lunedì 30 maggio 2016

Papa a diaconi: siate a servizio di Dio non della vostra agenda

                           Messa in Piazza San Pietro per il Giubileo dei diaconi - 
Ogni diacono è insieme un apostolo e un servitore: mai “schiavo” dell’agenda dei suoi impegni e sempre capace di “trascurare gli orari” per aprire tempi e spazi ai fratelli, secondo lo stile di Dio improntato alla “mitezza”. È il pensiero che Papa Francesco ha espresso all’omelia della Messa presieduta in Piazza San Pietro nel giorno del Giubileo dei diaconi. Vivendo così, ha detto loro il Papa, il vostro servizio “sarà evangelicamente fecondo”. Uomini a servizio, disponibili e miti, perché Gesù lo è stato per primo. La vocazione, anzi l’ambizione del diacono – afferma Papa – non può essere diversa da questa. Servitore di tutti, del fratello atteso e di quello non previsto, elastico nell’accogliere e fare spazio a chi ha bisogno, non un burocrate del sacro per cui anche la carità, la vita parrocchiale, sono regolate da un orario di servizio. Vita cristiana, vita di servizio Sotto le nuvole di una primavera del tutto umorale, che vela a lungo di grigio la folla in Piazza San Pietro, centinaia di stole diagonali sono schierate davanti e di fianco all’altare per il loro Giubileo della misericordia. Francesco ricorda con le parole di un Padre della Chiesa che il primo “diacono di tutti” è stato Cristo e che lo stesso San Paolo, scrivendo ai Galati, si presenta sia come “apostolo” che come “servitore”. “Sono due facce della stessa medaglia”, osserva il Papa, perché “chi annuncia Gesù è chiamato a servire e chi serve annuncia Gesù”: “Il discepolo di Gesù non può andare su una strada diversa da quella del Maestro, ma se vuole annunciare deve imitarlo, come ha fatto Paolo: ambire a diventare servitore. In altre parole, se evangelizzare è la missione consegnata a ogni cristiano nel Battesimo, servire è lo stile con cui vivere la missione, l’unico modo di essere discepolo di Gesù. È suo testimone chi fa come Lui: chi serve i fratelli e le sorelle, senza stancarsi di Cristo umile, senza stancarsi della vita cristiana che è vita di servizio”. Aperti alle sorprese di Dio Per riuscire in questa missione è necessario, indica il Papa, un allenamento quotidiano alla “disponibilità”, a donare la vita. “Chi serve – sottolinea Francesco – non è un custode geloso del proprio tempo, anzi rinuncia ad essere il padrone della propria giornata”: “Chi serve non è schiavo dell’agenda che stabilisce, ma, docile di cuore, è disponibile al non programmato: pronto per il fratello e aperto all’imprevisto, che non manca mai e spesso è la sorpresa quotidiana di Dio. Il servitore è aperto alla sorpresa, alle sorprese quotidiane di Dio”. “Trascurare gli orari” Il servitore, prosegue, sa servire senza badare al “tornaconto”, aprendo “le porte del suo tempo e dei suoi spazi a chi gli sta vicino e anche a chi bussa fuori orario, a costo di interrompere qualcosa che gli piace o il riposo che si merita”. E qui, Francesco stacca gli occhi dai fogli dell’omelia per ripetere una considerazione che per lui è come una spina nel cuore: “Il servitore trascura gli orari. A me fa male al cuore quando vedo orario – nelle parrocchie – da tal ora a tal ora. Poi? Non c’è porta aperta, non c’è prete, non c’è diacono, non c’è laico che riceva la gente … Questo fa male. Trascurare gli orari: avere questo coraggio, di trascurare gli orari”. Lo stile della mitezza Il Vangelo è pieno di storie di padroni e servitori. Nel brano liturgico del giorno spicca la vicenda del centurione che implora da Gesù la guarigione di un servo a lui caro. A colpire, nota Francesco, è l’estrema delicatezza con cui un ufficiale dell’esercito romano si premura di non disturbare il Maestro, affermando che com’è sufficiente per lui dare un ordine sapendo che verrà eseguito, anche per Gesù sarà lo stesso: “Davanti a queste parole Gesù rimane ammirato. Lo colpisce la grande umiltà del centurione, la sua mitezza. E la mitezza è una delle virtù dei diaconi... Quando il diacono è mite, è servitore e non gioca a scimmiottare i preti, no, no… è mite. Egli, di fronte al problema che lo affliggeva, avrebbe potuto agitarsi e pretendere di essere esaudito, facendo valere la sua autorità; avrebbe potuto convincere con insistenza, persino costringere Gesù a recarsi a casa sua. Invece si fa piccolo, discreto, mite, non alza la voce e non vuole disturbare. Si comporta, forse senza saperlo, secondo lo stile di Dio, che è ‘mite e umile di cuore’”. Mai sgridare Questi, conclude il Papa, “sono anche i tratti miti e umili del servizio cristiano, che è imitare Dio servendo gli altri: accogliendoli con amore paziente, comprendendoli senza stancarci, facendoli sentire accolti, a casa, nella comunità ecclesiale, dove non è grande chi comanda, ma chi serve. E – soggiunge – mai sgridare: mai!”: “Ciascuno di noi è molto caro a Dio, amato e scelto da lui, ed è chiamato a servire, ma ha anzitutto bisogno di essere guarito interiormente. Per essere abili al servizio, ci occorre la salute del cuore: un cuore risanato da Dio, che si senta perdonato e non sia né chiuso né duro (...) Cari diaconi, potete domandare ogni giorno questa grazia nella preghiera, in una preghiera dove presentare le fatiche, gli imprevisti, le stanchezze e le speranze: una preghiera vera, che porti la vita al Signore e il Signore nella vita”. Grande gioia in Piazza San Pietro per la Messa nel giorno del Giubileo dei diaconi. Tre le parole del Papa che sono rimaste nel cuore dei numerosi diaconi presenti: servizio, mitezza e disponibilità . Alessandro De Carolis                                                                                Marina Tomarro ha raccolto alcune testimonianze:
R. – La nostra vita va declinata tutta su questi tre cardini; ci rimane spesso poco tempo ma dedichiamo tutto quel tempo al servizio, senza pensare se si fa tardi la sera, se si rinuncia magari ad un po’ di tempo per stare con gli amici … Il Signore ti chiede e ci chiede di essere portatori positivi di pace e di amore, e senza orologio …                                                                                                  R. – Questo deve caratterizzare la nostra vita quotidiana: in famiglia, in parrocchia, sul posto di lavoro, dappertutto!                                                                                                                                 D. – Lei è sposato? R. – Sì: sposato, con figli.                                                                                       D. – In che modo riesce a conciliare anche la vita familiare con il servizio di diaconato?                    R. – Riesco a conciliarla nella misura in cui la mia famiglia mi è vicina: ed è molto vicina! Senza la mia famiglia non avrei mai potuto fare nulla di quello che sto facendo. R. – Essere presenti, incontrare, accompagnare, amare: tutto in queste tre parole di carità. R. – L’esempio me lo dà Papa Francesco, su come devo svolgere il mio servizio nella Chiesa. Quindi, quello che ha detto oggi è scritto nel mio cuore: non devo fare altro che perseverare in tutto questo.                                            D. – Lei è sposato? R. – Sì. D. – In che modo concilia anche la vita familiare con il servizio di diaconato? R. – Io sono un architetto e da dieci anni sono diacono permanente in un contesto particolare che è un ospedale neuropsichiatrico di Limbiate, dove ci sono tanti fratelli che vivono una situazione particolare. Concilio tutto questo grazie all’aiuto e alla collaborazione anche di mia moglie, che mi aiuta molto nel ministero, oltre che nel lavoro: ci aiutiamo reciprocamente.               D. – Da dove venite? R. – Dal Paraguay. D. – Cosa vuol dire essere diacono?                                       R. – Servidor al pobre, al proximo, al enfermo, a todos ellos. Servitore del povero, del prossimo, del malato, di tutti loro ... R. – Io, dopo 29 anni di diaconato, penso proprio di aver riassunto la vita del diacono: la disponibilità, il senza-orario, l’amore, l’umiltà. D. – Cosa vuol dire essere moglie di un diacono? R. – Eh … sono 29 anni … lui fa il diacono, e tutta la famiglia appresso a lui. E’ aiutato molto dalla famiglia. R. – Più che il diacono singolo, è la famiglia diaconale, perché l’impegno è della famiglia.

Ballata dei poeti dimenticati, Rocco Mentissi live a Venosa , Borgo d'Au...

The Prayer (La Preghiera) - Celine Dion e Andrea Bocelli

domenica 29 maggio 2016

PERCHÉ A MESSA NON BISOGNA PRENDERSI PER MANO DURANTE IL PADRE NOSTRO, O ALZARE LE MANI AL CIELO

La pratica di prendersi per mano al momento di recitare il Padre Nostro deriva dal mondo protestante. Il motivo è che i protestanti, non avendo la Presenza Reale di Cristo, ovvero non avendo una comunione reale e valida che li unisca tra loro e con Dio, considerano il gesto di prendersi per mano un momento di comunione nella preghiera comunitaria. Noi nella Messa abbiamo due momenti importanti: la Consacrazione e la Comunione. È lì – nella Messa – che risiede la nostra unità, è lì che ci uniamo a Cristo e in Cristo mediante il sacerdozio comune dei fedeli; il prendersi per mano è ovviamente una distrazione da questo. Noi cattolici ci uniamo nella Comunione, non quando ci prendiamo per mano. Nell'Istruzione Generale del Messale Romano non c'è nulla che indichi che la pratica di prendersi per mano vada effettuata. Nella Messa ogni gesto è regolato dalla Chiesa e dalle sue rubriche. È per questo che abbiamo parti particolari della Messa in cui inginocchiamo, parti in cui ci alziamo, altre in cui ci sediamo ecc., e non c'è alcuna menzione nelle rubriche che parli del fatto che dobbiamo prenderci mano al momento di recitare il Padre Nostro. Si deve quindi evitare questa pratica durante la celebrazione della Messa. Se qualcuno vuole farlo può (a mo' di eccezione) con qualcuno di assoluta fiducia, senza forzare nessuno, senza dar fastidio a nessuno e senza volere che questa pratica diventi una norma liturgica per tutti. Bisogna tener conto del fatto che non tutti vogliono prendere la mano del vicino, e cercare di imporlo è qualcosa che va a detrimento della preghiera, della pietà e del raccoglimento. Un'altra cosa molto diversa è la preghiera comunitaria al di fuori della Messa; quando si recita fuori dalla Messa non c'è alcuna opposizione se si prende la mano di qualcuno, perché è un gesto emotivo e simbolico. Questo, come altri atteggiamenti, non è altro che l'esaltazione del sentimento. L'essere in comunione con qualcuno non consiste tanto nel prendere qualcuno per mano quando si recita il Padre Nostro, ma nel fatto di essere confessato, di essere in stato di grazia e soprattutto nell'essere preparato all'Eucaristia. Se il gesto di prendersi la mano fosse necessario o importante o conveniente per tutta la Chiesa, i vescovi o le Conferenze Episcopali avrebbero inviato già da molto tempo una richiesta a Roma perché questa pratica venisse impiantata. Non lo hanno fatto, né credo che lo faranno mai. Un'altra cosa che vedo molto quando si recita il Padre Nostro è che la gente alza le mani come fa il sacerdote. Nemmeno questo va bene, perché non spetta ai laici durante la Messa compiere gesti riservati al sacerdote o pronunciare le parole o le preghiere del sacerdote confondendo il sacerdozio comune con il sacerdozio ministeriale. Solo i sacerdoti stendono le mani, e la cosa migliore è che i fedeli restino o preghino con le mani giunte perché la fede interiore è ciò che conta, è quello che Dio vede. I gesti esterni nella Santa Messa da parte dei sacerdoti servono a far sì che i fedeli – in primo luogo – vedano che il sacerdote è l'uomo designato che intercede per loro. Stendere le braccia nella preghiera era già abituale nella Chiesa delle origini, ma nel contesto di un circolo di preghiera, o nella preghiera in privato o in un altro incontro non liturgico. I gesti nella Messa sono precisi sia nel sacerdote che per i fedeli; ciascuno fa i propri e i fedeli non devono copiare quelli dei sacerdoti. I gesti dei fedeli nella Messa sono le loro risposte, il loro canto, le loro posizioni. Sia prendere la mano di qualcuno che alzare le mani recitando il Padre Nostro sono, nei fedeli, pratiche non liturgiche, che pur non essendo esplicitamente proibite nel Messale non corrispondono nemmeno a una sana liturgia. I fedeli non devono ripetere né con parole né con azioni ciò che dice e fa il sacerdote la cui funzione è presiedere l'assemblea liturgica.

Omelia del Santo Padre papa Francesco 29 maggio 2016

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO Piazza San Pietro Domenica, 29 maggio 2016 [Multimedia] «Servitore di Cristo» (Gal 1,10). Abbiamo ascoltato questa espressione, con la quale l’Apostolo Paolo si definisce, scrivendo ai Galati. All’inizio della lettera si era presentato come «apostolo», per volontà del Signore Gesù (cfr Gal 1,1). I due termini, apostolo e servitore, stanno insieme, non possono mai essere separati; sono come due facce di una stessa medaglia: chi annuncia Gesù è chiamato a servire e chi serve annuncia Gesù. Il Signore ce l’ha mostrato per primo: Egli, la Parola del Padre, Egli, che ci ha portato il lieto annuncio (Is 61,1), Egli, che è in sé stesso il lieto annuncio (cfr Lc 4,18), si è fatto nostro servo (Fil 2,7), «non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). «Si è fatto diacono di tutti», scriveva un Padre della Chiesa (Policarpo, Ad Phil. V,2). Come ha fatto Lui, così sono chiamati a fare i suoi annunciatori. Il discepolo di Gesù non può andare su una strada diversa da quella del Maestro, ma se vuole annunciare deve imitarlo, come ha fatto Paolo: ambire a diventare servitore. In altre parole, se evangelizzare è la missione consegnata a ogni cristiano nel Battesimo, servire è lo stile con cui vivere la missione, l’unico modo di essere discepolo di Gesù. È suo testimone chi fa come Lui: chi serve i fratelli e le sorelle, senza stancarsi di Cristo umile, senza stancarsi della vita cristiana che è vita di servizio. Da dove cominciare per diventare «servi buoni e fedeli» (cfr Mt 25,21)? Come primo passo, siamo invitati a vivere la disponibilità. Il servitore ogni giorno impara a distaccarsi dal disporre tutto per sé e dal disporre di sé come vuole. Si allena ogni mattina a donare la vita, a pensare che ogni giorno non sarà suo, ma sarà da vivere come una consegna di sé. Chi serve, infatti, non è un custode geloso del proprio tempo, anzi rinuncia ad essere il padrone della propria giornata. Sa che il tempo che vive non gli appartiene, ma è un dono che riceve da Dio per offrirlo a sua volta: solo così porterà veramente frutto. Chi serve non è schiavo dell’agenda che stabilisce, ma, docile di cuore, è disponibile al non programmato: pronto per il fratello e aperto all’imprevisto, che non manca mai e spesso è la sorpresa quotidiana di Dio. Il servitore è aperto alla sorpresa, alle sorprese quotidiane di Dio. Il servitore sa aprire le porte del suo tempo e dei suoi spazi a chi gli sta vicino e anche a chi bussa fuori orario, a costo di interrompere qualcosa che gli piace o il riposo che si merita. Il servitore trascura [va oltre] gli orari. A me fa male al cuore quando vedo un orario, nelle parrocchie: “Dalla tal ora alla tal ora”. E poi? Non c’è porta aperta, non c’è prete, non c’è diacono, non c’è laico che riceva la gente… Questo fa male. Trascurare [andare oltre] gli orari: avere questo coraggio, di trascurare [andare oltre] gli orari. Così, cari diaconi, vivendo nella disponibilità, il vostro servizio sarà privo di ogni tornaconto ed evangelicamente fecondo. Anche il Vangelo odierno ci parla di servizio, mostrandoci due servitori, da cui possiamo trarre preziosi insegnamenti: il servo del centurione, che viene guarito da Gesù, e il centurione stesso, al servizio dell’imperatore. Le parole che questi manda a riferire a Gesù, perché non venga fino alla sua casa, sono sorprendenti e sono spesso il contrario delle nostre preghiere: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto» (Lc 7,6); «non mi sono ritenuto degno di venire da te» (v. 7); «anch’io infatti sono nella condizione di subalterno» (v. 8). Davanti a queste parole Gesù rimane ammirato. Lo colpisce la grande umiltà del centurione, la sua mitezza. E la mitezza è una delle virtù dei diaconi. Quando il diacono è mite, è servitore e non gioca a “scimmiottare” i preti, no, è mite. Egli, di fronte al problema che lo affliggeva, avrebbe potuto agitarsi e pretendere di essere esaudito, facendo valere la sua autorità; avrebbe potuto convincere con insistenza, persino costringere Gesù a recarsi a casa sua. Invece si fa piccolo, discreto, mite, non alza la voce e non vuole disturbare. Si comporta, forse senza saperlo, secondo lo stile di Dio, che è «mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Dio infatti, che è amore, per amore si spinge persino a servirci: con noi è paziente, benevolo, sempre pronto e ben disposto, soffre per i nostri sbagli e cerca la via per aiutarci e renderci migliori. Questi sono anche i tratti miti e umili del servizio cristiano, che è imitare Dio servendo gli altri: accogliendoli con amore paziente, comprendendoli senza stancarci, facendoli sentire accolti, a casa, nella comunità ecclesiale, dove non è grande chi comanda, ma chi serve (cfr Lc 22,26). E mai sgridare, mai. Così, cari diaconi, nella mitezza, maturerà la vostra vocazione di ministri della carità. Dopo l’Apostolo Paolo e il centurione, nelle letture odierne c’è un terzo servo, quello che viene guarito da Gesù. Nel racconto si dice che al suo padrone era molto caro e che era malato, ma non si sa quale fosse la sua grave malattia (v. 2). In qualche modo, possiamo anche noi riconoscerci in quel servo. Ciascuno di noi è molto caro a Dio, amato e scelto da lui, ed è chiamato a servire, ma ha anzitutto bisogno di essere guarito interiormente. Per essere abili al servizio, ci occorre la salute del cuore: un cuore risanato da Dio, che si senta perdonato e non sia né chiuso né duro. Ci farà bene pregare con fiducia ogni giorno per questo, chiedere di essere guariti da Gesù, di assomigliare a Lui, che “non ci chiama più servi, ma amici” (cfr Gv 15,15). Cari diaconi, potete domandare ogni giorno questa grazia nella preghiera, in una preghiera dove presentare le fatiche, gli imprevisti, le stanchezze e le speranze: una preghiera vera, che porti la vita al Signore e il Signore nella vita. E quando servite alla mensa eucaristica, lì troverete la presenza di Gesù, che si dona a voi, perché voi vi doniate agli altri. Così, disponibili nella vita, miti di cuore e in costante dialogo con Gesù, non avrete paura di essere servitori di Cristo, di incontrare e accarezzare la carne del Signore nei poveri di oggi.

Omelia 2^ dopo Pentecoste 29 maggio 2016 di don Carlo Venturin

Omelie 2^ dopo Pentecoste – 29/5/2016 Sir 18, 1-2.4-9.10-13 grandiosità e magnificenza del Creatore Salmo 136“ Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre” Rom 8, 18-25 nel creato che geme si è figli di Dio Mt 6, 25-33 Preoccupazione umana e Regno di Dio MISERICORDIAE VULTUS ANTIDOTO CONTRO L’ANSIA ❶ Dai misteri di Dio celebrati e contemplati, l’anno liturgico traccia l’itinerario per attuare le meraviglie di Dio nel quotidiano vivere, come battezzati nella Chiesa. La PRESENZA divina, vista come Alleanza, come compagna di viaggio, come indicatrice, come consolazione: misericordiosa. ❷ All’inizio del VIAGGIO umano la Parola di Dio nella prima parte dà l’avvertimento: “NON PREOCCUPATEVI”, ripetuto tre volte. Non abbiate quell’affanno che toglie il respiro, che impedisce di parlare con chi si ama, che toglie la gioia di vivere. Dio non si dimentica, come non ha trascurato la folla nel deserto, chi si sentiva escluso, chi se ne era andato per altri lidi. Dio sa ciò di cui abbiamo bisogno, anche senza esprimerlo, come un bimbo/a che si fida di papà e mamma. ❸ “Non affannatevi di quello che mangerete o berrete, per il vestito.. non affannatevi per il domani”. L’affanno (oggi viene chiamato STRESS) è una sintomatologia dell’ansia, caratteristica quotidiana della società; essa viene anche chiamata angoscia per un domani pericoloso se non indecifrabile; è la penosa sensazione di impotenza o di debolezza di fronte a ciò che può capitare: paura della morte, dell’avvenire, di chi ci sta vicino, di chi suona al citofono, del buio pieno di insidie. L’antidoto di Gesù è una cura terapeutica: “NON AFFANNATEVI”. Egli vuole guidare le ansie, vuole guarire il senso di angoscia. Egli chiama a vivere da persone libere, non schiave di paure recondite: paura del giudizio altrui, paura dell’obesità, di non essere alla moda, di non essere all’altezza dei ruoli, di sentirsi assediati. L’ansia è anche il frutto di accumulare tante cose insignificanti. ❹ Il richiamo del Siracide e di S. Paolo introduce alla parte propositiva del Vangelo odierno: “GUARDATE, OSSERVATE”. Gesù osserva attentamente i fatti della vita, la natura con il suo linguaggio: gli uccelli del cielo e i gigli del campo. E’ l’invito alla fiducia, perché Dio si prende cura del creato nella sua interezza. Ecco come Luca descrive e sottolinea la PRESENZA: ✓ Dio è Padre che provvede al nutrimento a tutti gli animali viventi. ✓ Provvede al vestito, con il richiamo alla bellezza del creato: “Neanche Salomone…”. ✓ La provvidenza di Dio nell’oggi, la sua presenza attiva e buona in ogni momento: “Il suo amore è per sempre” (Salmo). L’invito-comando di Gesù non vuole significare spensieratezza, imprevidenza, né intende elogiare chi prende la vita a caso. Non nega che la vita quotidiano abbia i suoi problemi. E’ il comando a scrutare la realtà secondo alcune priorità: “Il Regno di Dio e la sua Giustizia”.. Egli chiede di aprire gli occhi sulla natura che ci circonda. Vuol dire porre Dio al centro: “Dio vede, Dio provvede”. ❺ Due esempi possono significare la visione “provvidenziale”. Una missionaria narra la sua esperienza a Lima (Perù). Un papà di famiglia ritornava dal lavoro; vendendo giornali guadagnò tre “soles”, poco meno di un euro; doveva comprare qualcosa per lui, per la moglie e per i tre figli, aveva anche una ferita alla gamba. La suora gli domanda perché non si cura: “Hermana, antes tengo que pensar a los hijos”. Un marito aveva la moglie in coma, era affranto dalla sofferenza e dalla paura del futuro. La moglie gradualmente supera il coma, riprende a conoscere, a parlare, a ricordare, a sorridere, a dare senso alla sua esistenza. Il marito incantato e sorpreso, pensa in modo nuovo: non vale la pena di preoccuparsi, essere ansioso, angosciato, stressato, come lo sono stato nel passato. Comprende l’essenziale, la vita nella sua nuova condizione, l’amore, tutto il resto viene, ma in secondo ordine. Si OCCUPA del quotidiano, ma non si PREOCCUPA. La sua esistenza acquista nuove priorità. La scala di valori viene capovolta. Il nuovo ritma ora la sua vita. ❻ Qualche domanda può aiutare a vivere il messaggio della nuova tappa della Liturgia del nostro quotidiano: • Ci sentiamo abbandonati da Dio, o da Lui ricercati (la pecorella dispersa, ricercata con passione, trovata e quindi la gioia)? • Giudicare gli altri o servire, (come Gesù passò a tavola e si mise a servire)? • Costruire sicurezze o confidare nel Signore (nessun interesse personale deve prevalere)? • Come entrare in questa logica evangelica? Il Salmo, come un ritornello da immettere nel cuore, per otto volte ripete: “Il suo amore è per sempre”. “Tutto il resto è DATO IN AGGIUNTA”. Per essere così occorre praticare il principio della LENTEZZA, che è il contrario “DELL’AFFANNARSI”. Don Carlo

lunedì 23 maggio 2016

Mons. Negri sulla Amoris laetitia: «falso dire che "apre" ai divorziati ...

Amoris laetitia, mons. Luigi Negri: «falsificazione dire che concede la Comunione ai risposati»

mons negri«Il Papa non ha bisogno di essere adulato e non ha bisogno di essere contestato. Io ho detto al mio clero in questi anni: il Papa non lo si adula e non lo si contesta, lo si segue. E seguire implica mettere i nostri passi nei suoi, tentando di immedesimarci nel suo cammino e di confrontarlo con la nostra vita». Mons. Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara, ci ha regalato una bella lezione di autentico cattolicesimo, prendendo le distanze dagli adulatori laicisti di Papa Francesco, e dai suoi contestatori di stampo tradizionalista. Lo ha fatto il 4 maggio 2016, presentando l’esortazione apostolica Amoris laetitia al teatro Rosetum di Milano. Mons. Negri ha toccato anche il tema critico della comunione ai divorziati risposati, smentendo chi parla di “apertura” dell’Eucarestia da parte del Papa. Nell’esortazione apostolica, ha commentato (video più in basso), «la chiarezza c’è, non c’è obiezione alla tradizione magisteriale precedente. Bisogna stare alle cose che sono scritte non all’enorme fenomeno di manipolazione nel quale siamo incorsi. L’ottavo capitolo della Amoris laetitia è una sfida ad essere realmente pastori». Eppure, diversi giornalisti vorrebbero convincere del contrario, come Magister, Socci, De Mattei e Cascioli, confondendo non poco i loro lettori. Mons. Negri è stato chiaro: è deliberata manipolazione, ma anche il card. Raymond Leo Burke ha fin da subito affermato che l’esortazione apostolica è la «fedele applicazione della pastorale costante della Chiesa. L’unica chiave giusta per interpretare Amoris laetitia è la costante dottrina e disciplina della Chiesa per quanto riguarda il matrimonio». Lo stesso ha detto un altro pupillo (suo malgrado!) del tradizionalismo, il card. Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: «il Papa non mette in dubbio, in nessun momento, gli argomenti presentati dai suoi predecessori», mentre la famosa nota 351 del documento, in cui si parla dell’eventualità dei Sacramenti, «fa riferimento a situazioni oggettive di peccato in generale, senza citare il caso specifico dei divorziati in nuova unione civile». Nonostante ciò, ha commentato mons. Luigi Negri fin dall’inizio del suo intervento, i quotidiani laici hanno detto l’opposto e «non è che dall’altra parte i colpi siano stati risparmiati», facendo riferimento alle «osservazioni pesantissime» del filosofo cattolico Robert Spaemann contro l’Amoris laetitia, che ha chiesto alla Santa Sede di chiarire i punti che, «secondo lui» –ha precisato l’arcivescovo-, risultano in contraddizione con il magistero ecclesiale. Eppure, è il commento di mons. Negri, «Papa Francesco riprende puntualmente il magistero della Chiesa» (minuto 20:11). La novità inserita da Francesco «è una preoccupazione squisitamente pastorale, voler rendere meno difficile una pastorale della famiglia perché la verità diventi carità e quindi sia possibile quella pastorale di integrazione di tutti nella Chiesa, che è certamente un obiettivo pastorale del Papa, non consentendo a nessuno di sentirsi escluso perché la misericordia di Dio ha un campo d’azione che non accetta limitazioni». Un’altra cosa molto chiara, ha proseguito l’arcivescovo di Ferrara, è che «l’attacco alla Chiesa è sempre stato anche contemporaneamente un attacco alla famiglia. Questo è un quadro che il magistero di papa Francesco, in connessione ai suoi predecessori, ci ripropone oggi con forza. E devo dire, per il linguaggio tipico che caratterizza il modo di porsi e di comunicarsi di Papa Francesco, è anche particolarmente concreto, particolarmente suggestivo, non difficoltoso» (minuto 28:04). C’è spazio per un aneddoto che riguarda il cantante Enrico Ruggeri, che si lamentò con mons. Negri per il non potersi risposare religiosamente, avendo divorziato da una donna con la quale si era unito senza troppa convinzione, “perché andava così”. «Non è Papa Francesco che scopre queste sfide», ha commentato l’arcivescovo, «lui ha una sensibilità a leggere queste sfide», ed intende «recuperare chi si trova in situazioni difficoltose, negative, ostative alla vita della Chiesa», che sono «l’80% delle coppie che frequenta i corsi prematrimoniali. Quella che il Papa chiama “pastorale dell’integrazione” è l’approfondimento del matrimonio cristiano che sa affrontare le difficoltà, le sfide, cercando aiuto nella fede, non altrove» (minuto 34:45). Arrivando al discusso capitolo ottavo dell’esortazione apostolica, quello dedicato anche ai divorziati risposati, mons. Negri ha preso atto che «è stato ampiamente sezionato e vivisezionato nel tentativo di spingerlo nel senso che fosse una rottura con la tradizione precedente. Questa è una falsificazione inaccettabile, non c’è una parola che dica che è possibile mettere fra parentesi alcuni aspetti fondamentali dell’insegnamento tradizionale della Chiesa. La Chiesa deve farsi carico delle circostanze in cui trova gli uomini e le donne ed occorre iniziare quel cammino di discernimento delle situazioni, di accompagnamento a coloro che vivono in situazioni di maggiore o minore gravità perché possa accadere, alla fine di questo cammino, una integrazione positiva di questi nostri fratelli nella vita della Chiesa» (minuto 49:55). E certamente non basta «ribadire la dottrina davanti alle situazioni difficoltose, ma operare un accompagnamento che porti ad un incontro autentico», con queste persone, inducendo un «auspicabile ritorno pieno nella comunione ecclesiale». Per cui, «senza far riferimento alla Comunione, il Papa parla della possibilità di un’integrazione piena, alla fine di un cammino di accompagnamento e di discernimento, non vissuto in modo generico ma caso per caso» (minuto 54:45). Concludendo ha specificato che questa è «la mia reazione a questo documento letto, come il Papa ha inteso porlo, all’interno del magistero tradizionale della Chiesa e aperto a questo compito di discernimento di situazioni nuove» (minuto 56:50). Nella risposta alle domande del pubblico si è entrati nel merito della già citata nota 351, posta da Francesco a piè di pagina nella Amoris laetitia, collegandola alle cosiddette “circostanze attenuanti”: «In certi casi», si legge, «potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti». Mons. Luigi Negri ha commentato: «Ci sono delle situazioni in cui la responsabilità subisce delle riduzioni, per cui possiamo assumere atteggiamenti di maggior comprensione e di maggior accoglienza. Ma guai a noi, e il Papa non lo può dire, se dicessimo che non c’è responsabilità». Rispetto alla nota 351, ha proseguito, «la pastorale ha una serie di strumenti, non escluso quello dell’Eucarestia, che possono rappresentare un aiuto fondamentale nel cammino della fede, ma nel cammino della fede non perché io ho il diritto all’Eucarestia! L’Eucarestia può essere un aiuto straordinario che in certe situazioni, lo dico io non il Papa, potrebbe essere anche dato con certe circostanze di discrezione, di riservatezza ecc. Ma sulla base di aiutare il ritorno alla fede, l’esperienza dell’incontro con Cristo» (dal minuto 1:11:07). Quindi, «non so dove potrebbe essere l’equivoco, se prendono questa nota per dire che il Papa è d’accordo con la Comunione ai divorziati risposati, prendono una frase che non può essere certamente utilizzata in questo senso. Se poi lui personalmente la pensa così e non lo ha ancora detto, staremo a vedere quando la dirà, ma non diciamo che l’ha detto quando non l’ha detto!». Questa apertura «nel testo non c’è, e fa fede il testo che è il documento ufficiale. Se quelle citazioni lì le volete tirare» a favore dell’apertura del Papa alla comunione ai divorziati risposati, «non sono adeguate. Questa nota non è se non la conferma di questo atteggiamento di graduale e prudente apertura che favorisca il desiderio di ritornare alla fede». Attenzione quindi, «bisogna stare alle cose che sono scritte non all’enorme fenomeno di manipolazione nel quale siamo incorsi. Ma non possiamo metterci a giudicare un documento per le possibili manipolazioni più o meno interessate che fa l’uno e l’altro». Lo stesso vale per un altro documento, il motu proprio sulla nullità matrimoniale, che i soliti giornalisti d’assalto definiscono come apertura al “divorzio cattolico”, ma che «non lo hanno certamente letto se non le due righe citate da “Repubblica” o dal “Corriere della Sera”». Quindi, nell’esortazione apostolica Amoris laetitia, ha concluso l’arcivescovo di Ferrara, «la chiarezza c’è, non c’è obiezione alla tradizione magisteriale precedente e il cammino per l’integrazione è indicato come servizio a far si che si rinnovi l’esperienza del desiderio di conoscere la fede e di ritornare, come possono. Se ritornano e si mantengono nella posizione di totale irregolarità nei confronti di Cristo e della Chiesa credo che non gli potremo mai dare la Comunione, a meno di sostituirci al Papa. L’ottavo capitolo è una sfida ad essere realmente pastori, il Papa è molto chiaro: non pensate di avere delle indicazioni valevoli per sempre e per ogni situazione, bisogna invece farsi carico di situazione in situazione. E possono esserci soluzioni diversissime se le situazioni sono molto diverse». Consigliamo la visione integrale dell’intervento di mons. Luigi Negri, come sempre apprezzabile nella sua chiarezza e profondità di giudizio, in questo contesto ci siamo limitati a riportare le sue parole sul capitolo più mediaticamente discusso. Parole, quelle dell’arcivescovo di Ferrara, che verranno fastidiosamente evitate e liquidate dagli anti-bergogliani, che pure vedono, giustamente, in mons. Luigi Negri un autentico riferimento pastorale. Ma, sia ben chiaro, sono loro a tradire la Chiesa e la tradizione magisteriale, non certo Papa Francesco, o i cardinali ratzingeriani Burke, Müller e Scola, che hanno ben dimostrato di essere uniti al Pontefice, il quale -ci ha insegnato mons. Luigi Negri-, non «va adulato o contestato. Ma va seguito, questo implica mettere i nostri passi nei suoi, tentando di immedesimarci nel suo cammino e di confrontarlo con la nostra vita».

sabato 21 maggio 2016

E’ il Partito radicale di massa, bellezza

Il coro pressoché unanime seguito alla morte di Marco Pannella, non ancora sepolto e già risorto nelle celebrative e nostalgiche parole di politici, giornalisti e – addolora dirlo – persino sacerdoti ed alti prelati, è qualcosa di troppo vasto e imbarazzante, per impedire a chiunque di cogliere che si sta celebrando la nascita di un nuovo, travolgente soggetto politico: il PRM, il Partito Radicale di Massa. Previsto con enorme anticipo, su tutti, dal grande Augusto Del Noce (1910–1989) nel suo Il suicidio della rivoluzione (1978) – in cui spiegava che «l’esito dell’eurocomunismo» non avrebbe potuto «essere che quello di trasformare il comunismo in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata» -, il PRM non è solo un soggetto politico nuovo ma del tutto monopolizzante, che oltre a superare sta annientando quel che resta di Destra e Sinistra inglobandole sotto le insegne del Pensiero Unico. Dell’esistenza di questo Partito – esistenza oggi constatabile sulla base di tantissimi elementi, primo fra tutti l’impressionante prossimità che, a livello parlamentare, le forze politiche fanno registrare sui temi etici, sui quali le divisioni sono, salvo rarissimi casi, pura finzione – si vociferava da tempo, ma il decesso del suo italico profeta è stata l’occasione della fondazione ufficiale. Del resto, solo con una morte poteva esordire un Partito che di morte odora lontano un miglio, radunando tutti i favorevoli all’aborto di Stato, alla fecondazione extracorporea, alla legalizzazione delle cosiddette droghe leggere nonché – per restare in tema – alla “dolce morte”, appunto. Ma la forza di questo nuovo soggetto non nasce solo dal numero dei suoi adepti, ma anche dal quello delle sue sedi territoriali. Quante sono? Quanti sono i suoi adepti. Il PRM, infatti, è completo sia di una dimensione religiosa individualistica – condensata nel culto, come osserva il filosofo Marcello Veneziani, alla divinità cinica ed egoista di Kazzimiei – sia di un potere talmente esteso da non temere alcuna competizione elettorale. Del resto, che bisogno dovrebbe avere di elettori, un Partito che vanta già sudditi? Perché dovrebbe preoccuparsi del consenso, un Partito che controlla già coscienze omologandole su tutti i temi antropologicamente decisivi? Per quale ragione affannarsi a raccogliere iscrizioni quando si hanno già milioni di adesioni inconsapevoli e volontarie al tempo stesso? Il PRM non segue i sondaggi, non teme le urne, né i referendum costituzionali. Solo di una cosa ha enorme paura: della Verità, intesa come svelamento di tutte le menzogne sulle quali un’antropologia individualistica si sostiene propagando il verbo di Kazzimiei. La forza della Verità – senza dubbio irresistibile – non deve però far credere che il PRM sia a rischio di sconfitta né, tanto meno, di scioglimento dato che il suo radicamento, oggi, è persino superiore alle previsioni di Del Noce, che probabilmente non immaginava un arruolamento massiccio, nel Partito, anche di uomini di Chiesa. Inoltre, la Verità – a differenza delle menzogne – abbisogna di testimoni, di gente disposta a perderci; ma la gente disposta a perderci per la Verità è oggi molta meno, purtroppo, di quella disposta a perdersi per il Partito. Viene così facile pronosticare, almeno nel breve termine, una ulteriore espansione di questa entità omologante, che seguiterà orwellianamente a collezionare nuove reclute quasi agli stessi ritmi con cui colleziona errori. Tanto, il solo scopo che si prefigge è il Caos, lo svuotamento etico foderato di filantropia. Non sentirete infatti mai esplicite parole d’odio o di rabbia da parte di uomini del Partito, non perché odio e rabbia oggi siano scomparsi – tutt’altro -, ma perché i sentimenti forti, qualunque essi siano, rischiano di rianimare l’elettroencefalogramma di una massa che deve essere anestetizzata, che non deve più vivere ma vegetare. Il PRM propone così una solidarietà al ribasso, uno stare insieme che sia coesistenza senza essere fratellanza, convivenza senza essere comunione, tutti insieme eppur tutti soli, senza radici né in Cielo né in terra: non in terra per non ricordarsi di avere una memoria da coltivare, non in Cielo per non sognarsi un futuro da costruire. Purtroppo per il PRM, però, l’uomo ha desideri più grandi delle sue minime necessità e, per quanto il Pensiero Unico prosperi come prospera oggi, ci saranno sempre alcuni con nostalgia di Verità, di cose grandi e pure. Una nostalgia destinata, un domani, ad incenerire il PRM, che finirà nel Nulla per cui si è sempre battuto. Giuliano Guzzo

giovedì 19 maggio 2016

Lettera d'amore a Marco Pannella

Lettera di Danilo Quinto, ex tesoriere dei Radicali convertitosi al cattolicesimo. Dopo aver trascorso una vita accanto a te non posso lasciarti andare alla casa del Padre senza salutarti. La casa del Padre era motivo per te di tante riflessioni che hanno dato corpo a ideologie erronee. Ma io non sono qui per farti scuola, ti conosco troppo bene e profondamente. Non sono mai stato un tuo amante, ma per tanti anni hai sedotto il mio cervello e forse ho visto in te e in tutto quello che ti circonda il mio nido e la mia famiglia. Tu non mi hai mai stimato, se non per i risultati prodotti. Dal canto mio, mi spingevo sempre più oltre, per ricevere i tuoi assenzi o solo una pacca sulla spalla o un grazie e dare sempre di più. Tu sai che io non ho mai rubato. Sono stato uno dei tuoi tanti figli, ma l’unico che ti ha abbandonato. Oggi ti guardo con altri occhi, con il cuore colmo di orrore se non piegherai le tue ginocchia e il tuo brillante cervello a Dio. Sono qui per chiederti di pensare quanto mi siacara la tua anima, perché mi umili a implorarti di guardare la luce della morte nell’incontro con Cristo. Solo nella sua Chiesa c’è salvezza! Sapessi quante volte penso a Sergio Scanzani e spero che anche il suo ultimo pensiero sia stato “pietà di me Signore!”. Allora prego che Sergio sia in Purgatorio e mi unisco alle sue sofferenze per tentare di renderle meno atroci. Che Dio lo voglia! Caro Marco, hai vissuto come hai creduto, ti chiedo di morire nella speranza. Vedi, non ho più nulla da difendere, neanche la mia dignità. Se non importa a Cristo, vuoi che importi a me? Sono pacificato con il mondo perché vivo la mia non appartenenza ad esso. Sento il tuo disprezzo e la tua indifferenza nei miei confronti. Ne sono felice! Sono felice di averti potuto scrivere e dirti ciò che nessuno vuole dirti: Cristo ci aspetta e perdona tutto ciò che mettiamo nelle sue mani. Non morire, ti prego, senza aver reso la tua vita nelle mani del confessore. Di qui c’è il tempo, di là c’è l’eternità. un abbraccio, con affetto.

Aforisma

"Vuoi essere un grande? Comincia con l'essere piccolo. Vuoi erigere un edificio che arrivi fino al cielo? Costruisci prima le fondamenta dell'umiltà".
(Sant'Agostino)

mercoledì 18 maggio 2016

Parla Scola:«Più dei diritti contano le libertà»

Parla Scola: «Più dei diritti contano le libertà»
Visite pastorali in Brianza, sfide dei cattolici in politica, Papa Francesco e futuro dell’Europa, intervista all’arcivescovo di Milano cardinale Angelo Scola

«C’è un popolo vivo, un nucleo». Qualcosa di duro da estinguersi, sembra dire Angelo Scola: e parla della Brianza. Il cardinale in queste settimane la sta attraversando in una capillare serie di visite pastorali che hanno toccato e stanno toccando i nostri comuni. L’arcivescovo di Milano osserva stupito una conferma: quella di una «partecipazione attiva, non formale» della gente a questi incontri, segno tangibile non di un clericalismo ma di una «domanda di senso» che tiene, e sorregge uomini e donne. Scola incontra il Cittadino per una conversazione che parte dalla Brianza e arriva all’Europa, tocca la crisi e la fede, e assume particolare attualità alla luce della fresca cronaca parlamentare e del voto sulle cosiddette “unioni civili”.
Eminenza, a Carate lei ha detto che per il cristiano «la missione non è strategia»: cosa significa?
Che la missione è una testimonianza. Lo vediamo leggendo il Vangelo: per compiere la missione affidatagli dal Padre Gesù non elabora strategie, ma propone con autorevolezza una vita, un tipo di relazione pienamente umana la cui sorgente è nel Suo rapporto con il Padre e che i Suoi saranno poi chiamati a comunicare in tutto il mondo. Egli coinvolge tutti, a partire dagli apostoli, in una crescente, concretissima familiarità con la Sua persona. Non c’è nulla di strategico, né per i singoli né per le comunità cristiane, anche quando sorgono le prime esigenze “istituzionali”, come è descritto dal celebre passaggio di Atti 2,42-48 che ci parla della prima comunità di Gerusalemme. Il radunarsi per vivere la cena eucaristica e per ascoltare l’insegnamento degli apostoli, come la tensione a vivere la comunione sono tutti elementi concreti ben radicati nel quotidiano per comunicare, in maniera libera e spontanea, un tipo di vita. Perché ognuno di noi comunica quello che è. La testimonianza però non si lascia ridurre al buon esempio: è un modo per conoscere adeguatamente la realtà, cioè di comunicare la verità. Ecco, questa è davvero la ragion d’essere del cristianesimo, è la modalità con cui il cristianesimo cerca di parlare a tutti gli uomini. Il cristianesimo, se è fedele alla sua natura, non ha mai mire egemoniche. Esse invece si sviluppano facilmente sul terreno dell’ideologia o dell’utopia. In certi momenti anche la Chiesa ne è stata vittima, ma nella sua sostanza il cristianesimo incide sulla storia quando resta in questa posizione testimoniale. L’esito dell’opera che il Padre affida ai suoi figli, a partire dalla Croce di Gesù, non è mai nelle loro mani.
Questa definizione di missione non porta a una specie di disimpegno, a una concezione privata delle fede?
No di certo, perché il cristianesimo – come affermò una volta il cardinal Ratzinger – per il fatto stesso che dice all’uomo chi egli è e come deve vivere genera cultura. E Giovanni Paolo II osservò che «una fede che non diventa cultura non è matura e soprattutto non si comunica». La testimonianza dice la modalità con cui questa fede diventa cultura: non per conquistare un potere, ma per comunicare un’attrattiva incontrata come senso della vita e che non si riesce a tenere per sé. Tutti parlano di princìpi, di valori, che però spesso restano sulla carta. Io preferisco dire che la fede ha delle implicazioni antropologiche, sociali, ecologiche, che in una società plurale entrano in relazione con altre visioni del mondo. E i cristiani sono chiamati a portare la loro testimonianza pubblica anche utilizzando le forme giuridiche, economiche, culturali e sociali a disposizione, con il coraggio del confronto attraverso una narrazione continua con gli altri soggetti che abitano questa società, in vista di un riconoscimento reciproco. Se io sono convinto che una società è sana se è fondata su una famiglia come unione stabile e aperta alla vita tra un uomo e una donna, ho il dovere di proporre questa visione, tanto più in una società plurale. Se non la propongo tolgo qualcosa a questa società. Io non amo il linguaggio della militanza: lo considero totalmente superato nella nostra società. Da questo punto di vista mi pare che la posizione di Papa Francesco risulti molto efficace.
Lei è impegnato da settimane in una serie di visite pastorali che più volte hanno toccato le nostre città. Che cosa ha visto in Brianza?
Un nucleo di popolo ancora molto solido, che vive un sensus fidei elementare, originario e potente, dal quale imparo tanto. Ma, come diceva il beato Paolo VI, questa fede uscendo dalla chiesa ed entrando nel quotidiano non sempre riesce ad assumere la “mentalità e i sentimenti” di Cristo. Recuperando una sua celebre immagine, dobbiamo colmare il fossato tra la fede e la vita, per passare dalla fede per convenzione a quella per convinzione, così da poter dire con semplicità a chiunque: «Vieni e vedi», come disse Gesù a Giovanni e Andrea. Oggi siamo sul bagnasciuga di questo discrimine.
Otto dei nostri comuni, così come quello del cuore della Diocesi che lei dirige, vanno al voto tra meno di un mese. Cosa si augura, e cosa chiede ai cristiani?
Come abbiamo voluto dire a nome di tutto il Consiglio Episcopale Milanese nel documento pubblicato in occasione delle prossime elezioni, questo tempo reca con sé un pressante invito per i cristiani a giocare il proprio impegno fin dentro la politica partitica, anche e soprattutto in occasione di elezioni amministrative. Mai è stata così attuale la celebre frase di papa Montini che elevava la politica a forma più alta di carità: c’è bisogno di quella che chiamo “vita buona”. I “dialoghi di vita buona” in atto nella Diocesi – che hanno appena avuto una importante tappa proprio a Monza – ci testimoniano un grande interesse da parte di tutti: non c’è altra strada se non quella di un’amicizia civica in cui, come diceva Edith Stein, amore e verità siano inseparabili. L’ulteriore appello recentemente sottoscritto in diocesi praticamente da tutte le realtà ecclesiali e dai movimenti è un avvenimento storico che, in questa prospettiva, io giudico molto positivo.
Lei ha di recente prefato un’edizione della Amoris Laetitia, l’esortazione post-sinodale di Papa Francesco: qual è il suo “cuore”, e perché è stata così dibattuta a suo avviso anche sul fronte laico?
Lo scopo centrale del grande lavoro che ha preso due anni è promuovere la famiglia come “soggetto di evangelizzazione”, cioè dell’annuncio e della testimonianza di Gesù Cristo. I capitoli si snodano in funzione di questa vocazione missionaria insostituibile: tutti i gruppi familiari, che svolgono un’azione eccellente, sono chiamati a spostarsi dai locali della parrocchia e dell’associazionismo alla “chiesa domestica”, cioè all’affronto del quotidiano. Gesù si è incarnato per essere una compagnia che ci guida al destino: affetti, lavoro, riposo, dolore, male morale, morte, educazione, giustizia sociale sono contenuti della vita di ciascuno, e la missione è vivere in Cristo questi dati. A ogni persona, a ogni famiglia – da sola e con altri nuclei – spetta il compito di sostenersi nel valutare e giudicare tutte le circostanze e i rapporti della vita – facili o difficili – con la mentalità e i sentimenti di Cristo. Questo è anche il metodo più felice per valorizzare i fedeli laici come soggetti, e non come “clienti” della Chiesa. Proprio in funzione di questo il Papa dedica due capitoli all’amore nuziale e all’educazione dei figli dopo aver ancorato nella tradizione della Chiesa la visione cristiana del matrimonio, e dopo aver descritto le sfide attuali della famiglia di oggi. Entro questa prospettiva pone la questione di un atteggiamento positivo di accompagnamento, di discernimento e di integrazione anche di tutte le famiglie ferite che si trovano in situazione problematica. Nel testo non mi pare ci sia spazio per altro; diverso discorso è su come i mass media l’hanno ripreso...
Personalmente, come questo papato ha cambiato la sua missione?
Devo riconoscere, molto umilmente, di essere stato provocato dallo stile con cui questo Papa si muove: è un grande testimone della fede, coraggioso, radicale, autorevole come tutti notano. Per come sono capace – San Paolo diceva: “Per grazia di Dio sono quello che sono” – cerco, senza diventare ridicolo, di imitarlo.
Da allievo e amico di don Giussani, cosa vive oggi di più prezioso del suo contributo di vita, e cosa augura al movimento di CL?
Don Giussani rimise in moto il mio desiderio di giovane stanco e ai margini della vita ecclesiale con due fattori: primo, Cristo c’entra con tutto; secondo, per incontrarLo e darGli del Tu bisogna passare attraverso un’appartenenza forte a una comunità. Assieme a questi fattori ho scoperto l’insostituibile valore dell’incarnazione: ci si domandava cosa c’entrasse Cristo con noi, coi compagni e con i contenuti dello studio. Un potente invito a rischiare la propria libertà, fuori dal dualismo fede/vita di cui si diceva prima. Io, pure educato dalla mia famiglia, dalla parrocchia e fino ai 16 anni nell’Azione Cattolica, non capivo più cosa c’entrasse Cristo con Callimaco, con la letteratura russa, con una natura morta di Cézanne, con la storia del movimento operaio di cui si parlava al liceo. Grazie a Giussani e agli amici con cui ho condiviso questa esperienza ho ritrovato il nesso tra l’avvenimento di Cristo e la vita, e l’urgenza di condividere il dono totale di sé, che è la legge suprema insegnata da Gesù. Il mio auspicio è che CL incarni sempre più in questo cambiamento d’epoca il carisma del Servo di Dio Monsignor Giussani che l’ha suscitata. Inoltre mi auguro che tutte le realtà ecclesiali della diocesi, dopo la stagione dialettica, sappiano aprirsi a una collaborazione capace di una proposta cristiana chiara in tutti gli ambienti dell’umana esistenza.
Molto spesso lei cita la dimensione europea come essenziale, eppure parla di un’Europa affaticata. Dov’è l’origine di questa fatica, visto che oggi l’Europa almeno istituzionalmente è percepita come una gabbia?
Il problema è il futuro. E da questo punto di vista sono molto amareggiato e preoccupato: mi pare che la questione economico-finanziaria la faccia da padrone, e questo inevitabilmente porta con sé il rischio di pesanti conflitti tra economie più e meno avanzate, anche all’interno dell’Unione europea. Dicendo questo non voglio “idealizzare” la questione: dopo la seconda guerra mondiale i Padri dell’Unione europea sono partiti proprio dalla concretezza, dal carbone e dall’acciaio. Il cristianesimo è in se stesso una grande scuola di realismo: occorre partire dai bisogni concreti, come faceva Gesù. Egli si chinò sull’esigenza della Samaritana di non andare ogni giorno al pozzo ad attingere acqua, ma da lì la aprì al desiderio di spegnere nella sua vita una sete ben più potente.
Eminenza, cosa c’entra con l’Europa?
L’Europa deve trovare la strada per individuare i punti critici di bisogno dei suoi cittadini, assumendo con coraggio una responsabilità verso tutti, soprattutto verso chi, essendo più debole, ne è maggiormente gravato. Il nuovo cittadino europeo sarà inesorabilmente l’esito di un meticciamento di culture, ma proprio per questo deve ritrovare le proprie radici. Rémi Brague insiste sulla tesi della “secondarietà” dell’Europa: Roma non è nata come Alessandria, Gerusalemme o Atene, cioè da una propria originale radice. Roma si è lasciata alimentare dalle loro radici, vivificandole col diritto e anche con la linfa del cristianesimo, in una nuova prospettiva. La tesi di Brague è suggestiva, ma non è declinata: occorre farlo partendo dal basso, dai problemi reali.
Per esempio?
Il gelo demografico, così raramente affrontato. Speriamo che in Italia ci si decida davvero a varare una politica seria per la famiglia, per i figli. per la libertà di educazione, ecc. Che si punti insomma a una democrazia dalle libertà realizzate e non solo dei diritti conclamati: perché quando questi ultimi finiscono su una carta perché ogni gruppuscolo pretende di essere garantito dalla legge, la vita sociale e il gusto di appartenenza a un popolo finiscono con lo spegnersi. L’Europa deve risvegliarsi dal basso: occorrono uomini e donne capaci di cogliere l’ideale nel reale, perché senza una radice di senso il concreto diventa opaco.
A proposito di concretezza. Il nostro giornale ha 116 anni e sorge dall’esperienza delle parrocchie. Oggi, in una personalità laica, conserva un richiamo attuale alla tradizione: cosa suggerisce a chi fa questo lavoro?
Credo che il primo compito rimanga quello di raccontare la realtà così com’è, senza falsi oggettivismi. Cercando però il lato buono, rispettando la dignità delle persone, ma soprattutto evitando di trattare il verosimile come se fosse il vero “tout-court”. Il verosimile comporta sempre un retropensiero irrorato di sospetto: e questo giornalismo tradisce la realtà molto più di quanto lo faccia l’errore.

martedì 17 maggio 2016

Il cuore del Matrimonio



"A chi si vuole sposare spiego che il matrimonio è un Sacramento per discepoli, quindi sposarsi in Chiesa significa voler essere discepoli di Cristo, e lo dico chiaramente: se una persona sa già, nel proprio cuore, che dopo il matrimonio per esempio non andrà più a Messa è meglio che lasci stare. 
Se una persona invece dice sì, e desidera essere discepolo di Cristo, allora deve sapere che il comandamento è “amatevi come io vi ho amato”.
È come se nel Sacramento ti venisse affidato il marito o la moglie con questo comandamento: “Amalo come l’ho amato io”.
A questo punto tiro fuori il crocifisso e ribadisco il concetto: “Cristo vi dona lo Spirito per amare così, in croce, in modo irrevocabile e indissolubile, volete amare così? Sappiate che Dio ama un peccatore fino in fondo e non retrocede mai, così dovete fare anche voi....Allora, siete sicuri? Volete amarvi proprio così?”.
Questo stesso crocifisso lo ritiro fuori quando la coppia viene a dirmi che c’è la crisi, la difficoltà, io attraverso il crocifisso li riporto a chiedere la grazia del matrimonio, li riporto a quella domanda: ma tu vuoi essere un discepolo di Cristo? Il punto centrale è sempre l’identità di Cristo, e io sono schietto: o Cristo è Dio o Cristo è un matto. Se tu ci credi, e vuoi essere suo discepolo, quando sei in fila per la Comunione, riferendoti al tuo sposo o alla tua sposa devi dire: “Voglio amarlo come lo ami Tu”, quindi significa che credi che quello sia il corpo di Cristo e allora io domando ancora: davvero vuoi amarlo così? Fino a farti mangiare?
Questo è il cuore del matrimonio."

Padre Maurizio Botta

lunedì 9 maggio 2016

La politica è un bene


04/05/2016 - Disaffezione e sfiducia nella politica: «C’è speranza di uscire da questa situazione bloccata, che lascia insoddisfatti e delusi?». Il volantino di Comunione e Liberazione in vista delle prossime elezioni amministrative
«Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico» (Papa Francesco a Firenze, 10 novembre 2015).

Guardare dal balcone: non è forse questo l’atteggiamento di tante persone quando si parla di politica? Sopraffatti dai problemi e dalle difficoltà che a volte sembrano insormontabili, si può vivere una stanchezza della libertà e della responsabilità, che si traduce in una crescente disaffezione al voto e in una sfiducia verso qualunque formazione politica.

Ma tale disaffezione e tale sfiducia non hanno origine solo nella politica; ben altra ne è la causa: una crisi dell’io di fronte al «vivere che taglia le gambe» (C. Pavese, Dialoghi con Leucò), una crisi che si manifesta come noia invincibile, misterioso letargo.

C’è speranza di uscire da questa situazione bloccata, che lascia insoddisfatti e delusi?

Forse basterebbe un minimo di attenzione a se stessi per riconoscere che in chiunque rimane - anche se appena accennato e perfino inconsapevolmente - il desiderio di un bene: è una «esigenza di rapporti esatti, giusti fra persone e gruppi, l’esigenza naturale umana che la convivenza aiuti l’affermazione della persona, che i rapporti “sociali” non ostacolino la personalità nella sua crescita» (L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza).

È questo desiderio, come bandiera della libertà umana, che fonda lo spirito di un’autentica democrazia: l’affermazione e il rispetto dell’uomo nella totalità delle sue esigenze di verità, bellezza, giustizia, bontà e felicità. Tutto il gioco della vita sociale dovrebbe avere come scopo supremo quello di mantenere vivo e alimentare il desiderio da cui scaturiscono valori e iniziative che mettono insieme gli uomini.

Nel 1992, in un momento nel quale il nostro Paese era investito da un terremoto politico-giudiziario, don Giussani non rimase a guardare la vita dal balcone, ma offrì il suo contributo invitando a scommettere proprio sul desiderio: «Chissà se questo desiderio di rendere meno difficile la vita dei propri figli, o di un dato gruppo di persone, sfondi a un certo punto l’orizzonte. Cioè, se chi ha questo desiderio capisca che, per poterlo realizzare, ha bisogno di un ideale, di una speranza. Io penso che si possa sperare questo» (Corriere della Sera, 18 ottobre 1992).

Come cristiani apparteniamo a una realtà che alimenta questa speranza e che ci lancia in un interesse per tutta la realtà, a cominciare dai rapporti più intimi e familiari fino alle vicende del mondo. Come ha detto papa Francesco a Firenze: «Dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile. I credenti sono cittadini».

Chi si candida alle prossime elezioni amministrative può farlo per ritagliarsi la sua piccola fetta di potere, alimentando così la stanchezza della libertà e della responsabilità della gente; oppure può mostrare che si può cercare il bene comune – con umiltà e senza tornaconto personale - attraverso il dialogo e l’incontro. Ogni candidato può testimoniare che la politica è un bene, operando con realismo e prudenza, senza fare promesse che non può mantenere.

Occuparsi del bene di tutti in una amministrazione locale è esso stesso un bene, perché significa contribuire a fare delle nostre città una casa abitabile per tutti e per ciascuno.


Comunione e Liberazione, maggio 2016

«TI HO AMATO DI UN AMORE ETERNO, HO AVUTO PIETÀ DEL TUO NIENTE» (Ger 31,3)

Rembrandt, ''Ritorno del figliol prodigo'',<br> 1668-1669, San Pietroburgo.

Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione 
Rimini, 29 aprile 2016
 Appunti dall’Introduzione di Julián Carrón 

Non c’è atto vero della nostra vita cosciente, se non parte dalla coscienza di essere peccatori. «Siamo qui perché riconosciamo innanzitutto questa verità: che siamo peccatori. Se vi sentite onesti non è questo il luogo dove dovevate venire: sarebbe tutto inutile», ci diceva don Giussani, perché «la coscienza dell’essere peccatori è la prima verità dell’uomo che agisce nella vita e nella storia».1 Peccatori, cioè bisognosi. È da questo bisogno che scatta il grido, la domanda, come abbiamo appena ascoltato nel Requiem di Mozart: «Salva me, fons pietatis».2 Come diceva il pubblicano, dal fondo del tempio: «Dio, abbi pietà di me peccatore».3
Domandiamo allo Spirito di donarci la coscienza di questo bisogno della Sua misericordia.

Discendi Santo Spirito 

Iniziamo questi nostri giorni con la lettura del messaggio che ci ha inviato papa Francesco: «In occasione dell’annuale corso di Esercizi spirituali per gli aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione che si svolge a Rimini, dal titolo: “Ti ho amato di un amore eterno, ho avuto pietà del tuo niente” (Ger 31,3), Sua Santità papa Francesco, nel rivolgere il suo cordiale e beneaugurante pensiero, ricorda che il Giubileo della Misericordia è occasione propizia per riscoprire la bellezza della fede che pone al suo centro l’amore misericordioso del Padre reso visibile nel volto di Cristo e sostenuto dallo Spirito che guida i passi dei credenti nelle vicende della storia. La misericordia è la via che unisce Dio e l’uomo, aprendo il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato. Il Santo Padre auspica che quanti seguono il carisma del compianto mons.
______________
  1 “Questa cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda”, Esercizi Spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione, Appunti dalle meditazioni [di Luigi Giussani], Rimini 1993, suppl. a Litterae communionis-CL, n. 6, 1993, p. 5. 
2 W.A. Mozart, Requiem in re minore, KV 626, III. Sequentia, No. 3 Rex Tremendae, CD “Spirto Gentil” n. 5. 
3 Lc 18,13.
 Luigi Giussani rendano testimonianza alla misericordia professandola e incarnandola nella vita attraverso le opere di misericordia corporali e spirituali e siano segno della vicinanza e della tenerezza di Dio, affinché anche l’odierna società riscopra l’urgenza della solidarietà, dell’amore e del perdono. Egli invoca la celeste protezione della Vergine Maria e, mentre chiede di pregare a sostegno del suo ministero petrino, imparte di cuore a lei e a tutti i partecipanti l’implorata benedizione apostolica, estendendola a quanti sono collegati via satellite e all’intera Fraternità. Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità». «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare». Stando con lui, «nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore».4 «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”».5 I racconti delle apparizioni di Cristo risorto registrano costantemente lo stupore dei discepoli al vederLo vivo davanti a loro. È la Sua presenza viva che domina, determinando il loro essere e agire. È commovente vedere come Gesù si pieghi sul loro bisogno, sullo smarrimento che ha lasciato in loro la Sua passione e morte: Egli risponde alla paura, al pianto, alla solitudine, ai dubbi, alla nostalgia dei discepoli con la Sua presenza. Da dove nasce questa loro urgenza? Dopo tutto quello che hanno visto e vissuto per anni, perché è così stringente il loro bisogno? Perché tutta la storia vissuta con Gesù, i tre anni passati con Lui, i fatti visti, le parole ascoltate non sono sufficienti a rispondere al loro bisogno presente. Il ricordo di un passato, per quanto affascinante, non basta per affrontare l’ora presente. E infatti i discepoli di Emmaus si dicevano l’un l’altro: «Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute».6 Tutti i segni visti, la loro frequentazione e l’avere mangiato e bevuto con Lui, non riuscivano a vincere lo sconcerto, la paura e la solitudine. Lo documenterà per sempre il pianto di Maria Maddalena. Solo la Sua presenza viva costituisce una risposta all’altezza del loro bisogno. E così si rivela ai discepoli, attraverso la loro esperienza, la natura propria del cristianesimo. Il cristianesimo non è una dottrina,
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4 Gv 21,7.12. 
5 Lc 24,30-32. 
6 Lc 24,21
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 un’etica, un sentimento, ma il fatto di una Presenza presente, che domina lo sguardo di chi la intercetta, una Presenza la cui unica preoccupazione è quella di mostrarsi, di invadere la vita dei Suoi amici, fino al punto di fare sperimentare loro una vita senza paura, senza tristezza, malgrado Lui non sia con loro come lo era prima di morire. Quella Presenza viva è ciò che essi hanno in comune. Quella Presenza costituisce l’unico vero fondamento della loro comunione. E proprio questa esperienza li fa essere più consapevoli della loro diversità. 1. Lo stile di Dio Questo modo di agire di Dio, questo rivelarsi a loro dopo la risurrezione, che li faceva essere così diversi da tutti gli altri uomini, rende ancora più pressante la domanda fatta da Giuda Taddeo durante l’Ultima cena: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?».7 Riprendendo questa domanda nel suo libro su Gesù, Benedetto XVI aggiunge: «Perché non ti sei opposto con potenza ai tuoi nemici che ti hanno portato sulla croce? […] Perché non hai con vigore inconfutabile dimostrato loro che tu sei il Vivente, il Signore della vita e della morte? Perché ti sei mostrato solo a un piccolo gruppo di discepoli della cui testimonianza noi dobbiamo ora fidarci? La domanda riguarda, però, non soltanto la risurrezione, ma l’intero modo in cui Dio si rivela al mondo. Perché solo ad Abramo  perché non ai potenti del mondo? Perché solo a Israele e non in modo indiscutibile a tutti i popoli della terra?».8 Ed ecco la sua risposta: «È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell’umanità la sua storia. Diventa uomo ma in modo da poter essere ignorato dai contemporanei, dalle forze autorevoli della storia. Patisce e muore e, come Risorto, vuole arrivare all’umanità soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di “vedere”»9 e, quindi, di capire. A questo punto Benedetto XVI osserva: «Non è forse proprio questo lo stile divino? Non sopraffare con la potenza esteriore, ma dare libertà, donare e suscitare amore. E ciò che apparentemente è così piccolo non è forse – pensandoci bene – la cosa veramente grande? Non emana forse da Gesù un raggio di luce che cresce lungo i secoli, un raggio che non poteva provenire da nessun semplice essere umano, un raggio mediante il quale entra veramente nel mondo lo splendore della luce di Dio?
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7 Gv 14,22. 
8 J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, LEV, Città del Vaticano 2011, p. 306. 
9 Ivi.
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Avrebbe potuto, l’annuncio degli apostoli, trovar fede ed edificare una comunità universale, se non avesse operato in esso la forza della verità [la forza dall’Alto]? Se ascoltiamo i testimoni col cuore attento e ci apriamo ai segni con cui il Signore accredita sempre di nuovo loro e se stesso, allora sappiamo: Egli è veramente risorto. Egli è il Vivente. A Lui ci affidiamo e sappiamo di essere sulla strada giusta. Con Tommaso mettiamo le nostre mani nel costato trafitto di Gesù e professiamo: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28)».10 È questo ad essere sconvolgente, allora come adesso. Il punto di partenza dei discepoli era questo fatto incancellabile. La loro coscienza era definita dalla manifestazione di Cristo, dall’incontro vivo con il Vivente. Ma proprio questo fatto suscitava in loro la domanda: perché hai scelto noi? E questa domanda li spalancava alla consapevolezza del metodo di Dio: scegliere alcuni (elezione, preferenza) per arrivare a tutti, e del Suo modo di agire: uno stile sommesso. Lo stile divino è non intervenire con la potenza della forza, ma suscitare la libertà senza forzare in alcun modo. Ce lo ricorda in modo stupefacente Péguy: «A questa libertà […] ho sacrificato tutto, dice Dio, / Al gusto che ho di essere amato da uomini liberi, / Liberamente».11 Questo metodo di Dio – la consapevolezza di questo metodo – è particolarmente importante in questo momento, perché «oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca»,12 come dice papa Francesco; negli ultimi anni siamo tornati spesso su questo tema del cambiamento. La nuova situazione, caratterizzata dal crollo di tante antiche sicurezze, provoca anche in noi, come nei discepoli, lo sconcerto, la paura, i dubbi su come stare davanti ad essa. In una recente strepitosa intervista, Benedetto XVI ha messo in evidenza la chiave − la dimensione cruciale − di questo cambiamento d’epoca: «Per l’uomo di oggi, rispetto al tempo di Lutero e alla prospettiva classica della fede cristiana [dominata dalla preoccupazione per la salvezza eterna], le cose si sono in un certo senso capovolte […]. Non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì egli è del parere che sia Dio che debba giustificarsi [davanti all’uomo] a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano, tutte cose che in ultima analisi dipenderebbero da lui».13 Siamo davanti a un vero e proprio ribaltamento dell’onere della prova. Ora è Dio che deve in qualche modo giustificarsi, non più l’uomo: questa è la situazione in cui siamo, questa è la «tendenza di fondo del nostro tempo».14 In un certo senso, è Dio che deve giustificarsi davanti all’uomo e non
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10 Ibidem, pp. 306-307. 
11 Ch. Péguy, «II mistero dei santi innocenti», in I Misteri, Jaca Book, Milano 1997, p. 343. 
12 Francesco, Discorso all’incontro con i rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015. 
13 Intervista a S.S. il papa Emerito Benedetto XVI sulla questione della giustificazione per la fede, in Per mezzo della fede, a cura di Daniele Libanori, San Paolo, Cinisello Balsamo-Mi 2016, p. 127. Vedi anche: L’Osservatore Romano e Avvenire, 16 marzo 2016. 
14 Intervista a S.S. il papa Emerito Benedetto XVI sulla questione della giustificazione per la fede, in Per mezzo della fede, op. cit., p. 128. 
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 viceversa; è Dio, paradossalmente, che – detto in termini positivi – deve mostrare di essere all’altezza dell’uomo, della sua richiesta, del suo grido. «Le cose si sono in un certo senso capovolte», si è ribaltato l’onere della prova: questo onere è ora a carico di Dio. È Lui che deve dimostrare di essere per l’uomo, di essergli indispensabile per vivere. È stupefacente come don Giussani avesse colto in anticipo i segni e la portata di questo cambiamento epocale e avesse fatto di questo capovolgimento la pietra basilare del suo metodo. È come se Dio, Dio fatto uomo, e la Sua presenza storica, la Chiesa, dovessero giustificarsi davanti agli uomini o – con parole che ci sono più familiari – è come se Dio, la Chiesa, «dovesse apparire al tribunale dove tu sei giudice attraverso la tua esperienza».15 Proprio questo ha caratterizzato l’inizio del nostro movimento. Diversamente da molti altri, già negli anni Cinquanta don Giussani si accorse che il cristianesimo, pur essendo il retroterra tradizionale di tutti, non faceva più presa sui giovani con i quali aveva a che fare a Milano e nella scuola. Era palese per lui che Dio fatto uomo, Cristo, doveva di nuovo “giustificarsi” davanti a quei giovani uomini che di Dio non ne volevano sapere, che ritenevano anzi di doversene finalmente liberare. Il cristianesimo doveva perciò essere riproposto secondo la sua natura: un avvenimento che investe la vita ora e la cambia. Senza voler imporre nulla dall’esterno, fin dal primo giorno di scuola don Giussani si sottopone al tribunale dei suoi studenti, affida la sua proposta al loro giudizio: «Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò».16 Gli elementi caratteristici di questo metodo si riassumono nell’annuncio del cristianesimo come avvenimento che si propone alla verifica della nostra esperienza. Perciò fin dall’inizio, come documenta il primo capitolo de Il senso religioso, don Giussani rende consapevoli i suoi giovani interlocutori che hanno in se stessi il criterio per giudicare la proposta che farà loro: il cuore. E nel terzo volume del PerCorso (Perché la Chiesa) ribadisce che la proposta di Cristo, che arriva oggi agli uomini attraverso la Chiesa, «si vuole misurare» proprio con quel criterio di giudizio, «mettendo se stessa alla mercé dell’autentica esperienza umana. Essa abbandona il suo messaggio all’attuazione dei criteri originali del nostro cuore. Non chiede clausole da adempiere meccanicamente, si affida al giudizio della nostra esperienza, anzi, continuamente la sollecita a percorrere il suo cammino in completezza. [...] La Chiesa ripete con Gesù che può essere riconosciuta credibile in nome di una corrispondenza alle esigenze elementari dell’uomo nella loro più autentica fioritura. È quanto Gesù intendeva con l’espressione, già citata, con cui promette ai suoi discepoli “il                                                       
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15 L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), Bur, Milano 2010, p. 300. 
16 L. Giussani, Il rischio educativo, Bur, Milano 2016, p. 20. 
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 centuplo” su questa terra». Continua don Giussani: «È come se, dunque, anche la Chiesa dicesse all’uomo: “Con me otterrai una esperienza di pienezza di vita che non troveresti altrove”. È sul filo del rasoio di questa promessa che la Chiesa mette alla prova se stessa proponendosi come prolungamento di Cristo».17 Qual è, dunque, la giustificazione di Dio al cospetto dell’uomo, al nostro cospetto? La giustificazione di Dio si chiama «corrispondenza», un’altrimenti impossibile corrispondenza alle esigenze profonde e inestirpabili del cuore dell’uomo, di ogni uomo, dell’uomo reale, quelle esigenze per cui egli è perseguitato, nonostante se stesso, da una inquietudine insanabile dopo qualunque raggiungimento. Dio si giustifica davanti all’uomo per quel “meglio”, per quella fioritura, che Egli genera nella vita, per quella pienezza di umanità che introduce nell’esistenza e che non è ottenibile dall’uomo con le sue sole forze. La Chiesa, insomma, non bara, insiste don Giussani, perché «tutto ciò che dice e fa è totalmente a disposizione della verifica di chiunque. La sua formula è: prova tu, prova tu! Abbandona la sua proposta totalmente al contenuto della tua esperienza: sei tu che giudichi». E aggiunge: «Più aperta di così, se mòre! […] La Chiesa non bara nel senso che non impone niente che tu, se non sei persuaso, sia lo stesso costretto a rilevare».18 2. «Segno dei tempi» Come si può giustificare, allora, la Chiesa davanti a noi e davanti agli uomini? Occorre identificare bene la questione, come don Giussani ci ha ripetuto spesso citando Niebuhr: «Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone».19 Occorre cogliere quale sia il problema di oggi, perché la risposta sia percepibile da ciascuno di noi come credibile. Qual è la domanda di oggi, dell’uomo d’oggi? Papa Benedetto XVI nella intervista citata la identifica in questo modo: «La percezione che noi abbiamo bisogno della grazia e del perdono».20 Di conseguenza, la Chiesa potrà giustificarsi davanti all’uomo di oggi se risponde a questo suo bisogno di grazia e di perdono. Questa è la ragione che porta Benedetto XVI ad affermare: «Per me è un “segno dei tempi” il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante». Già «papa Giovanni Paolo II era profondamente impregnato da tale impulso. […] A partire dalle esperienze nelle quali fin  
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17 L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2014, pp. 267-268. 
18 L. Giussani, Una presenza che cambia, Bur, Milano 2004, p. 294. 
19 R. Niebuhr, Il destino e la storia, Bur, Milano 1999, p. 66. 
20 Intervista a S.S. il papa Emerito Benedetto XVI sulla questione della giustificazione per la fede, in Per mezzo della fede, op. cit., p. 128. 
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dai primi anni di vita egli ebbe a constatare tutta la crudeltà degli uomini, egli afferma che la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza».21 Giovanni Paolo II non ha fatto altro che proporre la misericordia come unica vera risposta al male e alla violenza. «Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio [è la misericordia che ci attira], mentre la giustizia ci spaventa […]. A mio parere», continua questo osservatore acuto che è Benedetto XVI, «ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia. Non è di certo un caso che la parabola del buon samaritano sia particolarmente attraente per i contemporanei. E non solo perché in essa è fortemente sottolineata la componente sociale dell’esistenza cristiana», ma anche perché, osserva Benedetto, essa dice come «gli uomini nel loro intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che egli si curvi su di essi, versi olio sulle loro ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza. Nella durezza del mondo tecnicizzato nel quale i sentimenti non contano più niente, aumenta però l’attesa di un amore salvifico che venga donato gratuitamente. Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede. A partire dalla misericordia di Dio, che tutti cercano, è possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza».22 Questa descrizione di Benedetto XVI è stata pienamente accolta dal suo successore. Cogliendo profondamente questo bisogno che tutti abbiamo della misericordia di Dio, la genialità di papa Francesco è stata quella di avere indetto un Anno Santo della Misericordia. C’è nel Papa (così come in Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, lo abbiamo appena visto) una profonda sensibilità per l’uomo contemporaneo, una intelligenza della sua condizione, uno struggimento per le sue inquietudini e le sue ferite, che spesso sorprende e spiazza, fuori e dentro la Chiesa, perché rompe le misure solite, gli schemi consolidati, da una parte e dall’altra. Alla domanda dell’intervistatore: «Perché secondo lei questo nostro tempo e questa nostra umanità hanno così bisogno di misericordia?», papa Francesco risponde: «Perché è un’umanità ferita, un’umanità che porta ferite profonde. Non sa come curarle o crede che non sia proprio possibile curarle». Questo è dunque il dramma che oggi si aggiunge: «Considerare il nostro male, il nostro peccato, come incurabile, come qualcosa che non può essere guarito e perdonato. Manca l’esperienza
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21 Ibidem, pp. 128-129. 
22 Ibidem, p. 129. 
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concreta della misericordia. La fragilità dei tempi in cui viviamo è anche questa: credere che non esista possibilità di riscatto, una mano che ti rialza, un abbraccio che ti salva, ti perdona, ti risolleva, ti inonda di un amore infinito, paziente, indulgente; ti rimette in carreggiata».23 Si vede nel Papa una intelligenza del problema e della strada: di quali sono le ferite e di che cosa può curarle, di come si possono curare. L’uomo contemporaneo ha bisogno della «esperienza concreta della misericordia». Anche di fronte allo smarrimento del pensiero, che pure ferisce tante persone, il Papa sa che non si può recuperare l’ontologia – cioè la verità dell’essere umano, la consapevolezza chiara di essa – semplicemente con un discorso corretto sull’uomo o con una ripetizione del contenuto della dottrina morale, ma solo attraverso l’esperienza della misericordia, che può spalancare a capire anche la dottrina. Perciò, per rispondere alle ferite profonde dell’uomo contemporaneo il Papa non ha organizzato un congresso sulla misericordia, non si è limitato a proporre una riflessione sul tema, ma ha promosso un gesto che permettesse anzitutto a noi di fare l’esperienza della misericordia durante un intero anno, accompagnandoci a viverlo con il suo continuo richiamo. Per intervenire realmente nel travaglio umano, per rispondere all’uomo concreto, con il suo carico di fragilità, la Chiesa – perciò ognuno di noi – ha infatti anzitutto bisogno di sperimentare l’abbraccio della misericordia di Dio, così da poterlo comunicare a tutti i fratelli uomini che si incontrano lungo il cammino. È questo lo scopo del Giubileo della Misericordia, in continuità con il metodo «sommesso» di Dio: arrivare a tutti attraverso i Suoi, cioè attraverso la Chiesa, la compagnia di coloro che Egli sceglie e che Lo riconoscono. Proponendo il Giubileo alla Chiesa, il Santo Padre mostra di non soccombere all’errore di dare per scontato il soggetto che deve testimoniare la misericordia e il “luogo” in cui esso si genera.24 Questa consapevolezza dello scopo e del metodo si vede all’opera nel fatto stesso di porre la domanda: «Perché un Giubileo della Misericordia? Cosa significa questo?», e nel modo di rispondere: «La Chiesa» – cioè ciascuno di noi – «ha bisogno di questo momento straordinario. Non dico: è buono per la Chiesa questo momento straordinario. Dico: la Chiesa ha bisogno di questo momento straordinario. […] Nella nostra epoca di profondi cambiamenti, la Chiesa è chiamata ad    _________________________                                                  
23 Francesco, Il nome di Dio è Misericordia. Una conversazione con Andrea Tornielli, LEV-Piemme, Città del VaticanoMilano 2016, pp. 30-31. 
24 «La fede, infatti, ha bisogno di un ambito in cui si possa testimoniare e comunicare, e che questo sia corrispondente e proporzionato a ciò che si comunica. Per trasmettere un contenuto meramente dottrinale, un’idea, forse basterebbe un libro, o la ripetizione di un messaggio orale. Ma ciò che si comunica nella Chiesa, ciò che si trasmette nella sua Tradizione vivente, è la luce nuova che nasce dall’incontro con il Dio vivo, una luce che tocca la persona nel suo centro, nel cuore, coinvolgendo la sua mente, il suo volere e la sua affettività» (Francesco, Lettera enciclica Lumen fidei, 40).
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offrire il suo contributo peculiare, rendendo visibili i segni della presenza e della vicinanza di Dio. E il Giubileo è un tempo favorevole per tutti noi, perché contemplando la Divina Misericordia, che supera ogni limite umano […], possiamo diventare testimoni più convinti ed efficaci».25 Lo scopo è testimoniare. Il metodo è la contemplazione, vale a dire l’immergersi nella esperienza della misericordia, perché il primo ad essere bisognoso è il popolo cristiano, cioè noi, ciascuno di noi. Che cosa significa, in ultima istanza, tutto questo per noi? «Volgere lo sguardo a Dio, Padre misericordioso, e ai fratelli bisognosi di misericordia, significa puntare l’attenzione sul contenuto essenziale del Vangelo: Gesù, la Misericordia fatta carne, che rende visibile ai nostri occhi il grande mistero dell’Amore trinitario di Dio». Perciò «celebrare un Giubileo della Misericordia equivale a mettere di nuovo al centro della nostra vita personale e delle nostre comunità lo specifico della fede cristiana, cioè Gesù Cristo, il Dio misericordioso».
26 Sì, insiste il Papa nella Bolla di indizione del Giubileo, «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth».
27 L’Anno Santo, allora, è «per vivere la misericordia. Sì, cari fratelli e sorelle, questo Anno Santo ci è offerto per sperimentare nella nostra vita il tocco dolce e soave del perdono di Dio, la sua presenza accanto a noi e la sua vicinanza soprattutto nei momenti di maggiore bisogno».28 È Gesù risorto che si piega sulle nostre ferite oggi. «Questo Giubileo, insomma, è un momento privilegiato perché la Chiesa impari a scegliere “ciò che a Dio piace di più”. E, che cosa è che “a Dio piace di più”?» si domanda papa Francesco. «Perdonare i suoi figli, aver misericordia di loro, affinché anch’essi possano a loro volta perdonare i fratelli, risplendendo come fiaccole della misericordia di Dio nel mondo. […] Il Giubileo sarà un “tempo favorevole” per la Chiesa se impareremo a scegliere “ciò che a Dio piace di più”, senza cedere alla tentazione di pensare che ci sia qualcos’altro che è più importante o prioritario. Niente è più importante di scegliere “ciò che a Dio piace di più”, cioè la sua misericordia, il suo amore, la sua tenerezza, il suo abbraccio, le sue carezze!».29 E anticipando una possibile obiezione, come leggendoci nel pensiero, papa Francesco aggiunge: «Certo, qualcuno potrebbe obiettare: “Ma, Padre, la Chiesa, in questo Anno, non dovrebbe fare
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25 Francesco, Udienza generale, 9 dicembre 2015.
26 Ivi. 
27 Francesco, Misericordiae Vultus. Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia, 11 aprile 2015, 1. 
28 Francesco, Udienza generale, 9 dicembre 2015. 
29 «Anche la necessaria opera di rinnovamento delle istituzioni e delle strutture della Chiesa è un mezzo che deve condurci a fare l’esperienza viva e vivificante della misericordia di Dio che, sola, può garantire alla Chiesa di essere quella città posta sopra un monte che non può rimanere nascosta (cfr Mt 5,14). Risplende soltanto una Chiesa misericordiosa! Se dovessimo, anche solo per un momento, dimenticare che la misericordia è “quello che a Dio piace di più”, ogni nostro sforzo sarebbe vano, perché diventeremmo schiavi delle nostre istituzioni e delle nostre strutture, per quanto rinnovate possano essere. Ma saremmo sempre schiavi» (Francesco, Udienza generale, 9 dicembre 2015).
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 qualcosa di più? È giusto contemplare la misericordia di Dio, ma ci sono molti bisogni urgenti!”. È vero, c’è molto da fare, e io per primo non mi stanco di ricordarlo. Però bisogna tenere conto che, alla radice dell’oblio della misericordia, c’è sempre l’amor proprio. Nel mondo, questo prende la forma della ricerca esclusiva dei propri interessi, di piaceri e onori uniti al voler accumulare ricchezze, mentre nella vita dei cristiani si traveste spesso di ipocrisia e di mondanità. Tutte queste cose sono contrarie alla misericordia. I moti dell’amor proprio, che rendono straniera la misericordia nel mondo, sono talmente tanti e numerosi che spesso non siamo più neppure in grado di riconoscerli come limiti e come peccato. Ecco perché è necessario riconoscere di essere peccatori, per rafforzare in noi la certezza della misericordia divina. “Signore, io sono un peccatore; Signore, io sono una peccatrice: vieni con la tua misericordia”. Questa è una preghiera bellissima. È una preghiera facile da dire tutti i giorni: “Signore, io sono un peccatore; Signore, io sono una peccatrice: vieni con la tua misericordia”».30 3. «Ti ho aspettato giorno e notte» Ciascuno di noi ha ora la possibilità di paragonarsi con questa parola autorevole di papa Francesco, che coincide con quella di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, come ha affermato quest’ultimo. La «radice dell’oblio della misericordia» è il prevalere di altri interessi. I profeti ci spostano sempre dalla posizione in cui siamo. Ma proprio l’essere disponibili allo spostamento è la nostra speranza. Rileggendo questi testi, non ho potuto evitare di pensare a come, in una situazione particolarmente sfidante  quale fu l’inizio del Sessantotto, appena dopo l’occupazione dell’Università Cattolica (alla quale parteciparono molti aderenti a GS) , don Giussani identificasse l’essenza della questione nel fatto che noi non attendevamo il Signore «giorno e notte»; avevamo altri interessi e cose più importanti da fare che non «attenderLo giorno e notte». In riferimento a quella situazione, don Giussani affermava senza tentennamenti: «L’intelligenza della situazione e delle cose da fare […] ci è mancata […] perché non Lo attendiamo giorno e notte». Perché? Che cosa vuol dire che non Lo attendevamo? Significa che attendevamo altro, che si era atteso qualcosa d’altro di più di questo, cioè che il nostro centro non era Cristo. «Così – a mio avviso – se Lo avessimo atteso giorno e notte, anche l’atteggiamento dei nostri nella loro convivenza all’Università Cattolica sarebbe stato diverso; è stato così generoso, ma quanto vero?». Per don Giussani, infatti, «la verità del gesto non nasce dalla scaltrezza politica», ma «dall’attenderLo giorno e notte; altrimenti il nostro discorso si confonde con quello degli altri, e diventa strumento del discorso degli altri. Possiamo far le nostre cose e assumere
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30 Francesco, Udienza generale, 9 dicembre 2015.
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come paradigma, senza che ce ne accorgiamo, quello di tutti, il paradigma offerto da tutti gli altri. È dall’attenderLo giorno e notte che si distingue il nostro discorso, [che si distinguono] le nostre azioni».31 Non è questione di coerenza o di avere già tutto chiaro. Perché si può «attenderLo giorno e notte» anche nella approssimazione di tutti i tentativi che si fanno, anche scontando la propria pochezza. È una questione di desiderio, di attesa. Qualcosa, infatti, è sempre atteso, desiderato, affermato come «ultimo» in ogni momento, «per ciò stesso che uno vive cinque minuti»:32 se non è Cristo, l’atteso, il desiderato, è per forza qualcosa d’altro. Ma ciò significa che è da questo qualcosa d’altro, non da Cristo e dall’incontro vivo con Lui, dalla comunione con Lui, dalla edificazione della Sua presenza nel mondo, che ci aspettiamo un cambiamento delle cose, della situazione – personale o sociale –. Il problema non è l’immaturità dei tentativi che facciamo, ma se il desiderio e l’attesa della Sua presenza sono il punto sorgivo della nostra mossa. «Magari [diceva ancora don Giussani, in quella stessa occasione, nel novembre 1967] non ce lo si dice esplicitamente, ma si desidera qualcosa d’altro più di questo. Non è un principio questo − badate −, non si può affermare soltanto come un principio una volta, dev’essere un principio recuperato tutti i giorni. Dev’essere un habitus mentale, dev’essere una mentalità. Deve sottendere tutto, il giusto e l’ingiusto, il merito e l’errore, il giorno e la notte: “Ti ho aspettato giorno e notte”. In questo senso pensate, per favore, come l’origine, in fondo, di tutto – sia l’origine di una possibile defezione o il venir meno di questa attesa, o il fatto che questo desiderio non crei un habitus mentale, una mentalità –, come tutto dipenda dal fatto che ci si turi le orecchie di fronte alla profezia che ci è fatta. Perché Iddio manda il profeta per richiamarci. La vocazione è sempre attraverso la profezia, attraverso la voce di un profeta, sempre. Capite come alla radice sta – e così si concretizza, senza essere banalizzato il desiderio, il “Vieni” di cui parlavamo prima – un non ascoltare la nostra comunione? Perché il gruppo è la profezia, è il punto di richiamo, è il luogo di richiamo. È qui la radice amara, marcia. E stranamente è proprio una posizione così equivoca che possiamo tenere anche a riguardo di questo; perché valorizzare il gruppo non è valorizzarlo sentimentalmente, non è valorizzarlo come gomito a gomito, come calore vicino a calore, ma come discorso»,33 cioè come giudizio. Don Giussani non ha fatto altro che richiamarci costantemente a questo attenderLo giorno e notte, che è essenziale per vivere. Quante volte, davanti al continuo venir meno di ciascuno di noi, al tradimento, ci ha richiamato, senza scandalo: «Per capire cos’è il tradimento, ragazzi, dobbiamo                                                       
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31 ARCHIVIO STORICO DELL’ASSOCIAZIONE ECCLESIALE MEMORES DOMINI (ASAEMD), Documentazione audiovisiva, Ritiro di Avvento del Gruppo adulto, Milano, 19 novembre 1967; vedi anche A. Savorana, Vita di don Giussani, Bur, Milano 2014, p. 391ss. 
32 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 76. 
33 ASAEMD, Documentazione audiovisiva, Ritiro di Avvento del Gruppo adulto, Milano, 19 novembre 1967.
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 pensare alla nostra distrazione, perché è un tradimento passare le giornate, le settimane, i mesi... guardate ieri sera, quando l’abbiamo pensato? Quando l’abbiamo pensato seriamente, con cuore, nell’ultimo mese, negli ultimi tre mesi, dall’ottobre fino ad adesso? Mai. Non lo abbiamo pensato come Giovanni e Andrea lo pensavano mentre lo guardavano parlare. Se ci siamo fatti delle domande su di Lui, è stata curiosità, analisi, esigenza di analisi, di ricerca, di chiarificazione, di chiarimento. Ma che l’abbiamo a pensare come uno, veramente innamorato, pensa alla persona di cui è innamorato (anche lì capita rarissimamente perché tutto è calcolato in base al ritorno!), puramente, in modo assolutamente, totalmente distaccato, come puro desiderio del bene».34 Come è raro che Lo abbiamo a pensare come una Presenza presente, amata! Basterebbe fare il paragone con i discepoli nei giorni successivi alla Pasqua, dopo che Lo avevano visto risorto: che cosa dominava il loro pensiero, che cosa prevaleva nel loro sguardo? Erano tutti presi da una Presenza che toglieva loro la paura e la tristezza. Mi ha scritto una persona: «Ho letto per caso questa lettera semplice di Emily Dickinson ad un’amica. Mi ha colpito, perché l’ho sentita descrivere molto succintamente la nostalgia di Cristo: “Morning without you is a dwindled Dawn” [Il mattino senza di te è un’Alba sminuita]. Dentro tutta la confusione, solo l’affetto per Lui cambia la vita e senza di Lui la vita ha meno gusto − a dwindled Dawn».35 Nel 1982, ai partecipanti ai primi Esercizi della Fraternità, guardando le facce di tanti presenti, pensando alla freschezza dell’incontro che li aveva conquistati e portati fin lì, diceva: «Chissà se ci commuoviamo ancora, come ci siamo commossi a Varigotti», cioè all’inizio di GS. E proseguiva: «Siete diventati grandi: mentre vi siete assicurati una capacità umana nella vostra professione, c’è come, possibile, una lontananza da Cristo (rispetto alla emozione di tanti anni fa, di certe circostanze di tanti anni fa, soprattutto). […] È come se Cristo fosse lontano dal cuore».36 E noi? Avvertiamo l’urgenza di essere perdonati, riabbracciati, per tutte le nostre cadute, per la nostra distrazione, per la connivente dimenticanza che invade le nostre giornate, per il nostro tradimento, la nostra miseria? Che cosa domina nella nostra vita – nel nostro pensiero e nel nostro sguardo − in questo periodo di confusione, di smarrimento? Sentiamo il bisogno della Sua misericordia? San Bernardo lo esprime bene con questa frase: «L’uomo incomincia la sua verità nel riconoscimento della sua miseria».37                                                       
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34 L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 329. 
35 Cfr. «April 1885, (L 981)», in The Letters of Emily Dickinson, Edited by Thomas H. Johnson, Associated Editor: Theodora Ward, Cambridge MA, The Belknap Press of Harvard University Press, 1958. 
36 L. Giussani, «La familiarità con Cristo», Tracce-Litterae Communionis, n. 2, febbraio 2007, p. 2. 
37 «Primus veritatis gradus est, primum seipsum attendere, seu propriam miseriam agnoscere» (San Bernardo di Chiaravalle, De gradibus humilitatis et superbiae, PL 182, col. 948).
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 Ma il riconoscimento della nostra miseria non basta; segna l’inizio della verità di noi, ma non basta. In tante occasioni, infatti, ci rendiamo conto di quanto sia insufficiente. Occorre qualcuno che susciti in noi il bisogno di essere perdonati. È a questo che ci chiama l’Anno della Misericordia, come occasione per renderci consapevoli di quanto abbiamo bisogno che Lui si pieghi sulla nostra distrazione, sulle nostre ferite, per attrarci di nuovo, come i discepoli dopo lo sconcerto della Sua passione e morte. È come se avessimo bisogno di ciò che diceva Dostoevskij: «Volete invece punirlo in modo terribile, spaventoso, col castigo più tremendo che si possa immaginare, ma a patto di salvare e di far rinascere la sua anima per sempre? Se è così, schiacciatelo con la vostra misericordia! Vedrete, sentirete come si scuoterà e si spaventerà la sua anima: è per me il peso di tanta bontà, è per me tanto amore, ne sono io degno?».38 È quello che Dio fa con noi: «schiacciarci» per un anno con la Sua misericordia, perché possiamo arrivare alla fine dell’anno più certi di questa misericordia e così poterLo testimoniare. Dobbiamo crescere nella «convinzione della misericordia». Per questo ci conviene ascoltare la voce del Papa, il profeta che Dio ci ha dato per guidare il Suo popolo in questo tempo di sconvolgimenti epocali: «Questo Anno Straordinario è anch’esso dono di grazia. Entrare per quella Porta significa scoprire la profondità della misericordia del Padre che tutti accoglie e ad ognuno va incontro personalmente. È Lui che ci cerca! È Lui che ci viene incontro! Sarà un Anno in cui crescere nella convinzione della misericordia. Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre invece che sono perdonati dalla sua misericordia (cfr Agostino, De praedestinatione sanctorum 12,24)! Sì, è proprio così. Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia. Attraversare la Porta Santa, dunque, ci faccia sentire partecipi di questo mistero di amore, di tenerezza. Abbandoniamo ogni forma di paura e di timore, perché non si addice a chi è amato; viviamo, piuttosto, la gioia dell’incontro con la grazia che tutto trasforma».39 Deve crescere in noi la certezza che la misericordia è l’unica vera risposta alla situazione dell’uomo di oggi, alle violenze, alle ferite, alle fatiche e alle contraddizioni che ci troviamo ad attraversare. Il Papa sottolinea così l’urgenza della misericordia: «Sentire forte in noi la gioia di essere stati ritrovati da Gesù, che come Buon Pastore è venuto a cercarci perché ci eravamo smarriti».40 E chiarisce che questo è «l’obiettivo che la Chiesa si pone in questo Anno Santo. Così rafforzeremo in noi la certezza che la misericordia può contribuire realmente all’edificazione di un mondo più umano.                                                       
38 F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Bur, Milano 1998, p. 1005. 
39 Francesco, Giubileo Straordinario della Misericordia: Omelia alla Santa Messa e Apertura della Porta Santa, 8 dicembre 2015. 
40 Francesco, Omelia nei Primi Vespri della Domenica della Divina Misericordia, 11 aprile 2015. 
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Specialmente in questi nostri tempi, in cui il perdono è un ospite raro negli ambiti della vita umana, il richiamo alla misericordia si fa più urgente, e questo in ogni luogo: nella società, nelle istituzioni, nel lavoro e anche nella famiglia».41 Solo raggiungendo questa certezza, che ci fa attraversare ogni paura, solitudine, dubbio, potremo affrontare le enormi sfide di questo cambiamento epocale con l’unica arma efficace, la testimonianza, scopo ultimo dell’Anno Santo: «È per questo che ho indetto un Giubileo Straordinario della Misericordia […], perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti»,42 come ha fatto Gesù con i discepoli. «È da ingenui credere che questo possa cambiare il mondo?»; è come se il Papa anticipasse in se stesso le nostre domande! «Sì, umanamente parlando è da folli, ma “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1,25)».43 È questa convinzione di san Paolo che ha portato papa Francesco a dire ai vescovi del Messico: «L’unica forza capace di conquistare il cuore degli uomini è la tenerezza di Dio. Ciò che incanta e attrae, ciò che piega e vince, ciò che apre e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti o la durezza della legge, bensì la debolezza onnipotente dell’amore divino, che è forza irresistibile della sua dolcezza e la promessa irreversibile della sua misericordia». Ma «se il nostro sguardo non testimonia di aver visto Gesù, allora le parole che ricordiamo di Lui risultano soltanto delle figure retoriche vuote. Forse esprimono la nostalgia di quelli che non possono dimenticare il Signore, ma comunque sono solo il balbettare di orfani accanto al sepolcro. Parole alla fine incapaci di impedire che il mondo resti abbandonato e ridotto alla propria potenza disperata».44 Lasciamo che in questi giorni il nostro cuore sia apra a questa misericordia, ascoltando, rispettando il silenzio, perché ciò che ascolteremo ci cambi e la Sua presenza possa dominare in noi, come ha dominato la vita dei discepoli dopo la risurrezione. Se siamo insieme, è per sostenerci in questo.                                                       
41 Francesco, Udienza generale, 9 dicembre 2015. 
42 Francesco, Misericordiae Vultus. Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia, 11 aprile 2015, 3. 
43 Francesco, Udienza generale, 9 dicembre 2015. 
44 Francesco, Discorso all’incontro con i Vescovi del Messico, Città del Messico, Messico, 13 febbraio 2016.