lunedì 30 novembre 2015

Sputtanamenti e prese di distanza: una piccola storia ignobile


Il Fatto Quotidiano lancia un brutale attacco a Monsignor Luigi Negri. Le reazioni: quella dell'arcivescovo, che prima rassicura i fedeli e poi si tutela; e quella di CL, che prende distanze non richieste. Era necessario?

Si potrebbe fare un pezzo giornalistico un po' tirato a casaccio. Si potrebbero usare delle parole captate tra i rumori di uno sferragliante treno in corsa. Si potrebbe titolare un po' forte, e dire che un vescovo ha augurato la morte a un papa. Così. Per vedere di nascosto l'effetto che fa.
Forse alla fine è stato solo questo che ha mosso il bollettino delle procure, alias Il Fatto Quotidiano, a sparare in prima pagina un pezzo su Mons. Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara, che avrebbe – niente meno – augurato la morte a Sua Santità. È stato un divertimento, per combattere la noia di un giornale che altrimenti sarebbe stato costretto a titolare su vicende che francamente non interessano a nessuno. C'era solo un aereo russo abbattuto ai confini della Turchia, quel giorno, e il rischio di una terza guerra mondiale. No, roba da specialisti. Meglio un vescovo pazzo.
Bisogna metterla sul ridere. Perché a essere seri non c'è nulla, assolutamente nulla che possa giustificare un pezzo giornalistico di così infimo valore come quello che mister Travaglio ha deciso di sparare in prima pagina su monsignor Negri e le sue presunte affermazioni a riguardo di Papa Francesco. La foga da origliatori che ormai è la cifra distintiva del giornalismo alla Travaglio e compagnia non ha più freni. Cercare notizie, selezionarle, capirle e approfondirle è ormai roba d'altri tempi. L'obiettivo del glorioso giornalismo d'assalto dei nostri giorni è trovare il modo di sputtanare qualcuno.
È presumibile però che lo sputtanamento questa volta non vada a buon fine. Monsignor Luigi Negri non dà l'idea di essere una femminetta spaventata da questo attacco. In un primo momento ha reagito da pastore, assicurando i suoi fedeli e rinnovando (come sempre ha fatto nelle pubbliche dichiarazioni, che sono le uniche che contano) la sua totale obbedienza al Santo Padre. Quella era la priorità. In un secondo momento, poi, con calma ha sparato le sue cartucce: «La preoccupazione di rivolgere primariamente alla mia chiesa un messaggio di chiarimento non può prescindere da una seconda, doverosa e necessaria azione nei confronti di chi ha così gravemente leso la mia dignità umana ed ecclesiastica e anche quella della chiesa». Secca la smentita, e duro il giudizio contro il giornale: l'arcivescovo parla di atteggiamento «profondamente scorretto», di frase «mai pronunciata», di «arbitraria interpretazione» delle sue parole.
Al di là di ogni considerazione, e anche al di là delle opinioni che ognuno può avere sulla persona e sul pensiero di Monsignor Luigi Negri, è del tutto evidente che non si può che stare dalla sua parte in un caso del genere. Nulla autorizzava il giornale a pubblicare quell'articolo. Certo, non è vietato a un giornalista basarsi su frasi sentite, ci mancherebbe. Ma costruire l'articolo attribuendo con certezza a una persona frasi di questa gravità, senza la verifica col diretto interessato, è fuori da ogni regola. Imbarazzante poi la giustificazione contenuta nel pezzo: avrebbero contattato l'arcivescovo alle 21 e 30 della sera (la presunta intercettazione data a un mese prima) per sentire la sua versione, ma purtroppo era impegnato. Ridicoli. Per non parlare poi delle farciture su Papa Bergoglio e sul suo dover «allontanare i mercanti dal tempio», affermazioni nemmeno degne di un commento.
C'è però un altro dato che stupisce in questa vicenda, ed è la lettera che l'ufficio stampa di Comunione e Liberazione ha ritenuto di dover mandare al giornale, prendendo le distanze dalle parole dell'arcivescovo (che però a quanto pare non sono mai state pronunciate). Anzi, sarebbe meglio dire: prendendo le distanze dalla persona dell'arcivescovo. Un gesto immotivato. L'ufficio stampa di un'organizzazione interviene se quella organizzazione viene chiamata in causa. Ciò che non era accaduto nell'articolo. Certo, si parlava di Monsignor Negri come di persona cresciuta nel movimento di CL, come tutti ben sanno. Il che però non motiva affatto l'intervento. Come dire: se domani un giornale parlasse di me come di un farabutto, e ripercorrendo la mia storia dicesse che sono tifoso del Torino, farebbe sorridere se il Torino Calcio emanasse un comunicato per tutelarsi.
La lettera dell'ufficio stampa di Comunione e Liberazione non ha dunque alcuna giustificazione in termini comunicativi. E allora ci si chiede: era proprio necessario prendere le distanze da un arcivescovo, per di più in un momento in cui riceveva un attacco con tutta evidenza scorretto e inaccettabile? Farsi da parte quando un compagno di strada viene preso di mira dal nemico per non sporcarsi col suo sangue è un gesto che francamente non fa onore, a prescindere totalmente dal giudizio che si può avere su quel tal compagno o dal livello di prossimità umana e di pensiero con lui. Gli estensori di quella lettera e Monsignor Luigi Negri sono compagni di strada a tutti gli effetti, in quanto tutti appartenenti alla comunità cristiana, alla Chiesa. Non che fosse necessario intervenire pubblicamente per difendere Negri, questo no. Ma intervenire in quel modo è stata una scorrettezza. Non lo richiedeva l'articolo di giornale; non lo consigliava la comunione ecclesiale, che sempre deve venir prima di ogni altra considerazione. Titoli come «Cl scarica Mons. Luigi Negri» non sono, in termini di accreditamento di immagine, un gran guadagno per il movimento di Comunione e Liberazione. Se quello era l'intento della lettera, l'errore allora è doppio: nelle intenzioni (sbagliate) e nell'effetto ottenuto (inutile se non dannoso). Se addirittura invece le motivazioni affondano in personali rancori o altre questioni di tal genere, allora sospendiamo pietosamente il giudizio.
Ai cristiani e agli uomini di Chiesa non viene chiesto di essere dei bravi ragazzi. Non è scritto da nessuna parte. È chiesto di mostrare, con la propria unità, la presenza di Dio tra noi. Quella lettera (che è una pubblica dichiarazione, non una parola privata captata e storpiata) è invece un testo che crea divisione. E questo è un male.
Insomma: una brutta vicenda, fatta da una parte di brutto giornalismo e dall'altra di brutta comunicazione. In mezzo, l'arcivescovo di Ferrara e abate di Pomposa, l'unico a uscire a testa alta da questa triste storia.

di ROSSANO SALINI

LA PROFONDA LEZIONE DI DON ABBONDIO

foto di Adolfo Morganti.
Un Fax mandato al volo a Comunione e Liberazione
Alla cortese attenzione
Del Movimento di Comunione e Liberazione
Milano
Fax 02/...........
29/11/2015
Spett. Movimento,
a margine di una manifestazione della Diocesi di San Marino-Montefeltro alla presenza del nostro Vescovo, S.E. Mons. Andrea Turazzi, siamo giunti a conoscenza del vostro comunicato stampa del 27 scorso in merito all’agguato giornalistico de Il Fatto quotidiano nei confronti di S.E. Rev.ma Mons. Luigi Negri.
Qualora quanto riportato a Vostro nome risponda a verità (poiché la menzogna è sempre cifra del potere liberale, a cominciare da quello massmediale), non ci resta che esprimervi direttamente il nostro sconcerto e la nostra riprovazione.
Non appare infatti possibile non accorgersi della natura artificiosa e strumentale di quanto sostenuto da un autodefinentesi “testimone auricolare” che da settimane cercava di vendere la stessa “notizia” ai quotidiani dell’Emilia-Romagna, senza giustamente esser preso in considerazione per elementari motivazioni di deontologia giornalistica. Non appare possibile da parte di un movimento vasto e longevo come il Vostro non considerare taglio giornalistico e finalità ultime de Il Fatto quotidiano. Non appare infine possibile da parte Vostra non considerare nella sua pericolosità e vuotezza ogni tentativo di introdurre nella Chiesa italiana elementi di conflitto intestino e contrapposizioni personali, soprattutto dopo gli ultimi attacchi a Papa Francesco.
In modo particolare, proprio in considerazione del ruolo che S.E. Mons. Luigi Negri ha avuto ed ha nella storia del Vostro Movimento ed all’interno di ogni edizione del Meeting di Rimini, in considerazione del suo magistero e del suo coraggio pastorale, appare paradossale il Vostro apparente “metter le mani avanti”, premettendo di non credere alla veridicità delle presunte rivelazioni de Il Fatto quotidiano, per poi prendere comunque a titolo cautelativo, incredibilmente, le distanze dalla persona, dall’insegnamento e addirittura dalla storia di Mons. Luigi Negri.
Questo in quanto la strategia aggressiva del laicismo giornalistico non risparmierà certamente chi china il capo di fronte ai suoi attacchi.
Ci parrebbe quindi più che opportuna una Vostra chiarificazione pubblica in argomento.
Con i migliori saluti,
Console prof. Adolfo Morganti
Presidente di “Identità Europea”

Ma chi siete voi? La polizia del pensiero?

In merito alla vicenda che ha coinvolto monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, basta e avanza quanto da lui dichiarato ieri sera in una nota. Noi ci permettiamo solo qualche glossa a margine.
1) A quanto è dato di capire, Negri nega di aver pronunciato le frasi dello scandalo e afferma che a tali frasi è stata data dal Fatto quotidiano un’interpretazione malevola estrapolata dal contesto nel quale sono state pronunciate. Per quel che attiene ai fatti, dunque, si tratta della parola di un arcivescovo contro la parola di un non meglio identificato «testimone oculare e auricolare» (come scritto ieri da Marco Travaglio) che avrebbe udito quelle parole durante un viaggio in treno. Ora, chi abbia ragione, avendo l’arcivescovo preannunciato querela, lo stabilirà, se necessario, un tribunale. Noi, che siamo amici ed estimatori di Negri, prima e dopo il 2005, sappiamo questo: mai abbiamo udito e letto di pronunciamenti dell’arcivescovo contro l’autorità di papa Francesco. Anzi, al contrario, come dimostra la sua storia, i suoi innumerevoli convegni e libri, possiamo, da «testimoni oculari e auricolari», dire il contrario e cioè che Negri ha sempre seguito Santa Romana Chiesa e obbedito al Sommo Pontefice.
2) L’articolo del Fatto è stato pubblicato mercoledì 25 novembre, ma fa riferimento a quanto accaduto su un Frecciarossa il 28 ottobre. Occhio alle date: 28 ottobre – 25 novembre, è quasi un mese. Perché la notizia è uscita dopo un mese? Al nostro “testimone” è servito un mese per ricordare con esattezza le presunte parole dell’arcivescovo? O dobbiamo pensare ad altro?
3) Nell’articolo del 25 novembre, l’autore, Loris Mazzetti, scrive quanto segue: «È comunque difficile pensare che monsignor Negri parlasse a titolo personale e non rivelasse uno stato d’animo condiviso dalla casta vaticana». Scusi Mazzetti, ma lei legge nel pensiero? Cioè, in base a quali fatti – fatti, non tue interpretazioni – pensa di poter dire che Negri non parlasse «a titolo personale»? Forse che Negri, in quel colloquio carpito di nascosto da chissà chi, ha premesso di parlare «a nome della casta vaticana?». Suvvia, siamo seri.
4) La conclusione del medesimo articolo suona così: «Bergoglio, se vuole, come ha promesso, di portare a compimento i propositi di Giovanni XXIII – “Chiesa popolo di Dio” – prima di tutto deve allontanare i mercanti dal tempio». Quindi, fateci capire: un giornale che si suppone laico come Il Fatto sta chiedendo al rappresentate ultimo di una confessione religiosa di far dimettere un suo vescovo in nome di una conversazione riportata de relato (eufemismo per evitare querele)? Qui non ci sono atti di Negri contro papa Francesco, ma solo interpretazioni di un giornalista. Di cosa stiamo parlando? Di peccati? Di psicoreati? Chi siete voi per giudicare? La polizia del pensiero?


COMUNICATO 25 NOVEMBRE 2015

25/11/2015

Carissimi Figli della Chiesa di Ferrara-Comacchio,
per me, fin dagli anni della prima giovinezza, vivere il legame con il Santo Padre è stato un riferimento ineludibile e fonte di vita nuova. Senza il costante riferimento al Papa non esiste per nessuno, Vescovi compresi, la possibilità di essere veramente cristiani nel mondo.
Lo dimostra il mio pensiero sulla Chiesa e sul Papa nelle decine di comunicati, negli atti di magistero e nelle numerose opere pubblicate (cfr www.luiginegri.it).
Sento quindi il dovere di coscienza di rinnovare, davanti a voi che siete il mio popolo, la certezza della mia fede in Cristo e della mia totale obbedienza al Papa.
Anche sollecitato dalle recenti gravi affermazioni attribuitemi sulla stampa, ho chiesto al Santo Padre di potere avere un incontro filiale con lui, in cui poter aprire il mio cuore di pastore al suo cuore di Padre universale perché - nell’incremento della comunione reciproca e rimettendomi al suo consiglio, che per me è l’unico legittimo - possa camminare spedito verso il compimento della fede.
L’incontro che spero che il Santo Padre vorrà concedermi, lo considero come il gesto di inizio del pellegrinaggio della nostra Chiesa particolare a Pietro, nell’anno straordinario della Misericordia.
Se a causa di quanto è accaduto, si fosse determinato uno scandalo, soprattutto nei più deboli, ne chiederemo perdono tutti.
Questa è la mia professione di fede, di obbedienza e di Verità. Tale la sento davanti a voi e al nostro comune Signore e la professo con sicurezza assoluta perché, come diceva Alessandro Manzoni, «Dio non turba mai la gioia dei suoi figli se non prepararne loro una più certa e più grande».
+ Luigi Negri
Arcivescovo di Ferrara-Comacchio


COMUNICATO DELL’ARCIVESCOVO

26/11/2015

La preoccupazione di rivolgere primariamente alla mia chiesa un messaggio di chiarimento riguardo alle affermazioni apparse su "il Fatto Quotidiano" del 25 novembre scorso, non può prescindere da una seconda, doverosa e necessaria azione nei confronti di chi ha così gravemente leso la mia dignità umana ed ecclesiastica e anche quella della chiesa.
"Il Fatto Quotidiano" ha operato in spregio delle più elementari norme deontologiche del giornalismo, attribuendomi frasi virgolettate che non ho mai detto ed estrapolandone altre dai loro contesti originari per ricavarne contenuti opposti a quanto si stava dicendo, trasformando così l'ipotesi del giornalista in certezza.
E’ profondamente scorretto sul piano della professione e deontologia del giornalista. La cosa più grave riguarda la prima pagina: “Francesco deve fare la fine di quell'altro Papa”. Il terribile titolo virgolettato, infatti, riporta una frase mai pronunciata da me, e prova ne è che poi tale frase non è più rintracciabile nel corpo dell’articolo. 
Quello che risulta chiaro è che si virgoletta l’interpretazione che “il Fatto” ha voluto dare alla vicenda, crocifiggendomi così ad una frase mai pronunciata. E’ una procedura di gravità inaudita. 
All’interno dell’articolo poi, alla prima frase virgolettata - su cui poggia l'intero testo - arbitrariamente si aggiunge: “Il riferimento a papa Luciani è appena velato”. Questa è un’altrettanto assoluta, arbitraria interpretazione, completamente opposta al mio pensiero, che faceva riferimento a ben altre vicende della chiesa, che esporrò nei luoghi e tempi opportuni.
E che dire infine dell'utilizzo di frasi sottratte senza il permesso della persona interessata e senza chiedere, al momento in cui sono state pronunciate, il loro reale significato e non riportate nella loro completezza?
Oltre dunque a riservarmi di far valutare ai miei legali ogni misura a tutela dell’onorabilità della Chiesa e della mia persona, chiedo all’opinione pubblica e all’Ordine dei Giornalisti se questo è il modo di svolgere il lavoro informativo.
Ma chiedo anche alla comunità ecclesiale e civile di non rendersi complice di tali operazioni.
+ Luigi Negri
Arcivescovo di Ferrara - Comacchio 
e Abate di Pomposa

Comunicato di CL 27/11/15

“Riteniamo indispensabile precisare, a nome di Comunione e liberazione, che tali affermazioni così grossolane nella forma e inaccettabili nel contenuto che sembra impossibile provengano da un arcivescovo, sono totalmente contrarie ai sentimenti di Cl nei confronti di papa Francesco e degli arcivescovi di Bologna e di Palermo. Dal giorno della elezione del cardinale Jorge Mario Bergoglio  don Carrón non si stanca di indicare la testimonianza e il magistero di papa Francesco come fondamentali per l’esperienza e il cammino di Cl, che desidera seguirlo affettivamente ed effettivamente in ogni suo gesto e parola. Don Giussani ci ha sempre insegnato che l’amore e l’obbedienza al Papa sono condizioni decisive per un battezzato, se non vuole finire prigioniero delle proprie interpretazioni e dei propri pensier.  A. Savorana


martedì 17 novembre 2015

Per commemorare i morti di Parigi, non cantate Imagine di John Lennon. È un inno alla violenza



«Immagina che non esista paradiso, facile se provi; nessun inferno sotto di noi; sopra solo il cielo; immagina che tutta la gente viva solo per l’oggi. Immagina che non ci siano nazioni, non è difficile da fare, niente per cui uccidere e morire, e nessuna religione. Immagina tutta la gente che vive in pace»: così scriveva John Lennon nella sua celebre canzone “Imagine” che sta costituendo per l’opinione pubblica europea il cullante sottofondo per smaltire la sbronza di sgomento per l’efferatezza della strage di Parigi.
La celebre canzone di Lennon viene, infatti, in queste ore proposta come simbolo di pace e fratellanza.
Ma è proprio così?
No, la canzone di Lennon, seppur pregevole sotto l’aspetto melodico, è un vero e proprio inno alla violenza, per molteplici motivi che per essere compresi devono suddividersi in due parti, quelli ex fide e quelli ex ratione, cioè quelli che costituiscono una critica alla luce della fede e quelli che costituiscono una critica alla luce della ragione.
Alla luce della fede, infatti, negare il paradiso o l’inferno è qualcosa di radicalmente antireligioso in genere, ed anticristiano in particolare, specialmente se si propugna una visione per cui ciò che conta è solo il cielo sopra di noi, ovvero nella più rosea delle ipotesi una visione panteistica ed emanazionista, ma nella più scura una materialistica ed ateistica della vita e del mondo.
La prospettiva contenuta nella canzone di Lennon tradisce, infatti, una totale negazione della vera ed autentica interpretazione dell’essenza dell’uomo, cioè una interpretazione trascendente, che sia in grado come tale di cogliere l’essere dell’uomo. Lennon ad un profondo ancorarsi ontologico, preferisce una superficiale ricognizione emotiva e psicologica non in grado di cogliere la vera essenza dell’umanità, dell’amore e della fratellanza.
Lennon in sostanza rifugge l’essere dell’uomo, e quindi nega la sua verità e, come insegna la storia, ogni volta che viene negata la verità si compie una violenza, nel caso di specie una violenza culturale, ma per questo non meno esecrabile.
Sulla erroneità di una simile impostazione oggi così diffusa a tutti i livelli ha avuto modo di scrivere Benedetto XVI: «La rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone un’interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale. Anche altre culture e altre religioni insegnano la fratellanza e la pace e, quindi, sono di grande importanza per lo sviluppo umano integrale. Non mancano, però, atteggiamenti religiosi e culturali in cui non si assume pienamente il principio dell’amore e della verità e si finisce così per frenare il vero sviluppo umano o addirittura per impedirlo. Il mondo di oggi è attraversato da alcune culture a sfondo religioso, che non impegnano l’uomo alla comunione, ma lo isolano nella ricerca del benessere individuale, limitandosi a gratificarne le attese psicologiche» (Caritas in veritate, 55).
Alla luce della ragione, invece, occorre considerare quanto segue.
In primo luogo: l’idea che non ci debbano essere nazioni, è una idea violenta – non a caso alla base dell’internazionalismo socialistico rivoluzionario tra XIX e XX secolo – in quanto nega l’essere relazionale e politico dell’uomo come tale già scoperto dalla razionalità del pensiero greco che in Aristotele ha avuto modo di esprimere il suo massimo vertice.
In secondo luogo: l’idea che non ci debba essere la proprietà è anch’essa una idea violenta – non a caso alla base di molti movimenti politici e ideologici che in nome di questo principio hanno portato più morte e devastazione di quelle a cui pensavano di rimediare – poiché nega una delle espressioni dirette del diritto naturale, cioè quel diritto che per natura, per la natura dell’essere umano, attiene alla retta ragione, cioè alla razionalità umana.
Lennon e i suoi seguaci, così intenti a sorvolare la realtà invece di immergervisi, cadono nell’equivoco che la proprietà sia un male in sé, senza comprendere non solo che essa è un bene, come ogni manifestazione del diritto naturale, ma che semmai ad essere un male è soltanto l’uso che di questa si può fare, così come insegna la dottrina evangelica, per esempio, in tema di ricchezze e di uso delle stesse.
Non a caso un filosofo illuminista del calibro di Kant ha avuto modo di precisare che la proprietà è una relazione non tra cose e persone, ma una relazione morale tra persone e come tale imprescindibile poiché presidio della civile convivenza.
In terzo luogo: l’idea più violenta di tutte è quella per cui non dovrebbero esistere le religioni, poiché con questa ambizione si colpisce la vera essenza dell’uomo che, come ricorda Nikolaj Bardjaev non è un ente strettamente biologico o psicologico, ma spirituale.
L’esperienza storica, in tal senso, è fin troppo ampia e dimostra che nel XX secolo, cioè “il secolo delle idee assassine” come lo ha definito Robert Conquest, che è stato il secolo più anti-religioso della storia umana (almeno fino al XXI appena iniziato), la pace e la convivenza sono state violate e lese molto più che nei secoli precedenti contraddistinti da una maggiore appartenenza individuale e sociale al credo religioso di riferimento.
Ritenere che si debbano elidere le religioni, significa colpire al cuore l’essere spirituale dell’essere umano. Come ha precisato, infatti, Abraham Heschel «essere uomini implica essere sensibili al sacro […]. Sentire il sacro è sentire cosa è caro a Dio».
Nella pretesa eliminazione di tutte le religioni Lennon spazza via anche ciò che rende umano l’essere umano, poiché, come ha ben puntualizzato Hegel «poiché l’uomo è un essere pensante, né il sano senso comune né la filosofia rinunceranno mai ad elevarsi a Dio partendo e venendo fuori dalla visione empirica del mondo».
Infine: il concetto di pace che si evince dalla suddetta nota canzone, non esprime la vera ed autentica pace. Sul punto, infatti, il Concilio Vaticano II ha insegnato che la pace è qualcosa di ben più complesso e meno infantile: «La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze avverse […]. Per questo la pace non è mai qualcosa di raggiunto una volta per tutte, ma è un edificio da costruirsi continuamente» (Gaudium et spes, 78).
La pace, dunque, come ricorda Baruch Spinoza «non è assenza di guerra: è una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia».
Ecco allora che viene alla luce tutta la carica di violenza della canzone di Lennon, poiché è tutta tesa a negare radicalmente la verità costitutiva dell’essere umano e della realtà, rappresentando un vero attentato culturale alla pace autentica, cioè alla stabile e giusta convivenza relazionale, politica e spirituale dell’essere umano.
In conclusione, allora si possono adottare ancora una volta le lucide riflessioni di Benedetto XVI in occasione della XXXIX giornata mondiale della pace dell’1 gennaio 2006 allorquando ha avuto così modo di ricordare: «L’autentica ricerca della pace deve partire dalla consapevolezza che il problema della verità e della menzogna riguarda ogni uomo e ogni donna, e risulta essere decisivo per un futuro pacifico del nostro pianeta».
Foto Ansa

È tempo di ritrovare la speranza più grande


In mezzo al Colonnato ci siamo guardati attorno, domenica mattina: in quanti, ci siamo detti, siamo venuti a San Pietro, per ascoltare, dopo Parigi, il Papa. In quanti, e tutti con in faccia i segni di una angoscia grande, di un incubo tenace, che al mattino non vuole dissolversi. Abbiamo visto una grande città di Occidente precipitare in guerra d’improvviso. Abbiamo visto il sangue, e quei ragazzi uccisi a uno a uno al Bataclan erano come i nostri figli; e in quella esecuzione abbiamo letto un oscuro messaggio, quasi iche n quei figli i terroristi volessero annientare il mondo che verrà. 
Allora siamo andati dal Papa, gli occhi intenti a quella finestra che si apriva, le nostre facce all’insù, in una tacita domanda. Perché da trentasei ore ormai in tv passavano le immagini della strage, e le parole della gente per strada, a Parigi: e dicevano ostinati «continueremo a vivere come prima, per non dargliela vinta», e però a te quelle parole suonavano così fragili, così impotenti. Certo, che a Parigi e altrove si dovrà vivere come prima, e prendere il metrò, e andare ai grandi magazzini; ma davvero si sarà «come prima» dentro di noi? Un colpo di maglio è stato inferto all’Europa, qualcosa di cui non avevamo più memoria; guerra, siamo in guerra, sentiamo dire con incredulità, e con la coscienza che niente è vulnerabile come le città di un mondo in pace. 
E dunque quel promettere di vivere «come prima» è il bluff umanamente inevitabile di chi non vuole arrendersi; eppure non basta, non basterà quando i nostri figli andranno allo stadio o affolleranno una piazza – allora sentiremo il tarlo della angoscia, che rode. Troppo è l’odio al nostro mondo che abbiamo percepito, venerdì notte, per contentarci della nostra ostinazione, o dell’orgoglio. Almeno noi cristiani, noi qui in San Pietro, siamo venuti a domandare qualcosa d’altro, di molto più grande; resi quasi più inquieti dal Vangelo di oggi, che dice di un sole che si oscurerà e di stelle che cadranno, in una eco di Apocalisse. Affacciato dalla finestra sulle nostre facce, per prima cosa Francesco, quasi con urgenza, dice che gli elementi apocalittici non sono il nucleo centrale del messaggio: il nucleo è Cristo stesso, è a Lui che bisogna guardare. 

Perché «noi non attendiamo un tempo o un luogo, ma andiamo incontro a una persona». Le vaste ombre di quel passo di Marco cominciano a sciogliersi: il Papa ha indicato da che parte dobbiamo volgere lo sguardo. All’«unico punto fermo in mezzo agli sconvolgimenti e alle tragedie del mondo». Più chiaro di così. Sapeva bene, Francesco, che cosa eravamo venuti a cercare, noi a cui non basta cantare nelle piazze «non abbiamo paura», noi cui non basta il pure doveroso richiamo a mantenere i canoni e la memoria della nostra civiltà. Di fronte all’odio viscerale, devastante, che abbiamo visto bruciare a Parigi, non basta; contro a tanto male occorre a noi cristiani, se non vogliamo ingannarci, la forza di un bene molto più grande. Che non è nemmeno la nostra perseveranza, o buona volontà. 

Con quanto bene e fatica erano stati cresciuti, i ragazzi che l’altra sera erano al Bataclan, e Valeria, di Venezia, che non è tornata? Spazzati via da una raffica, in un istante. Qualcosa di estremamente più grande ci vuole, in questo tempo colmo di oscurità, per avere speranza. Perché vediamo più che mai, in un giorno così, come ciò che ci è caro, i figli, i genitori, gli amici, non è mai completamente difendibile. E solo confidando totalmente in un Dio accanto, in un Dio buono, possiamo continuare, nonostante un odio che si allarga attorno, a vivere, avere figli, educare, curare, voler bene. 

Quel Dio sarà con noi comunque; era accanto, muto, l’altra notte ai ragazzi del Bataclan, come a tutti gli inermi e i sopraffatti. Non può bastarci, in quest’ora, di buio il fatalismo di chi legge l’oroscopo (Francesco, sorridendo paterno: «Quanti di voi lo leggono?») e in fondo spera di avere fortuna, lui e i suoi. In una notte così buia, quando si sente dire continuamente «guerra», è guerra, si può rinserrarsi come in un fortino nell’«io speriamo che me la cavo». 

Oppure tornare alla speranza più grande, a Cristo vivo. La notte di Parigi col suo sangue e il suo strazio è anche, per noi, l’essere chiamati a ricordarci chi siamo, e in chi speriamo.
Marina Corradi.

La nostra speranza ha un volto


                                                                                   Index
PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 15 novembre 2015

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il Vangelo di questa penultima domenica dell’anno liturgico propone una parte del discorso di Gesù sugli avvenimenti ultimi della storia umana, orientata verso il pieno compimento del regno di Dio (cfr Mc 13,24-32). E’ un discorso che Gesù fece a Gerusalemme, prima della sua ultima Pasqua. Esso contiene alcuni elementi apocalittici, come guerre, carestie, catastrofi cosmiche: «Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli verranno sconvolte» (vv. 24-25). Tuttavia questi elementi non sono la cosa essenziale del messaggio. Il nucleo centrale attorno a cui ruota il discorso di Gesù è Lui stesso, il mistero della sua persona e della sua morte e risurrezione, e il suo ritorno alla fine dei tempi.
La nostra meta finale è l’incontro con il Signore risorto. E io vorrei domandarvi: quanti di voi pensano a questo? Ci sarà un giorno in cui io incontrerò faccia a faccia il Signore. E’ questa la nostra meta: questo incontro. Noi non attendiamo un tempo o un luogo, ma andiamo incontro a una persona: Gesù. Pertanto, il problema non è “quando” accadranno i segni premonitori degli ultimi tempi, ma il farsi trovare pronti all’incontro. E non si tratta nemmeno di sapere “come” avverranno queste cose, ma “come” dobbiamo comportarci, oggi, nell’attesa di esse. Siamo chiamati a vivere il presente, costruendo il nostro futuro con serenità e fiducia in Dio. La parabola del fico che germoglia, come segno dell’estate ormai vicina (cfr vv. 28-29), dice che la prospettiva della fine non ci distoglie dalla vita presente, ma ci fa guardare ai nostri giorni in un’ottica di speranza. E’ quella virtù tanto difficile da vivere: la speranza, la più piccola delle virtù, ma la più forte. E la nostra speranza ha un volto: il volto del Signore risorto, che viene «con grande potenza e gloria» (v. 26), che cioè manifesta il suo amore crocifisso trasfigurato nella risurrezione. Il trionfo di Gesù alla fine dei tempi sarà il trionfo della Croce, la dimostrazione che il sacrificio di sé stessi per amore del prossimo, ad imitazione di Cristo, è l’unica potenza vittoriosa e l’unico punto fermo in mezzo agli sconvolgimenti e alle tragedie del mondo.
Il Signore Gesù non è solo il punto di arrivo del pellegrinaggio terreno, ma è una presenza costante nella nostra vita: è sempre accanto a noi, ci accompagna sempre; per questo quando parla del futuro, e ci proietta verso di esso, è sempre per ricondurci al presente. Egli si pone contro i falsi profeti, contro i veggenti che prevedono vicina la fine del mondo, e contro il fatalismo. Lui è accanto, cammina con noi, ci vuole bene. Vuole sottrarre i suoi discepoli di ogni epoca alla curiosità per le date, le previsioni, gli oroscopi, e concentra la nostra attenzione sull’oggi della storia. Io avrei voglia di domandarvi - ma non rispondete, ognuno risponda dentro -: quanti di voi leggono l’oroscopo del giorno? Ognuno risponda. E quando ti viene voglia di leggere l’oroscopo, guarda a Gesù, che è con te. E’ meglio, ti farà meglio. Questa presenza di Gesù ci richiama all’attesa e alla vigilanza, che escludono tanto l’impazienza quanto l’assopimento, tanto le fughe in avanti quanto il rimanere imprigionati nel tempo attuale e nella mondanità.
Anche ai nostri giorni non mancano calamità naturali e morali, e nemmeno avversità e traversie di ogni genere. Tutto passa – ci ricorda il Signore –; soltanto Lui, la sua Parola rimane come luce che guida, rinfranca i nostri passi e ci perdona sempre, perché è accanto a noi. Soltanto è necessario guardarlo e ci cambia il cuore. La Vergine Maria ci aiuti a confidare in Gesù, il saldo fondamento della nostra vita, e a perseverare con gioia nel suo amore.

Dopo l'Angelus:
Cari fratelli e sorelle,
desidero esprimere il mio dolore per gli attacchi terroristici che nella tarda serata di venerdì hanno insanguinato la Francia, causando numerose vittime. Al Presidente della Repubblica Francese e a tutti i cittadini porgo l’espressione del mio fraterno cordoglio. Sono vicino in particolare ai familiari di quanti hanno perso la vita e ai feriti.
Tanta barbarie ci lascia sgomenti e ci si chiede come possa il cuore dell’uomo ideare e realizzare eventi così orribili, che hanno sconvolto non solo la Francia ma il mondo intero. Dinanzi a tali atti, non si può non condannare l’inqualificabile affronto alla dignità della persona umana. Voglio riaffermare con vigore che la strada della violenza e dell’odio non risolve i problemi dell’umanità e che utilizzare il nome di Dio per giustificare questa strada è una bestemmia!
Vi invito ad unirvi alla mia preghiera: affidiamo alla misericordia di Dio le inermi vittime di questa tragedia. La Vergine Maria, Madre di misericordia, susciti nei cuori di tutti pensieri di saggezza e propositi di pace. A Lei chiediamo di proteggere e vegliare sulla cara Nazione francese, la prima figlia della Chiesa, sull’Europa e sul mondo intero. Tutti insieme preghiamo un po’ in silenzio e poi recitiamo l’Ave Maria.
[Ave Maria…]
Ieri, a Três Pontas, nello Stato di Minas Gerais in Brasile, è stato proclamato beato don Francisco de Paula Victor, sacerdote brasiliano di origine africana, figlio di una schiava. Parroco generoso e zelante nella catechesi e nell’amministrazione dei sacramenti, si distinse soprattutto per la sua grande umiltà. Possa la sua straordinaria testimonianza essere di modello per tanti sacerdoti, chiamati ad essere umili servitori del popolo di Dio.
Saluto tutti voi, famiglie, parrocchie, associazioni e singoli fedeli, che siete venuti dall’Italia e da tante parti del mondo. In particolare, saluto i pellegrini provenienti da Granada, Málaga, Valencia e Murcia (Spagna), San Salvador e Malta; l’associazione “Accompagnatori Santuari Mariani nel Mondo” e l’Istituto secolare “Cristo Re”.
A tutti auguro una buona domenica. E per favore, non dimenticate di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!



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Carrón: «La vita di ciascuno appesa a un filo. Perché vale la pena vivere?»

Don Julián Carrón.




Comunione e Liberazione si unisce alla commozione, al dolore e alla preghiera di Papa Francesco per le vittime degli attacchi di Parigi e per il popolo francese: «Queste cose sono difficili da capire. Non ci sono giustificazioni per queste cose, questo non è umano» (Papa Francesco al telefono con TV2000).

Don Julián Carrón, presidente della Fraternità di CL, ha dichiarato: «Davanti ai nostri occhi c’è un’evidenza: la vita di ciascuno è appesa a un filo, potendo essere uccisi in qualsiasi momento e ovunque, al ristorante, allo stadio o durante un concerto. La possibilità di una morte violenta e feroce è divenuta una realtà anche nelle nostre città. Per questo i fatti di Parigi ci mettono davanti alla domanda decisiva: perché vale la pena vivere? È una provocazione che nessuno di noi può evitare. Cercare una risposta adeguata alla domanda sul significato della nostra vita è l’unico antidoto alla paura che ci assale guardando la televisione in queste ore, è il fondamento che nessun terrore può distruggere».

«Chiediamo al Signore di poter affrontare questa terribile sfida con gli stessi sentimenti di Cristo che non si lasciò vincere dalla paura: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia” (I Pt 2,23). Con questa Presenza negli occhi potremo guardare perfino la morte, a cominciare da quella di coloro che hanno perso la vita a Parigi, offrire ai nostri figli un’ipotesi di significato per stare davanti a queste stragi e a ciascuno di noi una ragione per tornare al lavoro lunedì mattina continuando a costruire un mondo all’altezza della nostra umanità, con la certezza della speranza che è in noi». Con queste parole don Carrón ha invitato tutti gli amici del Movimento ad aderire ai momenti di preghiera che saranno proposti dalle diocesi, in unità con il Papa e con tutta la Chiesa.
l’ufficio stampa di C

"Difenderemo i nostri valori". Già, ma quali valori?

“Difenderemo i nostri valori”. Così Hollande, così Obama, così Cameron. Renzi ha detto che vinceremo di sicuro, tanto questi valori sono buoni e giusti. Ma miei cari presidenti, quali valori? È da quando ho cinque anni e ho cominciato ad andare a scuola che mi dicono che non esistono valori assoluti, che i valori sono solo prospettive, che il peggior crimine è pensare di mettere una maiuscola alla parola Verità, che non bisogna avere certezze ma coltivare dubbi, che le certezze sono sempre ideologie. E adesso, all’improvviso, scopriamo di avere valori assoluti con i quali fare una guerra? Se non avere dei valori è l’unica grande verità (che è assoluta ma si scrive senza maiuscola, chissà perché), non dovremmo convincere tutti? Non dovremmo aver già convinto quelli tra i terroristi che sono nati e cresciuti nelle nostre repubbliche, con tanto di educazione al dubbio?


Più seriamente, un giornalista americano, Gareth Whittaker, ci ha detto che cosa sono questi valori: “godere della vita terrena in mille modi: una tazza di caffè profumato con un croissant imburrato, belle donne in vestiti corti che sorridono liberamente” e poi profumi, vino, “il diritto di non credere a nessuno dio” e di “flirtare, fumare, godere del sesso fuori dal matrimonio, fare vacanze, leggere libri, andare a scuola gratis”, eccetera. Non ha tutti i torti, ma se è così bisogna dirsi con chiarezza che stiamo parlando di difendere l’edonismo di una classe piccolo-medio-alto borghese e stiamo dicendo che questi piaceri sono i valori universali per i quali vivere e morire. Non è un po’ poco? Non c’era stato anche Marx in Europa, a insegnare la cecità delle universalizzazioni che ciascuna classe fa di se stessa? E soprattutto, ancora una volta, non dovremmo allora cercare di convincere questi signori dell’assoluta (sic) convenienza di questi nostri piaceri? Proviamo a riempirne le banlieues parigine, e quelle di tutto il mondo. Ma non ci abbiamo già provato senza molto successo? Non è proprio questo vuoto edonismo che ci rimproverano?

La terza via, signori presidenti, sarebbe forse tornare a pensare quali valori abbiamo davvero, da dove nascono i diritti umani e questa nostra passione per l’estetica e la cultura della vita, con tutti i piaceri inclusi. Forse sarebbe l’ora di riconsiderare davvero le radici dell’Europa di una Costituzione che non abbiamo mai voluto approvare: quelle greche e latine, quelle cristiane incredibilmente taciute e osteggiate, quelle della scienza, e anche quelle della rivoluzione francese. Di tutta questa storia forse occorre però cambiare la lettura scettica. Vi proporrei quella del filosofo americano Peirce che sosteneva che la verità evidentemente c’è, anche se dobbiamo riconoscere che la limitatezza di ciò che conosciamo fa sì che sia parziale. Ma parziale non vuol dire arbitraria – non si possono dare tutte le interpretazioni di qualunque cosa e non sono tutte uguali – e, soprattutto, non vuol dire dubbia. “Non facciamo finta di dubitare in filosofia (e in pedagogia, in arte, in politica) di ciò di cui non dubitiamo nei nostri cuori”, è una frase riassuntiva di Peirce che spinge a rispettare il senso comune di tanta gente normale che in queste ore ha soccorso chi scappava, individuando in fretta che cosa fosse umano e giusto, e che cosa non lo fosse. Forse così non consegneremo l’Europa a vecchi nazionalismi e nuovi populismi. E, contrariamente a quanto dice la bella e infausta Imagine di John Lennon che qualcuno ha suonato nei luoghi dei crimini, troveremo un motivo per valido per vivere e per morire, se necessario. Non si può “difendere” nulla, né “vincere” nulla, senza che ciò per cui ci si deve battere valga la pena effettivamente, come contenuto, come concetti e come piacere. Soprattutto, senza che ciò per cui ci si batte riempia di contenuto pieno di vita le parole altrimenti vuote e retoriche, che dobbiamo presentare come risposta a quei ragazzi appesi dalle finestre del Bataclan.

mercoledì 11 novembre 2015

Papa: a tavola far tacere tv e smartphone non la famiglia -

Papa Francesco all'udienza generale in Piazza San Pietro - AFP
In un tempo segnato “da tante chiusure e da troppi muri” è fondamentale recuperare l’esperienza della “convivialità” tipica della famiglia. Lo ha detto Papa Francesco all’udienza generale in Piazza San Pietro, dedicata a questo tema. La convivialità non si compra né si vende, ha affermato, ma è un atteggiamento di condivisione da coltivare tra genitori e figli, che induce alla generosità verso chi è più debole.
    
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PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 11 novembre 2015

Parole all’inizio dell’Udienza generale
In questi giorni la Chiesa italiana sta celebrando il Convegno nazionale a Firenze. I cardinali, i vescovi, i consacrati, i laici, tutti insieme. Vi invito a pregare la Madonna, un’Ave Maria per loro. [Ave Maria]

CATECHESI DEL SANTO PADRE
La Famiglia - 32. Convivialità
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi rifletteremo su una qualità caratteristica della vita familiare che si apprende fin dai primi anni di vita: la convivialità, ossia l’attitudine a condividere i beni della vita e ad essere felici di poterlo fare. Condividere e saper condividere è una virtù preziosa! Il suo simbolo, la sua “icona”, è la famiglia riunita intorno alla mensa domestica. La condivisione del pasto – e dunque, oltre che del cibo, anche degli affetti, dei racconti, degli eventi… – è un’esperienza fondamentale. Quando c’è una festa, un compleanno, un anniversario, ci si ritrova attorno alla tavola. In alcune culture è consuetudine farlo anche per un lutto, per stare vicino a chi è nel dolore per la perdita di un familiare.
La convivialità è un termometro sicuro per misurare la salute dei rapporti: se in famiglia c’è qualcosa che non va, o qualche ferita nascosta, a tavola si capisce subito. Una famiglia che non mangia quasi mai insieme, o in cui a tavola non si parla ma si guarda la televisione, o lo smartphone, è una famiglia “poco famiglia”. Quando i figli a tavola sono attaccati al computer, al telefonino, e non si ascoltano fra loro, questo non è famiglia, è un pensionato.
Il Cristianesimo ha una speciale vocazione alla convivialità, tutti lo sanno. Il Signore Gesù insegnava volentieri a tavola, e rappresentava talvolta il regno di Dio come un convito festoso. Gesù scelse la mensa anche per consegnare ai discepoli il suo testamento spirituale - lo fece a cena - condensato nel gesto memoriale del suo Sacrificio: dono del suo Corpo e del suo Sangue quali Cibo e Bevanda di salvezza, che nutrono l’amore vero e durevole.
In questa prospettiva, possiamo ben dire che la famiglia è “di casa” alla Messa, proprio perché porta all’Eucaristia la propria esperienza di convivialità e la apre alla grazia di una convivialità universale, dell’amore di Dio per il mondo. Partecipando all’Eucaristia, la famiglia viene purificata dalla tentazione di chiudersi in sé stessa, fortificata nell’amore e nella fedeltà, e allarga i confini della propria fraternità secondo il cuore di Cristo.
In questo nostro tempo, segnato da tante chiusure e da troppi muri, la convivialità, generata dalla famiglia e dilatata dall’Eucaristia, diventa un’opportunità cruciale. L’Eucaristia e le famiglie da essa nutrite possono vincere le chiusure e costruire ponti di accoglienza e di carità. Sì, l’Eucaristia di una Chiesa di famiglie, capaci di restituire alla comunità il lievito operoso della convivialità e dell’ospitalità reciproca, è una scuola di inclusione umana che non teme confronti! Non ci sono piccoli, orfani, deboli, indifesi, feriti e delusi, disperati e abbandonati, che la convivialità eucaristica delle famiglie non possa nutrire, rifocillare, proteggere e ospitare.
La memoria delle virtù familiari ci aiuta a capire. Noi stessi abbiamo conosciuto, e ancora conosciamo, quali miracoli possono accadere quando una madre ha sguardo e attenzione, accudimento e cura per i figli altrui, oltre che per i propri. Fino a ieri, bastava una mamma per tutti i bambini del cortile! E ancora: sappiamo bene quale forza acquista un popolo i cui padri sono pronti a muoversi a protezione dei figli di tutti, perché considerano i figli un bene indiviso, che sono felici e orgogliosi di proteggere.
Oggi molti contesti sociali pongono ostacoli alla convivialità familiare. E’ vero, oggi non è facile. Dobbiamo trovare il modo di recuperarla. A tavola si parla, a tavola si ascolta. Niente silenzio, quel silenzio che non è il silenzio delle monache, ma è il silenzio dell’egoismo, dove ognuno fa da sé, o la televisione o il computer… e non si parla. No, niente silenzio. Occorre recuperare quella convivialità familiare pur adattandola ai tempi. La convivialità sembra sia diventata una cosa che si compra e si vende, ma così è un’altra cosa. E il nutrimento non è sempre il simbolo di una giusta condivisione dei beni, capace di raggiungere chi non ha né pane né affetti. Nei Paesi ricchi siamo indotti a spendere per un nutrimento eccessivo, e poi lo siamo di nuovo per rimediare all’eccesso. E questo “affare” insensato distoglie la nostra attenzione dalla fame vera, del corpo e dell’anima. Quando non c’è convivialità c’è egoismo, ognuno pensa a se stesso. Tanto più che la pubblicità l’ha ridotta a un languore di merendine e a una voglia di dolcetti. Mentre tanti, troppi fratelli e sorelle rimangono fuori dalla tavola. E’ un po’ vergognoso!
Guardiamo al mistero del Convito eucaristico. Il Signore spezza il suo Corpo e versa il suo Sangue per tutti. Davvero non c’è divisione che possa resistere a questo Sacrificio di comunione; solo l’atteggiamento di falsità, di complicità con il male può escludere da esso. Ogni altra distanza non può resistere alla potenza indifesa di questo pane spezzato e di questo vino versato, Sacramento dell’unico Corpo del Signore. L’alleanza viva e vitale delle famiglie cristiane, che precede, sostiene e abbraccia nel dinamismo della sua ospitalità le fatiche e le gioie quotidiane, coopera con la grazia dell’Eucaristia, che è in grado di creare comunione sempre nuova con la sua forza che include e che salva.
La famiglia cristiana mostrerà proprio così l’ampiezza del suo vero orizzonte, che è l’orizzonte della Chiesa Madre di tutti gli uomini, di tutti gli abbandonati e gli esclusi, in tutti i popoli. Preghiamo perché questa convivialità familiare possa crescere e maturare nel tempo di grazia del prossimo Giubileo della Misericordia.

Saluti:

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese. Oggi ricorre la festa liturgica di San Martino che ha evangelizzato le campagne di Francia. Saluto anche gli ungheresi, perché lui è nato in Ungheria. Affido alla sua protezione le vostre comunità e le vostre famiglie, affinché, nutriti regolarmente dell’Eucarestia, possano sempre divenire per il mondo delle scuole di cordialità, di accoglienza e di carità.
Che Dio vi benedica.
]

[Saluto i pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente quelli provenienti da Regno Unito, Danimarca, Paesi Bassi, Ghana, Giappone, Corea e Stati Uniti d’America. Su tutti voi e sulle vostre famiglie, invoco la gioia e la pace del Signore. Dio vi benedica!]

[Rivolgo un cordiale saluto a tutti i pellegrini di lingua tedesca. Saluto specialmente gli studenti della Mädchenrealschule St. Ursula di Donauwörth. Nel mese di novembre ricordiamo in particolare le anime dei defunti e accompagniamole con la nostra preghiera. Il Signore vi benedica tutti.]
Saludo a los peregrinos de lengua española y a todos los grupos provenientes de España y Latinoamérica. Roguemos para que cada familia participando en la Eucaristía, se abra al amor de Dios y del prójimo, especialmente para con quienes carecen de pan y de afecto. Que el próximo Jubileo de la Misericordia nos haga ver la belleza del compartir. Gracias.
Saúdo os peregrinos de língua portuguesa, particularmente os fiéis brasileiros de Aracaju, Divinópolis, Pernambuco e São Paulo. Faço votos que este encontro que, nos faz sentir membros da única família dos filhos de Deus, vos ajude a renovar em vossos lares o desejo de valorizar ainda mais os momentos de convívio junto com as vossas famílias. Que Deus vos abençoe.
[Saluto i pellegrini di lingua portoghese, in particolare i fedeli brasiliani di Aracaju, Divinópolis, Pernambuco e São Paulo. Auspico che questo incontro, che ci fa sentire membri dell'unica famiglia dei figli di Dio, vi aiuti a rinnovare nelle vostre case il desiderio di valorizzare ancora di più i momenti di convivialità insieme alle vostre famiglie. Dio vi benedica.]
أُرحّبُ بالحجّاجِ الناطقينَ باللغةِ العربية، وخاصةً بالقادمينَ من الشرق الأوسط. أيّها الإخوةُ والأخواتُ الأعزّاء، مع اقتراب يوبيل الرحمة لنرفع صلاتنا لكي تستقي المشاركة العائليّة على الدوام قوّة وحيويّة من سرّ جسد ودم ربّنا يسوع المسيح فتحمل الإدماج والخلاص للجميع! ليبارككُم الربّ!
[Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua araba, in particolare a quelli provenienti dal Medio Oriente! Cari fratelli e sorelle, con l’avvicinamento del Giubileo della Misericordia preghiamo affinché la convivialità familiare possa attingere sempre di più forza e vitalità dal Sacramento del Corpo e Sangue del Nostro Signore Gesù Cristo così da portare inclusione e salvezza a tutti ! Il Signore vi benedica!]
Witam serdecznie pielgrzymów polskich. Dzisiaj w Polsce obchodzicie Święto Niepodległości. W kontekście tego wydarzenia pragnę wspomnieć to, co powiedział św. Jan Paweł II: „Nie można bez Chrystusa zrozumieć dziejów Polski (Warszawa, 2 VI 1979). Służąc Ojczyźnie, trwajcie w wierności Ewangelii i tradycji Ojców. Niech Bóg błogosławi Polskę i każdego z was. Niech będzie pochwalony Jezus Chrystus.
[Do il mio benvenuto ai pellegrini polacchi. In Polonia, oggi si celebra la festa dell’Indipendenza. In questo contesto ricordo ciò che disse San Giovanni Paolo II: “Senza Cristo non è possibile capire la storia della Polonia” (Varsavia, 2 VI 1979). Perseverate nella fedeltà al Vangelo e nella tradizione dei Padri al servizio della vostra Patria. Dio benedica la Polonia e ciascuno di voi. Sia lodato Gesù Cristo!]
S láskou vítam pútnikov zo Slovenska, ktorí sprevádzajú svojich biskupov počas ich návštevy Ad limina Apostolorum, osobitne kňazov, seminaristov, zasvätené osoby i všetkých veriacich.
Drahí bratia a sestry, vaša návšteva Ríma nech posilní povedomie príslušnosti k Cirkvi. Sprevádzajte vašich biskupov intenzívnymi modlitbami a nezabudnite na modlitbu aj za mňa.
Zo srdca žehnám všetkých vás i vašich drahých vo vlasti.
[Saluto con affetto i pellegrini della Slovacchia che accompagnano i loro Vescovi nella visita Ad limina Apostolorum, specialmente i sacerdoti, i seminaristi, le persone consacrate e tutti i fedeli.
Cari fratelli e sorelle, la vostra visita a Roma rafforzi la coscienza della appartenenza alla Chiesa. Accompagnate i vostri vescovi con intense preghiere e non dimenticate di pregare anche per me.
Di cuore benedico tutti voi ed i vostri cari in Patria.
]
* * *
Un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana! Saluto il Gruppo ecumenico di Farfa Sabina; i partecipanti all’incontro sulle cure palliative; l’Ordine degli Assistenti Sociali e il Coordinamento delle Libere Associazioni Professionali.
Oggi celebriamo la memoria liturgica di San Martino, Vescovo di Tours, figura popolarissima specialmente in Europa, modello di condivisione con i poveri. L’anno prossimo, in felice coincidenza con il Giubileo della Misericordia, ricorrerà il 17° centenario della sua nascita.
Rivolgo un saluto ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Il Signore vi aiuti, cari giovani, ad essere promotori di misericordia e riconciliazione; sostenga voi, cari ammalati, a non perdere la fiducia, neppure nei momenti di dura prova; e conceda a voi, cari sposi novelli, di trovare nel Vangelo la gioia di accogliere ogni vita umana, soprattutto quella debole e indifesa.

 


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Ringrazio Dio per questo ospedale dove la vita e la morte si sfidano a duello

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Il 2 novembre la Chiesa cattolica commemora il giorno di tutti i defunti, permettendo ai sacerdoti di celebrare tre Messe per le anime del Purgatorio. Non solo, ma in ogni Messa, prima del Padre Nostro, il sacerdote prega per i defunti: «Ricordati Signore dei nostri fratelli che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti coloro che sono morti fra le braccia della tua misericordia; ammettili a contemplare la luce del tuo volto».
Ma perché la Chiesa ogni 2 novembre ci invita a visitare il cimitero concedendo l’indulgenza plenaria per le anime del Purgatorio? È la Chiesa stessa a darci la risposta: «Credo la risurrezione della carne e la vita eterna. Amen». Sono parole che danno ragione al Credo: che senso avrebbe questa preghiera senza la granitica certezza insita nelle ultime parole?
Don Luigi Giussani ci diceva che la filosofia è nata per cercare una risposta al problema della morte, senza riuscirci. Solo nel cristianesimo l’uomo può incontrare la risposta. Il Verbo si è fatto carne, vivendo nella sua carne il dramma di questa verità. Nei trentatré anni, Gesù conobbe il dolore fisico e morale, la ingratitudine, fino a essere crocifisso e sepolto. È davvero commovente avere come compagno di viaggio, di dolore, il figlio di Dio. Mi vengono i brividi quando nella mia carne vivo un po’ del suo dolore. Però la nostra vita, come quella di Gesù, non finisce né sulla Croce, né nella tomba.
San Paolo dice: «Se siamo morti con Lui sulla Croce, risorgeremo con Lui». E aggiunge: «Se Cristo non fosse risorto saremmo i più idioti tra chi popola la terra. Ma Cristo è risorto e anche noi risorgeremo con Lui». La resurrezione di Gesù è la nostra resurrezione. Per questo la ragionevolezza del mio ospedale per pazienti terminali trova nella resurrezione di Gesù il motivo stesso della sua esistenza. Non si tratta di accompagnare a morire i pazienti, ma di accompagnarli a incontrare il dolce volto di Gesù.
«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», scriveva Cesare Pavese. Quando da piccolo ho visto Il settimo sigillo di Bergman mi sono spaventato, come pure quando mi portarono al cimitero per vedere il dipinto della danza macabra. Solo da quando la Provvidenza mi ha regalato questo ospedale per ammalati terminali ciò che prima mi faceva paura mi è diventato familiare.
La morte è un passo obbligatorio della vita, che ci permette, se siamo umili, di tornare al Padre. La cultura moderna fa di tutto per censurare la morte, siamo lontani da quella mentalità cristiana che accompagnava il moribondo a morire, recitando il santo Rosario. La morte non si deve vedere perché è un disturbo per i grandi e un trauma per i bambini, dicono gli psicologi. È terribile questo modo di “non vivere”, che censura ciò che di più concreto esiste. Ricordo ciò che mi dicevano due amici di Montecarlo: «Anni fa i funerali nel Principato di Monaco si facevano all’alba perché nessuno vedesse una bara».
Andarsene cristianamente
L’idea di onnipotenza che mangia il cervello dell’uomo di oggi è un miraggio che termina presto. Basta un infarto… e dopo? La saggezza della Chiesa fin da piccoli ci insegnava «memorare novissima tua et in aeternum non peccabis». Nei conventi i frati usavano salutarsi dicendo «memento mori». Nei seminari l’ultima predica dei ritiri spirituali era dedicata ai novissimi: morte, giudizio, inferno, paradiso. Questa modalità di predicare ci obbligava a prendere sul serio la vita.
Lo dico perché da 11 anni accompagno i miei figli a morire, rendendomi conto della descrizione perfetta che incontriamo nelle litanie della buona morte, quando siamo prossimi a morire.
Ringrazio Dio perché mi ha regalato questo ospedale, dove vita e morte si sfidano a duello, come ricorda il Dies irae. Ma Cristo è resuscitato e la morte è sconfitta. Senza questa certezza la vita non avrebbe senso e ancor meno il dolore. È doloroso vedere come siano in pochi ad accompagnare i pazienti a morire cristianamente. Eppure, per la persona che sta vicino al paziente nelle ultime ore, è una delle opere di carità più meritevoli. Non si tratta di un sacrificio, ma di una gioia che riempie il cuore.
Non esiste un merito più grande che lo stare vicino a un paziente terminale tenendogli la mano o riempiendolo di carezze come fanno alcune delle mie infermiere innamorate di Gesù.
paldo.trento@gmail.com


Aveva ragione Nietzsche, un cristiano si vede dalla faccia

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Mi ha sempre divertito la frase di Nietzsche rivolta ai cristiani: «Crederò nel Salvatore quando vi vedrò con la faccia dei salvati». Mi piace perché mette il dito nella piaga.
Io stimo Gesù ma lo voglio rendere compatibile con i miei piccoli interessi. Non avrò mai la faccia del salvato se non imparo da Gesù a vivere d’amore, il che è possibile solo col Suo aiuto. I santi hanno avuto la faccia dei salvati: gente che era irresistibilmente attraente perché Gesù è venuto a ristabilire il giusto rapporto con Dio e con il prossimo, con l’obbedienza e la carità. Questa è la salvezza.
Abbiamo spesso inteso la sequela autentica di Gesù come un cambiamento di stato di vita: farsi prete, suora, frate o monaco. Scelte meravigliose con cui la Provvidenza ha fatto giungere la fede fino a noi. Ma si può anche vivere d’amore senza cambiare stato.
Chi ha la vocazione matrimoniale e si sente chiamato a vivere in questo mondo non è una mezza cartuccia. Può essere santo, un uomo di Dio. Allora sì i cristiani avranno la faccia dei salvati. Vivranno d’eucarestia e sapranno esprimere nel mondo del lavoro e della famiglia le virtù di cui il nostro mondo ha ardente bisogno. Impegnati nel proprio mestiere con cuore mite e umile, capaci di amare il coniuge fino alla morte.
Gesù in croce è il vero albero della vita da cui scorre il Sangue che può diventare il mio sangue, malgrado le mie resistenze. Allora la Croce diventa il vero asse del mondo portando nel volto dei cristiani la vera immagine dei salvati.
@PippoCorigliano