima Scuola di comunità è stata per me una provocazione molto intensa, ho
vissuto i giorni successivi avendo sempre di fronte il tuo richiamo: “La Scuola di comunità è un’ipotesi per entrare nel reale”. Vorrei dire cosa è accaduto. Al lavoro è successo un fatto molto spiacevole, ho avuto una difficoltà con un collega, il rapporto non è facile, è una persona irritante, un po’ rompiscatole e che cerca di stare un po’ alla larga. Condivido parecchie attività con questa persona, non posso scansarla, così spesso ho cercato di parare i colpi con una certa grevità dentro
[uno cerca di gestire la situazione]. La mia reazione a questo ulteriore episodio è stata di grande fastidio e istintivo risentimento; hanno cominciato a girarmi per la testa ipotesi come: mi chiudo nella mia stanza e cerco anch’io di limitare i contatti. Incominciano a scattare ipotesi: non ne posso più, chiedo al direttore di non condividere più le cose con questa persona. Ma quel tuo richiamo della prima lezione (“Aprendo lo sguardo alla realtà, ho davanti qualcosa che realizza una
provocazione di apertura. […] Il reale mi sollecita a ricercare qualcosa d’altro oltre quello che immediatamente appare”) e poi l’osservazione di María Zambrano (“L’uomo non si rivolge alla realtà per conoscerla meglio o peggio, se non dopo, e a partire da, l’averla sentita come unapromessa”) mi hanno provocato a stare davanti a queste cose. In che posizione ero io? Arrestata in una concezione del reale ridotto all’apparenza e del mio io ridotto a una serie di reazioni; stavo decidendo io cosa è segno e cosa no [cosa ha dentro una promessa e cosa no: noi viviamo la realtà
come tutti, decidiamo, la fermiamo all’apparenza, decidiamo che cosa è segno]. Questo fatto [questo è il segno: che qualcosa non va] mi faceva male [le spie, grazie a Dio, funzionano ancora].
L’azione immediatamente conseguente di tale opzione di fondo – perché questa mi pare sia proprio un’opzione che scopro guardandomi agire – mi sono accorta che è uno sbarramento della strada tra me e la realtà, infatti stavo scegliendo di mettermi con il gomito davanti alla faccia rispetto al reale (limito i contatti, chiedo di non averci più a che fare), ma ancora quel richiamo in me (“Ho davanti qualcosa che realizza una provocazione di apertura”) mi feriva; ho provato a fargli spazio, a
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lasciarlo entrare, ad acuire il mio sguardo. Mi sono accorta che la prima dimenticanza, la prima distorsione la stavo operando su me stessa, perché non è vero che avevo smesso di desiderare un rapporto di collaborazione, di solidarietà, di rispetto, insomma di desiderare un bene. Tutte le ipotesi [perché noi sostituiamo una ipotesi con altre ipotesi, anche le nostre sono ipotesi!] di evitamento che mi passavano per la testa non erano risposte adeguate, e il malessere che continuavo
ad avvertire ne era un segno chiaro. Con uno sguardo più chiaro su me, l’ipotesi della Scuola di comunità (“Il reale mi sollecita a ricercare qualcosa d’altro”) mi appare particolarmente chiara [allora uno incomincia a rendersi conto del valore di quello che gli viene proposto, perché quando ha visto che tutti i tentativi che ha fatto fino adesso portano al nulla, uno incomincia a tornare alle istruzioni, a tornare a quella ipotesi che mi ha offerto un amico che ha già percorso la strada]: una vera mano tesa in mio aiuto [questa è la Scuola di comunità: una mano tesa in mio aiuto]. I giorni successivi dovevo discutere di alcuni pazienti con la collega in questione e ho potuto starci come davanti a un nuovo evento, pieno di possibilità, non bloccata sulla spiacevolezza dei giorni precedenti. Un’altra collega presente al lavoro ha commentato: “Oggi sei particolarmente tranquilla
e paziente”. In effetti ho potuto lavorare insieme non sentendo quell’accanimento e quella rabbiosità che – ci dicevi a Rimini – connotano il sentimento di sé quando il centro affettivo dal Tu ricade su di sé. Mi sono sentita molto bene, molto libera, aderente all’istante presente e non bloccata su inutili analisi degli antefatti. Ho visto anche l’altra collega un po’ sciolta [si scioglie l’altro; il nostro
contributo sarà decisivo per l’altro solo quando facciamo così, non è fare la predica su quanto sbaglia, sciogliendoci noi diamo il contributo a che l’altro si sciolga in un rapporto sempre possibile], forse anche perché per lei il sentimento di sé è cambiato». Questa è la promessa, questa è la verifica di un’ipotesi di lavoro a portata di mano di chiunque, non perché la vita ci viene risparmiata, no. Ma tanta della fatica che facciamo c’è perché la nostra modalità solita con cui
entriamo nel reale (le nostre ipotesi) ci fa soffocare, ci rende rabbiosi. Quando uno ha capito questo, incomincia con semplicità, da mendicante, a prendere sul serio l’ipotesi che ci offre il carisma; allora incomincia la vera verifica, allora incomincia il lavoro. È in quel momento che incomincia la strada, l’avventura della conoscenza nuova. Io pensavo di conoscere già il reale, avevo deciso che cosa era interessante e che cosa no, che cosa era segno; noi pensiamo di conoscere, poi ci rendiamo conto che non conosciamo un cavolo, che è il solito uso della ragione, che facciamo come tutti davanti a chi ci sfida costantemente. Per questo se noi non ci lasciamo generare da colui che ci propone questo, poi diciamo che non cambia niente. Ma non cambia niente perché? Perché noi non ci lasciamo generare (e poi diamo la colpa a tutti i santi perché non cambia niente). Cristo è venuto rispondendo, rendendosi contemporaneo, e continua ad accompagnarci dandoci un carisma perché
possa ridestarsi tutto l’umano nel modo di affrontare il reale. La grazia è già qua; solo il divino può salvare l’umano – non è che noi possiamo farlo da soli, solo il divino può stare davanti alla realtà così –, la dimensione vera, reale, dell’umana figura e del suo destino. Noi possiamo riconoscere senza spaventarci tutte le nostre esigenze e metterle in atto soltanto se Cristo permane come un’esperienza reale nel presente, se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà. Questa
esperienza di Cristo ora ci consente di entrare in qualsiasi buio da uomini, con tutto l’uso della ragione (non continuando a guardare la realtà come prima e poi appiccicando Cristo, perché seCristo non ci introduce in una conoscenza nuova del reale, in una modalità nuova di guardare il collega, di guardare la situazione, di guardare la circostanza, noi continuiamo con il solito dualismo;
Cristo non introduce nessuna novità nella vita e perciò nel tempo anche per noi non sarà interessante).


Ieri, durante la pausa-pranzo del lavoro come sempre sono andato a consumare il mio pranzo alla solita panchina, solo che ieri un signore che non avevo mai visto si è fermato e si è seduto di fianco a me. Io ho capito che aveva il desiderio di scambiare due parole e gli ho lasciato spazio perché ho detto: «Magari da questa conversazione inaspettata può venire del bene anche per me». E lui si è
messo a raccontarmi un po’ di tutte le vicissitudini della sua vita, non ha più la casa e ha perso il lavoro, e tutte queste cose brutte che sono successe gli hanno suscitato una grande sfiducia sulla
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vita. E io come prima cosa, perché ci tenevo che lui percepisse una compagnia a questo suo bisogno, gli ho chiesto se insieme con me voleva andare a bere un caffè per continuare a parlare di queste cose e l’ho portato nel bar dove vado di solito, senza vergognarmi di essere in compagnia di uno un po’ trasandato, un po’ così, perché per me lui era importante e quello che lui mi diceva era come se fosse un grido, il suo bisogno era un grido che sfidava la mia sicurezza: «Come io posso
essere sicuro pur non avendo vissuto una prova come quella che vive lui, come posso stare davanti a uno così»? E io subito ho capito che lì ero come su un solco, che potevo da un lato dargli una pacca sulle spalle, magari sganciargli anche qualche euro e liquidarlo così, però avvertivo subito che questo non era adeguato al modo con cui io sono stato guardato nel mio bisogno e ho capito che lì era messo alla prova se io potevo spendere il nome di Cristo nel rapporto con lui oppure se
Cristo poteva rispondere soltanto ai piccoli bisogni non eccessivi che devo affrontare nella mia giornata. Era l’unica risposta veramente adeguata a lui e gli ho detto: «Guardi, le dico che io sono cristiano. Non deve perdere la speranza perché un imprevisto buono può accadere nella sua vita e cambiarla, e non glielo dico perché io il lavoro ce l’ho e ho una casa in cui vivere, ma perché questa è la cosa più vera della mia vita». Poi sono anche arrivato al punto di dargli qualcosa,
perché ho pensato che deve essere terribile andare in giro per la città senza avere niente in tasca, ma questo nasceva dal giudizio che c’era stato prima. E lui, nel salutarmi (perché poi dovevo tornare al lavoro), mi ha detto: «Io la ringrazio, mi ha fatto del bene, sicuramente le tornerà del bene in futuro, magari un giorno potrà aiutarmi ancora»; io gli ho detto: «E che ne sa che non sia lei un domani ad aiutarmi?». Mi veniva in mente che magari, nonostante tutto il male di cui io sono
capace, per un singolo gesto di carità, sarà lui ad aprirmi le porte del Paradiso.
E questo che cosa ti ha fatto imparare della lezione degli Esercizi?
Innanzitutto che quello che mi smuove sono dei fatti che succedono e non dei discorsi, perché io tutti i giorni faccio la Scuola di comunità su quella benedetta panchina, però ho capito molto di più di quello che avevo letto in un momento in cui non ho potuto fare la Scuola di comunità leggendo il libretto, ma giocandola nel rapporto con lui.
Non avviene con un discorso, ma con la realtà che ci sfida.
E poi un’altra cosa che mi ha colpito è che il pomeriggio quando sono tornato in ufficio e poi la sera e questa mattina continuavo a ripensare a questa persona: chissà com’è andata a finire, come sta. Però questo generava un po’ un peso su di me che non riuscivo a sostenere perché mi dicevo:
«Caspita, non gli ho neanche detto del Banco Alimentare», trovavo un sacco di cose in cui ero stato carente. Però, anche parlandone con la mia morosa, lei mi ha aiutato a capire che io da solo non so neanche guardare il mio bisogno e rispondervi da solo, è soltanto il divino che può salvare l’umano, io sono veramente inadeguato perché sono carente da tutti i punti di vista, però, misteriosamente…
Di che cosa non ti eri reso conto?
Che l’imprevisto buono era in te.
Sembrava così assurdo, perché, se penso a me, mi vedo molto incoerente; però ha voluto così e io ho semplicemente detto di sì.
Ti ha lasciato la ferita per andare fino in fondo di questa consapevolezza.
Infatti quello che adesso mi è rimasto addosso è il desiderio di conoscere di più Cristo per poter essere ancora più trasparente, in modo che se uno mi vede, vede più facilmente Cristo. Come
dicevano le Lodi di questa mattina: «[...] perché sia sicuro l’agire e chiara la testimonianza», perché io da solo vado subito in confusione.
Grazie.


Io volevo raccontarti un fatto che mi è accaduto dopo il ritorno dagli Esercizi della Fraternità dove tu ci avevi subito provocato richiamandoci alla Resurrezione. Al gruppetto di Fraternità successivo, riprendendo la tua introduzione, io avevo proprio detto: «Io non so se alla fine ci credo veramente», mi sentivo un po’ borghese in questo, dico: «Sì, va beh, okay, si è incarnato, c’è stata la croce, poi...»...
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Vedete? Questa è la questione: posso fidarmi fino in fondo di questo? Posso avere la certezza su questo in un modo che non sia soltanto devoto? Posso affermarlo come sto affermando che c’è questo tavolo davanti? E allora?
E allora è successo un fatto particolarmente drammatico per me, che mi ha messo con le spalle al muro su questo, perché poco dopo sono venuta a sapere da mia mamma che a casa c’era una situazione molto grave, più grave del solito. Quando me l’ha raccontato sono rimasta un po’ così.
La mamma doveva andare al lavoro, e io mi sono sentita schiacciata da questa circostanza, mi sentivo soffocare, però non volevo che vincesse questo buio. Ho detto: «Allora io la Resurrezione la voglio vedere, voglio vedere se vince qui e adesso in questa circostanza». Siccome mi saliva un panico pazzesco, mi sembrava di non uscirne da sola, ho preso il telefono e ho telefonato a una persona che nell’ultimo periodo, e soprattutto a Roma, avevo proprio in mente come mi avesse
testimoniato una fede salda e una certezza, e gli ho proprio chiesto: «Ma come faccio adesso a tornare a casa?». Istintivamente sarei andata a casa a urlare addosso a mio padre. Parlando con questo amico mi sono sentita proprio subito voluta bene e abbracciata in quel panico. Con questo sguardo addosso sono riuscita a tornare a casa e capire innanzitutto che non dovevo complicare ulteriormente la situazione e che dovevo obbedire a quella circostanza e a quello che il Signore mi
stava chiedendo; e non a caso laddove sembrava abbondasse la drammaticità e l’oblio ha cominciato ad abbondare di più la grazia. Io ero a casa da sola con mio papà. Ho cominciato proprio a dire: «E adesso?»; non sapevo cosa dirgli perché avevo molta paura di ricadere nella mia arrabbiatura verso di lui. Allora ho cominciato a pregare e a offrire quello che mi si presentava, cioè che c’erano le sue camicie da due settimane da lavare, c’era la casa da sistemare; e ho cominciato a fare le cose di casa (perché mia mamma non c’era e perché per motivi evidenti non gliele voleva fare) e a offrirle, ma senza aspettare che lui mi dicesse grazie (infatti non è
avvenuto). Quello che è cambiato è che io in quella circostanza, da un iniziale panico e ansia, mi sono ritrovata proprio grata, quasi come a sentirmi in colpa: loro stanno per autodistruggersi e io sono grata di uno sguardo così su di me? Allora mi sono accorta che questa drammaticità che io volevo far fuori era proprio il modo con cui il Signore mi faceva vedere la Sua misericordia per me.
Poi a me viene ogni tanto da scandalizzarmi dei metodi che usa il Signore per educarmi, io vorrei farlo fuori questo dramma, vorrei sistemare la mia vita, vorrei avere una vita più facile, piatta, che fosse più semplice; però questa grazia non sarebbe stata possibile senza una libertà mia e senza la libertà delle persone che me lo testimoniano.
Cioè, sinteticamente, che cosa ti ha fatto vedere che Cristo è risorto, riconoscere all’opera che Cristo è risorto?
Che io ho cominciato a vedere questa circostanza in un modo nuovo.

Un nuovo modo di guardare il reale; senza questo tu saresti stata schiacciata. Non è che la vita ci viene risparmiata, non è che tutto il dramma del vivere ci viene risolto con una bacchetta magica;
quello che ha introdotto Cristo nella vita con la Sua incarnazione, morte e resurrezione è una novità che ci consente di vivere tutto quello che è la vita, il dramma del vivere (perché possono capitare tutte queste cose) con uno sguardo diverso sul reale. Non è che uno desidera queste complicazioni, semplicemente non viene schiacciato da esse.

Io capisco che la contemporaneità di Cristo mi ridona la capacità di stare ai rapporti; però al tempo stesso – ti pongo la domanda – rispetto all’io mi sembra al più, come dicevi tu, di stare sospeso su un pieno, nel senso che io dico: «Signore, se Tu sei capace di tenere in piedi queste cose, salva anche questo rapporto». Però ogni tanto viene il dubbio che la distanza vinca.

Quello che dici è vero: uno non può stare davanti all’esigenza senza la contemporaneità di Cristo.
La questione è che tante volte noi possiamo ridurre questa totalità, questa esigenza a una immagine; per questo dopo non regge davanti alle cose. Al di là delle forme, l’esigenza della totalità del rapporto non viene meno. E questo è decisivo, perché a volte identifichiamo la totalità con l’immagine che noi ci facciamo della totalità. Meno male che il Mistero non ci lascia soccombere all’immagine; e comunque, quando soccombiamo all’immagine, capiamo che non ci basta. Questo
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ci dice che per restare veramente in un atteggiamento all’altezza delle esigenze occorre qualcosa d’altro che una intenzione: occorre una Presenza talmente presente che mi spalanchi e non mi lasci soccombere alle immagini che io mi faccio dell’esigenza.

Ti racconto cosa mi è successa ieri sera. Un amico viene a trovarci, e io sapevo che lui aveva delle grossissime difficoltà sul lavoro: ha un negozio, doveva andare in pensione in questi mesi, sei o sette dei suoi più grossi clienti falliscono per cui non lo pagano per la merce che aveva dato e lui rimane scoperto con le banche che gli dicono: «Primo, tutto quello che hai messo da parte me lo dai; secondo, adesso continui a lavorare fin quando non hai ripianato il debito». Arriva e mi
aspetto che racconti di questa difficoltà. E lui: «Ma non sai che bel periodo che è questo!». Pensavo volesse raccontarmi di qualcosa d’altro. Ma dice «Sto facendo una fatica terribile sul lavoro (che mi si è sbriciolato nelle mani), e questa fatica mi ha dato la possibilità di rendermi conto che il lavoro di Scuola di comunità di quest’anno è dentro di me, è mio: io sono questo lavoro. E me ne sono reso conto perché quando negli ultimi mesi si sono presentate delle difficoltà, di fronte a quella circostanza dura, mi venivano in mente tutti i fatti di quest’anno...». E comincia a raccontarmi un sacco di episodi finché gli vengono le lacrime agli occhi e dice: «Io mi rendo conto che la più grande grazia che ho avuto è stata la possibilità di partecipare alla Scuola di comunità di Carrón attraverso la diretta, perché se questo crollo lavorativo mi fosse successo un anno fa io sarei stato distrutto umanamente» (e questo è del movimento da cinquant’anni almeno). Racconto
un fatto che lui mi ha riferito: aveva un dipendente (che sapeva benissimo della situazione), ha dovuto lasciarlo fuori, si accordano sulla libera uscita (una certa cifra). Il giorno dopo va per portar l’assegno e quello gli fa arrivare la lettera dell’avvocato che lo denuncia, e via così. Tutti gli amici e parenti gli dicono: «Tu questo lo devi distruggere, non esiste, l’hai tirato su da ragazzo, ti ha pugnalato, fagli la guerra!». Ha risposto: «Io stamattina gli ho portato la lettera di risposta del mio avvocato – perché questa è la prassi, non si scherza –, e quando l’ho avuto davanti non ho potuto non volergli bene».

Non ha potuto non volergli bene. Questa è la promessa per chiunque prende sul serio questa ipotesi che abbiamo ricevuto, quell’insegnamento che ci è stato consegnato.

Scuola di comunità. Fino alla fine dell’estate si prosegue il lavoro sul libretto degli Esercizi e da settembre riprenderemo il lavoro su Si può vivere così?, a partire da «Il Sacrificio».
Allo scorso Consiglio Nazionale con i responsabili è stato deciso di continuare il collegamento alla scuola di comunità come possibilità per quanti liberamente (liberamente, sottolineo) desiderano partecipare. Riprenderemo ad Ottobre. Più avanti vi daremo le indicazioni.

Vacanze.«La vacanza è il tempo della libertà. [...] È il tempo in cui viene a galla quello che vuoi veramente». Questo giudizio di don Giussani ci sorprende sempre perché ci fa accorgere, guardandoci in azione, di che cosa vogliamo nel tempo “libero”, nelle vacanze: se sono una dispersione o un’occasione per approfondire quello che abbiamo incontrato.

Meeting. «Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore». Il titolo del Meeting di quest’anno ci fa guardare al fatto che la nostra umanità è aspirazione e attesa di qualcosa di grande.
Questo non è un ostacolo o qualcosa che complica l’esistenza, ma è proprio il segno che l’uomo è rapporto con l’infinito. Questo è il punto che accomuna tutti gli uomini ed è l’inizio anche di un reale dialogo con tutti. Perciò, partecipando al Meeting, anche un solo giorno, possiamo vedere documentato questo nella realtà di oggi.

• Gloria

"Ojos de cielo" cantata da Caterina Socci




Ojos de cielo

Si yo miro el fondo de tus ojos tiernos
se me borra el mundo con todo su infierno.
Se me borra el mundo y descubro el cielo
cuando me zambullo en tus ojos tiernos.

Ojos de cielo, ojos de cielo,
no me abandones en pleno vuelo.

Ojos de cielo, ojos de cielo,
toda mi vida por este sueño.
Ojos de cielo, ojos de cielo…

Ojos de cielo, ojos de cielo…

Si yo me olvidara de lo verdadero,
si yo me alejara de lo más sincero,
tus ojos de cielo me lo recordaran,
si yo me alejara de lo verdadero.

Ojos de cielo, ojos de cielo,
no me abandones en pleno vuelo.
Ojos de cielo, ojos de cielo,
toda mi vida por este sueño.

Ojos de cielo, ojos de cielo…
Ojos de cielo, ojos de cielo…

Si el sol que me alumbra se apagara un día
y una noche oscura ganara mi vida,
tus ojos de cielo me iluminarían,
tus ojos sinceros, mi camino y guía.

Ojos de cielo, ojos de cielo,
no me abandones en pleno vuelo.
Ojos de cielo, ojos de cielo,
toda mi vida por este sueño.

Ojos de cielo, ojos de cielo…

Ojos de cielo, ojos de cielo…


Occhi di cielo

Se guardo il fondo dei tuoi occhi teneri
mi si cancella il mondo con tutto il suo inferno.
Mi si cancella il mondo e scopro il cielo
quando mi tuffo nei tuoi occhi teneri.
Occhi di cielo, occhi di cielo,
non abbandonarmi in pieno volo.
Occhi di cielo, occhi di cielo,
tutta la mia vita per questo sogno…
Se io mi dimenticassi di ciò che è vero
se io mi allontanassi da ciò che è sincero
i tuoi occhi di cielo me lo ricorderebbero,
se io mi allontanassi dal vero.
Occhi di cielo...
Se il sole che mi illumina un giorno si spegnesse
e una notte buia vincesse sulla mia vita,
i tuoi occhi di cielo mi illuminerebbero,
i tuoi occhi sinceri, che sono per me cammino e guida.

Occhi di cielo…

martedì 22 giugno 2010

Card. Caffarra: l'uomo, mai a rischio come oggi

Lectio Magistralis del Cardinale Carlo Caffarra
in occasione del conferimento del Premio Defensor Fidei 2010 promosso dalla rivista cattolica Il Timone presso la Cascina La Lodovica a Oreno di Vimercate (Mi)
22 maggio 2010

Penso – ed ogni giorno ne sono più convinto – che raramente nel corso della storia l’uomo, e la sua dignità congenita siano stati così a rischio come oggi, così insidiati come oggi. Perché? Perché sono negati i costitutivi ontologici della persona umana, e quindi i fondamenti della sua dignità.
Sono profondamente grato alla Commissione che ha giudicato di conferirmi il premio Defensor fidei, e al direttore de IL TIMONE il dott. G.P. Barra che sta svolgendo il più prezioso fra tutti i servizi alla comunità cristiana: il servizio alla verità della fede.
È consuetudine che in occasioni come questa il premiato offra all’attenzione dei presenti alcune riflessioni che abbiano una qualche attinenza alla ragione e al senso del premio. Cercherò di farlo svolgendo alcune considerazioni sulla liturgia come custode della dignità dell’uomo. Ma prima mi si consenta di dirvi le ragioni di questa scelta.

01. Penso – ed ogni giorno ne sono più convinto – che raramente nel corso della storia l’uomo, e la sua dignità congenita siano stati così a rischio come oggi, così insidiati come oggi. Perché? Perché sono negati i costitutivi ontologici della persona umana, e quindi i fondamenti della sua dignità. L’apprezzamento dell’uomo è misurato infatti dalla sua costituzione ontologica.
Se noi leggiamo attentamente il primo ed il secondo capitolo della Genesi, ci rendiamo conto che la persona umana è essenzialmente altro [aliud] e altra [alia] da ciò che la circonda; e che questa alterità la pone in una condizione ontologica infinitamente superiore. La pagina biblica parla di una solitudine originaria: «ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile» [Gen 2,20a] .
Ma le stesse pagine ci dicono che questa soggettività non è irrelata, ma è originariamente capace di autotrascendersi istituendo una vera e propria relazione con ogni altro soggetto. Il simbolo originario di questa alterità correlata è il fatto che la persona umana è uomo e donna.
Esiste poi e soprattutto una relazione insita nella persona umana, che pone la persona in rapporto collo stesso Assoluto, in forza della quale la persona umana è “ad immagine e somiglianza di Dio”. [Gen 1,26].
Tutte e tre le ragioni che fondano la dignità propria dell’uomo – la solitudine originaria, la capacità di autotrascendersi e relazionarsi all’altro, il rapporto all’Assoluto come di immagine all’Originale - sono state via via demolite nella coscienza che l’uomo ha oggi di se stesso.
La prima è stata demolita dall’elevazione della teoria evoluzionistica a filosofia prima, cioè a spiegazione ultima e totale della realtà; la seconda dalla negazione dell’uomo di conoscere la realtà come è in se stessa e quindi di autotrascendersi; la terza dalla progettazione, che diventa sempre più invasiva di ogni regione dell’humanum, della vita “come se Dio non ci fosse”. La prima erosione tende a convincere l’uomo ad essere un casuale frammento della materia; la seconda che «non avanzeremo d’un passo di là di noi stessi» [D. Hume]; la terza che Dio è un’ipotesi superflua.
Come pastore cui è affidata una comunità cristiana vedo che ho due responsabilità: l’una da svolgere “nel Santuario”; l’altra nel “cortile dei gentili”. La prima riguarda, è la difesa dei fedeli dall’oscuramento della loro coscienza circa la propria dignità di persone; la seconda mi pone il problema di come aiutare chi vaga nel deserto del senso in conseguenza della perdita di se stessi, a ritrovare se stesso.
La mie successive riflessioni riguardano solo il primo compito. Alla domanda: come custodire nella verità del se stesso chi oggi è esposto alla triplice forza demolitrice? La mia risposta è: mediante la liturgia. Ora spero sia chiaro in che senso parlerò della liturgia come la custode della dignità dell’uomo; come il luogo dove la persona umana ha una luminosa percezione della sua dignità.

1. La [celebrazione della] Liturgia è il Mistero di Dio che si comunica all’uomo in Cristo per mezzo del dono dello Spirito Santo. Essa, la celebrazione liturgica, non è prima di tutto un’azione umana, ma di Dio: la causa principale dell’evento liturgico non è l’uomo ma Dio. La liturgia è l’evento sacramentale della deificazione dell’uomo.
La persona umana coinvolta nella celebrazione riceve il dono e nel “sentirsi amata”, adora, loda e ringrazia, ed implora di non essere mai rigettata da un tale convito di nozze. In quanto umana, o meglio dal punto di vista umano, la celebrazione liturgica ha quindi il carattere di pura risposta. Quando diciamo «noi ti rendiamo grazie per la tua Gloria immensa», la persona umana prende parte per così dire al ritmo dell’Assoluto. Come ha scritto S. Kierkegaard, «l’adorazione è il maximum per esprimere il rapporto dell’uomo a Dio e insieme la sua somiglianza con Dio, poiché le qualità sono assolutamente differenti. Ma l’adorazione significa precisamente che Dio è assolutamente tutto per l’uomo e che l’adorante è a sua volta colui che distingue assolutamente» [Postilla conclusiva non scientifica, sezione II, A) §1; Opere, Sansoni ed., Firenze 1972, pag. 487].
La partecipazione alla celebrazione liturgica fa vivere quindi alla persona l’esperienza di un rapporto col Mistero, che la rende consapevole di essere “superiore” a tutta la creazione materiale ed animale. La rende consapevole infatti che (a) il suo orientamento fondamentale è la partecipazione alla vita eterna trinitaria; (b) e quindi di non essere semplicemente una parte dell’universo chiuso in se stesso; (c) che è collocata sul confine fra il finito e l’infinito e che nel suo agire liturgico anche la creazione materiale viene come elevata al di sopra di sé. La liturgia genera in questo modo la più luminosa coscienza anche della dignità del lavoro.
S. Tommaso scrive che la santificazione dell’uomo, avendo come scopo e termine il bene eterno della deificazione dell’uomo, «è un’opera più grande della creazione del cielo e della terra, la quale ha come termine un bene mutevole» [1,2 q. 113, a.9]. La Liturgia è l’Opus Dei per eminenza che dà il vero senso dell’eternità della persona.

2. Ma c’è un aspetto particolare di questa custodia della dignità umana esercitata dalla Liturgia, che vorrei brevemente richiamare. Parto ancora da un testo mirabile di S. Tommaso: «L’uomo non è ordinato alla comunità politica secondo tutto il suo essere e tutti i suoi beni, e quindi non è necessario che ogni suo atto sia meritevole o demeritevole in rapporto alla comunità politica. Ma tutto ciò che è, tutto ciò che ha e tutto ciò che può l’uomo deve riferirlo a Dio» [1,2,q.21, a.4, ad 3um].
La consapevolezza della sua dignità, nutrita e custodita dalla celebrazione liturgica, impedisce all’uomo di inginocchiarsi davanti agli pseudo-assoluti. Tommaso parla di Stato, la comunità politica: fra gli idoli è il più pericoloso, ma non è l’unico. La liturgia ci educa a ciò che Kierkegaard esprimeva mirabilmente: «rapportarsi contemporaneamente assolutamente all’assoluto e relativamente al relativo» [cfr op. cit. pag. 472]. Quando Pietro rispose al Sommo Sacerdote che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini [cfr. At 5,29 ], si rapportava assolutamente all’Assoluto e relativamente al relativo. E poneva le basi di ogni vero umanesimo. È il senso profondo di ciò che Benedetto scrive nella regola: operi Dei nihil praeponatur.

Quando questo si perde si genera quella mentalità che D. von Hildebrandt descrive nel modo seguente: «Questa mentalità vuole relativizzare ogni assolutezza, non nel senso di un relativismo teoretico, bensì nel senso si uno svilimento dell’assoluto, di un atteggiamento relativistico verso di esso» [Estetica, Bompiani, Milano 2006, pag. 246]. L’uomo diventa un casuale incidente o un imprevisto dell’evoluzione della materia. La solenne maestà dell’imperativo morale è degradata a convenzioni sociali; la splendente santità dell’amore coniugale equiparata a convivenze omosessuali; la fedeltà, respiro dell’eternità nel tempo, giudicata contraria alla libertà. È la mediocrità che celebra i suoi trionfi. Concludo con due pensieri. Il primo. E se anche le nostre celebrazioni liturgiche fossero orientate antropocentricamente e non teocentricamente? Dio non lo permetta alla Chiesa del suo Figlio. L’uomo avrebbe perduto l’ultimo custode della sua dignità. Il secondo è un pensiero di Benedetto XVI. Mosè «calzerà nuovamente i sandali per andare a liberare il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto e guidarlo alla terra promessa. Non si tratta qui soltanto del possesso di un appezzamento di terreno o di quel territorio nazionale a cui ogni popolo ha diritto; infatti, nella lotta per la liberazione d’Israele e durante il suo esodo dall’Egitto ciò che appare evidenziato è soprattutto il diritto alla libertà di adorazione» [Benedizione delle Fiaccole – Fatima 12-05-2010].
La “libertà di adorazione” è il sigillo della sublime dignità dell’uomo.
Fonte: http://www.bologna.chiesacattolica.it/arcivescovi/caffarra

venerdì 18 giugno 2010

«L'amore che mi ha scombinato la vita»- un mondo dove so da dove vengo, dove sto andando e qual è il senso profondo della mia esistenza



Testimonianza di Rose Busingye

Saluto tutti!

Dicevo che forse siete voi testimoni, non sono io. Perché tutta questa moltitudine di gente mi conferma che c’è Qualcosa di più grande. Ho letto il tema del Pellegrinaggio, una piccola frase: "Mostrami prima l'uomo che è in te, e poi io ti mostrerò il mio Dio".

La genialità di un padre ci ha fatto fare i passi, un cammino sulla fede, per scoprire in questi anni la nostra umanità, attraverso la Scuola di Comunità. Attraverso la fede abbiamo scoperto noi stessi; scoprendo la contemporaneità di Cristo, ci siamo scoperti uomini. Incontrando Dio non scopri soltanto Dio, ma scopri sopratutto chi sei tu. La genialità di Carron è stata quella di farci cominciare la Scuola di Comunità lavorando sulla fede: nella fede sta la fine della schiavitù. È un altro mondo, un mondo nuovo. Un altro modo di vivere, di trattare se stessi, di trattare la propria moglie, i figli, il lavoro, trattare tutto in modo diverso. Per me è stata una cosa che mi ha scombinato la vita, specialmente la carità, che diventa Dio stesso, il cuore di Dio, come ci comunica il Papa in Deus caritas est: «sopraffazione della ragione da parte di una "pazzia divina" che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra appaiono, così, d’importanza secondaria» (Deus caritas est, 4).

Per me veramente questo è un altro mondo; un mondo dove so da dove vengo, dove sto andando e qual è il senso profondo della mia esistenza. La coscienza di questo amore, di questa commozione, è ciò che costituisce la vita. È un modo nuovo di concepire la vita, di usare le cose, il lavoro in modo giusto. La fede che fa me fa ciò che sono, entra nelle mie viscere, penetra gli strati più profondi della mia umanità (anche quelli nascosti) e diventa il criterio… di me e delle cose.

Questo ti fa vivere bene, ti fa godere tutto; non solo ti fa conoscere Dio, ma soprattutto ti fa conoscere te stesso, ti fa scoprire te stesso e le cose in un modo giusto, ed è bello. C’è un punto di partenza: che Dio si è commosso verso di me, che ero niente, che sono niente. Se ognuno di noi guarda sinceramente, non per analizzare moralisticamente, ma per vedere, capire, stupirsi della grandezza di questo amore di Dio… Perché se ti fidi il gesto è di Dio verso di te. Se ci credo è la strada perché io possa riconoscermi e vivere questa appartenenza, questo attaccamento a Dio.

Obbedendo alla compagnia della Chiesa, questo mi fa arrivare alla felicità e alla pace per me e per gli altri. Sto dicendo questo perché quando ho cominciato a lavorare, da piccola, sono partita anche pensando di lavorare per Dio, per Gesù. Sono nata in una famiglia cattolica, e di questo sono orgogliosa; sapevo chi era Dio, chi era Gesù. Dopo la scuola sono partita di corsa per lavorare con i malati di AIDS, i poveri, gli orfani, nei sobborghi di Kampala, la capitale dell’Uganda. Mi sembrava che (forse) ero riuscita ad aiutare gli altri: 2000 pazienti, 2500 orfani di AIDS e altri con diversi problemi (divorzi, guerre, ecc.). Lavoravo per Cristo, per la Sua presenza, ma quello che vi sto per dire è che uno diventa protagonista della realtà, e la realtà diventa sua, quando scopre di chi è, cioè quando ti scopri appartenente. Finché le cose andavano bene pensavo: "Ce l’ho fatta! Sto vivendo bene!".

È arrivato però un momento in cui tutto quello che facevo andava come non volevo. Nessuno era contento: i malati che curavo si lamentavano lo stesso; i poveri a cui davo da mangiare brontolavano lo stesso (non gli bastava niente); i bambini che nutrivo e portavo a scuola rubavano lo stesso, non volevano più andare a scuola, nonostante fosse pagata; gli amici peggio ancora. Mi è venuto di scappare, perché era ancora peggio degli amici, perché non andava bene niente.

Volevo scappare, andare nell’isola dove non c’è nessun uomo, dove ci sono solo insetti. Sono ripartita a vivere, a lavorare veramente quando ho avuto Qualcuno che mi ha detto: "Tu sei Mia". Ho cominciato a vivere, ho cominciato a intravedere un significato per la mia vita. È stato come se una luce illuminasse tutto. Ho cominciato a scoprire la verità della mia stessa vita e da qui è cominciata un’attrattiva, un’affezione, una tenerezza per la mia stessa vita e per gli altri. Ho cominciato a vivere e lavorare quando ho saputo concretamente rispondere alla domanda "Di chi sono?". Quando questa domanda ("Di chi sono?") ha avuto facce precise, che hanno nome e cognome, sono diventata libera. Paradossalmente sono diventata libera appartenendo, cioè avendo un legame. Quando sei libera finalmente puoi stare di fronte a tutta la realtà senza paura. Puoi affrontare tutta la realtà perché sai di chi sei. Chi è libero non pretende più dagli altri, perché ha già tutto.
Quando ho scoperto me stessa mi sono ricordata che la Presenza che vivevo io era quello che immaginavo io. Infatti sembrava che correvo dietro a Gesù come per afferrare qualcosa cui non sarei arrivata mai. Anche Cristo sembrava una cosa da rincorrere alla fine della giornata. Ero stanca e in crisi. Invece nell’appartenenza a Lui ho scoperto me stessa, chi sono io e qual è il senso di tutto quello che faccio. Sono andata in crisi perché pensavo che tutto dipendeva da me. Ora, invece, ho una conoscenza nuova di me e della realtà. I poveri, i malati, i bambini… ciò che gli do non è un tappo al loro desiderio, ma è per introdurli a un desiderio più grande, a una consapevolezza nuova. Le medicine, il cibo, ecc. sono lo strumento per dirgli: "Tu sei più grande di questo, sei più grande di quanto puoi immaginare e tu stesso sei responsabile". Tutti gli aiuti che gli offro sono per introdurli a Qualcosa di più grande di me, che non possiedo io, ma che possiamo riconoscere insieme.

Lavorare e aiutare gli altri per me è diventato favorire e far venire a galla il valore del singolo, offrire un’amicizia puntuale a cui possono appartenere. L’io appartenente diventa protagonista perché ha un volto, riceve una coscienza unificante sè e la realtà. Tu diventi signore della realtà non perché la possiedi tu, ma perché la scopri fatta da un Altro, perché dipende da un Disegno che non è tuo.

Il mio lavoro è nato dalla mia appartenenza a un punto preciso. Il mio lavoro non è un’aggiunta alla mia vocazione come Memores Domini, ma significa essere affettivamente compiuta. Ciò che posso dare agli altri è questa sovrabbondanza del mio rapporto con Cristo dentro la casa; ciò che do agli altri è il fiorire della mia vocazione, sono i frutti della pienezza dell’appartenenza a Cristo a un luogo preciso, la scoperta di una paternità in atto dentro la vicenda della mia giornata, della mia esistenza.

Da questo fatto, cioè dalla fede, ho visto l'avvenimento di un popolo cambiato; un popolo povero, malati che vivono solo spaccando i sassi. Quello che guadagnano lo ottengono vendendo questi sassi ai costruttori. Dopo lo tsunami e l'uragano Katrina, mi hanno detto: "Queste persone ci appartengono, se appartengono a Dio appartengono anche a noi; gli vogliamo mostrare che gli vogliamo bene". Io ho detto: "Siete poveri anche voi e non possiamo fare niente, quindi facciamo un preghiera". Una di loro che pesava soltanto trenta chili mi ha detto "Quando mi hai incontrato non hai solo pregato, anche noi vogliamo fare del bene agli altri perché questa gente se appartiene a Dio appartiene anche a noi" e poi hanno detto "Quando uno vuole bene non fa solo carità per quelli che conosci; questi americani sono nostri, ci appartengono". Si sono organizzati gruppi di dieci persone a spaccare i sassi in fretta, insieme; dopo quattro settimane avevano già tirato fuori 2000 dollari. Li hanno dati all’Ambasciata Americana per mandarli a New Orleans e poi un giornalista è venuto e ha detto: "Non è giusto, perché uno che fa carità dà le cose che gli avanzano, invece questi qui hanno dato tutto quello che hanno". Una donna le ha risposto: "Guarda che il cuore dell’uomo è internazionale: non ha razza, non ha colore, si commuove".

L’anno scorso è successa un’altra cosa a L'Aquila e loro hanno detto: "Questo fatto ha toccato il nostro popolo, il popolo del Papa, la tribù di Don Giussani: adesso ci muoviamo". Hanno fatto lo stesso, hanno raccolto 2000 euro che hanno mandato a quelli de L’Aquila. Concludo. È proprio un uomo appartenente che diventa libero e grande. Anch’io sono diventata libera, grande perché qualcuno mi ha svelato chi sono io. Era evidente che non ero niente, invece mi sono sentita abbracciata e desiderata. Era come se il Suo sguardo mi dicesse: "Tu sei mia, voglio stare con te, hai un valore infinito". Da quello sguardo è nato tutto. In quello sguardo, infatti, ho scoperto che non sono definita dai miei limiti, ma quel rapporto personale con cui Dio mi fa essere, mi costituisce come desiderio infinito di Lui. Quello sguardo di appartenenza a Cristo e alla Chiesa è diventato per me un’esperienza e un legame che mi definisce per sempre, che si manifesta in tutto ciò che sono e faccio. Quello sguardo ha stabilito quindi il contenuto e il metodo del mio lavoro: comunicare la commozione per la grandezza sconfinata dell’esistenza di ciascuno ed offrire la stessa compagnia al destino che abbraccia la mia vita.

Questo, che ho visto riaccadere in altri, è accaduto anche a me. Per esempio, una donna sfigurata nel corpo e nella psiche, dalla violenza subìta dai ribelli, ha ritrovato se stessa quando le ho detto: "Tu non sei l’orrore che ti è capitato, tu sei il valore infinito che ti viene da Dio, che ti fa essere e ti ama”. E tanti altri per cui la vita non aveva più significato ora sanno che l’esistenza di loro e di tutti ha una grandezza infinita e che sono legati per sempre ad una compagnia che li aiuta a vivere la ricchezza di questa dignità.

Grazie.

sabato 12 giugno 2010

UN TESORO IN VASI DI CRETA - L’AUDACIA DI DIO IN UNA SCELTA «IMPRUDENTE»


Fra noi poveri cristiani, in quanti ci siamo domandati in questi mesi cosa accade sulla rotta di quella grande arca che è la Chie­sa; che sta succedendo, se onde come muri si abbattono sul suo antico corpo. Colpi co­me schiaffi, che vengon su dai gorghi di un mare agitato. E certo, la grande arca di tem­peste ne ha traversate tante; ma a noi, fede­li anonimi, questa di oggi, fatta di tradimento dei figli, ha suscitato più tristezza di ogni al­tra. Nell’anno dedicato al sacerdozio. Nel­l’anno che immaginavamo di festa.

Benedetto XVI ieri ha parlato ai preti e a noi. Ha detto dell’'audacia di Dio'; della amoro­sa audacia di un Dio che agli uomini affida se stesso, pur ben sapendone la loro fragilità. È questo dunque un sacerdote: un vaso di creta colmato di uno straripante tesoro. La chiamata non garantisce che quell’uomo sarà migliore degli altri; non impedisce – im­mensa essendo la nostra libertà – nemme­no che possa precipitare nel peggiore dei mali. L’audacia di Dio è proprio nel pren­dere degli uomini come gli altri, e sceglierli, e mandarli: a perdo­nare, e a consacrare il pane in nome suo. Straordinaria bel­lezza di una scelta impru­dente: questa, ha detto il Papa, «è la cosa veramen­te grande che si nascon­de sotto il nome di sacer­dozio ».

Ma, ha aggiunto, c’era da aspettarsi che al 'nemico' la festa del sacerdozio non sarebbe piaciuta: a quel 'ne­mico' che vorrebbe che la Chiesa, e Dio, fossero dimenti­cati. Ecco allora proprio in questo anno l’emergere di un male che atterrisce; quel venir su degli abissi, a minare la fiducia degli uomini. Il male che esplode e va a se­minare sgomento: a insinuare dentro di noi, o a gridare sui giornali: vedete, in fondo, che di nessuno ci si può fidare. ( E da chi andre­mo allora, da chi manderemo i nostri figli?) E certo, ha detto il Papa, «se l’anno sacerdo­tale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da questa vicenda». Ma si trattava invece del contrario: di 'di­ventare grati per il dono di Dio, che si na­sconde in vasi di creta'. Non 'bravi', i sa­cerdoti, per un merito proprio, o per una se­vera ascesi che plasmi con la volontà le virtù; ma grati del dono ricevuto. Grati di essere stati chiamati, con le loro povere mani. Per­ché Dio vuole che «in un piccolo punto del­la storia i preti condividano le preoccupa­zioni degli uomini», ha detto il Papa.

E non l’abbiamo mai sentito così padre co­me oggi, quando ha riletto questo anno di tempesta. Quando ha spiegato l’ansia di ri­trovare la bellezza della chiamata, e indica­to l’ostilità di un 'nemico' che amiamo di­menticare. Annunciando infine l’umiltà che dovrà venire da tutto questo - come distilla­ta da tanto dolore. Il dolore dei figli traditi; e anche di quanti, improvvisamente lucidi, forse fronteggiano la disperazione.

Ci ha parlato un padre. Ha osato dire che 'anche l’uso del bastone può essere un ser­vizio d’amore' - e ci son venute in mente certe parole della lettera ai cattolici di Irlan­da, come manrovesci. (Coraggioso dire, nel tempo che detesta autorità e maestri, che a­mare è anche esercitare autorità). Ma so­prattutto, ieri abbiamo ascoltato una spe­ranza. Un padre ci ha detto verso dove è la rotta; e che le onde attorno, e tutto il nostro male, non prevarranno se apriremo la ma­no, di Cristo mendicanti.
MARINA CORRADI

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón - Milano, 9 giugno 2010


Testo di riferimento: «Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?», Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione (Rimini 2010), Società Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2010.

• Canto “Liberazione n. 2”
• Canto “Mi sei scoppiato dentro il cuore”

La Scuola di comunità è un’ipotesi di lavoro – ci ha insegnato sempre don Giussani – per entrare nel reale, e tutti siamo chiamati a verificarlo nella nostra esperienza. Perciò non si viene qui a fare commenti, si viene a raccontare e a documentare un’esperienza, visto che pochi credono che vivere il reale con quest’ipotesi sia davvero un’altra cosa, neanche noi; è inutile far commenti, perché essi non ci cambiano la testa; occorre documentare, testimoniare che entrare nel reale secondo quanto ci siamo detti può far respirare.
Allora abbiamo davanti l’inizio della prima lezione degli Esercizi: «La provocazione del reale», cioè che cosa succede quando io mi lascio provocare dal reale, e che cosa significa che la realtà vissuta come segno è un’altra cosa. Se non avete testimonianze su questo, state seduti tranquilli; se avete qualcosa da dire, forza. Brevi e sintetici, altrimenti sarò costretto a intervenire.


Un amico circa un anno fa mi ha scritto: «L’unico modo per non perdere quello che ha fatto sussultare il mio cuore è fare la Scuola di comunità, che è il punto al quale chiedere di essere fedeli in assoluto, perché è l’esperienza del cuore di don Giussani di fronte a Cristo di cui abbiamo bisogno per vivere». Da questa provocazione ogni mattina con una mia amica, dopo la messa delle sette e venti, ci fermiamo in chiesa a leggere per dieci, quindici minuti la Scuola di comunità, e
iniziamo così la giornata. Che grazia! Perché seguendo il cammino che stai dicendo e che mi stai indicando è cambiata la mia vita; il cambiamento è stato possibile grazie a dei rapporti di amicizia e al fare fedelmente la Scuola di comunità. Il test di questo cambiamento è che finalmente ho capito cosa intendi quando dici che le circostanze o ti soffocano o ti provocano. Prima mi soffocavano perché la mia attenzione era rivolta alla soluzione dei problemi, finché un giorno un amico mi ha
detto: «Ma tu di che cosa consisti? La soluzione dei problemi ti renderebbe contenta?», eppure mi incaponivo perché il problema rimaneva. Poi il cambiamento è stato incollarmi a Lui, cercando di seguirLo attraverso il volto di alcuni amici e studiando la Scuola di comunità. Un esempio di questo tentativo che ti voglio raccontare è che ho letto il libro Barabba; a un certo punto, lo schiavo e Barabba vengono spostati dal lavoro delle miniere ai campi (leggo un pezzettino): «E nel salire alla luce del giorno, nel vedere i raggi del sole sulle pendici dei monti odorosi di mirto e di lavanda e i campi verdi di primavera giù nella vallata, in fondo a tutto il mare, Sahak cadde in ginocchio ed esclamò estasiato: “È venuto, è venuto, il regno è qui”». Mi ha colpito perché ho capito l’esempio che don Giussani fa nel decimo capitolo de Il senso religioso: «Supponete di nascere, di uscire dal
ventre di vostra madre all’età che avete in questo momento […] io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una “presenza”». A me sembra di vivere la stessa cosa, Carrón, non è che io non mi sono mai accorta del cielo, del sole, del mare e dei fiori, ma adesso li vedo come segno della Sua presenza.

In che esperienza hai potuto riconoscere questo?
Nel rapporto con un amico e nella Scuola di comunità.

Raccontalo, raccontate fatti, non ripetete il discorso, raccontate fatti. Dobbiamo aiutarci a questo.

Così come lo stare di fronte alla Sindone è il riconoscere che tutta la realtà è segno che Lui sta facendo tutte le cose ora. Anche il Papa a Roma ha detto: «Il Signore aprendoci la via del cielo ci fa pregustare già su questa terra la vita divina», e io posso dire che questo mi è accaduto e mi accade ogni giorno come dono di grazia donatomi attraverso un’amicizia eccezionale con la quale
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Lui fa vibrare il mio cuore e mi incolla a Lui e l’unica decisione che devo prendere è essere disponibile a lasciarmi abbracciare dalla modalità con cui Cristo mi sta abbracciando ora.
Grazie.Raccontate fatti. Io non metto in dubbio niente di quello che abbiamo sentito, ma se uno racconta un fatto dove si vede e si documenta questo, è più facile. Vi prego, se non avete da raccontare dei fatti, state seduti al posto.

Io volevo raccontarti prima di tutto quello che è successo a casa mia nell’ultimo periodo, perché soprattutto il lavoro di mio papà ha subito una prova molto grande; per una serie di questioni legate alla sua industria, alla politica eccetera, c’erano delle riunioni molto importanti da cui dipendeva di fatto se avrebbe chiuso; è stato più o meno un mese in cui questa cosa continuava e mi ha colpito tantissimo il fatto che a casa mia (io sono figlia unica) eravamo costretti a guardarci in
faccia e decidere se farci dominare dal fatto che eravamo preoccupati – poi in questo periodo sto cercando lavoro anch’io –, oppure guardare quella circostanza come qualcosa che ci viene data da Gesù. E mi ha stupito tantissimo vedere lo scarto che c’era quando qualcuno di noi si faceva dominare dalla stanchezza e invece l’esplosione che c’era, anche di qualità della serata, quando era chiaro in tutti e tre che quella era un’occasione per noi. Banalmente, io non ho mai rischiato
come in questo periodo con i miei genitori un giudizio su quello che ci stava accadendo, per cui questa cosa l’ho vista proprio come un guadagno per me. A questo punto, però, ho una domanda, perché nell’ultimo periodo la questione di mio papà si sta sistemando, grazie al cielo, e io mi sono scoperta addosso un’agitazione, un’inquietudine nell’ultima settimana, forse un po’ di più, ed è una cosa che io, “molto intelligentemente”, ho preso e ho messo da parte dicendo: «Sarò stanca, è stato un periodo difficile», e, ovviamente, questa cosa non ha fatto altro che acuirsi.
Vedete? Possiamo metterla da parte, ma questo risolve qualcosa? Si acuisce.
Tanto è vero che, a un certo punto, sabato sera, per delle cose che mi erano successe, ho detto: «Adesso accetta il fatto che non sei tranquilla anche se le cose stanno andando per il meglio»; il giorno dopo presa la macchina, sono andata a trovare un mio amico; grande discussione di un’ora in cui io speravo di mettere un attimo in pace la situazione, invece niente, ancora peggio, finché mi sono resa conto di questa dinamica che succede spesso in me ed è quello che volevo chiederti; è
come se io, davanti a una provocazione che mi viene data dalle circostanze – il lavoro di mio papà – fossi costretta a dare un giudizio e questa cosa è un guadagno assoluto per me e poi, senza neanche rendermene conto, la posizione scade nel dire: «Ora che ho dato il giudizio è come se fossi vaccinata dall’impatto che la realtà suscita». Cioè: tanto oramai l’ho capito e quindi vado avanti.
Ovviamente, poi, questa cosa non tiene per cui io, senza neanche rendermene conto, a un certo punto, boccheggio e ricasco da capo. Solo che io mi sono stufata di questa dinamica, perché leggendo quello che ci hai detto agli Esercizi dicevo: «Quello che mi propone Carrón è continuo, è un lavoro di tutti i giorni e il guadagno ci dev’essere tutti i giorni». Allora volevo capire che cosa si blocca in me.

Che cosa ci blocca? Osserva in te che cosa si blocca. Devi dirmelo tu.
È come se tutta gasata dal fatto che ho intravisto qualcosa, poi non lavoro più.

Allora, se tu non lavori più che cosa vuol dire? Che esperienza hai fatto? Non è cresciuto l’io; abbiamo detto per tutto un anno che l’esperienza è esperienza reale, vera, quando si incrementa l’io. Uno impara la matematica, dopodiché si mette a riposare e la volta successiva, quando deve affrontare un problema, è come se niente fosse accaduto? Io non sono in grado di affrontarlo di più? Che guadagno abbiamo ottenuto? Nessuno. Fin tanto che uno non guadagna un incremento dell’io,
rimane sempre da capo, mi spiego? In che cosa si vede che l’ho guadagnato? Che io mi sorprendo a entrare nel reale con questo guadagno, incomincio a entrare con questa modalità nuova, come hai detto rispetto al lavoro del papà eccetera, poi è come se questo si dimenticasse… Noi, in fondo, ciaspettiamo tutto da che cosa? Dal fatto che si risolva la vicenda. Quest’ultima la consideriamo una tappa da superare, non l’occasione di un rapporto con il Mistero. Qual è il nostro ideale non
affermato, ma sempre nascosto? L’assenza di dramma, che io possa affrontare problemi che posso risolvere; e appena non possiamo risolvere, crolliamo o gettiamo la spugna. Non ci introduciamo al vero dramma del vivere e al rapporto con l’Unico capace di risolvere. Ma, allora, qual è la

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differenza tra il modo di vivere di tutti e quello cristiano? Nessuna! Anche gli altri quando riescono sono contenti, e quando non riescono sono stufi. Ma noi incominciamo a intravedere che tutto questo ci introduce a un senso del Mistero o no? E che allora la questione non è essere vaccinati, perché il giorno in cui sono vaccinato vuol dire che l’encefalogramma è piatto, che non entro più nel reale? Abbiamo cantato che il tu ci scoppia dentro il cuore, questa è la verità: ci scoppia dentro il cuore. Immaginate che siamo vaccinati e ce ne freghiamo dell’altro (questo è il massimo!), sarebbe una disgrazia totale; meno male che non si compie così la vita, perché che scoppi dentro il cuore qualcosa vuol dire che me lo fa desiderare di più, che mi fa percepire tutta la potenza del mio desiderio, chiaro?
Spero di documentare un incremento dell’io e l’utilità del lavoro con la Scuola di comunità.
Anche io te lo auguro.

Vedo che il lavoro della Scuola di comunità conviene perché mi ricorda che cosa sono io, e così mi permette di riconoscere Chi sostiene la mia vita, e questa è una cosa reale perché cambia, tanto che un mese fa io queste cose non avrei mai potuto dirle, e poi perché non c’è niente da fare: mi accorgo che per meno del tutto io non funziono in nessun ambito particolare.
Grazie.
Volevo chiederti un aiuto. È un periodo un po’ difficile sul lavoro. Io lavoro con mio papà e, un po’ la crisi, un po’ il fatto che il momento del passaggio generazionale si fa sempre più importante e quindi ci sono degli aspetti del lavoro che assumono un’importanza che prima non avevano, sono chiamato a fare delle cose che fino a poco tempo fa non facevo. Solo che il momento della crisi non
aiuta, quindi mi ritrovo magari a correre dietro a delle opportunità, e il lavoro diventa difficile, perché è veramente ingestibile sotto certi aspetti e molto disordinato. Tu agli Esercizi di due anni fa dicevi: «Mi domandava una persona di recente: “Come posso fare memoria di Cristo nel lavoro?” e io le ho risposto: “E come riesci a lavorare senza fare memoria di Cristo? Come riesci a vivere
nel lavoro, nella circostanza senza la memoria di Cristo? Senza il respiro dell’offerta?”»; e poi, più avanti: «Se un uomo mentre studia o mentre lavora dice: “Ti offro il mio studio o il mio lavoro” e in un momento di difficoltà dice: “Ti offro il disagio e l’incertezza dell’impiccio in cui mi trovo” vuol dire che riconosco che la consistenza e la sostanza cioè il respiro, la stoffa dell’istante che sto vivendo sei tu, Cristo». Probabilmente non sono capace di offrire, è chiaro che nel caso specifico del lavoro ci sarà bisogno di qualcuno che darà una mano a mio padre, questo è evidente, però la sfida che avverto in questo momento è proprio una novità anche nel rapporto con mio papà, e anche con mia moglie e mio figlio, perché nel momento in cui torno a casa dopo una giornata soffocante li evito quasi. Ti volevo chiedere un aiuto in questo.

Tu hai un problema con il lavoro; devi guardare come ti sei mosso e fare il paragone con quello che abbiamo detto qua. Non mi puoi tirare fuori l’offerta come se niente fosse accaduto, ignorando la proposta che ci facciamo. Sennò andiamo a casa tutti. Come hai usato tu la ragione davanti a questa provocazione del reale? Che percorso hai fatto? Perché se tu non usi la ragione che cosa vuol dire l’offerta? Mi spiego? Che urgenza hai di stare davanti al reale in modo tale che tu possa fare di
questa provocazione qualcosa che ti afferra e che ti porta avanti? Altrimenti noi appiccichiamo: lavoro, problema, offerta. Cosa succede? Niente! Vedete chiaramente la situazione. Questo non ci aiuta. Se tu non fai un paragone tra come tu ti sei mosso davanti a questo e quello che dicono gli Esercizi, tra l’intenzione di seguire e seguire rimane un abisso e non lo colmiamo mai. Questo lavoro è ciò che pian piano ti porta a renderti conto di cos’è la vita, di cosa sei tu e di cosa significa
far memoria, di fatto. È una domanda e un’indicazione di metodo, capisci?


Io la mossa che ho fatto è quella di cercare di condividere con gli amici più cari, chiedendo un aiuto.
Perfetto, questo va benissimo; ma se gli amici più cari non ti rimandano a questo lavoro, ti distraggono.
Scusami: se vince la circostanza?
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Tu che esperienza hai fatto? Vince la circostanza o no? Per ora in te vince la circostanza. C’è qualcuno in cui non ha vinto la circostanza? Questa è la questione; se noi non facciamo questa verifica, tra un po’ mandiamo tutto a quel paese perché siamo scettici: continui a dire che è un’ipotesi di lavoro per entrare nel reale, ma in realtà non succede. Poi ci stufiamo. Così si perde la fede, perché l’intelligenza della fede non diventa intelligenza della realtà.

Io volevo raccontare un esempio in cui non ha vinto la circostanza. Parto da una frase a pagina 16 degli Esercizi: «Fatti che prima sembravano scontati e che adesso iniziano a sorprenderci: e la vita è tutta un’altra cosa, con gli stessi fattori». Cosa sono stati questi fattori per me in questi ultimi giorni? Sono stati una grossa festa che abbiamo fatto a scuola, che è durata quattro giorni e che ha chiesto a me e agli amici che l’hanno fatta un dispendio di energie e una fatica fisica enorme; io mi dovevo occupare dell’organizzazione della pulizia, l’ultima delle cose che uno vorrebbe fare: andare a tirare su la pattumiera, pulire per terra e via dicendo. Sono partito con in mente due cose: la Scuola di comunità e la provocazione che tu hai fatto su Roma, perché avevo proprio in mente che anche quel gesto lì potesse essere un’esperienza di educazione per me. Allora che cosa ho fatto? Ho detto: «Faccio la cosa più intelligente», ho attaccato nella zona in cui lavoravano gli amici e in cui bazzicavo io un bel cartello con scritto: «Prima di tutto che questo gesto sia per te», come a garantire il buon esito, il buon esito mio e della mia festa. Che cosa è successo? Che immediatamente, l’istante dopo, l’organizzazione di tutta la festa vinceva, e io quella sera lì sono andato a casa con una pesantezza nel cuore perché dicevo: «Guarda, ho fatto di tutto, ma è come se l’avessi fatto con la testa nel sacco», è come se poi Lui alla fine rimanesse sullo sfondo e non
incidesse. La mattina dopo ero a casa da solo e l’unica cosa che avevo in mente per me, rispetto a questa provocazione della sera prima, era andare a leggere gli Esercizi e mi sono riletto gli Esercizi con negli occhi quello che mi era capitato il giorno prima. Che cosa è successo? Alla fine della festa mi ha impressionato che mi si è avvicinato un amico e mi ha detto: «Guarda, non ho mai visto uno che fa l’ultimo dei lavori che uno vorrebbe fare così felice come lo fai tu, come se fossi a
casa tua». Racconto questo e lo contrappongo a un altro amico – che ho ringraziato tantissimo della provocazione – che alla fine della festa è venuto da me e mi ha detto: «Qua non vanno bene le cose, io sono stato da solo a fare il gesto»; di fronte a questa reazione, l’unica cosa che veniva da raccontare era quello che era capitato a me, gli ho detto: «A me è capitato questo e ho raccolto per quattro giorni la pattumiera contento». È stato evidente in questa circostanza come prendere sul serio il lavoro che ci stai facendo fare, il lavoro degli Esercizi, sia la cosa che spalanca in maniera radicale tutte le circostanze, quello che appunto dici: «La vita è tutta un’altra cosa con gli stessi fattori».

Uno fa la pulizia un giorno con la frase lì: «Che sia un gesto per te», ma questo non incide sul modo di fare la pulizia, e va a casa con una pesantezza infinita: Egli non incide. Va a casa, e che cosa non si può togliere di dosso? Che ha partecipato a un gesto come gli Esercizi e non ha potuto evitare di prenderne in mano il testo come ipotesi di lavoro per ripartire il giorno dopo. L’ipotesi di lavoro che ci dà il movimento è la modalità con cui io posso entrare nel reale quando ho fatto il mio tentativo e non sono riuscito a fare niente tranne che andare a casa appesantito. Allora a uno viene in mente: «Forse, se io prendo in mano questa ipotesi, succede». E uno incomincia a vedere, a toccare con mano la novità che introduce, tanto è vero che l’altro si rende conto della gioia, della letizia; anche
l’altro ha partecipato agli Esercizi, ha il libretto, ma l’ultima cosa che gli è venuta in mente è stato affrontare quella circostanza con quella cosa lì. Vedete? Tutti e due appartengono, stanno nello stesso posto, nella stessa amicizia; che cosa fa la differenza? Occorre prendere in mano la proposta, e allora uno incomincia a sperimentare la verità del fatto che, entrando così nella circostanza, io
posso fare un’esperienza diversa dello stesso lavoro che ieri mi ha appesantito; non è cambiato il lavoro, semplicemente sono entrato in quella circostanza (la stessa di ieri!) con quella ipotesi che ieri avevo dimenticato. Se non facciamo questa verifica, non possiamo toccare con mano che è possibile che la circostanza non vinca. Mi dice una persona: «Il reale mi sollecita a cercare qualcosa d’altro oltre quello che immediatamente mi appare. È un momento in cui sto impassibile [uno può
resistere, essere impassibile a questo]. Come sai, dopo aver perso un bimbo, inaspettatamente ora ne

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aspettiamo un altro. Io non sto bene, è da due mesi che vomito ogni giorno, tutto il giorno, non posso lavorare, sono a casa, sono esausta, il reale mi schiaccia, non posso non obbedire perché la circostanza è stringente, ma obbedisco come una schiava, una dannata. È come se mancasse l’umano, la mia mossa è arrestata [si arresta]; arrestata dal vomito, arrestata da due mesi a letto, continuo a ripetermi che è segno di qualcosa di bello [non basta ripeterlo], che non è una malattia, al mattino quando non sono troppo arrabbiata offro tutto, ma io non mi addentro in nulla [Vedete? “Offro” è una cosa che sembra appiccicata, ma io non mi addentro in nulla, non è una conoscenza nuova del reale.], non scopro niente, sono solo stufa. Come posso uscire da questa prigione?».
Questa persona, vivendo così, si libera della situazione che ha? No. Che cosa succede quando uno blocca tutta l’esigenza? È l’assassinio dell’umano: la conseguenza è che è stufa, non sopporta più la prigione. Ma il Signore ci dà degli esempi, delle testimonianze: i carcerati di Padova stanno in una situazione peggiore, ma non si lasciano invadere da questo sentimento; sono lieti, un’altra cosa
prende il sopravvento, sono determinati da un’altra cosa. Non possiamo stare lì soltanto schiacciati, perché se io fermo – come vediamo – la mossa, non scopro niente, è bloccato tutto. Se non subiamo la provocazione del reale, che ci spalanca e ci apre l’orizzonte, noi soffochiamo
.

Dicevi all’ultima Scuola di comunità: «Questo lavoro è la decisione della libertà di lasciarsi abbracciare e di riconoscerLo». La cosa che mi riempie di gioia è che questo accade nella normalità e nelle cose banali, come dici a pagina 15: «Quanto più uno vive la fede nella presenza di Cristo nella Chiesa, tanto più lo stupore dei segni di Dio scatterà anche nella situazione più nascosta, anche nel sorgere del pensiero più recondito […] e quindi basterà la normalità dell’istante. […] Come sarebbe la vita, amici, se ogni istante, il più nascosto, fosse riempito di
questa diversità!». Lunedì ero a una riunione noiosa, che giudicavo abbastanza inutile; a un certo punto, mi sono accorta che pensavo: «Che noia, potrei essere a casa a fare altre duecento commissioni utili», la solita cosa di famiglia. Innanzitutto mi ha colpito che mi sono accorta che ero in quella posizione, mentre prima non mi sarei accorta che la vita passa. La seconda sorpresa è stata chiedermi perché, se la realtà è segno senza distinzioni, quel momento non lo vivessi come
segno che mi spalanca. E allora la noia, quel sentimento di peso, è stata l’occasione per l’esplodere della domanda: «Fammi essere qui adesso», e questo è vero che cambia, perché rende leggero il carico della vita.
Grazie.

Due esempi e una conferma. A pagina 17 dici: «Se il cristianesimo non interviene a questa profondità della vita del soggetto, vuol dire che non è un avvenimento nella vita dell’uomo; se è avvenimento determina una diversità alla sorgente dell’io che si esprime innanzitutto nel modo di guardare, di rapportarsi al reale». Quest’anno sono rappresentante di classe di mia figlia che fa la
prima elementare; abbiamo avuto parecchi problemi con una maestra che ha fatto assenze a singhiozzo e ogni volta che rientrava perdevamo le sostituzioni, disagio grande per i bambini, i bambini sparpagliati nelle classi, non si sapeva a che ora uscissero, i genitori molto agguerriti.
Abbiamo chiesto un colloquio con la preside, ancora più agguerrita con questa insegnante, e la decisione finale su come verbalizzare questo disagio e fare in modo che se ne vada viene rimandata al consiglio di classe lunedì scorso. Io tutto il weekend ho pensato: «Come faccio, da una parte, a salvare il giudizio che comunque questa situazione ha recato un danno ai bambini e un disagio alla loro crescita (perché questa ha proprio studiato le assenze in modo strategico a suo vantaggio, non
era una malattia vera) e come, dall’altra, posso non far fuori questa persona?». All’interno della classe si erano schierati due gruppi di genitori. Quelli che dicevano: «Poverina, come si fa?» (il buonismo), e gli altri che insistevano invece sul senso del dovere. Per la prima volta in questo profondo disagio di come approcciare la situazione, ma soprattutto di salvare la mia ragione e il
mio giudizio, ho attinto dagli Esercizi. Per tutto il weekend ho letto il libretto, perché volevo salvare questa persona, salvare la circostanza e salvare la mia ragione. Lunedì, andando alla riunione in metropolitana, mi tornavano in mente le parole: «Le cose del cielo sono diventate le cose della terra», e lì di fronte a me in metropolitana c’era una signora che a un certo punto ha
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chiuso gli occhi, evidentemente stanca del caldo, e mi ha colto una tenerezza per questa estranea mai provata, per cui hanno iniziato ad innescarsi, accettando questa ipotesi di lavoro, una serie di fatti altrimenti impossibili in me. Sono andata alla riunione e alla fine questa maestra si è addirittura fermata a parlare con un gruppo di mamme. Ho capito che il mio contributo alla soluzione ha avuto origine dal testo degli Esercizi, non da me. Io l’ho potuta guardare come un volto amato, e comunque con una stima per il suo essere, malgrado il giudizio sulla situazione: è
una cosa a me impossibile.

Tra il buonismo e il senso del dovere, che intelligenza nuova del reale hai scoperto?
Il tenere unita quella situazione, una capacità di giudizio che teneva conto di tutto, che quella è una persona che è parte della realtà come me, è amata da Gesù come sono amata io, che ha fatto degli errori, e questo non è un equilibrio fatto di strategie o di capacità dialettiche…
Hai una domanda?
No, una conferma di quello che avevi detto l’altra volta. Tu su Roma avevi detto che tanto è stato un gesto educativo che l’hanno capito sia quelli che sono andati sia quelli che non sono andati. Non sono andata per una serie di buoni ragionamenti, però, da quello che è stato raccontato, soprattutto da quello che hai detto tu e dall’amarezza che ho avuto come contraccolpo in queste settimane, ho capito cosa mi sono persa.
Questo è il valore di un gesto: che ci aiuta tutti.

Faccio l’infermiera in ematologia pediatrica. Volevo raccontarti una cosa che è successa in reparto. Da noi c’era un ragazzo di diciotto anni che era malato terminale e io mi ero affezionata tantissimo a lui perché era con noi da mesi, per cui l’avevo sempre seguito. Sabato è morto e, a parte il fatto che la cosa mi aveva scosso un po’, io ho deciso con le altre mie colleghe di andare al funerale per fare compagnia ai suoi genitori e per poterlo accompagnare fino in fondo. Quando
sono andata al funerale sono stata molto scossa da come erano quei genitori: erano distrutti, il funerale è stato una tragedia, una disperazione, c’era il papà che urlava, la mamma che sembrava quasi non riconoscesse nessuno con lo sguardo perso nel vuoto, e io ero lì che assistevo a tutto questo, anche al cimitero, ma non ero tanto sconvolta dal loro comportamento (perché penso che un sacco di gente si comporta così in circostanze come questa, a meno che abbiano fatto un incontro e abbiano posto la loro speranza in Cristo), ma ero molto colpita dalla novità che
portiamo noi, dalla novità che siamo noi. Mi è venuto in mente il funerale di mia sorella, morta a gennaio, mi sono venute in mente le facce dei miei genitori: loro non erano disperati, pur nel dolore e nella fatica in loro non c’era la disperazione, perché avevano posto la certezza in Cristo, avevano detto di sì a quella circostanza lì proprio perché hanno la certezza che la morte non è la
fine di tutto, ma che c’è la promessa della vita eterna. Mi ha colpito molto mio papà quando, mentre la stavano seppellendo, aveva chiesto ai suoi amici di cantare Povera voce; io lì dicevo: «Perché in un momento così vuole cantare?». Quando ero al cimitero per quel ragazzo mi sono proprio scoperta grata di poter appartenere a una storia così e ho desiderato anche per quei genitori che potessero fare un incontro.
Grazie.

Io ho dovuto riprendere gli Esercizi dall’inizio perché, in virtù di quello che mi era capitato in questo periodo, mi è sembrato di non aver capito un accidente di niente. All’inizio tu dici: «A noi avvenimento e lavoro sembrano in contrasto»; come mai? Io ho avvertito che è come se noi non percepissimo di che cosa si tratta, è per questo che avvertiamo il contrasto. Faccio un esempio.
L’altro giorno a scuola vedo un papà che si muove nell’atrio e non riesce a entrare; gli dico: «Cosa c’è?», «Non ho scritto la giustificazione sul diario di mia figlia e non so più come fare, è cominciata la lezione», «Guarda, entra, se la motivazione è seria, ti fanno entrare»; lui mi guarda e fa: «Mi accompagni?», gli rispondo: «Va bene, ti accompagno»; siamo entrati, una cosa banale, abbiamo scritto, è uscito e poi mi dice: «Sai io mi sono separato da mia moglie, non pensavo che all’inizio fosse così dura; sai, vivere da soli è proprio difficile». È un esempio, ma è per dire che è come se noi non credessimo nella possibilità neanche di varcare quella soglia, perché non diamo
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credito all’avvenimento che ci è successo; è solo in virtù di un’amicizia presente, che è tutta la descrizione di quello che mi sta succedendo in questo periodo, che la vita può cambiare, se non mettiamo in gioco questo…
Ma secondo te perché noi non diamo credito a questo? È semplicemente perché siamo stupidi, siamo cattivi? Perché, secondo te?
Perché non crediamo che sia possibile…
E perché non crediamo che sia possibile?
Noi identifichiamo la corrispondenza dell’avvenimento come qualcosa di “bello”, e non crediamo possibile la totalità della forza dell’avvenimento.
E perché? Sono d’accordo su questo, ma secondo te perché succede questo?
Perché dobbiamo avere uno davanti da guardare, altrimenti non riusciamo ad andarci dentro, dobbiamo avere…
Ma abbiamo tutti i testimoni da guardare. Perché non basta? Perché fin quando noi non vediamo nella nostra esperienza che questo è possibile, non lo prendiamo neanche in considerazione. Come dici tu, non diamo credito a questo perché non basta leggere il testo perché io dia credito al testo e possa entrare nel reale… Soltanto quando uno una volta e un’altra volta e un’altra volta ha visto compiersi questo, allora ci crede.
Julián, scusa, poi mi correggi: però abbiamo visto che in un’esperienza di fatica, quando qualcuno ci ha accompagnato in quella circostanza, poi ce la siamo portati a casa.
D’accordo, possiamo anche accompagnarci a questo, ma la questione è che fin quando non diventa esperienza nostra – una volta e un’altra ancora –, è come se non avessimo noi nell’esperienza la certezza per dar credito a questo.
Se cerchiamo di guardare quella circostanza e non riusciamo ad attraversarla fino in fondo, possiamo chiedere in ginocchio…
Guardate, potete fare quello che volete, ma qui non dice che occorre chiedere in ginocchio – va benissimo chiederlo –, qui dice che puoi fare una strada; vedete come non prendiamo neanche minimamente in considerazione questo? Andiamo tutti a casa, perché per dire questo non abbiamo bisogno di venire qua! Tu, poi, non dai credito a Cristo perché, siccome l’intelligenza della fede non ti ha fatto avere un’intelligenza nuova della realtà, non pensi che possa cambiare qualcosa. E così
che cosa succede? Che tu ti poni davanti alla nuova circostanza senza questa certezza e non ci credi proprio, ma non perché tu sia cattivo o scettico; no, perché tu non hai in ogni fibra del tuo essere l’esperienza di quello che è successo ed esso non si incrementa con ogni esperienza nuova che ti consente di stare nel reale. E siccome questo non succede, ci sorprendiamo se poi diciamo: «Noi non diamo credito…», ma nessuno si domanda: «Ma perché io non do credito a questo?»! Ho
bisogno di un’esperienza che mi consenta di entrare nel particolare del reale in modo tale da vedere che questo cambia la circostanza. Noi continuiamo a dire delle cose che abbiamo in testa, ma nessuno prende sul serio l’ipotesi di un lavoro! Faccio un esempio di questo lavoro. Una persona non è a posto nel lavoro e nello stesso tempo ha voglia di andare in missione, e questa voglia la fa rendere disponibile ad andare, ma senza verificare fino in fondo l’offerta di lavoro. Poi arriva lì e il lavoro non era come pensava, allora si arrabbia con l’altra che l’ha fatta andare (secondo lei) e tutto si complica (per l’una e per l’altra). E c’è una persona che dice: «A mio parere tutti i problemi nascono quando, nemmeno come tentativo o ipotesi, noi seguiamo quello che ci dice Carrón, quando cioè la fede non diventa un metodo di conoscenza del reale. Mi sembra che questo sia avvenuto all’inizio della vicenda (la proposta di lavoro) e successivamente nell’atteggiamento di fronte allo sviluppo della cosa, in particolare di come si sono mossi tutti quanti. All’inizio della vicenda è successo questo: quante volte abbiamo sentito dire a Carrón che il Mistero sa quello che fa e ci si fa incontro in quello che fa accadere, non nei nostri pensieri e nelle nostre interpretazioni?
Ecco, mi sembra forse che questo sano realismo [perché io, siccome non ho il filo diretto con il Mistero, devo piegarmi ai segni, ho bisogno di questo realismo; siccome non penso di avere visioni, devo vedere i segni, ma tante volte non abbiamo questo sano realismo] sia un po’ mancato, e invece di stare alla semplicità di valutazione della realtà (c’è lavoro o non c’è lavoro?), si è un po’ forzata
la proposta proseguendo con altri criteri. Questo non solo da parte di chi ha fatto la proposta, che

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forse è stato un po’ frettoloso sul valutare se realmente serviva un’altra figura, ma anche da parte della persona in questione che l’ha accettata. Lei stessa ha riconosciuto che un certo entusiasmo per la missione [una cosa buonissima] l’ha fatta decidere pur non essendo la cosa molto chiara [ha saltato tutti i passaggi!]. Quando non si obbedisce a quello che il Mistero fa accadere, poi ne paghiamo le conseguenze. Questo all’inizio. Dice poi María Zambrano: “L’uomo non si rivolge alla
realtà per conoscerla meglio o peggio, se non dopo, e a partire da, l’averla sentita come una promessa, come una patria dalla quale in linea di principio ci si attende tutto, nella quale si crede possibile trovare tutto”. È bellissima questa cosa e molto significativa, se [si vede subito chi fa un lavoro e chi non lo fa] non proviamo a prendere come ipotesi che la realtà è una promessa – la realtà
è segno, insisti nella prima lezione –, non la si può conoscere [perché noi soffochiamo nel reale perché pensiamo già di conoscere la realtà]. Così a me sembra che non partendo da questo, l’una è condannata a non conoscere quello che aveva davanti e l’altra si condanna a non conoscere l’altra, il desiderio di missione che aveva fino ad arrivare a un giudizio del tutto fuorviante che ritiene essere
conoscenza dell’altro ciò che è invece una fredda e spietata analisi dell’apparenza, che può anche esserci, ma non è mai la definizione dell’altro. È significativo da questo punto di vista che non si parlino, che a nessuna di loro venga l’impeto di chiedere all’altra: “Perché fai così? Perché la tua libertà si muove così?”. È chiaro che quando la partenza non è quella indicata, non c’è stima e interesse del tentativo dell’altro, che così non è mai visto come libertà di fronte al destino, ma come eventuale ostacolo; di conseguenza il giudizio è lo scaricare la responsabilità. Ecco, io penso veramente queste cose, le ritengo anche molto importanti per tutte e due, soprattutto perché non rimangano incastrate nella vicenda; in effetti nell’introduzione agli Esercizi si dice: “Questa
secondo me è la sfida più grande che il cristianesimo ha davanti a sé: se – nella modalità in cui ci ha persuasivamente raggiunto: il movimento – è in grado di perforare la crosta del modo con cui ciascuno sta nel reale [questo è quel che non si muove, tante volte] o se è condannato a rimanere estraneo, in fondo un’aggiunta. Se non vi è un cambiamento nel modo di percepire, di giudicare la realtà, vuol dire che la radice dell’io non è stata investita da alcuna novità, che l’avvenimento
cristiano è rimasto esterno all’io”. Può la fede essere una nuova conoscenza di quello che è accaduto e che accade? Ci dà un’intelligenza più grande del reale o no? O saremo condannati a dire: “Va beh, ma tanto c’è Cristo!”, come un’aggiunta fatta dopo? E la circostanza rimane tale e quale, e non si è cresciuti, non si è cambiati, non si è imparato niente di quello che il Mistero così voleva farci capire, si continua a giudicare come tutti». Incominciamo a prendere sul serio questo paragone
serrato tra il modo con cui ciascuno si muove e quello che ci dice Giussani, per poter verificare se quello che ci viene detto veramente ci cambia! Perché tante volte verifichiamo tutte le ipotesi che ci passano per la testa, tutte, tranne che l’ipotesi della vittoria di Cristo. Così non cambia niente e diventiamo scettici, perché la vittoria di Cristo non mi risparmia il reale, bensì mi rende capace di
entrare nel reale e di non soccombere. Siamo qua per aiutarci a verificare questo, non per fare i commenti sul testo, perché fare i commenti sul testo non serve a un cavolo. Non so quando finalmente ce la faremo, ma non mi interessa: sul tentativo io non mollo. Consigliare alcuni libri da leggere per l’estate appartiene alla natura della nostra esperienza. Ogni volta che ci accade di “incontrare” un libro, come una persona, è messa alla prova la nostra libertà:
possiamo decidere di essere chiusi o aperti all’incontro. Possiamo accettare la provocazione che ci viene fatta di leggerlo o lasciar perdere. Per quest’estate i libri che proponiamo sono: L’io rinasce in un incontro di Luigi Giussani, Gli eserciti di Dio di Rodney Stark, Kristin figlia di Lavrans di Sigrid Undset, Cori da «La Rocca» di T.S. Eliot (già libro del mese di giugno).
In questi ultimi anni, oltre alla grande disponibilità degli universitari, è cresciuta anche quella degli adulti. Questo è un segno semplice di quanto il Meeting sia sentito da tutti come possibilità di testimonianza al mondo di quello che siamo. Ricordo, quindi, l’opportunità di lavorare per il Meeting gratuitamente: è una cosa da cui tutti dobbiamo imparare.
• Gloria.