giovedì 10 giugno 2010

Perché batte il nostro cuore maledetto


Caro Padre Aldo, le scrivo mentre sto piangendo di dolore e di senso di nullità delle cose. Da un anno a questa parte sono caduta in un periodo tremendo. L’affetto per una persona mi sta consumando. Questa affezione mi fa camminare verso Gesù ma mi dà anche tanto dolore perché non è come io vorrei, e le giuro che mi consuma fisicamente e psicologicamente: sto male. Eppure non vorrei che uscisse dalla mia vita perché sento che è strada a Cristo e ad una coscienza maggiore della realtà. Però è come se avessi una fame infinita di questo rapporto, ma non mi è concesso di esaudire questo desiderio. Allora mi chiedo: perché mi è dato? Perché mi è dato un desiderio se non posso compierlo? E perché da un lato vorrei che tutta questa storia finisse, e dall’altro sento di non poterne fare a meno? È evidente che sto male, non riesco a studiare, a mangiare, a dormire, non penso ad altro che a questo e non faccio che piangere. E non capisco cosa devo fare…Vorrei che un uomo come don Luigi Giussani mi prendesse e mi portasse via e mi desse fiducia come ha fatto con lei, vorrei sentirmi guardata dagli occhi di Gesù e capire che tutto ha un senso e che non devo avere paura. Perché invece ho tanta paura, anche solo di alzarmi al mattino e cominciare la giornata. Vorrei non vivere a volte perché sto male, non so cosa desidero ma non mi basta niente e non mi interessa niente, mi sento sola e non amata. Ho tante persone che mi vogliono bene, ma non mi sento voluta bene da alcuni che invece vorrei si interessassero a me. Mi sembra tutto vuoto e niente, e non so da che parte voltarmi, non so dove guardare, cosa dire, cosa desiderare, dove andare, non sento di avere una casa e mi sento estranea in ogni luogo. Allora mi chiedo: cos’è la mia fede? Dov’è? E Gesù chi è per me? Perché io non ho più speranze, non riesco a sperare e ad avere fede che tutto è per me. Sono disperata e ho paura. E non riesco a pregare, non riesco a mendicare Cristo, non mi basta niente. Vedo solo il vuoto. Preghi per me se può. Grazie.
Lettera firmata

La tua lettera, cara amica, mi permette di condividere il mio pensiero con te e con molte altre persone della tua età che in questi mesi mi stanno inondando di e-mail, chiedendomi aiuto come naufraghi in mezzo all’oceano. Quid animo satis? Cosa sazia l’animo umano?, si chiedeva san Francesco. Ciò che spinge l’uomo alla ricerca di quella che i miei indios guaraní chiamavano “la terra senza il male”, una terra perduta dopo che Tupa, il dio dei guaraní, aveva creato l’uomo, per colpa della vipera che lo aveva contaminato col suo veleno.

Tupa (“tu” significa meraviglia, stupore; “pa” vuol dire: cos’è questo, chi ha fatto tutto ciò?) aveva creato l’uomo Karai, cioè immortale e felice, che però perse subito questa felicità. Ciononostante non perse mai il forte desiderio di ritrovarla, non perse l’urgenza di quelle domande che tu mi poni nella tua lettera, che migliaia di tuoi coetanei vivono, spesso in modo drammatico, e che l’intelligenza umana esprime in forme diverse. Per questo i guaraní, la minoranza più numerosa del continente americano, fino a quando non hanno incontrato il Fatto cristiano (con la conquista delle Americhe) non ci hanno lasciato nessuna traccia della loro presenza, nessun segno archeologico che ci ricordi la loro storia, perché da quel giorno in cui persero la felicità e l’immortalità, dai Caraibi alla Patagonia, dalle Ande all’Oceano Atlantico, si sono messi in marcia alla ricerca di quella terra originale in cui erano felici. Il loro continuo camminare, il loro ininterrotto andare alla ricerca dell’Assoluto, del Mistero, è in fondo ciò che ognuno di noi, quando è davvero impegnato con la sua vita, ricerca. Ricerca nell’affetto, nell’innamoramento, nell’attaccamento a una persona, come nel tuo caso, oppure nel successo, nella carriera lavorativa. Il cuore dell’uomo è fatto in questo modo.
Ti ricordi di quel puntino rosso nell’Icaro di Matisse? Ti ricordi quando, durante il Meeting di Rimini del 2008, ho iniziato a parlare con te e con le migliaia di persone che riempivano la sala citando Violeta Parra, un grande donna cilena che compose in poco tempo due splendide poesie che poi trasformò in canzoni, Corazón maldito e Gracias a la vida que me ha dado tanto? «Cuore maledetto, perché palpiti? Cuore maledetto, perché batti?». Questo “perché?” racchiude lo stesso dramma della domanda che tu mi poni, che si faceva Leopardi, e che i tuoi amici, nel vuoto affettivo, nell’inconsistenza relazionale che vivono, tramite le loro lettere continuano a farmi. Questi sono gli interrogativi che definiscono la drammaticità della vita, cioè la sua bellezza. Perché senza questa drammaticità l’esistenza sarebbe terribilmente noiosa, sarebbe paralizzata. L’uomo si muove soltanto per questi “perché?”, che è la realtà stessa, se vissuta intensamente, a risvegliare in ogni istante.

Chi dobbiamo ringraziare
Violeta Parra era una donna che aveva a cuore la realtà, la sua umanità. E per questo il suo grido disperato, non trovando risposta, la portò a farla finita. Ciononostante, tra quando scrisse Corazón maldito e il suicidio, visse momenti pieni di illusione, quando compose Gracias a la vida que me ha dado tanto. Come si può ringraziare la vita senza la grazia di un incontro che sia la risposta al battito del tuo maledetto cuore? Come si può superare la maledizione di un cuore che cerca la felicità per godere della vita, senza aver trovato il significato, la risposta ai palpiti del cuore? Non è la vita che uno deve ringraziare, ma Colui che sta all’origine stessa della vita. Cos’è che la vita regala a ciascuno di noi? Il sole, le stelle, la montagna, l’amore, tutto ciò che esiste, direbbe Violeta. Però se tutto questo non ci apre al Mistero, se la realtà perde la sua caratteristica di segno, tutto si riduce a una sequela, per quanto piacevole, di momenti emozionanti. Col tempo questo si traduce in maledizione, perché – come direbbe Leopardi – ci sembra che la natura non mantenga la promessa che fa ad ogni uomo al momento della sua nascita. Quella promessa di felicità che l’essere umano, quando la sua vita si risveglia, avverte più potentemente di ogni altro desiderio.
Carissima, il tuo percorso umano, anche se molto breve, è carico di questa promessa. Quella persona della quale sei innamorata è uno dei segni, magari il più potente e bello, della realtà che ha risvegliato dentro di te quella frenetica ansia di totalità. Il tuo cuore, come il mio, ha sete di amore, e ha percepito che questa persona può rappresentare per te un’occasione per essere felice. E tu, come sempre accade quando uno si innamora, ti sei attaccata a lui come l’edera pensando che potesse essere la risposta al tuo desiderio di amore. Dopo i primi momenti in cui ti sembra di toccare il cielo con un dito, iniziano i problemi, le pretese, le gelosie. Comincia anche ciò che ogni uomo responsabile è chiamato a vivere: passare dall’innamoramento all’amore, dal possesso alla libertà, dalla generosità alla gratuità. E non è questione di età, perché la nostra umanità è fatta in questo modo, come ho detto tremando due anni fa a Rimini, raccontando la mia storia.
Tutto quello che stai passando l’ho vissuto in prima persona, e oggi ringrazio infinitamente il Signore perché se non avessi passato quello che ora sta capitando a te, non sarei la persona che sono, e Dio non avrebbe fatto di questo pover’uomo uno strumento della sua misericordia. «È necessario soffrire, perché la verità non si cristallizzi in dottrina» (Emmanuel Mounier): questo è l’insegnamento che mi lasciò monsignor Giussani quando mi mandò in Paraguay, vent’anni fa. E io obbedii, mi fidai, anche se in quel periodo non vedevo e non capivo nulla.

Qualcuno al nostro fianco
Ma era come se una voce mi stesse dicendo che se non volevo perdere la persona che amavo, dovevo perderla. Perciò, mai come adesso, percepisco la verità di quanto Giussani scrive nel suo libro Si può vivere così?: «Quanto più voglio bene a una persona tanto più la voglio con me al destino, e perciò tanto più con essa si applica quello che sto dicendo: c’è un distacco, secondo la nostra definizione di verginità: un possesso con un distacco dentro. Dalle cose bisogna distaccarsi, perché sono leggere, si usano e poi sfuggono, si usano e si consumano, molto più velocemente di qualsiasi pila. (…) Non mi posso soffermare con questa persona, se mi soffermo faccio del male a lei [e anche a me faccio danno, come spieghi nella tua lettera], dico una menzogna: non è fatta per avermi, né io per averla, ma essa ed io siamo fatti per un destino comune, per avere in comune qualcosa di infinito».
Ed è soltanto questo infinito che corrisponde ai tuoi desideri. Però, giustamente, tu esigi al tuo fianco qualcuno che ti abbracci, che ti guardi negli occhi, così come io sono stato abbracciato da Giussani. Qualcuno che ti dica ciò che mi disse lui quel giorno, in via Martinengo a Milano: «Che bello, che bello… ora finalmente sei un uomo!». Qualcuno che, mentre io piangevo dalla disperazione per un terribile esaurimento, ti porti consiglio, come Giussani ha fatto per mesi. Qualcuno che creda in te, come Giussani che quando nessuno mi dava confidenza non soltanto si è fidato di me, ma ha messo in gioco tutta la fiducia che aveva rispetto alla mia libertà (che allora era totalmente strozzata) mandandomi in Paraguay, contro tutti i canoni e gli schemi che sono propri della Chiesa quando manda qualcuno in missione.
Tu, io, tutti noi, abbiamo bisogno che ri-accada in ogni istante ciò che capitò a Giovanni e Andrea quel giorno, sulla sponda del Giordano, quando un uomo li invitò a casa sua. Non diede loro una ricetta, come fanno i medici e spesso i preti, tutti quegli esperti della mente umana che ti dicono: alla settimana prossima. No. Li invita a stare con Lui, come Giussani ha fatto con me e come io cerco di fare con quanti, come voi, sono disperati. L’uomo chiede che ci sia qualcuno al suo fianco. Non ha bisogno di consigli o di strumenti. Soltanto camminando con la mano stretta in quella dell’altro le tue domande si illumineranno durante il cammino, e tu toccherai con mano le risposte che cerchi.

La necessità di mordere la pietra
Tu ti domandi: a cosa si riduce allora la mia fede? Che fine ha fatto? E chi è Gesù per me? La risposta la troverai vivendo, soffrendo, mordendo la pietra, come disse l’abate a Miguel Mañara. C’è una cosa, però, che è la più importante di tutte, e che ti auguro ti sia sempre chiara: il tuo cuore, così com’è stato per me, non ti ingannerà mai. Se tu continui a prendere sul serio il suo desiderio di totalità e di Infinito, Dio voglia che tu possa incontrare un luogo di pace, e un volto che abbracciandoti ti permetta di capire che ciò che stai passando è l’inizio del compimento di ciò di cui il tuo cuore ha bisogno. Sei chiamata a mendicare, e con la certezza della tua mano tesa troverai un’altra mano che afferrerà la tua. E assisterai al miracolo che personalmente vivo da molto tempo nella mia vita. Non perché sia terminato il dolore, e la fatica, ma perché percepisco il compimento della promessa fatta al mio cuore. Non stancarti mai di chiedere, di camminare. Fai come ha fatto uno dei miei malati di Aids, che per venire a farmi visita, non avendo scarpe, è andato a chiederle a un suo vicino. E camminando per chilometri e chilometri è arrivato a casa mia. Noi tutti, con i nostri drammi, arriviamo al punto di chiedere in prestito le scarpe per metterci in marcia, certi che nel cammino ci sia qualcuno che con le braccia aperte, ci sta aspettando.

padretrento@rieder.net.py

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