lunedì 28 maggio 2012

Le associazioni mosse dall'amore

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-05-26/associazioni-mosse-amore-081414.shtml?uuid=Ab7SabiF
L’appuntamento settimanale con il cardinale Angelo Scola ci porta a riflettere sul ruolo dell’associazionismo familiare. Ogni sabato l’Arcivescovo di Milano propone sul quotidiano Il Sole 24ore una meditazione in vista dell’Incontro mondiale delle famiglie, in programma nel capoluogo lombardo dal 30 maggio al 3 giugno, un appuntamento che sarà una «profezia dell’uscita dal tunnel», ha affermato Scola. Nei nove interventi già pubblicati, l’Arcivescovo ha trattato il profilo sociale ed economico della famiglia, il suo ruolo e il suo compito educativo, il dialogo fra generazioni, il rapporto con il mondo del lavoro e con quello del fisco, l’importanza della cura reciproca, il ruolo della famiglia nell’integrazione delle sempre più ampie comunità di immigrati. di Angelo Scola La famiglia, non mi stanco di ripetere, è la prima scuola di comunione, di relazioni improntate al principio della gratuità, alla logica del dono. Questo dinamismo si dilata, spesso, fino a costituire una rete. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di realtà nate spontaneamente dal basso, dai nuclei familiari stessi che avvertono la necessità di riunirsi per condividere e far fronte ad alcuni loro bisogni fondamentali: dai più immediati e semplici – come l’accompagnare i figli a scuola o alle mille attività in cui sono coinvolti o il passarsi i vestiti che subito scappano di misura – ai più impegnativi – come il prezioso confronto educativo, quando i figli “strappano”, o il sostegno “medicinale” quando l’unità tra i coniugi è messa a dura prova o si spezza. Su questa solidarietà spontanea fioriscono forme associative organizzate. Infatti sono sempre più numerose nel tessuto sociale del nostro Paese le associazioni promosse e coordinate da famiglie. Esse si impegnano soprattutto in difesa dei loro diritti: cercano di sensibilizzare in questa direzione la società, le istituzioni e l’opinione pubblica e di sostenere le loro posizioni all’interno del dibattito culturale e politico, affinché vengano tenute in debita considerazione. In ambito educativo, l’associazionismo familiare accompagna tutte le fasi del ciclo di vita, attraverso una multiforme varietà di servizi: corsi per le giovani coppie, assistenza competente ai genitori, attività scolastiche e formative per i minori, opportunità ricreative e di sostegno rivolte agli anziani. Esistono poi altre organizzazioni – è il caso, ad esempio, del Forum delle Associazioni Familiari, presente con esponenti ed iniziative in tutte le regioni d’Italia – che praticano forme di coordinamento più articolate, su contesti territoriali più estesi, in grado di coinvolgere risorse anche numericamente più significative, per ottenere maggiore rilevanza a livello sociale e politico.

venerdì 25 maggio 2012

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 23 maggio 2012

Testi di riferimento: J. Carrón, «Introduzione», in «Non vivo più io, ma Cristo vive in me», suppl. Tracce-Litterae communionis, n. 5, maggio 2012, pp. 4-11; J. Carrón, «Abbiamo tanta strada da fare», la Repubblica,1 maggio 2012 . http://www.tracce.it/default.asp?id=266&id2=321&id_n=28278
• La ballata dell’uomo vecchio • Foggy Dew Gloria Dopo una chiacchierata con un amico, sono stato costretto a riprendere il testo della serata del venerdì degli Esercizi della Fraternità che avevo letto quasi di fretta, come una cosa da fare per arrivare poi al bello, il sabato. E mi ha colpito tantissimo la lettera di quel signore che descriveva la difficoltà di un’amica che stava male e che si era sentito esattamente come il papà di Eluana, ne aveva sentito scandalo; però si era accorto che questo umano, che avrebbe voluto non guardare, era la porta da cui entrare nella realtà. Questo l’ho collegato al finale della lettera che hai scritto a la Repubblica: «Abbiamo ancora un lungo cammino davanti e siamo felici di poterlo percorrere». Ora, di primo acchito a me viene da dire che, quando mi trovo di fronte a una situazione dura come quella descritta nella lettera, rimane sullo sfondo il fatto di essere contento perché prevale la fatica (o, magari, non mi accorgo nemmeno che c’è una strada da fare!). Mi pare invece di intuire che quel signore attraversa tutta la fatica che fa, ed essa diventa il punto sorgivo per iniziare a fare la strada ed essere contento di farla. Per cui viene descritta una traiettoria che è la cosa più invidiabile. Allora ti chiedo di aiutarci a capire come fa a diventare sinceramente desiderabile fare la strada, perché capisco che per te è una cosa desiderabile. Questa domanda è una modalità attraverso cui vediamo come incide su di noi il nichilismo. Basta che la situazione diventi complicata e uno rimane smarrito, non sa che strada ha da fare, come se l’io fosse fatto fuori. Rilancio: perché è desiderabile la strada? Per me la vita è faticosa quando non faccio questa strada. «La vita è faticosa quando non faccio questa strada». È alla rovescia! Il problema non è che facciamo fatica a fare la strada, ma che la vita diventa veramente insopportabile quando uno non la fa. Se non passa questa idea, anzi, meglio, questo sentore e questa urgenza, chi ce lo farà fare? Troveremo sempre qualche alibi per non farla. Se non nasce dalle urgenze del vivere, perché senza farla la vita è veramente insopportabile, chi ce lo fa fare? Allora, che esperienza hai fatto? Io mi rendo conto che cerco la soddisfazione dove la cercano tutti quando ho un’inerzia nei confronti di questa strada, cioè quando vivo dell’apparenza. E per me fare questa strada è necessario per poter vivere, vivere! Che cos’è questa strada? Per me è – come la descrivi tu – molto semplicemente l’autocoscienza, e io me ne rendo conto in tantissimi aspetti della mia vita. Quando ho un’inerzia, sono molle nei confronti di quello che mi succede, nei confronti di me stessa, io cedo alla mentalità di tutti e non vivo più. Dobbiamo capire che cosa è questa inerzia. Quando quella mattina ho letto il tuo articolo, più lo leggevo e più rimanevo senza parole per l’entusiasmo, nel senso che vedevo lì all’opera, in atto, la posizione che io desidero, ho sempre desiderato, di una libertà che non deve fare i calcoli sulla convenienza di dire o non dire certe cose, ma che stava dicendo sé senza aver paura né del proprio giudizio né del giudizio degli altri. Insomma: una libertà. E capivo che questo era possibile solo a uno che era tutto appoggiato su ciò che aveva di più caro, Gesù. È quello che io desidero, è quello che con entusiasmo ho cominciato nei giorni successivi a verificare, per vedere quante volte ero appoggiato su ciò che avevo di più 2 caro e, quindi, cosa succedeva. Quando questo accadeva io mi ritrovavo libero, senza sensi di colpa e senza dover fare i conti in maniera politica. E così ho capito un’altra cosa. Spesso noi diciamo: «Guarda, non sono io, io non sarei fatto così perché non ho questo carattere, invece mi ritrovo a essere più paziente, più misericordioso». No, se dico così sbaglio, quasi che Gesù in certi momenti mi desse dei superpoteri o che Lui agisse attraverso di me senza di me. Invece comincio a dire: quando io posso appoggiarmi su di Lui, e quindi sono libero, comincia a venir fuori davvero chi sono io. Perché io in realtà forse non so chi sono, ma lo scopro, come se Lui liberasse chi sono davanti ai miei occhi. Volevo raccontare come sto lavorando contemporaneamente sulla lettera e sugli Esercizi, avendo visto un legame assolutamente stretto e profondo. Tu ci avevi detto agli Esercizi che è beato chi ha un’apertura totale, cioè chi non riduce il suo cuore a sentimento e la realtà ad apparenza. È proprio vero, altrimenti si rischia che gli Esercizi siano entusiasmanti al 22 aprile e già sbiaditi all’1 maggio... Per me invece gli Esercizi e la lettera sono diventati un’unica cosa come lavoro. Ho visto nella lettera un’unità profonda per cui non ho fatto fatica a leggerla intera, fuggendo la tentazione di leggerla a brani, a pezzi. La lettera è un chiaro esempio per me del metodo che tu ci stai insegnando da tempo. Questa lettera è fatta da uno – questa è la prima reazione che ho avuto – che ha preso sul serio gli Esercizi e che sta lavorando sugli Esercizi come avvenimento che sta capitando a lui. Già a Rimini mi ero accorto che c’era stato un cammino da parte tua dal venerdì sera alla domenica mattina, tanto da farmi dire che se tu non avessi fatto (non semplicemente dettato) gli Esercizi, non avresti potuto scrivere una lettera così. Adesso dico due punti di lavoro sulla lettera. Il primo. La realtà è positiva, e per capirlo, come sempre ci hai ricordato, non bisogna censurare neanche gli errori (e io aggiungo: neanche i pruriti che possono sorgere in me o nelle comunità). Questa lettera è un giudizio che nasce da qualcosa di presente che accade e che ti raggiunge in tutti i pori della pelle, tenendo conto di tutti i fattori, anche di quelli che addolorano; quindi diventa un giudizio storico, e per dare un giudizio storico le circostanze sono essenziali. Un giudizio non mediato e non adattato al destinatario, ma teso al cuore di chi non fugge, perché fuggendo perdi l’occasione, perdi gli amici e quindi perdi Cristo. Quante volte io mi sono trovato a mediare un intervento un po’ adattandolo al destinatario perché ritenevo che quello che pensavo io avrebbe fatto “passare” meglio Gesù; invece ho notato dentro questa lettera una libertà che davvero mi affascina e che io vorrei imparare. Il secondo punto di lavoro è quello dell’autocoscienza: dove e in chi consisto? Che cosa ho di più caro? Anche oggi a me lo chiede l’imperatore, l’imperatore di cui innanzitutto è fatta la mia vita, la mia mentalità. Quante volte io decido nella mia vita privata o nella mia vita di prete quasi svendendo Cristo, che quindi non è più ciò che ho di più caro. Questo ha un riverbero sulla presenza che, come ci hai ricordato tu e ho riscontrato nella mia vita, non è potere bensì testimonianza. Quante volte ho confuso che la presenza coincidesse con la riuscita, cioè con la realizzazione del mio progetto. Forse Cristo non mi basta, allora. Devo vedere il risultato, e così mi convinco che sono stato una presenza. Il famoso «è, se opera» rischia di diventare: «Siccome ho visto che ha operato secondo il mio progetto, allora è». Così programmo anziché convertirmi. È una logica pericolosa, che intacca l’opera, ogni opera: pastorale, educativa, sociale, politica, assistenziale. Quindi ho solo una responsabilità, quella di rimanere in questo alveo, in questa strada che ho da fare, ma mi sembra così vera per me, per diventare serio, che sarei stupido se non la facessi. Stasera ho celebrato Messa, e il Vangelo era un brano del discorso di Gesù: «Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità» (Gv 17,15-17). Io penso che Gesù quella sera abbia pregato per me, per te, per noi e per questo frangente storico della nostra presenza. Come il popolo di Israele possiamo anche noi essere spogliati di tutto. Ma Cristo rimane e so che la Sua misericordia, di cui ho tanto bisogno, è eterna, e davvero devo convincermi con l’esperienza che questo mi basta. Non voglio aggiungere altro alle tante cose belle che hai detto. Sottolineo la questione del metodo – su cui ritornerò dopo – per rispondere alla questione della strada. La strada è desiderabile e 3 possiamo essere felici di farla proprio perché vediamo che, percorrendola, succede questo che hai appena detto. Mi sono accorto, a proposito della lettera, di aver fatto due sbagli leggendola. Il primo: pensare che l’errore di cui si parla sia un errore moralistico («Non sono coerente, faccio i peccati mentre mi muovo nelle circostanze»). E il secondo: pensare che riguardasse la sfera politica della presenza, mentre a me sembra che sia qualcosa che riguarda me e tutti, e sia un problema di concezione. Tutte le volte che non mi stupisco della realtà presente vivo un’egemonia: io ho un’idea sulla realtà, voglio che si realizzi e quindi forzo le cose. Naturalmente, mi deludo quando la realtà non è come la vorrei. Ma perché faccio così? Perché non sono stupito; perché, essendo vuoto, devo pur riempire il mio animo di qualcosa, e allora inizio a pretendere, impercettibilmente. Quindi il problema mi sembra essere di metodo: il non-stupore della Presenza. Parlo di stupore perché non basta dire: «Il Mistero vuole così». Io devo stupirmi, devo avere il contraccolpo dell’essere, perché altrimenti, poi, non basta una riflessione morale sulla fede. A questo punto si verifica la riduzione dello stupore. Perché è come se io (e molti intorno a me) mi rassegnassi: lo stupore è un’esperienza che si può fare solo ogni tanto (se accade una cosa buona, se ho un certo vigore). Mi stupisco solo certe volte, e quindi di solito non mi stupisco. E siccome non mi stupisco, cerco il potere. Mentre lo stupore è di ogni istante: ogni circostanza, anche la peggiore, mi può permettere un rapporto con la Presenza, se no non è vero che accade ora. Supponiamo che io sia giù di corda: se riprendo me stesso, se faccio il cammino non come meccanismo, io mi stupisco perché riprendere coscienza di me stesso, ritornare alle domande vuol dire che io nell’istante vedo la Presenza, e quindi non ci sono circostanze in cui non possa stupirmi. Questa mi sembra una questione cruciale. Capisco, allora, perché facciamo così fatica sull’affermazione che la realtà è positiva: perché non si può pensare che la realtà sia positiva, se non c’è la Presenza. Ci si può forzare a dire che la realtà è positiva; ma solo se vedo qualcosa che mi corrisponde, la realtà è positiva; altrimenti, anche se lo dico, non è vero. Il problema – è verissimo – non è moralistico. Non dobbiamo stracciarci le vesti perché ci accorgiamo di avere cercato la soddisfazione dove la cercano gli altri. Questo è soltanto la conseguenza. Che mistero c’è, che noi, davanti al desiderio che abbiamo, non cerchiamo la soddisfazione? Non è possibile non cercarla. La questione, allora, non è che abbiamo sbagliato. La questione è: qual è l’origine di questo sbaglio? E l’origine non è che io sono incoerente (perché lo sono); che mistero è che la fragilità sia fragile o che la debolezza sia debole? È la scoperta dell’acqua calda. Per questo non sarebbe valsa la pena aver scritto la lettera. Occorre mettere in evidenza un’altra questione: perché noi cerchiamo la soddisfazione dove la cercano tutti? Allora non è un problema di incoerenza, è un problema di fede, è un problema di cosa significa per noi Cristo, di che cosa abbiamo di più caro! E questo non riguarda anzitutto una coerenza, ma la sostanza del vivere. Perché questo stupore non ci conquista? Perché lo riteniamo qualcosa che accade solo una volta ogni tanto? Perché noi, invece di un cammino vogliamo un miracolo. La settimana scorsa facevo lezione in Cattolica sul capitolo decimo de Il senso religioso. Tutti sapete come incomincia. Giussani ci invita a immaginare di nascere con la coscienza che abbiamo adesso, eccetera. Appena finita la prima ora c’è una pausa; mi raggiunge alla cattedra uno studente che mi dice: «Durante questa lezione ho percepito tutta la distrazione con cui mi sono svegliato. Capisco benissimo cosa dice don Giussani, perché quel che dice non devo immaginarlo, a me è proprio successo: ho avuto un incidente di moto e mi sono salvato per miracolo. Allora quando mi sono svegliato la prima volta dopo l’incidente, il fatto di esserci mi riempiva di stupore, non potevo evitare che la mia vita fosse invasa da questa sorpresa, e così tante volte durante i primi giorni. Ma poi tutto si è affievolito, tutto si è indebolito. E stamattina mi sono alzato, come tanti altri giorni, distratto». Vedete? Noi stiamo sognando il miracolo; a questo ragazzo è capitato il miracolo, ma non è bastato, perché occorre un cammino. Se il miracolo non introduce a un cammino, se non introduce a un uso adeguato la ragione, se non cavalco quella facilitazione attraverso cui mi rendo conto che la vita mi è data e non faccio tutto il percorso della mia ragione lavorandoci su, dopo un 4 po’ scade. E questa è – come dice Giussani – la nostra immoralità, ma l’immoralità rispetto al fatto, rispetto all’evento, non l’incoerenza di non essere all’altezza (questa è una conseguenza). L’immoralità è non aver seguito quell’evento che ci ha fatto scattare questa coscienza. Se il fatto non diventa moralità, se non diventa responsabilità, allora non rispondo con tutto il mio io e l’intenzione non penetra come una ferita e un giudizio su di me, come un giudizio che muove, che cerca di muovere a un lavoro; diventa tutto sentimentale, mi ridesto e vedo che vivo ancora, però non è ancora una coscienza di me, un uso vero della ragione. E che cosa succede? Sentite che cosa dice Giussani alle pagine 315-316 di Certi di alcune grandi cose: «È come trovare nel proprio terreno un filo di pianta, un fiore, e non incrementarlo, non curarlo. Un individuo, un giardiniere o un agricoltore che metta giù il seme di questa pianta e poi non la curi è un incosciente, un irresponsabile, cioè un immorale. Il problema nostro è proprio questa parola: l’immoralità [immoralità con il fatto, non incoerenza etica]. Di fronte a ciò che ci è stato dato [la vita, la fede, il carisma, l’incontro, tantissime occasioni in cui noi siamo stati ridestati da un fatto, da un evento, da qualcosa che ci siamo raccontati; quelli di Corazin e Betsàida, di cui Gesù diceva che avevano una responsabilità enorme perché avevano visto tantissimi miracoli, sono dilettanti rispetto a quanti miracoli sperimentiamo tra di noi, dilettanti!] e che, nonostante tutta la nostra connivenza (nel fare entrare il mondo in noi e quindi nell’emarginare lentamente, nel censurare o nel lasciare nell’aridità e senza alimento questo filo di desiderio), rimane e c’è ancora, il nostro problema è l’immoralità, vale a dire la non cura di esso. Quel filo di desiderio non diventa nostro, mio: mio come giudizio e mio come volontà. Quel filo di desiderio, cioè, non viene riconosciuto e posseduto da me, non diventa consapevole: è come se rimanesse per forza di inerzia. Questa inerzia è l’immoralità». Finché la forza dell’inerzia fa ritornare al vecchio tran tran. La nostra immoralità è la mancanza di sequela di Giussani in questo. Il cammino che ci propone spesso ci sembra una cosa astratta: «Allargare la ragione? Ma chi se ne importa!». Domenica mattina ho fatto il ritiro dei novizi dei Memores Domini riprendendo una lezione in cui Giussani afferma che la questione principale è il lavoro sullo strumento del pensiero. Per noi questa è la cosa più lontana! Tanto che pensiamo: è Giussani che ha questo pallino, il Papa ha lo stesso pallino. È come se fossero marziani tutti e due! Dopodiché, non stupendoci di niente, cerchiamo la soddisfazione dove tutti la cercano. Ma, ripeto, questa è una conseguenza, a me non interessa in questo momento. Continua don Giussani: «Se il problema fosse la coerenza, avremmo mille alibi per non impegnarci più. Invece, l’immoralità è qualcosa che sta alla radice, mentre il problema della coerenza è il problema di uno sviluppo. Sotto il problema della coerenza o dell’incoerenza sta un problema di verità o di menzogna, di verità di sé. Questo è contenuto in quello che io chiamo “filo di desiderio”, cioè in quell’inizio che ci rimane dentro: il riconoscimento o la scoperta di qualcosa d’altro come risposta a quello che siamo, la scoperta di qualcosa che è tutto! Quel filo di desiderio è una unità di fondo, cioè una posizione umana, che, se io sono incoerente mille volte al giorno, mille volte mi giudica. Ma, se io non ho questa unità di fondo riconosciuta e posseduta, io non mi giudico più nelle mille incoerenze, e giungo a dire: “Sono inevitabili!”, e poi: “Beh, in fondo in fondo, che cosa c’è di strano?”, e infine: “È giusto fare così”». Tale e quale, la nostra radiografia! Se noi non colpiamo l’origine, se l’avvenimento cristiano, e prima di tutto la realtà, non ridesta in noi quel filo di desiderio che ci rende desiderosi di respirare e non soffocare (perché non possiamo vivere senza riconoscere la realtà in tutta la sua originalità), allora rimaniamo razionalisti e quindi nichilisti, e siccome non possiamo evitare di desiderare, cerchiamo la soddisfazione in cose senza consistenza, perché abbiamo già perso il rapporto con l’origine della realtà, con il mistero della realtà. E allora noi viviamo la realtà come tutti. Quando, invece, per grazia seguiamo don Giussani, lo si vede non perché facciamo il discorso più giusto, ma nel modo con cui noi viviamo le circostanze. È lì dove ciascuno fa il test. Come avevo detto alla diaconia della Lombardia, davanti ai primi commenti entusiasti due giorni dopo aver finito gli Esercizi: «Calma, il vero test degli Esercizi è come stiamo davanti alla realtà, per esempio a quello che dicono i giornali». Adesso, dopo la lettera che ho scritto, potete vedere qual è la differenza: alcuni che erano entusiasti si sono arrabbiati per la lettera. È lì dove mostriamo che cosa abbiamo di più caro, se con l’Avvenimento possiamo guardare tutto, 5 perfino i nostri sbagli, senza giustificarli. Occorre che quel che ridesta il nostro umano non diventi soltanto un sentimentalismo (come quando uno si ridesta dopo un incidente e nel tempo, per inerzia, decade), ma diventi nostro come uso della ragione, come autocoscienza di noi. Sarebbe un peccato che non ci rendessimo conto di questo. Io racconto un fatto che è successo in università. Da noi ci sono le elezioni dei rappresentanti degli studenti. Nella mia facoltà hanno appena cambiato il calendario accademico e gli appelli, e siccome è un tema molto scottante l’altra lista sta facendo tutta la campagna elettorale su questo tema, su come riportare le cose come erano prima eccetera. Hanno fatto un’assemblea pubblica in cui hanno invitato tutti per sentire le opinioni degli studenti. Mi raccontano di questa assemblea e che a un certo punto uno interviene e dice: «Ma non è che dietro tutta questa storia del cambio degli appelli c’è lo zampino di quelli di CL?». Appena sento questo salto su, perché mi addolora che la nostra presenza venga maltrattata e fraintesa così. Due di noi, che erano presenti, non avevano reagito, per cui mi sono arrabbiata che non avessero detto niente. Discutendo, a un certo punto una dice: «Non mi sembrava utile fare polemica in quel momento». Quando ha detto così, mi sono accorta che anche io faccio esattamente lo stesso: salto la realtà prima di chiedermi che cosa ho davanti, e passo subito ad altro (come è utile muoversi, come fare sì che gli altri possano capire che non è vero), e quindi non ne arrivo a una. La nostra, la maggioranza delle volte, è una reazione viscerale. Da lì è stato bellissimo il lavoro che è venuto fuori, perché ci siamo chiesti: di che cosa si tratta? Il problema non era quello di ribattere qualcosa, ma che proprio la natura della nostra presenza veniva messa a repentaglio per quel commento, come se noi fossimo quelli che tramano. Allora abbiamo scritto un volantino semplicissimo, in cui abbiamo spiegato che i professori avevano preso questa decisione senza consultare gli studenti, in che data l’avevano resa pubblica, quali rappresentanti degli studenti erano presenti, eccetera; abbiamo concluso dicendo che l’obiettivo che noi abbiamo a cuore nel lavoro di rappresentanza è quello di poter avere una formazione migliore, innanzitutto lavorando alla didattica e alle attività professionalizzanti, più che alla disposizione degli appelli d’esame. Alla fine abbiamo scritto: «Se in questo lavoro siamo stati mancanti, accettiamo ogni critica costruttiva, ma non siamo disposti a tollerare insinuazioni infondate». Mi ha colpito che per me il giudizio era tutto dentro il contraccolpo che ho sentito in me quando mi hanno detto che cosa era successo, non è stato qualcosa di macchinoso che ho dovuto aggiungere dopo, perché io reagivo così proprio perché stavano sputando sopra quello che io ho di più caro e perché questo emergesse è stato necessario che io andassi dietro a quel contraccolpo. Questo è il punto: occorre andare dietro a quel contraccolpo, cioè incominciare a usare la ragione a partire da quel contraccolpo. Come? Vivendo quella passività che è la prima attività di cui parla Giussani nel capitolo decimo. Perché io avrei potuto pensare semplicemente: pazienza, pensano così, affari loro. E nessuno mi sarebbe venuto a disturbare, visto che nessuno aveva detto niente. Invece, proprio andando dietro, è emerso un punto interessante per noi e interessante per tanti altri, che poi erano anche contenti del volantino che abbiamo scritto. Capisco anche che tutta la mia inconsistenza, di cui tu parli al venerdì sera, dipende da questo continuo salto della realtà, che è proprio il più grande pretesto che io do, da questa mancanza di giudizio (perché io tratto male la realtà, e questo potrà sempre capitare perché sbaglierò sempre, ma non giudicando o non me ne accorgo, e quindi è come se non l’avessi trattata male, oppure posso svicolare, dire che era colpa degli altri, dire che era colpa di quei due, e quindi giustificarmi di fronte al mio errore). In una cena con te veniva fuori che tante volte i gesti che facciamo non sono proporzionati e volti all’unico scopo che Giussani identifica del movimento, cioè la generazione di un soggetto. Quel che capita, anche gli errori umilianti, può essere la riscossa per fare una strada, perché c’è un luogo che ha a cuore me, che io possa consistere, che io possa essere: è il più grande segno di una misericordia su di me ed è il più grande motivo di gratitudine. 6 Noi rimaniamo inconsistenti e non si genera un soggetto diverso se, davanti a queste provocazioni, il contraccolpo non è accompagnato e seguito da un uso della ragione adeguato. Se non è così, scordiamoci che possa sorgere un soggetto diverso che sia in grado di porsi nella realtà con tutta la sua ragionevolezza, con tutta la capacità di risposta non ideologica o reattiva, ma come forza di testimonianza di un modo diverso di essere nel reale. Perché, davanti agli attacchi che abbiamo ricevuto, avremmo potuto dire: «Lasciamo stare, scriviamo ai giornali dicendo cosa siamo perché non continuino a dire cose che non siamo». Avrebbero riso tutti, perché noi diciamo cosa siamo rispondendo a quello che ci capita. Altrimenti non vinciamo mai il dualismo che ci troviamo addosso: da una parte, affrontiamo la realtà razionalisticamente, come tutti, e poi facciamo il discorso corretto. Ma questo è quello che Cristo ha fatto saltare! Contenuto e metodo coincidono. È questa la difficoltà. Per questo non ci sarà soggetto nuovo, se questo non accade. E come accade? Se ciascuno di noi non lascia passare alcuna occasione senza giudicare. Se lascia perdere per inerzia, sarà un’occasione perduta. Se invece ogni occasione che il Mistero non ci risparmia è per fare questa strada, per fare quel cammino che ci stiamo dicendo, per usare la ragione in un certo modo, per muovere la libertà, allora ogni circostanza che la vita ci offre è un’occasione della generazione di un soggetto. Il soggetto non nasce per caso, non nasce come un miracolo, nasce come la risposta a quell’evento che mette in moto la totalità dell’io e che gli fa usare la ragione, la libertà e l’affezione in un modo diverso: si chiama “creatura nuova”. Ma questo soggetto può venir fuori soltanto se noi collaboriamo con il Mistero che agisce costantemente per grazia ridestandoci e che non ci risparmia la strada, perché altrimenti non sarà mai nostra. Non è che non vediamo tantissimi miracoli accadere davanti ai nostri occhi, non possiamo lamentarci che abbiamo chiesto il miracolo e non l’abbiamo visto, ne abbiamo visti fin troppi. Il problema è che quei miracoli che abbiamo visto non generano un soggetto, perché non mettono in moto la totalità del nostro io come uso della ragione e della libertà. Allora per noi questo soggetto nuovo sarà soltanto un sogno o una chimera assolutamente irraggiungibile. Invece, se vediamo delle persone che, tentativamente, in mezzo a tutti i tentennamenti, zoppicando, fanno questa strada, allora ci testimoniano che è una possibilità per noi. Quando è uscita la lettera su la Repubblica, da una parte, mi sono un po’ innervosita, perché quasi dicevo: ma come puoi guardare tu più a me che io stessa? Perché i miei limiti, il mio tradimento sempre mi definiscono, e invece tu abbracciavi tutta quella che sono io. Però è rimasto quasi uno scandalo, invece che un lasciarmi abbracciare. Ma è accaduto un fatto nel reparto in cui lavoro: è nato un bambino al quale, dopo una settimana di vita, hanno trovato una patologia genetica incompatibile con la vita. È stato impressionante, perché tantissime mie colleghe hanno iniziato a chiedersi: «Ma perché esiste questo bambino? Prima o poi morirà, non potevano scoprirlo prima i suoi genitori, così lo facevano morire prima e non era inutile per il mondo?». Di fronte a questo mi sono ribellata immediatamente, perché il punto non è che lui fosse diverso da me; quel bambino c’è ancora, come io ci sono, è voluto, è amato, è preferito esattamente solo per il fatto che c’è, e nessuna malformazione, nessuna circostanza, nessuna condizione avversa può togliere tutto il valore che è, cioè il rapporto con Uno che lo vuole ora. Ma questo mai l’avrei potuto scoprire, se non partendo da quello sguardo amorevole che c’è continuamente su di me e che supera e abbraccia tutto il limite e tutto il tradimento che sono. Mi ha impressionato perché, da quando ci hanno comunicato la sindrome del bambino, io mi sono talmente affezionata a lui che ho chiesto se potevo seguirlo sempre, tanto che un giorno una mamma del reparto – loro tendenzialmente sono sempre silenziose, ci guardano fare – alla fine del turno è venuta da me e mi ha detto testualmente: «Comunque si vede subito per chi i nostri bambini sono un peso e per chi qualcuno di cui stupirsi». Ho ricapito ancora di più tutto il valore di quella lettera e tutto il valore dell’incontro che ho fatto con Cristo: uno sguardo che non mi circoscrive ai miei sbagli soliti, alla mia abitudine a me stessa o al mio tradimento, ma che continuamente ridà valore a me per quella che sono. Così io, quasi inconsciamente, posso guardare la realtà tutta come Lui guarda me. 7 Che uno possa stupirsi davanti a un bambino così (che sembrerebbe una contraddizione all’affermazione della positività della realtà) indica la rivoluzione che, senza alcuna visione “mistica”, si può raggiungere. Perché questa è la sorpresa che fa accadere Cristo in noi quando siamo consapevoli di come siamo stati guardati, e questa autocoscienza ci impedisce di ridurre la realtà soltanto all’apparenza, al contraccolpo sentimentale che mi provoca, e allora io la guardo con tutta la profondità con cui guardo me stesso: voluto e preferito. E la mamma che è lì si rende conto della differenza tra chi tratta i bambini come un peso e chi li guarda con stupore. Nessuno direbbe che un bambino così può destare stupore, solo la sua mamma per l’affezione che ha, ma per tutti gli altri è il contrario: ripugnanza. Invece questo sguardo sulla realtà che può capitare dappertutto, come dicevamo prima, che può diventare il rapporto normale con la realtà, è ciò che Cristo vuole generare in noi, perché un soggetto in grado di stupirsi è così pieno che non deve cercare altrove quello che lo riempie. Questa è la promessa che tanti state già incominciando a scoprire e che, nella misura in cui noi seguiamo don Giussani, possiamo veramente aspettarci che diventerà nostra, sempre di più. E questa sarà la possibilità della testimonianza a tutti, come mi scrive una di voi a proposito della lettera: «Venerdì sera ero a una cena della Milano “superbene” con avvocati e accademici, anche stranamente simpatici direi, e uno di loro dopo un po’ di convenevoli e ovvietà, avendo portato il discorso sulla tua lettera e non sulle corbellerie della politica, mi ha detto che lui aveva iniziato a leggerla per curiosità, per essere aggiornato sugli ultimi pettegolezzi sul tema, ma poi è rimasto così colpito che continua a rileggerla anzi, ha detto: “A meditarla”, in particolare per quel punto in cui dici che “Cristo non è sconfitto dalle nostre sconfitte”». Tanti mi hanno scritto cose così. Soltanto se noi affrontiamo le circostanze che dobbiamo affrontare davanti a tutti, davanti a tutto il reale, senza nasconderci, allora esse diventano l’occasione della testimonianza, di capire che la nostra presenza non ha bisogno di egemonia per essere realmente incidente sulla storia, perché quello che incide di più è la testimonianza cristiana, cioè la testimonianza che nasce dallo stupore dell’avvenimento di Cristo che ci fa stare nel reale diversamente. Mi sembra che questo ci metta adesso nelle migliori condizioni per capire perché interessa a tutti non perdere l’occasione di lavorare sugli Esercizi, dove si descrive la strada da percorrere. La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 20 giugno 2012 alle ore 21.30. Riprenderemo la prima lezione degli Esercizi della Fraternità. Giornata Mondiale della Famiglia. L’incontro con il Papa che viene pellegrino a Milano il 2 e 3 giugno ci trovi disponibili a riconoscere che il suo magistero non è l’opinione di un leader o un’opinione tra le tante a cui di solito si riduce il Papa. Il Papa è il punto attraverso cui la verità di Cristo ci raggiunge, ci libera, salva la nostra ragione e la nostra libertà. Offriamo perciò il sacrificio e la fatica che il gesto implicherà, per i disagi connessi a questi gesti, per la purificazione del nostro cuore e per il bene del Movimento, del Papa, della Chiesa e della società. Il Libro del mese di maggio e giugno è Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij di Tat’jana Kasatkina (edizione Itacalibri). Questo libro riunisce varie conferenze e alcune conversazioni tra Tat’jana Kasatkina (studiosa russa, profonda conoscitrice di Dostoevskij) e gli studenti della scuola “La Traccia” che hanno messo in scena Delitto e Castigo e altri interventi suoi. Ve lo proponiamo perché Tat’jana Kasatkina è per noi un esempio palese di che cosa è una presenza cristiana in grado di valorizzare tutto senza ridursi a uno schieramento. Per me è un atteggiamento da imparare, come abbiamo visto questa sera. Veni Sancte Spiritus

L’ospitalità, miracolo di Cristo all’opera

Un estratto dell’introduzione di don Julián Carrón al libro "Il miracolo dell’ospitalità", di Luigi Giussani (Piemme), una raccolta di dialoghi con i membri dell’associazione Famiglie per l’Accoglienza che festeggia i 30 anni di storia
Da dove nasce la capacità di accoglienza delle famiglie. Perché l’ospitalità è un miracolo? Sembrerebbe la cosa più scontata: aprire la porta della propria casa per fare entrare qualcuno dovrebbe essere normale. Perché, allora, don Giussani la paragona a un fatto miracoloso? Perché dovrebbe essere l’esperienza normale di una famiglia, e invece è così eccezionale che quando accade tutti ci stupiamo. Viviamo in un contesto umano, culturale e sociale frutto di una lunga storia, che ha eroso i fattori dell’esperienza elementare: uno innanzitutto, cioè l’apertura originale del cuore e la percezione della realtà come positiva, come carica di promessa per la propria vita. Nel tempo si è introdotta una distanza per cui le cose e le persone sono diventate come estranee. È terribile questa affermazione di Sartre: «Le mie mani, cosa sono le mie mani? La distanza incommensurabile che mi divide dal mondo degli oggetti e mi separa da essi per sempre». Come ha ricordato Benedetto XVI incontrando i fidanzati ad Ancona l’11 settembre 2011: «Nel disorientamento, ciascuno è spinto a muoversi in maniera individuale e autonoma, spesso nel solo perimetro del presente. La frammentazione del tessuto comunitario si riflette in un relativismo che intacca i valori essenziali; la consonanza di sensazioni, di stati d’animo e di emozioni sembra più importante della condivisione di un progetto di vita. Anche le scelte di fondo allora diventano fragili, esposte ad una perenne revocabilità, che spesso viene ritenuta espressione di libertà, mentre ne segnala piuttosto la carenza». Proprio in questo contesto una famiglia che apre la propria casa a un bambino o a una persona in difficoltà come fanno le Famiglie per l’Accoglienza, dilatando l’orizzonte del proprio affetto a un "estraneo", ha in sé qualcosa di divino che vince quella distanza. Fino al punto che don Giussani la paragona con un brano della Lettera agli Ebrei: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo». E commenta: «Non è che siano angeli: sono più che angeli! Sono figli di Dio, parte del mistero della persona di Cristo. […] È come vedere uno che va in giro di notte più fluorescente. E la gente si rincuora [...] vedendo o leggendo quel che vivete». Questa è la portata di quell’apertura originale del cuore che la fede svela nella sua profondità, rendendo possibile un’esperienza altrimenti irrealizzabile, specialmente in un’epoca come la nostra. La promessa, infatti, è che sia vinta la frattura descritta da Sartre. Questo ci facilita nel riconoscere che un fatto come le Famiglie per l’Accoglienza non è frutto di una immaginazione umana, perché quella distanza è incolmabile dall’uomo con le sue forze limitate, per quanto generosamente impiegate. Condividendo lo sguardo con cui Cristo guarda le persone e le cose, si può entrare nell’arena, accettando sacrifici anche duri, come accade a tanti che condividono la vita dei ragazzi e delle persone che sono loro affidate. È una testimonianza della natura del cristianesimo: non richiede alcuno sforzo titanico né alcuna capacità particolare, perché irrompe nella vita come qualcosa di imprevisto che investe l’io e lo cambia. È un’esperienza entusiasmante essere invitati a pranzo da una famiglia e vedere Cristo all’opera mentre si è a tavola, attraverso i segni di una umanità che tratta tutto in modo nuovo, non ridotto, con una carità e una pazienza impossibili all’uomo. E poi con una letizia, pur dentro le difficoltà e le incomprensioni quotidiane, che è già la vittoria sul nulla e sulla scontatezza nei rapporti. «Non esiste oggettivamente nessun atto più grande dell’ospitalità: da un’ospitalità così radicale come l’adozione, fino all’ospitalità a pranzo o all’offerta di un tetto a una persona che passi per Milano anche una volta sola. Una delle cose più belle che fra i miei amici ho visto realizzare è questo nesso, questa trama di famiglie disponibili a ospitare chiunque», ricordava don Giussani nel 1985. L’ospitalità è senza misura e senza calcolo. È, infatti, il comunicarsi di un "pieno" sul quale la vita poggia, frutto imprevisto di un’ospitalità che viene prima, come fu per la Madonna: il suo sì all’annuncio dell’Angelo ha generato il bene più grande che il mondo potesse desiderare. L’avere accolto la preferenza del Mistero nella sua vita, non avere opposto nulla, neppure i suoi limiti e la sua fragilità, come facilmente accade a tanti di noi, alla scelta di Dio l’ha resa madre del Figlio di Dio, che da duemila anni attraversa la storia e raggiunge ciascuno di noi nella situazione in cui ci troviamo. Avremo anche noi la semplicità di Maria di farGli spazio, ospitandoLo nel ventre della nostra vita? C’è qualcosa di più interessante per un uomo e una donna di questa collaborazione all’opera del Padre nel mondo, per vincere il vuoto con la forza di una presenza? La forma di questa collaborazione all’opera del Padre, poi, è libera da ogni schema precostituito, come ci ricorda sempre don Giussani in questa pagina impressionante: «Essere padre e madre è buttare fuori un feto dal ventre materno? No! E se un feto fatto da un’altra donna tu lo raccogli a due mesi, quattro mesi, cinque mesi e lo educhi, la madre sei tu, nel senso fisiologico e ontologico del termine! E se tu fai questo anche senza averlo lì presente perché tuo marito non vuole, oppure perché hai paura e non ti senti, anche se lo chiedi a Dio, in quanto conosci un povero bambino che vive male, maltrattato da una famiglia non sua, e offri tutta la tua giornata alla mattina dicendo: "Signore, ti offro la mia giornata perché tu aiuti quel bambino", questa è una maternità più fine ancora, più "genetica" di qualsiasi altra maternità. Infatti le nostre madri, che sono state madri cristiane, guardavano a noi figli così!». Auguriamoci che una briciola di questo sguardo diventi anche nostra, per essere protagonisti della quotidiana lotta per affermare l’inesorabile positività del reale davanti al nulla che incombe sulle nostre giornate, inizio di una umanità nuova. di Julián Carrón - presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione - Avvenire

martedì 22 maggio 2012

Qual è il nostro "mestiere" quando il male ci sovrasta?

Anche quando scopriremo (speriamo presto) chi e perché ha messo la bomba fuori dalla scuola di Brindisi, si coprirà la ferita? E se anche scoprissimo tutte le ragioni geologiche e nascoste che hanno avviato il terremoto tra Emilia e Veneto, smetteremo di tremare? Comunque ci sarà chi continuerà a piangere. Ci sarà chi guarderà un vuoto dove c’era un pieno, un viso, un gesto. Questi fatti ci stordiscono. Ma in questo stordimento – proprio lì, nel non capir più niente, insomma, nel restare in quel tragico rimbambimento – possiamo acquistare una favilla di conoscenza? di sapienza? O si tratta solo di prendere botte dalla vita? Dinanzi a fatti così non ci sono che due alternative: o si diventa più sapienti o i più fortunati – i meno investiti dalla forza dell’esplosione o dell’urto – rinforzano i ripari. In attesa di altre botte. Di altri guai. Lo diceva la fantastica spietata Lucia dei Promessi Sposi: io i guai non me li sono cercati. Per questo trovava carente il ragionamento di Renzo, il suo “bel moralista” (dice così il Manzoni educato sui testi dei moralisti francesi del 700, quelli accusati da Baudelaire d’esser la fonte di ogni equivoco). Renzo infatti dopo una faccenda di guai, di peste, di rapimenti e di amore ostacolato aveva sentenziato d’aver imparato una cosa importante: nella vita non bisogna cercar guai. Stare tranquilli, stare a posto. Non dare pretesto di lamento o di attacco a nessuno. Evitare i guai. Invece Lucia, la dona “però”, la vera avversaria del luogo comune, dice appunto: ma io i guai non me li sono cercati. Melissa non ha cercato la bomba davanti alla scuola. Né i suoi genitori hanno cercato quel maledetto mattino. E gli operai morti nel ferrarese stavano lavorando, non cercando guai, quando il tetto è crollato loro addosso. E dunque, di fronte ai guai che arrivano non cercati – questi grandi tragici, enormi guai – o quelli anche più miseri, ma duri della vita di tutti, come si puà campare, come si può vivere? Cercando riparo? Certo, ma quando non c’è riparo? L’abisso ci tira per i piedi. Non chiede permesso di entrare nella misura della vita, nella trafila dei giorni a sconvolgerla. Un Grande Ospite. Un terribile ospite. Davanti al grande Guaio non cercheremo di diventare più sapienti? Io non voglio accontentarmi della retorica dei rappresentanti delle Istituzioni. Né di quella dei giornalisti. Non voglio, non voglio che sian morti! grida Pascoli nella prefazione alla sua poesia. Voglio stare con questo grido. Seguitarlo, lanciarlo e continuare a lanciarlo. E seguirlo, veramente. Vedere dove mi porta. Se verso il nulla o verso una dismisura in cui la vita e la morte fanno parte di qualcosa di più grande. Io voglio seguire il grido dei padri e delle madri e dei figli delle vittime, l’unica parola, o forse nemmeno parola, ma grido e forse persino in forma – povera, oscurata – di bestemmia. Voglio seguire quel resto di voce umana, non i discorsi preconfezionati. Vedere dove mi porta. A che sapienza maggiore. A scoprire che cosa. A vedere che cosa. Ai “moralisti” come Renzo Tramaglino lascio le chiacchiere di buon senso. I discorsi che tornano. I richiami etici. Io sto nel grido. Ci sono stato tante volte. Un grido vasto come il cielo. A cui solo il cielo se ha parola, se ha parola umanamente comprensibile, se ha gesto, se ha amicizia, se ha pietà, può rispondere. Lo faccia, Dio. Faccia il suo mestiere. Noi facciamo il nostro ora: che è quello di gridare verso di Lui. Davide Rondoni

lunedì 14 maggio 2012

Il cuore e la Borsa

Non scoraggiarti Italia, dice il Papa. E’ come se fosse stato con me, stanotte in uno dei tanti viaggi notturni che mi portano su vagoni stipati, stazioni piene di spettri, ragazzi maleducati, facce d’angelo e apparizioni di beltà. In un ventre dolente d’Italia. Lui dice: abbi coraggio, in questa crisi che avanza e che viene - lo ha ripetuto - dal cuore, non dai listini di borsa. Ma appunto riprendere cuore, rifarsi cuore. Coraggio. Come si fa? Quando il cuore crolla - più della borsa - vedendo il numero dei suicidi che aumenta, i segni di irresponsabilità maiala di capi dei media, che s’allarga al popolo che pensa: tanto non c’è niente da fare, tutti ladri sono, tutto schifo… Come si fa a non cedere a quello che il grande Baudelaire - poeta di tutte le crisi e di tutte le bellezze possibili - chiamava: l’avvilimento del cuore, indicandolo causa primaria delle crisi dei sistemi. Rifarsi coraggio, opporsi all’avvilimento. E’ questa la cosa più dura, non solo di notte in stazione, ma anche incontrando sui binari alle 8 le facce risentite di quelli che lavorano senza soddisfazione. O quelli di coloro che non sanno più perché fare fatica, spostare qualcosa che è inciampo agli altri. La malora. L’ho chiamata così nei mesi scorsi. In una poesia di 7 anni fa presentivo come un lupo che non ci saremmo trovati in un bello spettacolo. L’avanzare della malora moltiplica i “ring”, gli scontri. I risentimenti. E allora il Papa nella meravigliosa Arezzo dice: abbiate coraggio. Lo dice da lì, dalla città che custodisce alcuni dei tesori più alti e impagabili della nostra storia. Nati dal coraggio di artisti e signorotti che non erano certo stinchi di santo, ma non avevano il cuore avvilito. Il Papa che porta il nome dell’uomo che affrontò la più grande Crisi della storia, dopo la fine dell’impero romano, e la affrontò armato di poche parole nella sua Regola (c’è un uomo che ama la vita e desidera giorni felici?) da Arezzo ci dice: rifatevi il cuore. Perché ve lo siete fatto mangiare. Ve lo siete fatto diventare di nebbia. Lo avete avvilito. Rifatevi cuore, ci dice. Ma se si fermasse a dire così, se si fermasse a questo sacrosanto appello, sarebbe quasi meglio che tacesse. Sarebbe meglio che smontasse dal podio e tacesse. Come sarebbe meglio che tacessero quelli che al nostro popolo avvilito lanciano appelli d’ottimismo. E richiami, e predicozzi. Si facessero un viaggio in treno di notte. Tacessero. E anche il Papa, se non fosse che lui non si ferma a dire: coraggio. Dice anche da dove provare a rifare il cuore. Lo ha detto lui, lo ha detto Arezzo con le sue magnifiche facciate, le sue opere di Piero della Francesca, i suoi palazzi, le sue vie, le sue belle campagne e pievi sperdute, le sue belle donne, le sue opere di carità, lo ha detto il Papa con tutta Arezzo intorno. Ha detto guardate la storia cristiana. Guardate dove c’era e dove c’è cuore. Perché il coraggio non ce lo si dà da soli. Lo si imita da qualcuno. Lo sa chiunque in battaglia (e questa è una battaglia). Lo si prende, lo si supplica con gli occhi. Lo si cerca nella malora. E lo si trova. Perché un cuore coraggioso lo trovi sempre se lo cerchi. Benedetto ci ha detto cosa si può fare. Non ha fatto solo una predica. Lui e la splendida Arezzo hanno parlato chiaro. Ci hanno dato cuore. Davide Rondoni lunedì 14 maggio 2012 http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale

sabato 12 maggio 2012

La forza delle madri

Pensieri davanti al carcere
Le contempli sotto la pensilina attonite e mute, coi loro fagotti di bucato profumato e qualche pacchetto di biscotti da recare oltre le sbarre. Senza trucchi o abiti ricercati, sotto il sole cocente d’agosto come sotto la nebbia padana d’inizio inverno. Quei figli che oggi stanno dietro le sbarre di un carcere sono usciti dal loro grembo: per il mondo sono delinquenti e briganti, per loro rimangono pur sempre figli da amare e custodire. Dietro le sbarre abitano i figli, davanti alle sbarre stazionano le loro madri, splendide donne capaci di rimettere in scena ogni primo mattino all’esterno delle carceri la riedizione di quella prima Madre sotto la croce. Stabat mater dolorosa: ieri, oggi e sempre. Le chiamano povere donne, di loro qualcuno s’intenerisce, qualche altro forse le prende sottilmente in giro: eppure non cambia nulla dentro quel cuore capace solo di amare a oltranza. Perchè una cosa è il delitto, altra cosa è l’uomo che lo compie. Il primo va condannato, il secondo va amato senza giustificarlo. Anche in carcere si celebra la festa della mamma, di quelle splendide eroine che campeggiano statuarie fuori dalle sbarre per stringere una mano, carezzare la barba, baciare quel figlio del quale si prova evidente nostalgia. Le loro occhiaie stanche parlano di fatiche e lunghi viaggi, le loro rughe raccontano di notti insonni e pensieri vagabondi, nelle loro scarpe ci sono andate e ritorni senza più certezze. Sono donne speciali, le mamme dei carcerati, perché donne capaci di rimetterli al mondo due volte: la prima volta quando li fecero entrare in questo spendido palcoscenico dell’esistenza, la seconda volta quando, il giorno dopo un misfatto, si sono rimboccate le maniche e han trovato il coraggio di scendere pure loro negli inferi delle galere; per amare quei figli quando forse meno se lo meritavano. Loro hanno capito che è proprio quello il momento in cui hanno più bisogno. La geografia del Vangelo ambienta la vita di Maria tra Nazaret e Gerusalemme, tra la ferialità nascosta dei primi anni e la nostalgia di Risurrezione degli ultimi tre anni. Da quel giorno in ogni mamma abita l’inimitabile capacità di unire la quotidianità con l’eternità, il profumo della farina con le lacrime di nostalgia, la ricetta del minestrone con l’alfabeto della misericordia, lo sgranare la corona del rosario con il rimboccarsi le maniche in fronte a una cella. Gli uomini hanno paura delle donne: basta un loro sguardo per piegare delinquenti di vecchia data. Non è una questione di forza fisica, ma di forza del cuore perché la donna, a maggior ragione se madre, spinge il mondo un passo oltre le capacità dell’uomo. E gli uomini lo sanno perchè Dio nel loro grembo ha deposto la custodia della vita fino al suo ritorno. Ecco perchè le mamme tremano ma non disperano, hanno paura ma non si rassegnano, piangono ma non soccombono. E se qualche volta danno l’impressione di scomparire dalla vita di un figlio è solo per farsi trovare più forti un attimo dopo, come i torrenti carsici che s’inabissano e improvvisi ritornano più lontano. Per vent’anni Emanuele, ergastolano costretto al regime del 41bis, ha fatto i colloqui con la madre da dietro un vetro: nemmeno l’emozione di stringerla quella donna. Dopo 8.000 giorni di galera gli hanno tolto il 41bis e ha fatto il primo colloquio attorno ad un tavolino. Sono tre giorni che Emanuele non si lava il volto: non vuole perdere il profumo lasciato dalla madre sul suo collo mentre lo baciava. Dentro il ventre della galera è il profumo della mamma a tenere accesa la vita. Marco Pozza - (editoriale avvenire 12 maggio 2012)

giovedì 10 maggio 2012

Preghiera di invocazione al Servo di Dio don Luigi Giussani destinata alla devozione privata

O Padre Misericordioso, Ti ringraziamo di aver donato alla Tua Chiesa e al mondo il Servo di Dio don Luigi Giussani. Egli, con la sua vita appassionata, ci ha insegnato a conoscere e amare Gesù Cristo presente qui ed ora, a chiederGli con umile certezza che «l'inizio di ogni giornata sia un sì al Signore che ci abbraccia e rende fertile il terreno del nostro cuore per il compiersi della Sua opera nel mondo, che è la vittoria sulla morte e sul male». Concedici, o Padre, per l'intercessione di don Giussani, secondo la Tua volontà, la grazia che imploriamo, nella speranza che egli sia presto annoverato tra i Tuoi santi. Per Cristo, nostro Signore. Amen Veni Sancte Spiritus. Veni per Mariam Preghiera di invocazione al Servo di Dio don Luigi Giussani destinata alla devozione privata -

mercoledì 9 maggio 2012

Cattolici, quel «tronco inesausto» che genera testimoni

Ernesto Galli della Loggia ha proposto, nei giorni scorsi, sul Corriere della Sera una analisi, e un giudizio severo, su Comunione e Liberazione, per estenderlo al cattolicesimo (e al cattolicesimo politico) italiano che, nel suo complesso, sarebbe ormai vittima della sindrome del "maso chiuso". Una sindrome caratterizzata da tendenze egemoniche e da una autosufficienza culturale che gli impedirebbe, essendo il voto cattolico «ridotto al dieci per cento dell’elettorato», di svolgere un ruolo fecondo, di primo piano, come in passato. Occorrerebbe, quindi, contrastare il declino e tornare in campo aperto come nell’epoca degasperiana, allearsi con altre forze politiche per contare, evitare il ghetto, l’insignificanza. Il tema è serio e, nella crisi che in Italia e in Europa sta incrinando equilibri politici consolidati, chiede qualche riflessione. Non entro nel merito del giudizio su Cl, se non per rilevare che il rapporto con la politica, la gestione di imprese sociali, pone tutti i movimenti, anche quelli che nascono su basi ideali limpide e generose, a rischio di contaminazioni e compromessi. Ma è ingiusto riferire ogni patologia (verificata o meno) a un movimento nel suo insieme, ignorando l’impegno religioso ed etico che viene profuso in Italia e nel mondo. Devo, invece, dire che il passaggio automatico attraverso il quale si arriva a parlare di un’involuzione del cattolicesimo politico nel suo complesso sembra davvero fuorviante. Lo è nel raffronto con l’epoca della Democrazia cristiana, nella quale l’unità politica dei cattolici operò come antidoto contro il pericolo del totalitarismo, senza mai esaurire in se stessa una presenza che era più ampia e multiforme. Lo è nell’esame della sua evoluzione, perché l’esperienza del partito cattolico si è esaurita per diverse cause, compreso il fatto di aver realizzato la sua ragione storica con la sconfitta del comunismo. Misurare oggi il voto cattolico è impresa ardua, lo sa ogni analista di flussi elettorali, ma il rapporto con la politica dopo il 1992-94 è cambiato: s’è fatto complesso, variegato, a tratti sfuggente. Una società plurale, non più a rischio della sua libertà, chiede una presenza cattolica diversa, capace di animare la politica, difendere valori essenziali contro pericoli più nascosti, insidiosi: quelli di una deriva individualista e di materialismo pratico, che Giovanni Paolo II già segnalava mentre incalzava il comunismo morente, come un tarlo capace di corrodere l’Occidente fin nella sua più intima identità. In questa metamorfosi delle nostre società, si è dispiegata l’evoluzione dell’impegno cattolico, con risultati che non possono dimenticarsi. La presenza plurale dei cattolici, dentro e fuori i partiti, è stata viva sui temi della vita, della famiglia, dell’etica, ha evitato all’Italia quel declino individualistico che con tanta superficialità (e qualche recente pentimento) ha segnato altri Paesi. Non tutti i politici cattolici sono stati all’altezza. Ma i risultati non sono mancati. E, come nel caso del referendum sulla procreazione assistita, o nell’impegno per la difesa della famiglia quale realtà naturale e centrale della società, non sono stati l’esito di una ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, bensì il frutto dell’azione di chi ha interpretato, meglio di altri, sentimenti e convinzioni popolari profondi su questioni etiche (e politiche, se diventano leggi e costume) che riguardano il futuro della società. Infatti, hanno conquistato persone e gruppi di diversa formazione, che si riconoscono nel sentire comune, cristiano e umanista, proprio del nostro Paese. La Chiesa e i cattolici svolgono una funzione essenziale nel garantire la coesione sociale in questo tempo di crisi e di fronte a fenomeni epocali come quello dell’immigrazione, impedendo derive xenofobe, e lacerazioni sociali che altri Paesi europei conoscono. < Dunque, il rapporto tra cattolicesimo e politica è più ampio rispetto alle ipotetiche scelte elettorali, ed è garanzia di tutela per coloro che sono più deboli, chi sta per nascere, chi soffre, chi è nelle fasi conclusive della vita, per ridare contenuti e fiducia nella politica quando questa è corrosa dai veleni di chi rifiuta tutto e tutti. È questa la scelta strategica di Benedetto XVI che pone i temi antropologici e della dottrina sociale della Chiesa al centro del magistero a favore dei nuovi e vecchi poveri, di un’economia solidale, libera da egoismi e speculazioni finanziarie devastanti. Le percentuali di adesione partitica quindi non esauriscono il dinamismo dei cattolici in politica, chiamati a testimoniare e vivere valori e principi che sono presupposto e alimento di una società giusta che aiuti e sostenga chi non ha voce e forza propria. E questa testimonianza deriva direttamente, secondo una bella espressione dello stesso Ernesto Galli della Loggia, «dal tronco inesausto della fede cristiana, alimentata e cresciuta per la speranza che continua a recare con sé». Carlo Cardia avvenire 09/05/12

lunedì 7 maggio 2012

"Noi cristiani, peccatori senza slogan”

Meglio una fede vivente che una fede coerente ma morta. Diceva così un mio amico. Per questo non c’è niente di strano nel fatto che ancora una volta si discuta, si cerchi di capire, si esibiscano debolezze dei cristiani. Il fatto è che siamo vivi. Presenti. Facciamo discutere. Facciamo pensare. E arrabbiare. E sperare. Non siamo una cosa «scontata» insomma. Noi, quelli che si dicono cristiani. Non che si dicono migliori. Non siamo scontati nemmeno noi a noi stessi. Il cristiano non sa cosa è il cristianesimo. Lo impara seguendo Qualcuno, oggi. Siamo quelli che se vedono il Dio Nazareno inchiodato alla croce sentono il cuore tremare. E che guardano le persone come un infinito abisso che solo il Suo Abisso può colmare. Quelli che hanno la Resurrezione come una gioia dura negli occhi, una letizia nella penombra dei giorni, come un sospiro. Quelli che parlano di peccato, come ha fatto don Carron anche in pubblico (e la domenica battendo il proprio e non l’altrui petto) perché siamo realisti. Essere cristiani non è un merito. È una grazia. Una specie di fortuna, di un incontro che da duemila anni prosegue. Come all’inizio dell’avventura del Nazareno. I cristiani lo sanno che è così. Chi parla del cristianesimo invece spesso, purtroppo, non lo sa. Lo sanno quelli di Comunione e Liberazione che come capita spesso sono al centro delle attenzione poiché vivaci (e chi li attacca non lo fa certo per interesse al bene della loro anima). Ma lo sanno anche quelli delle Acli a congresso fino a ieri, associazione storica con milioni di tesserati che sta trovando nuove strade. E lo sanno anche coloro che stanno animando un nuovo movimento «strano», OL3, nato da giovani della generazione Wojtyla. Ormai il cristianesimo per «tradizione» non esiste, era perlopiù perbenismo. Purtroppo Gesù Cristo invece che essere testimoniato come eccezionale presenza che rende cento volte più intensa la vita, è stato indicato a molti come un vecchio suocero. Uno «contro» la vita. Lo aveva capito Arthur Rimbaud. Il cristianesimo non è un «suocerismo». La fede non è un programma sociale o morale, né un disegno di potere. Questi tramontano, la fede no. È commozione di un riconoscimento: lo sai che ti amo, Signore. Su di noi fanno analisi sociologica e politica. È ovvio che accada. Ma son destinate sempre a fallire, e non solo per difetto degli analisti. Una fede vivente scardina il principio di non contraddizione, che sta alla base di ogni pretesa giusta analisi. Siete chiusi, ci dicono, come Galli della Loggia (Corriere, 5 maggio scorso). Siete troppo aperti, ci dicono contemporaneamente. Oppure: dovreste fare un partito. E poi: state lontani dalla politica. Accogliete tutti. E poi: state lontani da «prostitute e peccatori». Vogliono che siamo o una cosa o l’altra. E invece siamo una cosa e anche l’altra, e così diventano matti. Non capiscono e allora creano slogan, schemi. Il cristianesimo si può solo raccontare, non comprendere con una analisi. Da quando Dio è diventato anche uomo, è apparso sulla scena della storia un protagonista religioso nuovo: che è buono e anche peccatore, che sa cosa è la purezza e anche la macchia, che ha grano e loglio nello stesso campo del cuore. Uno che ha speranza di bene e vi tende anche se conosce il male. E che fa politica ma non è politica. Dio ha scelto di non mostrarsi come idea o illuminazione morale, ma attraverso uomini vivi e non «nonostante» la loro vita. Grandi peccatori mi hanno testimoniato Dio. Questa è la grandiosità carnale e spirituale, la faccia «scandalosa» e meravigliosa del cristianesimo. Chiediamo solo questo a chi vuol davvero capire la presenza della fede cristiana nella società di oggi: dite quel che vi pare, ma trattateci da quel che siamo, uomini vivi. di DAVIDE RONDONI* dal Corriere della Sera del 7 maggio 2012 (Poeta e saggista)

mercoledì 2 maggio 2012

Le due grazie che il Signore dona sono: la tristezza e la stanchezza. La tristezza perchè mi obbliga alla memoria, e la stanchezza perchè mi obbliga alla ragione, perchè faccio le cose. "Fa' o Dio, che una positività totale guidi il mio Animo, in qualsiasi condizione mi trovi, qualunque rimorso abbia, qualunque ingiustizia senta pesare su di me, qualunque oscurità mi circondi, qualunque inimicizia, qualunque morte mi assalga, perchè Tu, che hai fatto tutti gli esseri, sei per il bene. Tu sei l'ipotesi positiva di tutto ciò che io vivo." Mons. Luigi Giussani

martedì 1 maggio 2012

CASO FINMECCANICA/ Il comunicato stampa di Comunione e Liberazione

Il riferimento è alle notizie circolate sui massimi organi di stampa nazionali secondo le quali il movimento fondato da don Luigi Giussani sarebbe stato destinatario di tangenti da parte dell'amministratore delegato di Finmeccanica, Giuseppe Orsi. Nel caso in questione, l'a.d. di Finmeccanica sarebbe indagato per aver contribuito a versare una tangente di dieci milioni di euro alla Lega Nord in una vendita al governo indiano di elicotteri. Alla Lega è stata poi aggiunta Comunione e Liberazione come possibile destinataria di parte della tangente. Riportiamo il testo del comunicato stampa che Comunione e liberazione ha diffuso in merito a questa vicenda.
Da alcuni mesi il nome di Comunione e Liberazione è costantemente associato sui mass media a vicende politico-giudiziarie di suoi appartenenti o di persone che hanno rapporti con alcuni di essi, in una continua identificazione del movimento nel suo insieme con le responsabilità di singoli e, viceversa, con l’attribuzione di responsabilità individuali - nel bene e nel male, di qualunque natura esse siano, essendo ancora da dimostrare se sono stati commessi reati - a CL in quanto tale. Finora le nostre precisazioni al riguardo sembrano essere state inutili, comprese quelle rese da don Carrón in una recente intervista: «Noi teniamo alla natura dell’esperienza cristiana. E l’esperienza cristiana ha a che vedere con tutto. A voler verificare se la fede serve ad affrontare tutte le sfide, si corrono rischi. Nessuna istituzione, né la Chiesa né un partito, può evitare gli errori dei singoli. E questi non possono essere attribuiti alla comunità. Sarebbe ingiusto. Ciascuno è personalmente responsabile di quel che fa. Perciò l’identificazione non è legittima, vale per Cl come per qualsiasi altra istituzione. E noi dobbiamo sempre mantenere quella che don Giussani chiamava “una irrevocabile distanza critica” e non vi rinunceremo mai. Siamo una comunità cristiana e non un partito o una corrente» (Corriere della Sera, 16 gennaio 2012). A dispetto di queste parole di chiarimento, oggi leggiamo sui giornali l’incredibile accusa di tangenti Finmeccanica a CL, quale emergerebbe dalle dichiarazioni di un ex dirigente dell’azienda, che lo avrebbe appreso da fonti non meglio precisate. CL non c’entra nulla, ma i titoli, i sottotitoli e gli articoli sono pieni di riferimenti diretti al movimento, salvo precisare che «i pm verificano le dichiarazioni». Intanto l’infamante accusa è stata lanciata. Quali saranno le conseguenze sull’opinione pubblica? Torna alla mente un altro momento della vita di CL, il 1976: allora l’accusa - rivelatasi dopo tre anni assolutamente infondata - di finanziamenti della CIA a Comunione e Liberazione scatenò una campagna diffamatoria sui principali organi di informazione, alimentando un clima di sospetto veramente allarmante, che giunse fino al dileggio e all’ostilità negli ambienti di vita e di lavoro verso persone colpevoli solo di portare il nome di “ciellini” e causò violenze nei confronti di persone e sedi del movimento in tutta Italia. A questo punto ci domandiamo: come impedire il linciaggio mediatico? E come assicurare il rispetto delle procedure e delle garanzie giuridiche? Il peso di menzogne contro un’esperienza che tanti - anche autorevolmente - riconoscono come «una risorsa per il nostro Paese» sta assumendo il volto di un calvario che sinceramente pensiamo di non meritare. In ogni caso, è stato dato mandato ai legali di tutelare l’onorabilità di Comunione e Liberazione.

Abbiamo tanta strada da fare

Il testo integrale della lettera al direttore di Julián Carrón (Comunione e Liberazione) pubblicata su La Repubblica con il titolo “Carrón: da chi ha sbagliato un’umiliazione per Cl”.
Caro Direttore, leggendo in questi giorni i giornali sono stato invaso da un dolore indicibile dal vedere cosa abbiamo fatto della grazia che abbiamo ricevuto. Se il movimento di Comunione e Liberazione è continuamente identificato con l’attrattiva del potere, dei soldi, di stili di vita che nulla hanno a che vedere con quello che abbiamo incontrato, qualche pretesto dobbiamo aver dato. E questo sebbene Cl sia estranea a qualunque malversazione e non abbia mai dato vita a un “sistema” di potere. Né valgono le pur legittime considerazioni sulla modalità sconcertante con cui queste notizie vengono diffuse, attraverso una violazione, ormai accettata da tutti, delle procedure e delle garanzie pur previste dalla Costituzione. L’incontro con don Giussani ha significato per noi la possibilità di scoprire il cristianesimo come una realtà tanto attraente quanto desiderabile. Per questo è una grande umiliazione costatare che a volte per noi non è bastato il fascino dell’inizio per renderci liberi dalla tentazione di una riuscita puramente umana. La nostra presunzione di pensare che quel fascino iniziale bastasse da solo, senza doversi impegnare in una vera sequela di lui, ha portato a conseguenze che ci riempiono di costernazione. Il fatto che don Giussani ci abbia testimoniato fino alla morte che cosa può essere la vita quando essa è afferrata da Cristo mostra che non manca nulla alla sua proposta cristiana. Tanti che lo hanno conosciuto confermano quello di cui noi, suoi figli, abbiamo potuto godere in una convivenza più o meno stretta con lui: che la sua persona traboccava Cristo. Questa convinzione ci ha portato a chiedere l’apertura della causa di canonizzazione, certi del bene che è stato ed è don Giussani per la Chiesa, per rispondere alle sfide che il cristianesimo ha oggi davanti a sé. Chiediamo perdono se abbiamo recato danno alla memoria di don Giussani con la nostra superficialità e mancanza di sequela. Spetterà ai giudici determinare se alcuni errori commessi da taluni costituiscano anche reati. D’altra parte, ciascuno potrà giudicare se, tra tanti sbagli, siamo riusciti a dare un qualche contributo al bene comune. Quando un membro soffre, tutto il corpo soffre con lui, ci ha insegnato san Paolo. Noi, i membri di questo corpo che è Comunione e Liberazione, soffriamo con coloro che sono alla ribalta dei media, memori della nostra debolezza per non essere stati abbastanza testimoni nei loro confronti; e questo ci rende più consapevoli del bisogno che abbiamo anche noi della misericordia di Cristo. Tuttavia, con la stessa lealtà con cui riconosciamo i nostri sbagli, dobbiamo anche ammettere che non possiamo strappare via dalle fibre del nostro essere l’incontro che abbiamo fatto e che ci ha plasmato per sempre. Tutto il male nostro e dei nostri amici non riesce a cancellare la passione per Cristo che l’incontro con il carisma di don Giussani ci ha inoculato. La febbre di vita che lui ci ha comunicato è così grande che nessun limite riesce a eliminare e ci consente di guardare tutto il nostro male senza legittimarlo o giustificarlo. L’avvenimento dell’incontro con Cristo ci ha segnato così potentemente che ci consente di ricominciare sempre, dopo qualsiasi errore, più umili e più consapevoli della nostra debolezza. Come il popolo di Israele, possiamo essere spogliati di tutto, andare perfino in esilio, ma Cristo, che ci ha affascinato, rimane per sempre. Non è sconfitto dalle nostre sconfitte. Come gli israeliti, dovremo imparare a essere coscienti della nostra incapacità a salvarci da soli, dovremo imparare da capo quello che pensavamo già di sapere, ma nessuno ci può strappare di dosso la certezza che la misericordia di Dio è eterna. In quante occasioni ci siamo commossi sentendo don Giussani parlare del “sì” di Pietro dopo il suo rinnegamento. Per questo non abbiamo altra lettura di questi fatti se non che essi sono un potente richiamo alla purificazione, alla conversione a Colui che ci ha affascinato. È Lui, la sua presenza, il suo instancabile bussare alla porta della nostra dimenticanza, della nostra distrazione che ridesta in noi ancora di più il desiderio di essere suoi. Speriamo che il Signore ci dia la grazia di rispondere con semplicità di cuore a tale chiamata. Sarà il modo migliore di testimoniare che la grazia data a don Giussani è molto più di quanto noi, suoi figli, riusciamo a mostrare.