mercoledì 11 novembre 2015

Ringrazio Dio per questo ospedale dove la vita e la morte si sfidano a duello

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Il 2 novembre la Chiesa cattolica commemora il giorno di tutti i defunti, permettendo ai sacerdoti di celebrare tre Messe per le anime del Purgatorio. Non solo, ma in ogni Messa, prima del Padre Nostro, il sacerdote prega per i defunti: «Ricordati Signore dei nostri fratelli che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti coloro che sono morti fra le braccia della tua misericordia; ammettili a contemplare la luce del tuo volto».
Ma perché la Chiesa ogni 2 novembre ci invita a visitare il cimitero concedendo l’indulgenza plenaria per le anime del Purgatorio? È la Chiesa stessa a darci la risposta: «Credo la risurrezione della carne e la vita eterna. Amen». Sono parole che danno ragione al Credo: che senso avrebbe questa preghiera senza la granitica certezza insita nelle ultime parole?
Don Luigi Giussani ci diceva che la filosofia è nata per cercare una risposta al problema della morte, senza riuscirci. Solo nel cristianesimo l’uomo può incontrare la risposta. Il Verbo si è fatto carne, vivendo nella sua carne il dramma di questa verità. Nei trentatré anni, Gesù conobbe il dolore fisico e morale, la ingratitudine, fino a essere crocifisso e sepolto. È davvero commovente avere come compagno di viaggio, di dolore, il figlio di Dio. Mi vengono i brividi quando nella mia carne vivo un po’ del suo dolore. Però la nostra vita, come quella di Gesù, non finisce né sulla Croce, né nella tomba.
San Paolo dice: «Se siamo morti con Lui sulla Croce, risorgeremo con Lui». E aggiunge: «Se Cristo non fosse risorto saremmo i più idioti tra chi popola la terra. Ma Cristo è risorto e anche noi risorgeremo con Lui». La resurrezione di Gesù è la nostra resurrezione. Per questo la ragionevolezza del mio ospedale per pazienti terminali trova nella resurrezione di Gesù il motivo stesso della sua esistenza. Non si tratta di accompagnare a morire i pazienti, ma di accompagnarli a incontrare il dolce volto di Gesù.
«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», scriveva Cesare Pavese. Quando da piccolo ho visto Il settimo sigillo di Bergman mi sono spaventato, come pure quando mi portarono al cimitero per vedere il dipinto della danza macabra. Solo da quando la Provvidenza mi ha regalato questo ospedale per ammalati terminali ciò che prima mi faceva paura mi è diventato familiare.
La morte è un passo obbligatorio della vita, che ci permette, se siamo umili, di tornare al Padre. La cultura moderna fa di tutto per censurare la morte, siamo lontani da quella mentalità cristiana che accompagnava il moribondo a morire, recitando il santo Rosario. La morte non si deve vedere perché è un disturbo per i grandi e un trauma per i bambini, dicono gli psicologi. È terribile questo modo di “non vivere”, che censura ciò che di più concreto esiste. Ricordo ciò che mi dicevano due amici di Montecarlo: «Anni fa i funerali nel Principato di Monaco si facevano all’alba perché nessuno vedesse una bara».
Andarsene cristianamente
L’idea di onnipotenza che mangia il cervello dell’uomo di oggi è un miraggio che termina presto. Basta un infarto… e dopo? La saggezza della Chiesa fin da piccoli ci insegnava «memorare novissima tua et in aeternum non peccabis». Nei conventi i frati usavano salutarsi dicendo «memento mori». Nei seminari l’ultima predica dei ritiri spirituali era dedicata ai novissimi: morte, giudizio, inferno, paradiso. Questa modalità di predicare ci obbligava a prendere sul serio la vita.
Lo dico perché da 11 anni accompagno i miei figli a morire, rendendomi conto della descrizione perfetta che incontriamo nelle litanie della buona morte, quando siamo prossimi a morire.
Ringrazio Dio perché mi ha regalato questo ospedale, dove vita e morte si sfidano a duello, come ricorda il Dies irae. Ma Cristo è resuscitato e la morte è sconfitta. Senza questa certezza la vita non avrebbe senso e ancor meno il dolore. È doloroso vedere come siano in pochi ad accompagnare i pazienti a morire cristianamente. Eppure, per la persona che sta vicino al paziente nelle ultime ore, è una delle opere di carità più meritevoli. Non si tratta di un sacrificio, ma di una gioia che riempie il cuore.
Non esiste un merito più grande che lo stare vicino a un paziente terminale tenendogli la mano o riempiendolo di carezze come fanno alcune delle mie infermiere innamorate di Gesù.
paldo.trento@gmail.com


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